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| << | < | > | >> |Pagina 9I due ragazzi camminavano sull'alta cresta al centro della strada forestale, evitando i solchi fangosi sui lati. I boscaioli avevano azionato le grosse macchine lungo i sentieri improvvisati – le loro enormi ruote avevano inciso tagli profondi nella terra molle. Gli uomini si erano presi il legname di qualche valore; ora rimanevano soltanto gli alberi indesiderabili – quelli giovani, quelli rovinati o contorti, quelli marci o malati. I ragazzi avanzavano faticosamente tra il fitto intrico di rami abbandonati che ricopriva il terreno del bosco. Il sole penetrava attraverso la rada volta vegetale e batteva sui loro colli sudati. Con la punta di un piede, Terry urtò l'estremità di una radice scoperta e incespicò per una serie di passi traballanti. Il suo zaino sbatacchiò. L'altro ragazzo schivò quel moncone di legno scheggiato e, con cautela, s'affrettò ad aggirare un piccolo ceppo di betulla. Rispetto all'amico, Terry era più alto di un'intera testa e più largo di mezza figura, tuttavia portava il proprio corpo come se fosse un vestito troppo grande. Comunque, il fatto di essere piccolo e agile non rendeva felice il compagno. Guardava il corpo di Terry e si diceva che avrebbe voluto averne uno così: con il collo e le braccia massicci, identici a quelli di un adulto. Penzolante al centro della sua ampia schiena, lo zaino sembrava un giocattolo per bimbi. Terry incespicò di nuovo. "Cazzo," disse. Con un balzo, superò il solco che fiancheggiava il sentiero e andò a sedersi su un grosso ceppo. Tagliato di recente, quel legno appariva ancora pallido e burroso. Una bianca segatura aderiva alle foglie morte sul terreno, simile a neve appena caduta. Terry s'inginocchiò per stringere i lacci di uno dei suoi scarponi col carrarmato. Li portava quasi sempre slacciati e laschi, secondo la moda in uso nella loro scuola per quelle calzature e le pedule. Allungò la gamba e tirò la stringa con forza. Dopo averla allacciata, passò a occuparsi dell'altro scarpone. Mentre era impegnato in quell'operazione, l'altro ragazzo osservò le mani e gli avambracci di Terry: erano coperti di ispidi peli rossi che si intonavano con il colore dei capelli tagliati cortissimi. Le sue braccia, invece, erano ancora infantili; sul corpo, aveva pochi peli biondi e fini. Rialzandosi, Terry grugnì. Con un balzo, tornò sul sentiero. Il compagno aveva sei mesi di più, ma la sua corporatura gli aveva conferito il diritto di far da guida in quel labirinto di viottoli sdrucciolevoli. Ma quando era incerto sulla direzione da prendere, l'altro gliela indicava da dietro con il tono di chi la sa lunga. Era cresciuto andando a caccia nella terra dei Darling con il padre e lo zio. Il vecchio Darling era morto alcuni anni prima, e i figli avevano ceduto la proprietà a un operatore immobiliare. Nel giro di poche settimane, quei quattrocento acri di terreno erano stati circondati da cartelli con la scritta DIVIETO D'ACCESSO. E nel volgere di qualche mese, l'intero appezzamento era stato lottizzato, e la commissione urbanistica municipale si era ritrovata a esaminare i progetti per alcuni eleganti complessi residenziali. In effetti, i ragazzi stavano violando il divieto, ma nei dintorni non c'era nessuno che potesse impedirglielo. Quando l'economia aveva cominciato ad andar male – poi aveva proseguito lungo la china –, i lavori si erano fermati. I cigolanti camion-betoniera avevano interrotto l'andirivieni verso i nuovi insediamenti. Lo sciame dei subappaltatori era sparito. La Mercedes dell'operatore immobiliare aveva smesso di girare per la città. Correva voce che fosse riuscito a evitare il fallimento soltanto grazie al denaro ricavato dal recente contratto per il taglio e il trasporto dei tronchi. I ragazzi sbucarono nella radura di Woodbury Heights, l'ultimo dei progetti dell'imprenditore immobiliare. L'uomo aveva aperto una strada fin nel folto del bosco, l'aveva asfaltata e gli era riuscito anche di vendere un certo numero di aree edificabili prima che cominciasse la recessione. Cumuli di terra e massi dissotterrati costellavano ora il paesaggio. Alberi privi di foglie giacevano sul terreno; le loro radici si protendevano ambiguamente nell'aria. Il nero profondo della pavimentazione stradale spiccava nella confusione di quella scena. I ragazzi riuscirono a raggiungere il sottopasso alla fine della strada. Il sole d'agosto incombeva pesantemente sopra di loro; il calore rimbalzava verso i corpi dall'asfalto rovente. "Sei sicuro?'" disse il ragazzo più basso. Terry annuì. Fece scivolare lo zaino fuori dalle braccia e ne estrasse tre bottiglie di vetro. "Come lo hai imparato?" "Mio fratello," disse Terry. "Due parti di benzina, una di petrolio." Tirò fuori tre calzini e ne annodò un'estremità di ciascuno. Poi li inzuppò con la miscela contenuta nelle bottiglie e infilò un nodo in ciascuno dei colli. Raggiunse il ciglio della strada e si asciugò le mani nell'erba alta. Al ritorno, prese una delle bottiglie, accostò un accendino al calzino e scagliò lontano quel cocktail fiammeggiante; quando il vetro andò in frantumi, incendiò una buona porzione di asfaltatura. "Vedi," disse Terry. "Te l'avevo detto." Il ragazzo sorrise. "Cristo!" esclamò. Rimasero a guardare le fiamme che andavano lentamente smorzandosi. | << | < | > | >> |Pagina 69Il ragazzo scese i tre gradini rivestiti di gomma e, per un momento, rimase immobile e si guardò intorno, prima di fare l'ultimo passo dall'autobus al selciato. Il vialetto si apriva in una sorta di mezzaluna di fronte alla scuola. Orde di ragazzi si riversavano dai vari pullman; e frotte di studenti attendevano l'arrivo dei propri amici sul marciapiede. La torre campanaria di mattoni rossi si levava alta sopra le loro teste; l'orologio sulla facciata era fermo da chissà quando. Scorse alcuni volti conosciuti, ma la folla intorno a lui era composta per la maggior parte di estranei. Cercò di fermarsi per valutare l'ambiente, ma fu investito da una massa di studenti che lo spinse nella calca del marciapiede. Avanzò urtando e districandosi in quel labirinto di corpi e di cartelle. Vide Karen Hatch, la quale gli sorrise, lo salutò con la mano e si diresse verso di lui a piccoli passi veloci. "Ciao, Teddy," disse. Si chinò e lo abbracciò rapidamente. "Ciao." Lui sorrise. Non si poteva dire che fossero amici, tuttavia si conoscevano fin dalle elementari. "C'è un sacco di gente nuova," disse Karen. "È così... eccitante." Il ragazzo annuì. Lei si guardò attorno, osservando tutti tranne lui. "Hai visto Terry Duvall?" La ragazza scosse il capo, e stavolta fu lui ad annuire. "Bene," disse Karen. "Ci vediamo." "D'accordo," replicò lui. "Buona fortuna," disse la ragazza. Gli sorrise e gli rivolse un altro cenno di saluto, prima di allontanarsi. Quando trovò uno spazio libero, il ragazzo estrasse da una tasca un foglio ripiegato. Era una mappa della scuola, arrivata per posta qualche settimana prima. Sul foglio erano sommariamente disegnati i contorni di tutti gli edifici; all'interno di ciascun poligono campeggiava il nome. Una stella indicava l'ubicazione della sala comune delle matricole. A quel punto si orientò, mise via la piantina e s'avviò verso la stella. Svoltando un angolo, vide Darren Bell che camminava verso di lui. Gli sorrise e cercò di attirare la sua attenzione, ma l'altro abbassò lo sguardo sul selciato e passò oltre, senza rivolgergli la parola. Il ragazzo si domandò quanto sapessero. Si chiese se il "Buona fortuna" di Karen si riferiva alla scuola oppure all'indagine. Si domandò se era per questo che Darren l'aveva ignorato. Essendo minorenne, il suo nome non era stato divulgato ma, in quella cittadina, ciò voleva dire assai poco. Quando arrivò nella sala comune, c'erano già due stu- denti seduti. Il ragazzo guardò l'orologio sulla parete, e si rese conto di essere in anticipo di un quarto d'ora. Su ogni banco c'era un cartoncino di piccolo formato. Trovò quello con il suo nome, si sedette, tirò fuori la scheda con il suo piano di studi e analizzò il programma della giornata. Poi posò la testa sulle braccia conserte e chiuse gli occhi. Non passò molto tempo prima che suonasse la campanella e che affluissero gli studenti. Ne riconobbe alcuni, a cui rivolse fuggevoli cenni di saluto. Un ragazzo corpulento, con la testa rasata, andò a sedersi dietro di lui – sembrava più vecchio delle altre matricole. Dopo qualche minuto, batté con forza un dito sulla spalla del ragazzo. Questi si voltò. Senza dire una parola, l'altro prese fra le dita le due estremità del labbro superiore e lo rivoltò, mostrandogli l'interno: sulla mucosa c'era la scritta SKINS, in scure lettere maiuscole. "Mi sta facendo morire," disse, dopo che ebbe lasciato la presa sul labbro. "Ma bisogna farlo." Il ragazzo annuì. Skinhead: ne aveva sentito parlare.
Quando il compagno tacque, il ragazzo si voltò e appoggiò di nuovo la testa
sul banco. Si sforzò per tener chiusi gli occhi – vanamente, continuavano a
spalancarsi.
Riuscì a raggiungere facilmente le quattro aule dove si tenevano le prime lezioni, ma una strozzatura del corridoio e la conseguente calca gli impedirono di arrivare alla mensa in modo abbastanza spedito. C'era un unico ingresso – utilizzato sia per l'entrata che per l'uscita. Cercò di immettersi nella fila che arrivava oltre la porta, ma nessuno gli consentì la mossa. Poi una ragazza si fermò, aspettò che il compagno prima avanzasse e gli fece posto. In quel momento, lui vide Kevin Dennison che veniva dalla direzione opposta. Il suo corpo fu percorso da un brivido; abbassò lo sguardo sul pavimento. "E allora, ti muovi o no?" disse la tizia che gli aveva ceduto il passo. Il ragazzo scosse il capo. "Ah, perfetto," ringhiò lei. Lui si' voltò e si diresse verso il bagno in fondo al corridoio. Entrò, percorse il pavimento di piastrelle, raggiunse uno dei box e aprì la porta dozzinale. Era fuori squadra rispetto allo stipite, e così dovette chiuderla con una spallata. Si sedette sulla tazza, senza calarsi i pantaloni. I rumori degli altri ragazzi presenti nel bagno echeggiavano tutt'intorno alle pareti del box. Rispetto ai compagni, Kevin Dennison aveva un aspetto "diverso". Il ragazzo non avrebbe saputo definirlo con esattezza – semplicemente, era così. Forse per via della sua faccia. Della sua espressione severa, stoica. Forse a causa della t-shirt nera. Kevin era iscritto a un corso preparatorio, e il suo abbigliamento avrebbe dovuto comprendere una camicia colorata con il collo alto e pantaloni cachi. Il ragazzo udì un rumore di passi che si avvicinavano. Qualcuno entrò nel gabinetto accanto. Sentì lo scatto di un accendino e, subito dopo, un odore di fumo. Si chinò e vide un paio di scarponi da lavoro familiari. "Terry?" disse. "Ted? Che diavolo stai facendo lì dentro?" "Niente," rispose il ragazzo. "Ti stai sparando una sega, eh?" Alzò gli occhi e vide Terry in piedi sulla tazza, con i gomiti appoggiati alla sottile parete del box. Il ragazzo scosse il capo. "Ne hai una da darmi?" "Una sigaretta dopo il sesso, eh?" | << | < | > | >> |Pagina 75L'ultima lezione si svolgeva in uno dei prefabbricati mobili. Erano lunghi e stretti, e sembravano grosse roulotte. Si trovavano fra l'alta torre campanaria e il parallelepipedo a quattro piani dell'edificio riservato alla formazione professionale. Alla fine degli anni settanta, la scuola li aveva fatti trasportare lì per adibirli ad aule provvisorie, a causa di un improvviso boom della popolazione studentesca. Oltre un decennio dopo, essi ospitavano ancora i dipartimenti di storia e di studi sociali. Percorse metà del corridoio del secondo prefabbricato e raggiunse l'aula dove si sarebbe tenuta la lezione sull'ordinamento governativo americano. Sotto i suoi passi, il pavimento produceva un suono vuoto, rimbombante. Quando chiuse la porta della classe, sembrò che l'intero muro rabbrividisse.Il ragazzo conosceva di vista l'insegnante: l'aveva già incontrata in città. La signora Kimball aveva un figlio che era un anno avanti rispetto a lui e una figlia che, invece, frequentava la classe dopo. Adesso era di fronte agli studenti e stava sistemando alcune carte sulla cattedra. Infilò un fascicolo in un cassetto e iniziò a fare l'appello. Quando udì il suo nome, il ragazzo alzò lentamente la mano. Sapeva che, ogni volta che lo faceva, dava agli altri la possibilità di collegare un nome alla sua faccia e, di conseguenza, di associarlo alle storie che avevano udito. La signora Kimball espose il suo programma e fornì una visione generale di ciò che il corso avrebbe comportato. Alcuni studenti alzarono la mano e fecero delle domande, alle quali lei rispose. Quando cessarono le richieste, attaccò a parlare della prima esercitazione. "Pensate a quel vecchio compito che gli insegnanti continuano a dare: 'Che cosa avete fatto durante le vacanze estive.' Be', sarà qualcosa del genere." Sorrise, e qualche ragazzo scoppiò a ridere. "Ma... contemplerà un'analisi di un fatto politico accaduto nel corso dell'estate. Comunque, voglio che non trascuriate i vostri interessi. Per esempio, Doug – che ama il mondo degli affari – potrebbe concentrare il proprio lavoro su una specifica interazione avvenuta tra il governo e gli ambienti finanziari ed economici. Qualcuno di voi potrebbe trovarsi nella condizione di esaminare un'esperienza personale. E magari di aiutare tutti noi a capire qualche aspetto meno noto del sistema giudiziario penale." Quando pronunciò queste parole, guardò dritto in faccia il ragazzo, che abbassò lo sguardo sul banco. "Sì?" disse la signora Kimball, rivolgendosi a qualcuno che aveva alzato la mano in un banco dietro di lui. "Posso parlare del dibattito in corso sulle armi da fuoco?" domandò uno studente. "In che senso?" chiese l'insegnante. "Be', innanzitutto, mi riferisco all'idea ridicola di imputare a un oggetto inanimato tutti i mali del nostro paese. E poi al modo in cui questa visione si colloca nel tema più ampio dell'incapacità dell'America liberale di assumersi la responsabilità delle proprie azioni." Per un momento, la signora Kimball rimase in silenzio. "Hai in mente qualche episodio specifico?" disse, alla fine. "Certamente," replicò lui. "E qual è?" "Penso che lei sappia di cosa sto parlando." "Io non so leggere nel pensiero, caro il mio..." "Jackson," soggiunse lo studente. "Jeffrey. O J.J. Però, quasi tutti mi chiamano Testadicazzo." Gli altri allievi ridacchiarono. Il ragazzo cercò di guardare dietro le proprie spalle, ma non riuscì a vederlo. "Non penso che io la chiamerò così, signor Jackson." "Anche se lo facesse, a me non importerebbe." "Comunque, non voglio che questa esercitazione diventi una tribuna per esprimere le opinioni politiche personali, Jackson," disse l'insegnante. "Dev'essere l'analisi di un evento specifico, effettuata con la massima obiettività possibile." "Mi dispiace che si sia arrabbiata," disse lo studente. "Non intendevo mancarle di rispetto." "Non mi sono arrabbiata, Jackson." "Io arrivo da una famiglia dove vengono incoraggiate le discussioni franche — semplicemente questo." "Sarò indiscreta," disse la signora Kimball. "Anche i tuoi genitori sono conservatori?"
"Magari lo fossero," disse Testadicazzo. "Hanno un animo troppo gentile,
tutt'e due."
Quando suonò la campanella, il ragazzo si alzò. S'affrettò a raccogliere le sue cose e si diresse verso la porta. Teneva lo sguardo rivolto al pavimento; aveva paura che la signora Kimball lo chiamasse per parlare di quanto era accaduto con i Dennison. Si unì al branco che si affollava nei pressi della soglia, e attese il suo turno per uscire; poi s'allontanò rapido nel corridoio. Non voleva perdere l'autobus. "Theodore," gridò qualcuno, dietro di lui. Si trattava della voce del compagno che era intervenuto in classe. Proseguì senza rallentare. "Ehi," disse l'altro. "Ehi, tu." Quando si sentì afferrare una spalla, il ragazzo si voltò. Testadicazzo Jackson era un tipo pelle e ossa. Capelli castani corti, tracce di acne. Un paio di bretelle nere risaltava sulla sua t-shirt bianca. I suoi calzoni color cachi rivelavano lunghe pieghe. "Non chiamarmi così," disse il ragazzo. "Io sono Ted." "Ted," ripeté l'altro. "Testadicazzo." Gli tese una mano. Lui s'affrettò a stringergliela. "Testadicazzo?" "Nessuno dimentica un nome come Testadicazzo." Gli sorrise. "Non l'ho scelto io." Il ragazzo annuì. "Abbiamo frequentato insieme anche biologia, alla terza ora. Io ero a tre file da te." "Davvero?" "Be', a biologia sono stato più... riservato. Era una stronzata, quella che ha tirato fuori contro di te." Testadicazzo puntò un pollice verso l'aula dalla quale erano appena usciti. Il ragazzo continuò a camminare. "Cosa fai dopo la scuola?" chiese Testadicazzo. "Io vedo degli amici. Ci ritroviamo e stiamo insieme. Potresti venire anche tu." "Perché mi diano un soprannome come Testadicazzo?" "Bella, questa! Probabilmente sei un rompipalle. Di certo, gli piacerai." "Devo sbrigarmi. Non voglio perdere l'autobus." Il ragazzo affrettò il passo, ma Testadicazzo non lo mollò. "Ti daremo un passaggio. Alcuni dei miei amici hanno la macchina." "D'accordo," disse il ragazzo. "Ti piacciono i fucili?" chiese Testadicazzo, e sorrise. "Abbiamo un sacco di fucili, noi." Lui scosse il capo. Si girò e trotterellò verso il marciapiede lungo il quale erano parcheggiati gli autobus. "Ci vediamo," gli gridò Testadicazzo. Il ragazzo sollevò una mano per rivolgergli un rapido cenno di saluto. | << | < | > | >> |Pagina 144"In poche parole," disse George, "siamo stati umiliati." Uscì da dietro il banco. "E presumo che ciò sia accaduto per causa tua, Theodore."Il ragazzo lo guardò. Passò mentalmente in rassegna le possibilità che gli rimanevano. "Ma non è la fine del mondo," continuò l'altro. "Tutti commettiamo degli sbagli. Ma con il giusto pentimento, tutti possiamo essere perdonati. Entro la fine della giornata, Theodore, devi essere dalla nostra parte." Il ragazzo sapeva che avrebbe dovuto strisciare e implorare, per riconquistare il loro favore. Guardò il gruppo intorno a lui – i pantaloni cachi, i mocassini, i maledetti calzini scozzesi... Osservò Colleen, che era rimasta dietro il banco e si mordicchiava un'unghia. Lei alzò lo sguardo, e lui la fissò dritto negli occhi. Colleen batté lentamente le palpebre; poi si accorse che George la stava scrutando e ricominciò a mangiucchiarsi l'estremità del dito. "Non intendi nemmeno cercare di negarlo?" gli chiese George. "Ha qualche importanza?" rispose il ragazzo. Pensò a Kevin e ai suoi due amici. Pensò a Terry Duvall e a Dan il Wrestler. Lanciò un'occhiata verso la porta: avrebbe avuto via libera. "È ovvio che l'ha," disse George. "Sei stato tu ad avvertirlo, Theodore?" "Non chiamarmi così," replicò lui. Sollevò una mano e si grattò la testa. Poi, all'improvviso, si alzò dalla sedia pieghevole e scattò verso l'uscita. Avvertì lo strattone di qualcuno che gli aveva agguantato la camicia, ma la presa cedette quasi subito. Colpì a grande velocità il maniglione orizzontale della porta, che si spalancò. L'urto lo fece rallentare, e fornì ai suoi inseguitori il tempo di cui avevano bisogno. Fu centrato da un forte calcio a una gamba, che mandò il piede a sbattere contro il tallone dell'altra. Incespicò sul primo dei tre gradini, quello più in alto – adesso poteva solo cascare. Protese le mani davanti a sé, ma il gesto non fu sufficiente a evitare la caduta. Rovinò al suolo con un grugnito e un battito di denti. Un lampo di luce bianca esplose all'interno dei suoi occhi chiusi. Ruzzolò e scivolò, fermandosi sulla ghiaia del vialetto. Si rizzò e, subito, si premette una mano sulla bocca. Si era morsicato violentemente la lingua. Non riusciva a sentirla, e temeva che i denti gliel'avessero staccata. Aprì la bocca e ne toccò la punta – era ancora lì. Poi, quando ritrasse le dita, si accorse che erano coperte di sangue. Sollevò gli occhi verso un gruppo di ragazzi impressionati. Testadicazzo sembrò rimpicciolire per la paura; si allontanò. Il ragazzo afferrò un sasso delle dimensioni di una palla da baseball e, con un enorme sforzo, si rialzò. Rimase immobile, tenendo la pietra dietro di sé, pronto a colpire. Aveva la sensazione di essere un animale. Sapeva che avrebbe scagliato il sasso con tutte le sue forze contro chiunque si fosse avvicinato; da quanto poteva vedere, sembrava che quelli della Youth se ne fossero resi conto. Il ragazzo sentì sgocciolare dal mento un liquido caldo. Arretrò di un paio di passi e si asciugò il volto. Perdeva più sangue di quanto ne avesse mai visto. Quando lo sputò davanti ai suoi piedi, gli apparve rosso e spumeggiante. Pensò di minacciare i suoi inseguitori. Cercò di dir loro che avrebbe ammazzato colui che si fosse azzardato ad avvicinarsi, ma le sue parole risultarono confuse e prive di senso. Riprese a indietreggiare, un passo dopo l'altro. Accanto a sé, scorse un'altra pietra piuttosto grossa: la abbrancò con la mano vuota. La brandì verso i nemici. Mentre arretrava oltre una macchina parcheggiata, il formicolio alla bocca cominciò a trasformarsi in un dolore lancinante. La forza sovrumana e il coraggio di cui si sentiva pervaso stavano abbandonando le sue membra. S'appoggiò all'auto. Agitò di nuovo i sassi verso i ragazzi; poi si voltò e si mise a sedere, appoggiando la schiena contro uno pneumatico. Stringeva le pietre in pugno e tendeva le orecchie per percepire eventuali rumori di passi. Sputò ancora – stavolta di lato – e, alla vista del suo sangue, si rese conto che la paura si stava rapidamente impossessando della sua persona. E se si fosse trattato di un danno irreparabile? Se non avesse più potuto parlare? "Teddy?" gridò George. Il ragazzo grugnì. Balzò in piedi e scagliò una delle pietre. In un baleno, il gruppo si disperse, e il sasso centrò un cartello pubblicitario del negozio. Fu indeciso se lanciare l'altro sasso: rinunciò, si voltò e si risedette. "Ted," urlò George. "Che ti prende? Esci da lì, così possiamo portarti all'ospedale." Il ragazzo agitò la pietra al di sopra del parafango dell'auto, in modo che tutti potessero vederla. "Questo non è ciò che volevamo, Ted. Affatto," continuò George, ma il ragazzo si stava ritirando di nuovo nella fortezza della sua mente. Era pervaso da una rabbia terribile. Avrebbe voluto picchiarli tutti, fino a ridurli in poltiglia. Non solo: avrebbe desiderato anche fracassare la propria testa — rivolgere contro di sé la parte più acuminata del sasso e colpire la tempia innumerevoli volte, finché non fosse maciullata. Era furibondo con se stesso per essere così disperato, per aver bisogno della loro compagnia, per aver creduto a Colleen. Odiava la creatura gemente e sanguinante che era diventato, nascosta dietro una macchina come un bambino. Le guance gli si rigarono di lacrime – e questo servì soltanto ad accrescere la sua collera. "Ted?" La voce di Colleen lo richiamò alla realtà. "Ti prego, non prendere a sassate anche me, okay? Sono io, hai capito? Verrò con la mia macchina fin li; poi andremo in ospedale. Okay?" Il ragazzo strinse forte il sasso, finché gli spigoli cominciarono a tagliargli la mano. Avrebbe voluto prenderla a calci fino a farla piangere. Udì l'auto che veniva messa in moto e che iniziava a muoversi; la sentì fare retromarcia e avanzare verso di lui. Si sfregò energicamente la faccia per asciugare le lacrime. La Escort gli si fermò accanto, e Colleen si protese per aprire la portiera. Non si mosse. "Sali," disse lei. Con un gesto, lo invitò ad accomodarsi sul sedile anteriore. Il ragazzo rimase immobile. La osservò con la coda dell'occhio. "O me o loro," disse Colleen. Lui si alzò lentamente e s'avvicinò alla macchina. Non si voltò mai a guardare il gruppo dei ragazzi nel parcheggio. "Hai molto male?" domandò lei. Il ragazzo sussultò quando Colleen tese un braccio verso la sua parte dell'abitacolo, ma lei si limitò ad afferrare l'aletta parasole e ad abbassarla. "Vuoi vedere come sei ridotto?" disse. Lui si osservò nello specchietto. Aveva la guancia e la mascella segnate da lividi ed escoriazioni. Gocce rossastre gli scorrevano dagli angoli delle labbra. I suoi occhi erano lacrimosi e iniettati di sangue. Aprì lentamente la bocca. In un primo momento, non gli sembrò così malmessa. Un taglio gli correva orizzontale sulla lingua; quando la tirò fuori, il peso della punta penzolante lo divaricò. Vide la carne viva all'interno della ferita; ritrasse rapido la lingua. Chiuse gli occhi e gemette. Scosse il capo. "Male?" disse lei. Lui annuì. "Mi dispiace tremendamente, Ted," commentò Colleen. Le rispose di andare a farsi fottere. La ragazza si chinò, facendosi ancora più vicina. "Davvero?" Lui scosse la testa. Fece un gesto per dirle di dimenticare. Poi si prese il volto tra le mani e si appoggiò alla portiera. "Là dentro," disse lei, "non era come sembrava." Il ragazzo non si mosse. "Quando ho sentito che cosa volevano fare, mi sono fiondata da George nel tentativo di fermarli," continuò. "Pensavo che, se io fossi stata li, non ti avrebbero torto un capello." Lui scosse nuovamente il capo. "Grazie," disse. "Dico sul serio," affermò lei.
Il ragazzo sollevò una mano per farla tacere. Colleen obbedì.
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