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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 7 1. Le ineguaglianze della natura 13 2. Risposte alla geografia: Europa e Cina 27 3. La peculiarità dell’Europa: una strada diversa 39 4. L’invenzione dell’invenzione 57 5. Le grandi scoperte 73 6. Barra a levante! 91 7. Dalle scoperte all’Impero 113 8. Isole agrodolci 127 9. L’Impero a Oriente 139 10. Per amore del guadagno 151 11. Golconda 165 12. Vincitori e vinti: il bilancio dell’impero 183 13. La natura della Rivoluzione industriale 201 14. Perché l’Europa? Perché allora? 215 15. La Gran Bretagna e gli altri 229 16. All’inseguimento di Albione 247 17. Per fare soldi ci vogliono soldi 273 18. L’importanza del sapere 293 19. Frontiere 309 20. La via sudamericana 329 21. L’Impero Celeste: stasi e ritirata 355 22. Giappone: e gli ultimi saranno i primi 371 23. La Restaurazione Meiji 393 24. La storia andata storta? 417 25. L’Impero e dopo 447 26. La perdita del primato 469 27. Vincitori e... 493 28. Vinti 519 29. Come siamo giunti fin qui? Dove stiamo andando? 541 Epilogo 1999 555 Appendice. Il caso italiano 563 Note 573 Bibliografia 619 Nota dell’autore 685 Indice dei nomi 691 |
| << | < | > | >> |Pagina IV di copertinaAttraverso un’ampia e documentatissima panoramica storica, La ricchezza e la povertà delle nazioni affronta il problema più grave e urgente del pianeta: il divano crescente tra i ricchi e i poveri. Nel corso degli ultimi 600 anni, i paesi più ricchi sono stati quasi tutti europei.Alla fine del XX secolo la bilancia ha iniziato a inclinarsi verso l’Asia, dove paesi come il Giappone si sono sviluppati con inedita rapidità. Ma perché alcune nazioni sono state privilegiate mentre altre sembrano destinate a restare per sempre nella miseria? Riprendendo la riflessione di Adam Smith, David S. Landes ricostruisce la lunga e affascinante storia dell’industria e della potenza nel mondo. Studia le origini della prosperità, segue i percorsi dei vincitori e degli sconfitti, accompagna l’ascesa e la caduta delle nazioni. Discute le varie innovazioni, in particolare nei settori degli armamenti, dei trasporti, dell’energia e dell’industria. Soprattutto, esamina i processi storici per capire in quale misura le diverse culture accelerano - o rallentano - il successo economico e militare, e influiscono sul tenore di vita. Secondo Landes, i paesi dell’Occidente hanno potuto svilupparsi assai presto grazie a una società aperta in grado di valorizzare e favorire il lavoro e la conoscenza, e dunque l’aumento della produttività e la creazione di nuove tecnologie. Oggi i vincitori sul ring dell’economia mondiale stanno seguendo proprio lo stesso percorso, mentre chi resta indietro non è stato in grado di replicare questa formula. La condizione necessaria per aiutare le nazioni arretrate, sostiene Landes, è comprendere la lezione della storia: ed è proprio questa la lezione che ci offre La ricchezza e la povertà delle nazioni. | << | < | > | >> |Pagina 393. La peculiarità dell’Europa: una strada diversaL’Europa ebbe fortuna, ma la fortuna fu solo il primo passo. Chiunque avesse osservato il mondo, diciamo un migliaio di anni fa non avrebbe mai predetto un grande avvenire per quell’escrescenza posta alle propaggini occidentali della grande massa di terra eurasiatica e che oggi chiamiamo continente europeo. Volendo usare il gergo diffuso tra gli storici economici d’oggigiorno, diremmo che all’epoca le probabilità di un dominio dell’Europa sul mondo erano intorno allo zero. Cinquecento anni più tardi andavano avvicinandosi a 1. Nel X secolo l’Europa stava appena uscendo da un lungo supplizio di invasioni, saccheggi e rapine per mano di nemici provenienti da ogni dove. Partendo dall’attuale Scandinavia, i norvegesi (o vichinghi), predoni del mare le cui leggere imbarcazioni potevano affrontare i mari più tempestosi, ma anche risalire fiumi poco profondi per lanciarsi in scorrerie e devastazioni in aree interne imperversarono lungo le coste dell’Atlantico e del Mediterraneo arrivando fino in Italia e in Sicilia. Altri si volsero invece alle terre slave dell’est, stabilendosi lì in qualità di nuova classe dominante (i rus’,che diedero il nome alla Russia e governarono su quella triste terra per quasi settecento anni), e giungendo infine fin quasi sotto le mura di Costantinopoli. Questi predatori erano così terribili e spietati (ad esempio si divertivano a lanciare in aria i neonati e a farli ricadere sulla punta delle loro lance, oppure a spaccarne la testa contro il muro) che la sola voce di un loro possibile arrivo faceva venire la tremarella a un’intera popolazione e induceva i loro governanti - guide spirituali comprese - a prendere armi e bagagli e darsela precipitosamente a gambe. | << | < | > | >> |Pagina 22915. La Gran Bretagna e gli altriE in Europa, perché la Gran Bretagna? Perché non un altro paese? A un certo livello, rispondere a tale domanda non è difficile. All’inizio del XVIII secolo la Gran Bretagna era di gran lunga avanti a tutti: nell’industria a domicilio, semenzaio di crescita; nel ricorso al combustibile da fossili; nella tecnologia di quei settori cruciali che avrebbero costituito il nerbo della Rivoluzione industriale: tessili, ferro, energia e forza motrice. A tutto ciò bisogna poi aggiungere l’efficienza dei trasporti e del sistema commerciale agricolo. I vantaggi derivanti da una maggiore efficienza dell’agricoltura sono ovvi. Da un lato, l’accresciuta produttività del settore alimentare libera manodopera per altre attività: industria manifatturiera, servizi e via dicendo. Dall’altro, l’espansione di questa manodopera genera un sempre crescente fabbisogno alimentare il quale, se non può essere soddisfatto con le risorse interne, impone di stornare una quota di reddito e di ricchezza in tale direzione. Certo, la necessità di importare cibo potrebbe promuovere lo sviluppo delle esportazioni come merce di scambio e così stimolare l’industria; ma non sempre il bisogno stimola una migliore performance. Alcuni dei paesi più poveri del mondo erano un tempo autosufficienti sul piano alimentare, mentre oggi dipendono fortemente dalle importazioni, le quali prosciugano risorse e creano debito, mentre il benché minimo mutamento nel livello delle precipitazioni od ostacolo al commercio produce veri e propri disastri. | << | < | > | >> |Pagina 29318. L’importanza del sapereIstituzioni e cultura innanzitutto; poi il denaro; ma sin dall’inizio, e col passare del tempo in misura sempre maggiore, il fattore decisivo si rivelò il know-how, il bagaglio di conoscenze tecniche. Il primo passo per carpire i «segreti» delle nuove tecnologie britanniche fu l’invio di esploratori: agenti incaricati di osservare, riferire e assumere lavoratori specializzati. Fu così che, nel 1718-20, su esortazione di un emigrato scozzese, John Law, la Francia avviò una caccia a tappeto ai tecnici britannici: orologiai, lanieri, metallurgici, vetrai, ingegneri navali; all’incirca due-trecento persone. Questa offensiva allarmò talmente i britannici da indurli a promulgare una legge che vietava l’emigrazione di determinate categorie di lavoratori specializzati, la prima di una serie di misure analoghe riguardanti una gamma sempre più ampia di attività e restate in vigore per oltre un secolo. Queste leggi, tuttavia, non crearono una barriera perfettamente ermetica. In un mondo di forte protezionismo, non tutti erano ancora sensibili alle potenzialità della competizione internazionale. Prendiamo il caso della specializzazione nei campo della metallurgia, un bene particolarmente prezioso per i suoi legami diretti con l’industria dei macchinari e degli armamenti (la gente uccide per poter uccidere meglio in futuro). Nel 1764-65 la monarchia francese inviò Gabriel-Jean Jars a visitare gli impianti minerari e metallurgici della Gran Bretagna. I britannici erano così insensibili al valore di tali cognizioni tecniche che Jars venne cordialmente ricevuto nelle fonderie e ferriere dello Sheffield e del Nordest. Il suo promemoria, pubblicato in seguito, costituisce ancor oggi una preziosa fonte di informazioni sulle tecniche di quel tempo. | << | < | > | >> |Pagina 545Se la storia dello sviluppo economico ci insegna qualcosa, è che a fare la differenza è la cultura (sotto questo aspetto Max Weber aveva ragione). Prendiamo ad esempio l’industriosità delle minoranze di emigrati: i cinesi in Asia orientale e sudorientale, gli indiani in Africa orientale, i libanesi in Africa occidentale, ebrei e calvinisti in gran parte d’Europa, e via dicendo. La cultura, tuttavia, intesa nel senso di corpo di consuetudini e valori morali che caratterizza una popolazione, spaventa gli studiosi, emana un sulfurico odore di razza ed eredità, evoca un senso di plumbea immutabilità. Nei momenti di maggior riflessione, economisti e scienziati sociali ammettono che ciò non sia vero, e anzi plaudono ad esempi di mutamenti culturali in meglio e deplorano quelli in peggio. Plauso e deplorazione implicano tuttavia un atteggiamento passivo in chi osserva, l'incapacità di usare il sapere al fine di plasmare uomini e cose.| << | < | |