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| << | < | > | >> |Pagina 30Quasi trent’anni fa, a Karlsbad, conservai come una sacra reliquia uno dei programmi del concerto, che avevate toccato. Robert Schumann Quando un giovane fa esperienza per la prima volta di un’arte nella sua trascendenza, è davvero una cosa straordinaria. È possibile che questa esperienza lo distrugga, se l’ispira a cercare lui stesso questa trascendenza, o lo dissuada dal tentare anche il minimo sforzo per inseguirla. Ma non vi sono dubbi che, distrutto o salvato che risulterà, in quel momento rinasce. È sottratto ai suoi genitori e liberato dalla morsa dei doveri. È liberato dal passato e in esso allo stesso tempo imprigionato. È profondamente e irrevocabilmente unito con la morte e questa relazione lo appaga. Viene rapito sulle ali della bellezza, via, lontano da questa nostra terra derelitta senza consolazione. Quando il padre portò Robert a sentire il pianista Ignaz Moscheles, Robert aveva otto anni e Moscheles ventiquattro, il che significa che, come musicisti, il primo era appena un novizio, mentre il secondo era stolidamente, come lui stesso sosteneva, entre deux àges. Prima che Moscheles iniziasse a suonare, ciò che di lui più impressionò Robert furono i capelli. Erano ricci e morbidi e fluttuavano leggermente, persino nell’aria immobile della sala, umida per le acque dello stabilimento termale a cui era collegata (architettonicamente ed economicamente) e da cui si udivano, attraverso le doppie porte aperte, gli sciacqui, i gorgoglii e ogni tanto i sospiri della gente immersa nelle vasche, o nel vapore, o coperta dai fanghi. Dirigendosi verso la sala da concerto, Robert e il padre erano passati accanto ai suoi mecenati, afflitti dai loro vari malanni: da quella definita allora idropisia, che causava la comparsa di sacche mollicce di fluido accumulato nei tessuti, alla sciatica, che costringeva le persone sofferenti a camminare tutte rigide — come il mostro di Frankenstein, o il moderno Prometeo, pubblicato in inglese proprio quell’anno e che August era ansioso di tradurre in tedesco e pubblicare —, al ginocchio della lavandaia, che faceva gonfiare la bursa delle sue vittime, che si riducevano a camminare con rigonfiamenti sulle ginocchia che parevano frutti maturi, pronti a scoppiare. Un’afflizione che, nel caso delle donne di classe per la maggior parte borghese che frequentavano le terme, suggeriva sempre l’idea di pratiche sessuali devianti, più che quella dei lavori domestici che avevano ispirato il nome della malattia. I capelli di Robert erano scuri, folti e oleosi ma, fino a che non aveva visto quelli di Moscheles, non avevano mai costituito per lui una fonte di insoddisfazione. E anche allora, non era tanto che non volesse più i propri capelli, quanto che voleva quelli di Moscheles. Moscheles era un pianista specializzato in pezzi di bravura, della scuola viennese, anche se lo si sapeva simpatizzare per le regole di Clementi. A quest’ultimo s’era interessato lo stesso Robert quando Herr Kuntsch aveva acquistato una copia del Gradus ad Parnassum, il nuovo libro di istruzioni di Clementi, che Robert si divertiva a usare nei pochi minuti al giorno che dedicava allo studio, prima di lanciarsi nelle improvvisazioni. Ma mentre Clementi era un devoto sostenitore dei pianoforti inglesi, Moscheles attraversò a grandi passi il salone e si sedette di fronte al pianoforte costruito da Anton Walter a Vienna e, si sussurrava tra un gruppo di giovani sostenitori, che parevano essersi arricciati i capelli secondo lo stile di Moscheles, di Mozart [...] | << | < | > | >> |Pagina 301Tutti si recarono poi nella sala da musica più grande, gli uomini con sigari e brandy e lei con il suo orologio d’oro e i resti di una torta di prugne che teneva in mano su un tovagliolo. Le chiesero di suonare il pianoforte, ma lei cedette graziosamente lo sgabello e l’onore del primo posto a Mendelssohn, che non era solo il suo ospite d’onore, ma un talento pianistico di cui conosceva perfettamente la fama e preferiva sentirne il suono, prima di avventurarsi a suonare in sua presenza. Forse ispirati dal timore o semplicemente dall’esempio, i due pianisti fecero a gara per volare più in alto, nella scia l’uno dell’altra, come due uccelli.Per sgranchirsi le dita dall’intorpidimento e dall’effetto dello champagne, Mendelssohn si riscaldò volteggiando tra ulcune fughe di Bach, con grande gioia di Robert, e poi, per la gioia generale, si cimentò in improvvisazoni secondo lo stile prima di Chopin e poi di Liszt. Quando Clara lo pregò di suonare la sua musica, Mendelssohn iniziò con un pezzo che pareva riecheggiare deliberatamente il precedente inizio; una fuga da lui composta in mi minore, che con crescendo e accelerando culminò in un enorme falso climax, prima di sfumare in una serena ripetizione del tema di fuga e, alla fine, concludersi con un diminuendo così inaspettato, su scala crescente, che Clara si alzò dalla sedia. Tutti gli altri nella stanza seguirono il suo esempio, scambiando la sua impotenza di fronte a quella musica per semplice ammirazione. Mendelssohn colse l’opportunità, quando la vide in piedi, per invitarla a unirsi a lui al pianoforte. Aprì sul legio lo spartito della parte per pianoforte del suo Capriccio in si minore e la suonarono insieme, lui a memoria e lei a vista ma non meno bene di lui, che in qualche modo la guidava con l’oscillazione del proprio corpo e la pressione della spalla contro quella di lei e di tanto in tanto emetteva una specie di borbottio anticipatore, che nessun altro poteva udire, un grazioso piccolo frammento di canto che le faceva girare la testa. Quand’ebbero finito, lui le prese la mano e la aiutò ad alzarsi. Poi la tirò in avanti e Clara fu costretta a inchinarsi profondamente di fronte ai suoi amici e a suo padre. Tutti li applaudirono e chiesero loro di suonare ancora. «Da me non sentirete altro», disse loro Mendelssohn «Per me, suonare con lei è come per un maiale mettersi a gareggiare con un’antilope. Mentre io rimango a grugnire nel fango, lei ha ali d’angelo che la trasportano in cielo. Quindi, amici miei, permettetemi di raggiungervi al truogolo e nutriamoci tutti insieme dell’ambrosia che le stilla dalle dita». Tutti risero a questa esagerata cortesia e poi risero di nuovo quando Julius Knorr urlò: «Tutto questo non mi pare molto kosher». «Che cosa suonerà?» le domandò Mendelssohn. «Che cosa vuole che suoni?» «Qualcosa che ama». Poi Mendelssohn girò lo sguardo per la stanza, come a cercare una musica fluttuante nell’aria. «Qualcosa di suo», disse indicando Robert. «Qualcosa che amo», replicò Clara e quasi le venne da aggiungere, scritta da qualcuno che amo. Suonò la Sonata in fa diesis minore, che Robert le aveva mandato solo alcuni giorni prima, accompagnata da un biglietto in cui diceva di essere stato ispirato da una melodia composta da lei e che allo stesso tempo quell’opera era un grido del suo cuore per lei. | << | < | > | >> |Pagina 36313 agosto, 1837Mia carissima Clara, spezzando il sigillo di questa lettera hai riparato il mio cuore. Che i tuoi occhi possano vedere le mie parole, dopo tanto silenzio, per me è come se guardassero nei miei. Ti sento accanto a me anche adesso, seduto solo al mio tavolo, immaginando questa lettera tra le tue mani, il tuo alito sulla carta, gli occhi accesi, il tuo profumo che si diffonde su di essa e su di me. Mi sei stata fedele? Io credo in te e il mio desiderio per te è incessante e feroce. Quando nulla so della persona che più amo al mondo — e quella sei tu — mi viene a mancare la fiducia nella tua forza di volontà e, così, nella mia. La fedeltà di cui parlo non è nei miei riguardi, ma nei nostri. Ci si può dare a un altro senza, di fatto, prenderlo. Quello che ho capito nel periodo in cui siamo stati lontani, quasi un anno e mezzo, è che siamo inseparabili, non importa quanto spazio o tempo ci divida, ma che, inseparabili o no, non possiamo sopravvivere alla separazione. Dunque, promettimi che il giorno del tuo compleanno, tra un mese, darai a tuo padre una lettera da parte mia. Non avrebbe incluso i miei Studi nel programma se non fosse un po’ ben disposto verso di me. Dimmi che lo farai. Dimmi “sì”. Non riposerò finché non avrò il tuo giuramento. Il mio cuore giace su questa pagina. E ora il mio nome.
Robert Schumann
Lipsia, 15 agosto 1837 Mio Robert, un semplice “sì” è tutto quello che vuoi? Ho passato tutta la vita a dirti di sì, che tu lo abbia sentito o meno. Se poi ti sono stata fedele, non posso dire “sì” a questo. Ti ho tradito con le mie lacrime, che avrebbero dovuto essere risate per tutto il tempo trascorso insieme e per l’amore che ci ha unito. Ti ho tradito con i miei sogni, che non sono riusciti e rendere reale la loro estasi. Ti ho tradito con le mie parole, che ti ho sussurrato ogni notte, troppo piano perché tu potessi udirle. Ti ho tradito col mio corpo, che ho abbandonato incessantemente al ricordo. Ti ho tradito col mio desiderio, che ti ha usato in tua assenza, come se tu fossi sopra di me. Non ti ho tradito con nessun altro uomo se non tu che te ne sei andato. Ti direi “sì” se mi chiedessi di mozzarmi le mani e mandarle in giro grondanti della tua musica. Ma quando mi chiedi di dare una lettera a mio padre — in cui lo pregherai, qualsiasi cosa tu voglia chiedergli (se non per me, non rompere il sigillo di questa lettera) — la cosa mi sembra rischiosa. Una cosa è che mi permetta di suonare la tua musica in pubblico — lui rispetta la tua musica, almeno fintanto che tutti gli altri la troveranno incomprensibile. Ma la tua persona... fin tanto che io la troverò desiderabile, il che sarà finché vivo, lui... non posso sopportare di scrivere queste parole. Ma gliela darò certamente. Se non altro per poterti dire "si" nell’unico modo che al momento mi è possibile. La tua Clara PS. Sto scrivendo questa lettera che è ancora il 14, ma per timore che tu non la riceva fino a domani, scrivo la data di domani, così che almeno avremo l’illusione di essere insieme questo giorno, qualunque esso sia, oggi, domani, anche ieri. Il tempo si è rivelato nostro nemico, perché è stato la misura del nostro isolamento; in questo modo lo annulleremo. | << | < | > | >> |Pagina 630Le tue lettere sono come baci. Johannes Brahms Il dottor Richarz e Brahms sedevano schiena contro schiena sulla dos-à-dos, mentre Schumann era allungato sulla poltrona con un atlante posato su una gamba e un grande taccuino sull’altra. La camicia da notte pendeva tristemente addosso al suo corpo magro e macilento. Mentre si piegava a scrivere sul quaderno, cantava: «Babababababadadaadadada, babababababadadadadadada». "Vede quello che voglio dire", bisbigliò direttamente nell’orecchio di Brahms il dottor Richarz. Una volta tanto, la strana conformazione della dos-à-dos si rivelava utile, dato che permetteva una conversazione discreta senza costringere chi confabulava a guardarsi direttamente, anche se, quando il dottor Richarz allontanò le labbra dall’orecchio di Brahms, cercò di accarezzare con lo sguardo il delicato profilo virginale di quel giovane d’eccezionale bellezza. «Non dice altro?» «Non mangia quasi nulla e non dice quasi nulla». «Di che cosa soffre?» «Di quello che ha perso nella vita — lei, quando non è qui; sua moglie; la sua musica; i suoi figli; i piaceri del corpo; il piacere di...» «Mi scusi, dottore, intendevo di che malattia soffre?»
«Come le ho detto quando l’ho convocata, riteniamo che ormai sia incurabile.
Ma non abbiamo idea di che cosa abbia».
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