Copertina
Autore Joe R. Lansdale
Titolo Il lato oscuro dell'anima
EdizioneFanucci, Roma, 2005 , pag. 288, cop.fle., dim. 140x220x20 mm , Isbn 978-88-347-1082-1
OriginaleThe Nightrunners [1987]
TraduttoreUmberto Rossi
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa statunitense , gialli
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Pagina 11

Mezzanotte. Nera come il cuore di Satana.

Uscirono dall'oscurità in una Chevrolet Impala nera del '66, divorando verso nord la statale 59 come tanta succosa caramella mou grigia. Nella notte fonda l'automobile, tutta sola lí fuori, sembrava una macchina del tempo venuta da un futuro malvagio. I fari erano bisturi d'oro che squarciavano il grembo delicato della notte, si spingevano nelle sue viscere ma consentendo loro di rimarginarsi per bene dopo il passaggio della vettura. Il motore, perfettamente a punto e pesantemente truccato, gemeva di piacere sadico.

Appena due ore prima, a una settantina di chilometri da Houston, l'Impala aveva assestato un colpo a una Plymouth bianca, come un barracuda che s'avventi sul morbido ventre di un pesce bianco. La Plymouth del '73 andava a novanta all'ora. Si trovava sulla sua corsia e andava incontro alla Chevrolet, facendosi i fatti suoi, quando il demone nero aveva oltrepassato la striscia e il suo clacson aveva gridato nel buio. Non era un suono d'avvertimento, ma un insolente rimbombo d'autorità: «Togliti di mezzo pesce bianco, la strada è mia!»

La Plymouth, guidata da un assicuratore di Houston, un certo Jim Higgins, si buttò bruscamente sulla destra e finí con due ruote sul ciglio della strada, sputò brecciolino, terriccio, erba e qualche grillo incauto che avrebbe fatto meglio a suonare il violino in qualche altro posto che non fosse il ciglio della statale.

Higgins ebbe qualche problema col volante che vibrava, ma non perse il controllo. Gli battevano i denti e il sedere gli rimbalzò sul sedile, ma riuscí a rimettere la Plymouth in carreggiata.

Higgins, che riteneva già i novanta all'ora una velocità avventurosa, accelerò a tavoletta fino a centoventi. Lasciò correre la Plymouth finché le luci di posizione posteriori dell'Impala non raggiunsero le dimensioni di una lenticchia, e poi svanirono, ma anche allora non scese sotto i cento. Continuò cosí per tutto il tempo che ci mise a raggiungere la periferia di Houston, dove uno dei solerti tutori dell'ordine cittadini lo costrinse a fermarsi e gli affibbiò una multa.

Higgins fu quasi contento di vedere il poliziotto. Gli fece passare in parte la paura che l'aveva preso. Fu sul punto di dire all'agente della Chevrolet, ma pensò: ma no, crederà semplicemente che sto sparando cazzate per farmi togliere la multa, e magari finirà per rincarare la dose; per cui non disse niente, si prese la contravvenzione e se ne andò a casa.

Quella notte stessa si svegliò gridando. A sua moglie Margret disse di aver sognato un'Impala nera che gli correva contro, schizzando fuoco e fumo da sotto il cofano, e dentro la macchina, le facce schiacciate contro il parabrezza, c'erano demoni dell'inferno che lo fissavano con cattiveria.

All'incirca alla stessa ora in cui a Jim Higgins veniva contestata la multa per eccesso di velocità, l'agente della stradale Vernice Trawler misurava la velocità dell'Impala nera attorno ai 120 chilometri orari. Trawler era appostato a una ventina di chilometri da Livingston, in Texas. Schizzò fuori dal suo nascondiglio a lato della strada a sirene spiegate e lampeggiatori che giravano, lasciando metà degli pneumatici sull'asfalto e in fumo. L'Impala nera stava già scomparendo dietro il poggio. La striscia gialla, che nel bagliore delle luci di posizione dell'Impala diventava rosso sangue, sembrava risucchiata dalla macchina.

Trawler segnalò la propria posizione alla radio, schiacciò l'acceleratore fino al pavimento dell'autopattuglia, raggiunse i 100... 120... 130... 140... Adesso riusciva a vedere la Chevrolet. Sembrava toccare a malapena il suolo.

«Figli di puttana» imprecò Trawler a voce alta. Adesso la lancetta sfiorava la tacca dei 150. Quando avrebbe raggiunto quel bastardo gli avrebbe affibbiato la multa del millennio.

Poi, improvvisamente, la Chevy sembrò gettare l'ancora. S'arrese contro la notte, rallentò il passo a 100... 90... 80... 60... con balzi da coniglio.

«Bella macchina, per la miseria» ammise Trawler a voce alta.

L'Impala accostò, sputò brecciolino, si fermò.

Trawler accostò dietro l'altra macchina, e d'un tratto fu colto dal desiderio che il suo partner non fosse stato messo fuori combattimento dall'influenza.

Be', adesso cosa mi salta in mente?, si disse Trawler. Perché mi dovrebbe succedere?

I lampeggiatori rossi di Trawler proiettavano una luce stroboscopica sul lunotto dell'Impala, mostrandogli tre teste sul sedile posteriore e due davanti.

La porta del guidatore s'apri. Dalla macchina scese un adolescente con tratti decisi, capelli biondi ispidi, e una faccia troppo bianca. Indossava calzoni e giubbotto di jeans, e sotto quest'ultimo una felpa grigia. Portava scarpe da tennis blu; 'scarpe da corsa', come le chiamava il figlio di Trawler.

Il poliziotto tirò un sospiro di sollievo. Lavorare da solo lo faceva sentire a disagio, anche se il peggio che aveva incontrato erano ubriachi e scontri frontali. Quello era solo un ragazzo: appena un paio d'anni piú di suo figlio. Cinque ragazzi, in giro a spassarsela su una macchina truccata.

Ciò nonostante, Trawler slacciò la fondina della pistola, prese il blocchetto delle multe e scese, guardingo, ma senza aspettarsi veramente dei guai.

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6



30 ottobre, ore 2.14

I folletti erano tornati; cavalieri d'incubo in una sfrenata galoppata infernale attraverso una tetra tempesta mentale di ricordi dolorosi. Facce livide di cicatrici, occhi che penzolavano su steli contro guance dall'incarnato grigioverde.

Becky si svegliò, gocce di sudore delle dimensioni di pallottole per fucili ad aria compressa le scorrevano sul volto e sul seno, si raccoglievano nella peluria del pube. La sua camicia da notte le si era incollata addosso. I capelli erano bagnati.

Rotolò per uscire da sotto le coperte, attenta a non svegliare Monty che dormiva come un albero fossile (cosa che lei gli invidiava). La testa tra le mani, sedette sull'orlo del letto e desiderò di fumare.

Dopo un po' s'alzò, trovò la via per il soggiorno buio. Andò alla finestra, scostò le tendine, guardò il lago di fuori.

La pioggia s'era asciugata lasciando la terra scura tirata a lucido. Il lago era calmo, riluceva dell'argento della luna: una luna quasi piena. Di solito l'avrebbe trovata bella, ma non quella notte; le ricordava un occhio morto, sbiancato.

Si levò un vento gentile, scese dai pini, sospirò abbastanza forte perché lei l'udisse, si spinse appena sul lago e lo fece increspare; scosse i vetri della finestra con un suono d'ossa secche che sbatacchiavano.

Passò via.

Nella casa faceva freddo. Becky rabbrividí. Era come se la falce del Mietitore fosse passata sullo chalet e li avesse risparmiati, ma toccandoli col suo gelo.

Ebbe una visione della falce che tornava indietro. Ma il pensiero non durò.

Riportò lo sguardo sul lago, sul corto molo in legno che sporgeva sull'acqua come una lingua scura, come la lingua di Clyde quando le strisce di camicia avevano completato la loro opera.

L'imperlatura di condensa sul vetro scese in gocce di mercurio... del colore del sangue.

Il vetro si fece di un nero fumoso, come uno specchio d'ossidiana. Le gocce di sangue vi spiccavano contro, con un rilievo marcato, colavano giú per il vetro, lentamente...

E poi, gli occhi. Occhi grandi; infernali come quelli delle zucche che si scavano a Halloween, per metterci dentro la candela.

E un suono; un rumore ringhiante, come una bestia notturna affamata.

E quella bestia con gli occhi ardenti e lo stomaco che brontolava si stava dirigendo velocemente verso di lei, e nella sua testa c'erano cose, cose dietro quegli occhi da zucca di Halloween.

No, non era una bestia, non erano occhi ardenti. Era...

E ora, piú niente.

Niente goccioline di sangue.

Niente bestie o cose che sembravano bestie.

Solo il vento lí fuori tra i pini, l'acqua e la luna come un uovo sodo.

Becky s'afflosciò, barcollò via dalla finestra. Poggiò una mano sul bracciolo del divano, in modo da non crollare. La sua camicia da notte era piú bagnata che mai; modellata sui seni e tirata su tra le gambe come se una mano l'afferrasse; la mano di Clyde.

Dio, non pensarci. È morto. Non è una specie di babau.

O no? pensò improvvisamente.

Si sedette sul divano e tremò. La stanza era gelida. Lei era madida di sudore, e sentiva addosso il freddo tocco della paura.

Devi riprendere il controllo di te, ragazza mia. Se continui di questo passo, finirà che diventi matta.

E se finisse proprio cosí?

Dopo un po' se ne andò a piedi scalzi in cucina, bevve un bicchiere d'acqua.

Folletti, pensò. Perché i folletti? Perché gli occhi? Il brontolio?

Tutta quella roba non poteva essere stata solo un sogno. Assolutamente. Era troppo dettagliato, troppo intenso.

O forse stava semplicemente diventando matta.

No. No, maledizione, non stava ammattendo. Lo psichiatra diceva solo cazzate. Era una specie di premonizione. Un avvertimento. Se lo sentiva nelle ossa.

Cercò di trovare un senso in tutta quella faccenda, ma era un compito fuori dalla sua portata.

Alla fine s'arrese e tornò a letto.

Ma non dormí bene.

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4



Una settimana dopo, alla metà d'ottobre, Brian Blackwood sedeva in camera sua, la testa piena di emozioni piacevoli ma sconvolgenti. Aveva preso una penna e un taccuino dal cassetto della sua scrivania, e s'era messo a scrivere forsennatamente.

Non ho mai avuto un diario prima, e non so se continuerò ad averlo dopo stasera, ma quello che ho dentro sta arrivando al punto d'ebollizione, qualcosa di terribile, e sento che se non lo tiro fuori scoppio, e di me non resterà niente, eccetto macchie di sangue e merda su quest'accidenti di pareti.

A scuola ho letto di uno scrittore che diceva che era fatto cosí, e se riusciva a scrivere quello che gli dava fastidio, quello che gli premeva nel cranio, poteva trovare sollievo, cosí ci provo e speriamo che vada bene, perché lo devo dire a qualcuno, e questo non lo posso certo dire a mammina cara, non è che le possa dire veramente niente, ma questa cosa devo farmela uscire e vorrei solo saper scrivere più in fretta, metterlo giù alla velocità con cui lo penso.

Questo tizio, Clyde Edson, è veramente diverso e ha cambiato la mia vita e lo sento, lo so, ce l'ho in pancia, mi gira dentro come una specie di cancro, mi si mangia da dentro, mi trasforma in qualcosa di nuovo e di fresco.

Stare vicino a Clyde è come stare vicini alla forza pura, sí, è cosí. L'energia gli esce fuori a ondate, a momenti ti butta giú, ed è quasi come se io assorbissi quell'energia, forse è come se Clyde succhia qualcosa fuori da me, qualcosa che è capace di usare, e il pensiero di questo, di me che do qualcosa a Clyde, qualsiasi cosa sia, mi fa sentire grande e grosso. Voglio dire, stare vicini a Clyde è come toccare il male, o come quella merda sdolcinata di Guerre stellari, essere sedotti dal lato oscuro della Forza, o qualche altra stronzata del genere. Ma vedi, questa seduzione del lato oscuro è come una scopata maledettamente bella, una cosa che ti fa schizzare sperma, del tipo che ti fa uscire gli occhi di fuori, ti fa schioccare la schiena e ti fa increspare il buco del culo.

Forse questo non lo capisco ancora, ma penso che è un po' come quel tipo, una volta ho letto qualcosa, quel filosofo che non mi ricordo come si chiama, ma che ha detto qualcosa sul fatto di diventare un superuomo. Non il tipo col mantello. Non parlo di stronzate da giornaletti, da buoni samaritani, parlo del vero duro. Non mi ricordo cosa diceva esattamente, ma da quel che ricordo di aver letto, e per come mi sento adesso, immagino che Clyde e io siamo due degli eletti, i superuomini di adesso, di questo momento, mutanti per il futuro. La vedo un po' cosí: una volta l'uomo era un tipo di animale selvaggio che si faceva valere con le dimensioni dei suoi muscoli e non con le stronzate dei governi e delle leggi. È venuto il momento che è dovuto diventare civile per sopravvivere a tutti gli altri duri, ma adesso il momento è passato perché la maggior parte dei duri sono schiattati e non resta niente tranne un branco di femminucce che non riuscirebbero a trovarsi il culo senza una carta stradale o a immaginare come pulirselo senza un progetto dettagliato. Ma vedete, ci sono delle nuove mutazioni. Sono nati nuovi individui capaci di sopravvivere, e invece del fango da dove siamo strisciati fuori all'inizio secondo gli scienzati,stiamo strisciando fuori da questo casino che hanno creato le femminucce con tutta la loro manfrina dei diritti civili e delle leggi per proteggere i deboli. Solo che stavolta non è come prima. Può essere che l'uomo è strisciato fuori dalla melma per sfuggire agli squali del mare di allora, ma questa volta sono come quegli accidenti di squali che stanno strisciando fuori e cosí siamo dei figli di puttana, con denti che tagliano come rasoi e la pelle come brecciolino appena scavato. E la piú grande differenza è che abbiamo una determinazione che non molla.

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Pagina 165

E l'estate si fece autunno.

E una notte a metà ottobre Brian dormiva nel suo letto quando avvertí nel suo cervello il primo dimenarsi incerto di un tentacolo.

Sognò un lungo vicolo stretto completamente avvolto dall'oscurità, e da quel vicolo, camminando lentamente con un rumore simile al tonfo di sassi nell'acqua, venne una sagoma, e in qualche modo Brian seppe che la sagoma apparteneva a un dio-demone e quel dio-demone si chiamava Dio del Rasoio.

Il dio-demone veniva giú per il vicolo della sua mente, e Brian ebbe paura. Tentò di svegliarsi, ma niente da fare. Tentò di farlo sparire dalla sua mente, ma niente da fare.

Il dio-demone avanzava, facendo un rumore orribile mentre camminava, come sassi gettati in acqua.

Ora era molto vicino. E chiaramente visibile mentre usciva dall'oscurità.

Il Dio del Rasoio era alto, nero (non negro, ma nero), con occhi di luce stellare infranta e denti come trentadue argentee spille da cravatta lucenti. Portava un cappello a cilindro che come nastro aveva scintillanti lame di rasoio cromate e modellate in un cerchio. Il suo soprabito (e Brian non era certo di come facesse a saperlo, ma lo sapeva) era la pelle di un antico guerriero azteco scuoiato e i suoi pantaloni erano dello stesso materiale. Dita crude e insanguinate gli spuntavano dalle tasche dei pantaloni come dolcetti messi da parte per mangiarli dopo cena, e l'Orologio del Lato Oscuro (un'altra cosa che sapeva, ma non capiva), che era un enorme orologio da panciotto, pendeva da un pezzo di budello attaccato al taschino dell'abito del Dio: un tempo quel taschino era stata una fessura carnosa e aveva ospitato un occhio. Le scarpe che calzava (ennesima conoscenza inspiegabile) erano le teste lacere di francesi ghigliottinati in una rivoluzione morta da lungo tempo. Il piede fesso del Dio entrava perfettamente in quelle bocche morte e quando camminava le teste facevano un suono sordo, come palle mediche fatte rimbalzare lentamente su un pavimento di legno duro.

E le unghie delle dita del Dio non erano affatto unghie, ma lame di rasoio. Continuava a sfregarle una contro l'altra mentre camminava, facendone scaturire scintille.

Poi fu vicinissimo e tirò fuori dal nulla una sedia fatta di femori umani con un sedile di costole, brandelli di carne, matasse di capelli intrecciati; si sedette, accavallò le gambe, facendo ciondolare una delle teste-scarpe lacere, fece comparire dall'aria un pupazzo da ventriloqui e se lo posò sul ginocchio. Il pupazzo indossava scarpe da tennis, jeans, una t-shirt nera e un giubbotto di pelle con chiusure lampo, e la faccia incisa nel legno era quella di Clyde, con le guance ridicolmente rosse.

Il Dio cacciò la mano nella schiena del pupazzo di Clyde, lo spinse in avanti e gli fece aprire la bocca. «Sei stato in panciolle abbastanza, no?»

Brian tentò di parlare, ma non ce la fece. Non riusciva a capire dove si trovasse lui, nel sogno.

«È ora di darci dentro» disse il pupazzo. «Abbiamo del lavoro da fare. Quella stronza di professoressa non ha avuto quello che meritava, e sta a te far sí che se lo becchi.»

Brian non riusciva ancora a parlare. Non aveva la sensazione di star sognando. Era terrorizzato.

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