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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 I. Anno zero 9 II. Una giornata esplosiva 17 III. Aprite, è la polizia 20 IV. In questura con il motorino 25 V. È lui! È lui! 29 VI. Non l'abbiamo ucciso noi 38 VII. È morto un cane 43 VIII. La furia della bestia umana 47 IX. Quelli della Ghisolfa 55 X. Tutto comincia in aprile 60 XI. Nazisti in maschera 66 XII. Il pericolo comunista 74 XIII. Faremo ordine, ma nuova 81 XIV. Qui ci vuole il morto 88 XV. Dàgli all'anarchico 93 XVI. Sulle tracce dei fascisti 99 XVII. Il «commissario finestra» 106 XVIII. L'importante è depistare 113 XIX. Sentenza di Carnevale 121 XX. La strage? Di Stato 127 Quella verità da non dimenticare 137 (intervista a Guido Salvini) |
| << | < | > | >> |Pagina 7La strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, segna un punto fondamentale della storia italiana del dopoguerra. Quel giorno si materializza la criminalità di una classe politica che, per conservare il potere di fronte all'avanzata del «comunismo», è pronta a tutto. Anche a lasciare morti sul suo percorso pur di non veder messa in discussione la sua leadership. Quella strage non è una pagina oscura, non è la «notte della repubblica», è un capitolo chiaro, preciso: meglio i morti che un cambiamento. E di morti, negli anni successivi, ce ne sono stati molti. Per mano soprattutto della destra, ma anche della sinistra. Un gioco perverso: la destra aveva attaccato, la sinistra doveva rispondere. Anzi, doveva innalzare il «livello di scontro». Una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte di cambiamento radicale della società italiana. In questa ottica la bomba di piazza Fontana ha segnato e scritto la storia. Che è anche una storia infinita. Dagli anarchici «pazzi criminali» si passa ai nazisti e fascisti colpevoli. Accomunati sul banco degli imputati, verranno assolti tutti. E i colpevoli? Non esistono. Poi rispuntano responsabilità dei nazifascisti quando i principali colpevoli non possono essere più condannati. Infine altri tre processi che ancora una volta mandano tutti assolti. Una vera commedia all'italiana, se non fosse una tragedia. Una tragedia che vede negli attentati del dicembre 1969 il momento centrale di una strategia che doveva portare, nelle intenzioni degli esecutori, a un regime autoritario, ma che è stata gestita dai più alti organi dello Stato per mettere fuori gioco gli avversari politici e per creare un clima di paura che perpetuasse la centralità della Democrazia cristiana e dei suoi alleati. In questo senso la bomba di piazza Fontana è l'analizzatore della società italiana: mette a nudo il ruolo di ministri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di polizia. Tutti coinvolti in un progetto criminale. È l'unica definizione possibile. Ricostruire quell'avvenimento, che vede le sue premesse nelle bombe del 25 aprile e del 9 agosto 1969, significa dunque individuare l'essenza nascosta dello Stato italiano. Perché non si è di fronte a organismi deviati dai loro compiti. Questa è una grande favola che i mezzi d'informazione hanno cercato di raccontare quando le responsabilità dei «servitori dello Stato» non erano più occultabili. La realtà, infatti, è molto più semplice e sconcertante: «La presenza di settori degli apparati dello Stato, nello sviluppo del terrorismo di destra, non può essere considerata 'deviazione', ma normale esercizio di una funzione istituzionale», scrive il giudice Guido Salvini, titolare dell'ultima indagine su piazza Fontana. Allora si comprende come il termine «strage di Stato» assuma una valenza che va al di là dello slogan politico, perché individua invece una verità inconfutabile, nonostante le sentenze di assoluzione. Infine una precisazione. Questo libro è di parte, ma non partigiano. Nel senso che io, l'autore, ho vissuto molte di quelle vicende come anarchico del Circolo Ponte della Ghisolfa. Ho condiviso la mia attività politica (fino al 15 dicembre 1969, giorno della sua morte) con Giuseppe Pinelli e ho partecipato attivamente alla campagna per la liberazione di Pietro Valpreda. Sono quindi coinvolto, anche sul piano emozionale. Ma ho cercato, grazie anche ai quasi quattro decenni trascorsi, di pormi un traguardo: raggiungere il massimo di obiettività possibile. | << | < | > | >> |Pagina 9Roma, 3 maggio 2005. Nel Palazzaccio di piazzale Clodio il presidente della seconda sezione penale della Cassazione, Francesco Morelli, legge con voce monotona una sentenza storica: respinge i ricorsi contro la sentenza della Corte d'appello per la strage di piazza Fontana. Tutti assolti titolano televisioni e giornali. La Cassazione, infatti, ha confermato la sentenza che scagiona Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi. Gli ultimi tre personaggi (all'epoca esponenti dell'organizzazione neonazista Ordine nuovo) di una storia infinita iniziata il pomeriggio del 12 dicembre 1969. Sentenza storica in due sensi: perché si tratta di una strage commessa trentasei anni prima e perché chiude una vicenda che ha scritto (modificandola) la storia d'Italia con il sangue di sedici morti (cui se ne aggiungerà un altro deceduto anni dopo per le ferite riportate) e di quasi un centinaio di feriti (ottantasei ufficialmente registrati e un'altra decina che preferì allontanarsi dalla Banca nazionale dell'agricoltura e curarsi in modo privato). La «strage di Stato» è arrivata al capolinea. Nessun magistrato si azzarderà più ad addentrarsi in questo ginepraio. A scoperchiare quel «mistero di Stato», ci aveva riprovato nel 1989 il giudice istruttore di Milano Guido Salvini. In quell'anno eredita un'inchiesta molto sommaria sull'eversione di destra. Indaga. Interroga. Ascolta. Ordina ispezioni negli archivi della polizia, dei centri studi, delle amministrazioni statali. Individua personaggi fino a quel momento nemmeno sfiorati dalle indagini per la strage del 12 dicembre 1969. Prende forma un panorama inedito e, allo stesso tempo, antico. Un gruppo di Ordine nuovo di Venezia-Mestre, con a capo Zorzi e in qualità di «armiere» Carlo Digilio (sotto la regia di Maggi), è riconducibile all'attività di un altro gruppo neonazista padovano, quello di Franco Freda e Giovanni Ventura. Colpo grosso! Sì, perché Freda e Ventura sono stati assolti, nel 1985 e poi nel 1987, per piazza Fontana ma condannati a quindici anni per i due attentati «propedeutici» (25 aprile a Milano e bombe sui treni del 9 agosto) a quello del 12 dicembre. Assolti in quelle due sentenze, ma il 23 febbraio 1979 Freda e Ventura, insieme all'informatore del SID Guido Giannettini, erano stati condannati dalla Corte d'assise di Catanzaro all'ergastolo proprio per la strage di piazza Fontana. Colpo grosso, allora. I conti tornano. L'inchiesta di un magistrato di Treviso, Giancarlo Stiz, aveva individuato già agli inizi degli anni Settanta i veri responsabili della strage. Mettendo alla berlina le accuse di due magistrati romani, Vittorio Occorsio ed Ernesto Cudillo, decisamente «convinti» che quell'attentato fosse stato compiuto da Pietro Valpreda. Anarchico e per di più ballerino. Un colpevole perfetto. A questo punto, sulla base dell'inchiesta Salvini, bastava andare al processo e con la mole di prove raccolte con le confessioni ottenute non si poteva che arrivare alla condanna dei neonazisti, e finalmente scrivere anche nelle aule giudiziarie ciò che molti, tanti, sapevano già. Il 30 giugno 2001, infatti, la Corte d'assise di Milano, presieduta da Luigi Martino, condanna all'ergastolo Maggi, Rognoni e Zorzi e a tre anni di reclusione Stefano Tringali per favoreggiamento nei confronti di Zorzi. Ma c'è un ma. I giudici di primo grado li condannano nonostante i pubblici ministeri Grazia Pradella e Massimo Meroni. Detta in parole povere, i due hanno scarsa competenza in processi di tale spessore: dopo, non se ne sentirà più parlare, ritorneranno nel limbo da cui erano stati prelevati. Pradella e Meroni sembrano essere stati scelti per azzoppare l'inchiesta di Salvini. E ci riescono. Il 12 marzo 2004 la Corte d'appello di Milano assolve infatti Maggi, Rognoni e Zorzi. Con una nota curiosa: riduce da tre a un anno la pena di Tringali, ritenuto colpevole di favoreggiamento nei confronti di Zorzi. Particolare che solo qualche «raffinato» leguleio può spiegare, mentre logica vorrebbe che se non c'è reato non ci può essere favoreggiamento. In sostanza, i giudici di Milano affermano che il pentito Carlo Digilio (prescritto il reato per la sua attività di armiere del gruppo di Ordine nuovo di Venezia-Mestre, grazie al suo ruolo di pentito) è inattendibile perché si è più volte contraddetto, ha commesso errori. Certo, li ha commessi dopo aver subìto un ictus che lo ha un po' menomato (anche se relazioni mediche, non prese in considerazione, sostenevano la sua piena capacità mentale). L'altro pentito, Martino Siciliano, è invece attendibile, ma fornisce testimonianze di «seconda mano», quindi inutilizzabili ai fini processuali. Non è bastato che Zorzi (ricchissimo industriale della moda, divenuto cittadino giapponese, difeso in un primo tempo da Gaetano Pecorella, deputato di Forza Italia e difensore anche di Silvio Berlusconi) abbia a più riprese minacciato e allettato con pacchi di soldi Siciliano perché ritrattasse. E in effetti Siciliano è stato un pentito «ondeggiante», ma che alla fine, in aula, ha confermato tutte le accuse. Non è bastato. L'assoluzione dei tre ricalca la vecchia formula, oggi abolita formalmente, dell'insufficienza di prove. I giudici milanesi aggiungono poi una vera «perla» nelle motivazioni della loro sentenza di assoluzione. Ricostruendo la sequenza degli attentati del 1969 riconoscono che Giovanni Ventura e Franco Freda sono i responsabili di piazza Fontana e non solo degli attentati a Milano del 25 aprile e ai treni del 9 agosto: «L'assoluzione di Freda e Ventura è un errore frutto di una conoscenza dei fatti superata dagli elementi raccolti in questo processo». Insomma, a Milano si compie l'ultima beffa. I due colpevoli individuati da Stiz (si veda il capitolo XVI, Sulle tracce dei fascisti) sarebbero i responsabili della strage, ma non sono sufficientemente provati i loro rapporti con gli ordinovisti di Venezia-Mestre e Milano. Partita chiusa anche per Stefano Delle Ghiaie, l'allora capo di Avanguardia nazionale a Roma, cioè il gruppo che diede un appoggio logistico (e non solo) per gli attentati, sempre del 12 dicembre 1969, al monumento al Milite ignoto (quattro feriti) e alla Banca nazionale del lavoro di via Veneto (quattordici feriti). Delle Ghiaie, dopo una latitanza durata anni, rientrato in Italia è stato assolto in via definitiva nel 1991. E poi dal processo sono definitivamente usciti (da anni) i vertici dello Stato italiano, quei democristiani e socialdemocratici che hanno fattivamente operato in sintonia con i servizi segreti italiani e americani (e con la manovalanza degli estremisti di destra) per mantenere lo statu quo in Italia anche con le bombe e le stragi. [...] Nel 2000, per la precisione in settembre, il senatore a vita Paolo Emilio Taviani fa nuove importanti dichiarazioni dopo quelle rilasciate nel 1997 alla Commissione stragi. Nel maggio 1974, quando era ministro dell'interno, era stato proprio Taviani a sciogliere l'ufficio affari riservati di Federico Umberto D'Amato. Un passo significativo, perché D'Amato è stato uno dei personaggi di punta nell'opera di depistaggio sull'eversione di destra e sulla strage del 12 dicembre (ma non solo, era anche regista di manovre). Il senatore a vita racconta a membri del ROS dei carabinieri di aver appreso nel 1974 che la bomba collocata a Milano non avrebbe dovuto provocare vittime e che un agente del SID, l'avvocato romano Matteo Fusco di Ravello, il 12 dicembre 1969 stava per partire da Fiumicino per Milano con l'incarico di impedire gli attentati. Quando sta per imbarcarsi viene a sapere che la bomba è già scoppiata. Anna, figlia di Fusco, morto nel 1985, conferma che il padre aveva lavorato a lungo per il SIFAR e poi per il SID e in varie occasioni le aveva parlato del suo fallito tentativo di impedire la strage di piazza Fontana. Questo fatto è un altro tassello che prova come i più importanti apparati dello Stato fossero a conoscenza della preparazione degli attentati e avessero cercato solo all'ultimo momento di ridurne gli effetti. In questo senso Fusco, indicato dalla figlia come molto vicino a Rauti, è uno dei punti di contatto a più alto livello fra il mondo militare e dei servizi segreti e Ordine nuovo. Ma Taviani non si ferma qui. Dice che fra i soggetti istituzionali attivi nel depistare le responsabilità verso la sinistra, c'è un ufficiale di Padova: Manlio Del Gaudio. Chi è questo signore? Il tenente colonnello Del Gaudio, comandante, all'epoca, dei carabinieri di Padova, sarebbe il militare cui il generale del SID Gianadelio Maletti nel 1975 affida l'incarico di «chiudere la fonte Turco», cioè la fonte Gianni Casalini, esponente di Ordine nuovo e informatore del SID che intendeva «scaricarsi la coscienza» e rivelare quanto sapeva sulle responsabilità del gruppo negli attentati ai treni tra l'8 e il 9 agosto 1969. Ma la Corte d'assise di Milano non vuole ascoltare, nell'aprile 2001, Taviani (che muore il 17 giugno) e la Fusco di Ravello. Il motivo? Le prove sono emerse quando il dibattimento è ormai prossimo alla conclusione, e comunque non vengono reputate «assolutamente necessarie». Uno dei tanti episodi rivelatore della matrice statale di quella strage e dei tanti attentati che hanno costellato gli anni Sessanta e Settanta. E se ne potrebbero elencare molti altri. Tutti dello stesso segno. Adesso il clima è il più adatto per lasciar cadere nel dimenticatoio una questione così scomoda come piazza Fontana. Pietro Valpreda è morto il 7 luglio 2002. Tanti altri protagonisti sono morti, così come hanno lasciato la scena tante comparse. E la sentenza della Cassazione sancisce una situazione di fatto: per quella strage non ci devono essere colpevoli. Come comincia questa intricata storia che parte dagli anarchici per arrivare ai nazifascisti, ai servizi segreti italiani e americani e si conclude con «tutti assolti»? Ovvio, bisogna tornare a quel tristemente famoso 12 dicembre 1969. | << | < | > | >> |Pagina 135Guido Salvini, 52 anni, è stato giudice istruttore dal 1989 al 1997 di un'inchiesta sull'eversione di destra e su piazza Fontana. È in questa veste ha ricostruito l'attività di Ordine nuovo nel Veneto e di Avanguardia nazionale a Roma e nel Sud. Così ha messo in luce trame, alleanze, coperture politiche e militari che hanno portato alla strage del 12 dicembre 1969. Quella ormai definita «la madre di tutte le stragi». Salvini, oggi giudice per le indagini preliminari, si è occupato recentemente del caso Parmalat e di terrorismo internazionale. All'attività professionale affianca un impegno storico e culturale sui temi della giustizia, della «memoria». In questa veste tiene lezioni e dibattiti in scuole, università e associazioni culturali e giovanili. Dal 2003 è consulente della Commissione parlamentare d'inchiesta sull'occultamento dei fascicoli sulle stragi nazifasciste del 1943-1945. Con la sentenza della Cassazione del 3 maggio 2005 si chiude l'infinita storia giudiziaria legata alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Una storia complessa, contraddittoria, piena di reticenze, di «misteri». Eppure in primo grado, il 30 giugno 2001, erano stati condannati all'ergastolo tre neonazisti (Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni) e un altro (Stefano Tringali) a tre anni per favoreggiamento. Poi il 12 marzo 2004 la Corte d'appello assolve i tre e riduce a un anno la pena a Tringali. La Cassazione ha confermato quella sentenza. Per quali ragioni si passa da una condanna a un'assoluzione? A questo bilancio apparentemente solo negativo vorrei aggiungere subito la circostanza spesso dimenticata dagli organi di informazione che, comunque, alla fine di queste indagini, per la strage di piazza Fontana un colpevole c'è ed è Carlo Digilio. Lui per più di dieci anni, prima di fuggire a Santo Domingo, aveva svolto per il gruppo veneto di Ordine nuovo, non solo mestrini ma anche padovani, il ruolo di «tecnico» in materia di armi e di esplosivi. La Corte d'assise di appello e la Cassazione, pur assolvendo gli altri imputati per incompletezza delle prove raccolte, non hanno infatti toccato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto Digilio colpevole quale partecipe alla fase organizzativa degli attentati, dichiarando in suo favore, come vuole la legge, la prescrizione (che in quel caso scattava automaticamente) grazie alle attenuanti dovute per la sua collaborazione. Digilio era il «quadro coperto» di Ordine nuovo: si occupava della logistica, e non era certo un anarchico né un seguace di Giangiacomo Feltrinelli o un agente del KGB. E ciò significa, lo si legge nella stessa sentenza di appello, come la strage e tutti gli attentati collegati abbiano una paternità certa sul piano storico-politico: sono stati ideati e commessi dai gruppi neonazisti, cioè quelli già al centro della prima indagine dei giudici Giancarlo Stiz e Pietro Calogero. Sul piano tecnico in sostanza le dichiarazioni di Digilio, di Martino Siciliano (che aveva partecipato solo ad alcuni attentati «preparatori») e degli altri testimoni sono state ritenute sufficienti per quanto concerne le loro responsabilità ma, in sede di appello, non sufficienti, e incomplete, per affermare la responsabilità delle persone da loro indicate come complici. Tutto questo nella grande maggioranza dei commenti è sfuggito. Così si è dimenticato come le indagini milanesi negli anni Novanta abbiano definitivamente collocato la strage nella casella politica già intuita da coloro che, pochi mesi dopo il 12 dicembre 1969, avevano pubblicato il modello di ogni lavoro di «controinformazione»: il libro La strage di Stato. Ma oggi i principali imputati sono stati assolti tagliando, se non la paternità dell'operazione, buona parte di quel «film della strage» descritto nei verbali istruttori. Perché poi si passi da una condanna a un'assoluzione è evidentemente un problema di valutazione delle prove raccolte. Prove che è stato difficile portare in dibattimento anche perché a distanza di trent'anni molti ricordi sfumano, molti testimoni non sono quasi più in grado di testimoniare in un'aula anche per ragioni di salute e molti sono morti o comunque scomparsi. Io, nella mia veste professionale, rispetto ovviamente tutte le sentenze e non ho timore di dire che sia la sentenza di condanna sia la sentenza di assoluzione erano serie e motivate. Ma mi sento anche di dire che nelle sentenze di Appello e della Cassazione si è tornati un po' alla discutibile logica, presente anche nei primi processi per piazza Fontana e negli altri processi per strage, della «frammentazione» degli indizi. Tale logica porta invariabilmente all'assoluzione perché ciascun indizio valutato singolarmente come insufficiente non viene aggiunto e concatenato a quelli successivi ma quasi «buttato via», e la somma finale resta sempre zero. Se qualcuno esalta le stragi, possiede i timer, commette gli attentati preparatori e magari il 12 dicembre 1969 era a Milano e non a casa sua, è vero che ciascun indizio preso da solo non prova in sé la responsabilità per la strage di piazza Fontana, ma l'interpretazione complessiva e non frammentaria di questi stessi indizi può dare un risultato diverso. Soprattutto mi sembra sia stata un po' tralasciata nelle sentenze l'analisi del movente di un fatto simile, in quel particolare contesto storico-politico, a sua volta in grado di illuminare gli indizi e i personaggi. Una strage non è un reato a fini di lucro, ma ha un movente politico che va sempre cercato per capire se è in consonanza con i moventi ad agire degli imputati. E questa ricerca è quasi del tutto assente nelle motivazioni anche se lo scenario fornito dai documenti, tra cui quelli acquisiti da alcuni archivi, è assai ricco. E mi sento di dire che il movente, se preso in esame, sarebbe stato giudicato in sintonia con l'ideologia e la strategia dell'ambiente degli imputati.
Non dimentichiamo: Ordine nuovo ha compiuto molti attentati prima e dopo il
12 dicembre 1969, era l'unica organizzazione terroristica che non si poneva il
problema dell'eventuale verificarsi di vittime civili e, nei documenti cui si
ispirava, era teorizzata la necessità di contrastare subito e con ogni mezzo,
compreso il caos, l'avanzata del comunismo, favorita da un sistema parlamentare
borghese ritenuto imbelle e putrescente in cui si salvavano, forse, solo i
militari.
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