Copertina
Autore Peppe Lanzetta
Titolo InferNapoli
EdizioneGarzanti, Milano, 2011, Narratori moderni , pag. 262, cop.ril.sov., dim. 15x22x2,8 cm , Isbn 978-88-11-67043-8
LettoreGiovanna Bacci, 2011
Classe narrativa italiana , citta': Napoli
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Pagina 11

Vincent Profumo chiuse le tende e si stese sul divano.

Quel giorno non aveva voglia di sentire il mondo.

Spense i cellulari, si preparò una cedrata Tassoni con molto ghiaccio e ci mise dentro Aperol e menta.

Aveva gusti strani, come strano era il suo modo di mangiare, di guardarsi allo specchio, di lavarsi continuamente le mani e darsi in continuazione il Vetiver, quello di Guerlain: «Il migliore», diceva lui. Anche quando friggeva una cotoletta o si preparava le alici in tortiera, in cucina si sentiva quell'odore di Vetiver che si mischiava col fritto, coll'aglio, col sugo, con l'odore del rosmarino o dell'origano.

Pesava più di un quintale ma era abbastanza alto e panzuto.

Nella cucina che s'era fatta arrivare da poco e per la quale aveva speso una cifra esorbitante, fra bilance e limoni, trecce d'aglio e scorte di peperoncino della Calabria, c'era un poster di Frank Sinatra con una dedica. I maligni dicevano che se l'era fatta lui stesso.


Aveva un attico che s'apriva su una vista stupenda e caotica. Come caotica e stupenda era quella città, obesa come lui. Affamata, troia e godereccia come lui. Invadente e tollerante come lui.

Nonostante avesse speso un mare di soldi per arredarla, casa sua aveva un che di pacchiano, volgare, cafone.

Spendeva in quadri costosissimi per i quali si faceva consigliare da esperti di sua fiducia, comprava pezzi d'arte moderna e li accostava a cose insulse, inguardabili, oggetti a cui era affezionato e che magari gli ricordavano posti o persone, in una sarabanda di colori, generi, appartenenze.

Il suo vezzo erano i tessuti tigrati e leopardati. Dalle mutande alle vestaglie, passando per le tende.

Aveva pochi capelli e un riporto osceno, anche se ormai aveva deciso che per i suoi cinquant'anni si sarebbe fatto il trapianto. Ogni tanto a casa sua arrivava qualche ragazza intorno ai venti, venticinque anni a cui prometteva partecipazioni in film o fiction televisive vantando amicizie con i produttori. Ma non succedeva mai niente. Solo a una ragazza di Casoria che aveva un culo spettacolare riuscì a far fare un calendario per una ditta locale che si occupava di pneumatici vulcanizzati.

La ragazza, convinta di posare per il calendario Pirelli, quando lo vide rimase così male, ma così male che cominciò a sputtanarlo confessando che Vincent Profumo aveva il cazzo piccolo e che non veniva mai. Così si venne a sapere che Vincent amava farsi spompinare sdraiato su uno dei suoi sei divani tigrati, davanti ai quali c'erano degli specchi che lo deformavano, lo ingrandivano. Si stendeva come una vecchia matrona, si sfilava gli slip leopardati e la ragazza che lo leccava doveva avere una benda agli occhi. Con la panza che si ritrovava e l'affanno in agguato, non era mai stato un grande amatore.

Aveva cellulari dappertutto e li teneva accesi pure quando faceva il porco.

Sembrava la caricatura di un boss dei telefilm americani di quarta categoria. Invece era un vero boss. Uno potente.

E la ragazza del calendario questo fatto forse non lo sapeva.


Nel suo studio c'era di tutto e di più.

Amava ostentare cultura ma si capiva che lo faceva per darsi delle arie con quelli che gli stavano intorno, le sue guardie del corpo o i suoi guaglioni.

Nell'enorme libreria c'erano titoli disparatissimi, i più svariati autori, da Petrarca e Machiavelli fino ai fumetti di Dylan Dog, collezioni intere di Diabolik e fumetti d'annata ormai introvabili mischiati con Camilleri, Stephen King, Dan Brown, tutta la saga del Signore degli Anelli, García Márquez e Lara Cardella. Vari scritti su padre Pio a cui era devotissimo, biografie e storie sulle vite di santi italiani e stranieri. Nel reparto dischi campeggiava una collezione in vinile di Franco Califano, dai 45 giri agli elleppì con dedica. Insieme naturalmente a dischi d'altro genere, come The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, caroselli brasiliani, tanghi e raccolte dei vari Festival di Sanremo.

In un angolo a parte aveva la collezione definitiva di Frank Sinatra. Ma la voce che lui amava in assoluto era MARIA CALLAS.

Di lei veramente sapeva tutto. E naturalmente si era comprato tutto quello che era stato messo in commercio, tutto.

Quando era triste, si chiudeva nel suo studio ed era solo e tutto per la Divina Maria.

Il secondo atto della Manon Lescaut di Puccini, l'aria «In quelle trine morbide», lo mandava in estasi.

Quando usciva dallo studio era un'altra persona. Sembrava che volasse, diceva di sentirsi leggero.


Le sue due guardie del corpo si guardavano tra di loro e ammiccanti si dicevano: «Se ha sentuto 'a Callas!».

Lui li guardava storto come a dire: "Cosa potete capire voi, che siete due buzzurri?".

Accendeva allora una Camel e ogni volta ripeteva la stessa frase: «La macchina è pronta?».


C'era una sola persona con cui riusciva a parlare della Callas e in generale dell'opera lirica: era un signore di una sessantina d'anni che aveva fatto il claquista al teatro San Carlo. Anche se a suo dire all'inizio non gliene fregava niente dell'opera, dopo trent'anni di claque sapeva tutto. Naturalmente a modo suo, alla buona: ma per Vincent Profumo le conversazioni con don Mario erano l'occasione per allontanarsi dalla volgarità del suo ambiente.

Di Puccini don Mario amava particolarmente la Turandot e quando si avventuravano nella quintessenza della lirica sembravano due alieni, due bambini nel giorno della Befana, due ragazzini avvolti da una nuvola di zucchero filato.

Sarebbe pure potuta partire una pallottola, in quei momenti. Non ci avrebbe fatto caso nessuno. Né lui né don Mario, né quelli che prendevano l'aria fresca nei giardinetti del parco di Capodimonte, dove i due camminavano e sussurravano arie.

Chi non li conosceva li scambiava per due guardoni. Invece erano un boss e un vecchio claquista.


Vincent Profumo aveva tre figlie: MariaSole, MariaStella e MariaLuna.

Lui avrebbe tanto voluto un maschio. Ma il maschio non era arrivato.

Invece suo fratello Curzio, rivenditore di macchine, aveva avuto quattro figli maschi.

Vincent non aveva mai digerito questo fatto e aveva sempre cercato di non parlarne fino a quando anni prima, in una festa di famiglia, Curzio, scherzando ma non troppo, aveva cercato di far valere la sua virilità, che lo aveva portato a essere genitore di quattro maschi.

Vincent Profumo prima lo mortificò pubblicamente, poi lo chiamò in disparte e gli fece una lezione «scientifica» sull'inesattezza della sua affermazione, ovvero sull'errata equazione «virilità uguale figli maschi». Suo fratello si scusò, dicendo che stava scherzando.

Ma tanto bastò. Vincent non volle più vederlo e impedì alle figlie di frequentare i cugini.


Vincent abitava al paese con la moglie e le figlie. Aveva una casa enorme, tipo masseria. Un fortino che aveva reso inaccessibile a chiunque, dotato di sofisticati sistemi di videosorveglianza, con due mastini napoletani «perché non si può mai sapere». E poi con lui c'erano sempre le sue due guardie del corpo, che da sempre lui chiamava uno Body e l'altro Guard.

Ma per sé si era regalato l'attico nella città panoramica, dove a suo dire poteva rilassarsi e trovare ispirazione per le imprese che doveva affrontare, per le strategie che doveva escogitare, insomma un modo elegante per dire alla moglie: "Non ti permettere di entrare nelle mie storie, non fare domande, non ti impicciare, sta' al tuo posto nel paese e nel fortino, tanto non ti manca niente, perché io non ti faccio mancare niente, perché se avete tutto quello che avete è grazie a me che sono quello che sono, che faccio quello che faccio, che muovo, smuovo, conosco, sistemo, intrallazzo, controllo, ingrandisco, allargo il business, gonfio il traffico, faccio e disfo alleanze, perché diventare ciò che sono non credere sia stato facile... Tu piuttosto pensa all'educazione delle figlie, perché lo sai che ci tengo più della mia vita a loro e non voglia mai il cielo che qualcuna di loro incappi in qualcosa di brutto, di pericoloso, di dannoso! Sappi che con te me la prendo, perché tu sei la regina della casa, della villa, del fortino, chiamalo come vuoi, e come tutte le regine devi saper mantenere il ruolo. Io sono maschio e l'uomo si sa che è cacciatore".


Questo era uno dei pensieri di Vincent Profumo, boss amante del Vetiver, di Maria Callas e di tante altre cose.

Che si sentiva invincibile, inarrivabile, intramontabile.

Ma Lisa, la ragazza del calendario pezzottato, sputtanandolo aveva anche firmato la sua fine.

La fine di una ragazza col culo più bello del sole.

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Pagina 50

MariaLuna, la terzogenita di Vincent Profumo, faceva la terza media. Un giorno la sua professoressa di italiano mandò a chiamare i genitori.

La mamma si recò a scuola senza immaginare minimamente quello che l'insegnante dovesse dirle. E un altro pezzo di mondo le crollò addosso.

L'insegnante le mostrò in disparte il compito di italiano che aveva fatto sua figlia qualche giorno prima.

Felicita rabbrividì nel leggere ciò che c'era scritto sul foglio:


Odio mio padre. È un camorrista.

Odio tutti i camorristi come lui. Mio padre non mi fa mancare niente ma a me manca la cosa più importante, l'affetto di un padre vero, normale, sincero, uno che non dica bugie, che se ti fa una carezza tu non devi sospettare che quelle mani puzzino di sangue. Ho tredici anni e ho terrore di quello che mi aspetta. Non ce la faccio più a tenermelo dentro.

Lo devo urlare, lo voglio urlare a tutti quelli che ancora non lo sanno che mio padre è un camorrista.

In questo tema mi chiedono di parlare del mio futuro, del futuro della nostra terra in generale.

Ma dove comincia il futuro?

Chi dovrebbe disegnare il mio futuro?

Vorrei che le persone come mio padre scomparissero dalla faccia della terra. A che serve tanta arroganza tanta tracotanza tanta superbia tanto spreco di danaro se poi dentro stai male?

Perché anche se sono ancora una ragazzina, ho capito che mio padre dentro è lacerato.

Ma se lui è contento così, io che posso farci?

Posso solo dire che in questa famiglia io non trovo spazio.

Mi sento completamente a disagio.

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Pagina 70

Giovanni Esposito detto Johnny Tarallo amava pazzamente i taralli sugna e pepe della Premiata Ditta Amedeo di piazza Capodichino. Tarallo conosceva tutti i tarallifici di Napoli e provincia, ma a suo dire quelli della Premiata Ditta Amedeo erano insuperabili. Sentivi la sugna ma non tanto, sentivi il pepe al punto giusto, ma la cosa prelibata erano le mandorle.

Perché fare i taralli era un'arte sopraffina, secondo Johnny, e non tutti potevano vantarsi di saperli fare.

Siccome sapeva che i taralli erano altamente calorici, aveva imparato a curare il suo corpo sottoponendosi a chilometri di jogging o a pedalate possenti sulla sua bicicletta.

Ma ai taralli non avrebbe rinunciato per niente al mondo. Nemmeno quando il medico gli aveva detto che a furia di mangiare pepe e sugna avrebbe avuto seri problemi al fegato, ai reni, al cuore, allo stomaco.

«Io bevo l'acqua di Fiuggi, mi faccio i lavaggi ma ai taralli non rinuncio», questa era la sua perentoria risposta.

Vincent Profumo lo sopportava anche per questo. Perché come lui aveva delle strane manie, strane abitudini. E quindi non si permetteva di giudicare il boss. Uno si faceva col Vetiver e la Callas, col Maalox e l'Aulin, con le impepate di cozze. L'altro invece coi taralli.

In comune avevano il fatto che a entrambi piaceva la mozzarella.

Per il resto dal punto di vista culinario non c'era nient'altro che li unisse, perché Vincent detestava i taralli e Johnny odiava l'impepata di cozze.

Ma uno era il boss e l'altro il suo fidato consigliere.

«Senti, Johnny... Ma 'stu poeta d'o cazzo che va scrivendo? Se ne è uscito con un altro articolo sulla Campania felix, ha scritto che i camorristi di una volta erano migliori di quelli di oggi... Ma secondo te, io posso mai sopportare un affronto del genere? Ma se 'o facesse sparà?»

«Ma Vincent?!?... Allora tu sei pazzo veramente? Ma come, vuoi far sparare a un giornalistapoeta di questi tempi?»

«Scusa, ma se questo rompe 'o cazzo continuamente, una lezione se la merita.»

«E poi? Poi è finita la pacchia!!!»

«Ma tu ti rendi conto che questo ci sfida... Da quelle pagine 'e chillo giornale d'o cazzo?!?»

«L'hai detto, Vincent... Ma chi lo legge quel giornaletto da quattro soldi?»

«Lo leggono o non lo leggono, a me mi girano le palle che questo si deve prendere l'ardire di dire tutto quello che gli passa per la testa! Ti sei dimenticato quando ha scritto che noi siamo delle zoccole, dei topi grandi così?»

«Ma quella era una metafora! Vedi, il tuo problema è che tu sei quello che sei, ma certe volte sei come un bambino... Ti fissi, ti impunti, te la prendi come se un altro ti avesse rubato il giocattolo. Uno a te non ti può contraddire, per andare d'accordo con te uno ti dovrebbe sempre dire ciò che vuoi tu...»

«Ti sbagli, perché quella rara volta che dici qualcosa di sensato io ti sto a sentire...»

«Ah, quella rara volta! Buono a sapersi! Ma lo sai quante volte ti ho tirato fuori dai casini?»

«Uh, Gesù! Ma io ti pago per questo! E anche profumatamente... A proposito, sta per finire il Vetiver!»

«Come, sta per finire? Io due settimane fa te ne ho comprate sei – e dico sei – bottiglie!»

«Ho detto che sta per finire, non che è finito... E poi io non devo dar conto a nessuno, ma guardate un po'... Ma che, fai il controllore adesso?»

«Si fa per parlare... Tanto i soldi sono tuoi!»

«Bravo, Tarallo, così mi piaci... Tieni, qua ci stanno mille euro: prendimene una dozzina, ce la dovresti fare... Tutte Guerlain, naturalmente: mi raccomando... Quando me le porti, ti faccio trovare un po' di mozzarella speciale e un paio di chili di taralli che tu non li hai mai mangiati prima.»

«Non può essere... La mozzarella può darsi, ma sui taralli te ne devi andare! Sarai pure il boss, ma di taralli non hai mai capito niente.»

«Eh, certamente... me fanno schifo! Solo a te possono piacere! Statte buono, Tarà, non ti prendere collera, che la collera fa male alla salute!»

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Pagina 73

Vincent Profumo era ricchissimo.

Possedeva:

un pastificio nella zona di Castellammare di Stabia;

due aziende che fornivano computer a enti, uffici, ospedali;

18 appartamenti nel napoletano;

6 distributori di benzina nella provincia di Napoli;

un cementificio attraverso il quale gestiva calcestruzzo e movimento terra nel nolano;

due sale bingo;

vari vigneti nel salernitano;

un'azienda vinicola che aveva ottenuto il marchio DOC;

un ristorante sulla Costiera amalfitana;

una decina di macchine, dai fuoristrada alle utilitarie;

uno yacht;

la villamasseriafortino al paese;

l'attico panoramico a via Caracciolo, Napoli;

migliaia e migliaia di ettari di terreno nella provincia di Caserta e in quella di Benevento;

un castello con sale adibite a sale conferenze, convegni, buffet e ricevimenti vari nell'Alta Irpinia;

una villa hollywoodiana a Paestum.


Aveva tutto quello che un uomo potesse desiderare.

Ma era depresso.

E questo fatto lo mandava in bestia.

Aveva consultato decine di specialisti, ma alla fine era giunto alla conclusione che nella vita non si poteva avere tutto.

E per questo fatto odiava i medici e certe volte la vita.

Aveva anche:

una quindicina di carte di credito;

bancomat di tutti i tipi;

libretti di assegni di decine di banche italiane e straniere;

contanti sparsi ovunque;

varie società offshore, da Singapore alle Maldive, da Zurigo a Vaduz.


Ma girava con appresso bustine di Aulin, Oki, compresse di Maalox, ansiolitici vari e antidepressivi di tutti i tipi.

La villa a Paestum era fantascienza. Tre piscine con acqua di mare, Jacuzzi in ogni stanza, due guardiani, tre governanti, sei filippini. Marmi di Carrara, arazzi pregiati, quadri d'autore, uno chef personale, due marinai.

E poi più di trenta cellulari, metà dei quali sempre accesi, PlayStation di tutti i tipi, decine di lettori MP3, una decina di personal computer delle migliori marche che gli erano stati regalati, almeno diciotto computer portatili che spesso dimenticava manco fossero stati ombrelli o chiavi.

Tra l'attico, la villa al paese e quella di Paestum almeno una ventina di megatelevisori al plasma tutti rigorosamente con Dolby surround; una ventina di impianti stereo.

Aveva i numeri di cellulare delle persone più importanti e influenti della Regione Campania ma anche del Lazio, della Sicilia, della Puglia e dell'Abruzzo.

Ma aveva il cazzo piccolo e questo fatto lo mandava in bestia.

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Pagina 90

La maximaxirissa che scoppia nella Ferrovia parla lingue che nessun interprete sarà in grado di tradurre. Puttane brasiliane che litigano con trans slovacchi, trans arabi che prendono a cazzotti puttane nigeriane, le creole litigano con le moldave, le somale con le guardie municipali chiamate a sedare la rissa delle risse, scoppiata perché quella sera Yang Ho Ming aveva dato ordine a centoventi cinesine belle come il sole di invadere tutta la zona che da piazza Carlo III passando per corso Garibaldi si fermava nella Ferrovia Square e poi proseguiva per il secondo tratto di corso Garibaldi perdendosi nei meandri dei vicoli neri della «Pietra del Pesce», dove Porta Nolana diventava più di una casbah, più di un suq, più di un tunnel senza uscita, oltre la Medina, come una favela insanguinata di babele e carne, soldi e mutande, perizoma e preservativi, sedili ribaltabili e alberghi a una stella che puzzavano di segatura, di piscio, di vomito, sperma rinsecchito e piedi cinesi non lavati da settimane.

Rideva Yang Ho Ming quando diede l'ordine, e lo diede in napoletano. Certo, un napoletano particolare, che aveva toccato la Grande Muraglia, e sconfessava il fatto che Yang Ho Ming non sapesse parlare italiano, figuriamoci il napoletano.

Al cimitero di Miano, quando aveva incontrato Vincent Profumo, lo aveva preso in giro due volte: prima perché si era servito di un traduttore quando invece capiva benissimo ciò che diceva Vincent; e poi perché, quando gli aveva stretto la mano in segno di pax, in realtà se ne fregava dell'accordo. Giusto due giorni di apparente calma e poi l'invasione delle puttane e trans cinesi, prima una trentina, poi una cinquantina fino ad arrivare alle centoventi della notte della maximaxirissa. Con la polizia che non sapeva da dove cominciare e se finire, persa tra urla isteriche di mulatte di ogni dove che strattonavano, quando andava bene, tutto ciò che c'era da strattonare, tra cellulari che squillavano, gente che si fermava a guardare, tram che passavano, taxi che sostavano, clienti che tornavano ai loro alberghi, pusher, cravattari, perditempo, ubriaconi, tossici persi, finti parcheggiatori di macchine che nessuno si fidava di lasciare custodite, occhi su occhi, corpi su corpi, mentre Vincent Profumo ignorava tutto quello che stava succedendo, che era successo o che sarebbe successo. Aveva dato disposizioni a Parsifal di vigilare, aveva pure Rigoletto che comunque non mollava e conosceva bene la piazza, ma mai e poi mai Vincent Profumo si sarebbe aspettato quell'affronto da parte del musogiallo a trentadue denti gialli, che prendendolo per culo a più non posso era venuto «a casa di Vincent» a fare il bello e il cattivo tempo, tempestando di pucchiacche e culi cinesi la piazza più perversa del Sud del mondo, oltre Rio, oltre Buenos Aires, Quito, Asunción, Montevideo, Lima, Dakar, Giakarta, Calcutta, Pretoria...

Mentre le scommesse sulle partite dei mondiali avevano già messo gli uni contro gli altri, i brasiliani contro i ghanesi, gli argentini contro gli slovacchi, gli italiani contro tutti, i greci contro il Sudafrica, e mentre la voce di Mandela sembrava diffondersi da megafoni della mente su quella piazza africanapoletana fioccavano soldi, scommesse, partite giocate live, risultati solo del primo tempo, del primo quarto d'ora, passaggi di turno, novanta minuti regolamentari più recupero, scommesse sulla semifinale, sulla finale, su chi avrebbe battuto il calcio d'inizio, sui risultati certi, sul quattro a zero della Germania che «era andato in sogno» a un pasticciere di Poggioreale e cinquecento euro erano diventati sessantatremila. E il pasticciere si fece venire un infarto.

E tutt'intorno faceva caldo, troppo caldo, sembrava il fuoco di una guerra, l'inferno diventato purgatorio dopo aver sognato di essere paradiso.

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Pagina 92

Il molo Immacolatella del porto di Napoli all'alba fu avvolto da fiamme e un odore acre e intensissimo, fumo che si allungava fino a tutta piazza del Municipio.

Erano stati incendiati o si erano incendiati sei container cinesi provenienti da Shanghai.

La guardia di finanza era impegnatissima così come i numerosi vigili del fuoco accorsi sul posto.

Le facce dei cinesi che si vedevano in giro erano facce acide, incazzate di brutto, esclamavano frasi taglienti che naturalmente nessuno capiva anche se il senso era chiaro a tutti.

Quella mattina presto AndreaChénier e Lohengrin fecero una telefonata a Vincent Profumo: «Vincent, puoi stare sereno. Da quelle parti fa caldo, molto caldo, ma molto molto caldo».

Vincent rispose con un mezzo sorriso: «Lo so che siete quello che siete. Siete formidabili. Ci vediamo per una impepata nei prossimi giorni».


Il boss quella mattina, insieme a un caffè doppio, invece della Camel solita prese un sigaro, uno di quei sigari che accendeva nelle grandi occasioni, un cubano doc. E siccome c'era da festeggiare, ci voleva pure Frank Sinatra e allora fu Strangers in the Night per la delizia di Vincent, che sapeva di aver giocato un bruttissimo tiro a Maozzetung.

Con la vestaglia tigrata e sotto uno slip leopardato, Vincent con il binocolo guardava il golfo, guardava le navi, gli aliscafi, i traghetti, le navi da crociera ancorate e più lontano le navi che trasportavano i container cinesi.

E rideva, Vincent. Rideva di gusto.

Da lì a poco sarebbe arrivata nel suo appartamento panoramico un'altra puttanella per farlo godere. Mise una bottiglia di Veuve Cliquot in frigo e accese uno dei suoi megatelevisori. La vita sembrava sorridergli, da lì a poco tempo avrebbe fatto cinquant'anni e doveva pure, come si era promesso, risolvere il problema della calvizie che lo faceva soffrire.

Fece quindi una telefonata a don Mario, scusandosi che quel giorno avrebbe saltato l'appuntamento del pomeriggio.

Don Mario non perse l'occasione e gli disse che avrebbe voluto parlargli della Forza del destino di Verdi.

Vincent, per dimostrare che su Verdi era ferrato, subito rispose: «Melodramma in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma Don Alvaro o la fuerza del sino di Angel Perez de Saavedra, rappresentato per la prima volta al teatro Imperiale di Pietroburgo».

Don Mario rimase senza parole, non si aspettava quella precisazione. E allora Vincent lo incalzò di brutto: «Tutto bene, don Mario? Ci siete sempre al telefono?».

«Mi avete lasciato senza parole... Però non mi avete detto la data della prima rappresentazione!»

«E mo volete troppo, caro don Mario. Doveva essere il 1861?»

«E qua vi volevo: la data fu il 10 novembre 1862, caro Vincent. 1862!»

«Lo sapete che io con le date non ci vado d'accordo, me lo dice pure mia moglie... Infatti si lamenta sempre che dimentico il nostro anniversario di matrimonio!»

«Vi saluto, Vincent. Quando ci vediamo, ci diciamo il resto!!!»

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Pagina 199

Una segheria dismessa lungo via Campana, verso Quarto Flegreo. Zona di case su case, masserie, tanti rivenditori di auto usate, d'inverno gelo e umidità, tanti camion che passavano.

Là dove c'era una vecchia falegnameria, all'interno di un viale di campagna oltre la via principale, s'erano radunati attorno a Ciaccarone da Barra tutti i boss che erano presenti al matrimonio tra Sallustio 'o Tarantino e Costanza.

Mancava solo Vincent Profumo. Una macchina era andata a prenderlo. L'atmosfera era un misto di rabbia ed eccitazione, silenzio tutt'intorno e sguardi protesi verso l'interno della segheria, dove presumibilmente doveva accadere o era accaduto qualcosa.


Quando arrivò la Bentley nera con interni Cartier con a bordo Vincent Profumo, gli astanti tirarono un sospiro di sollievo. Si salutarono tutti col doppio bacio e Ciaccarone alla fine abbracciò forte forte Vincent. Lo precedette guidandolo all'interno della vecchia segheria, seguito da tutti gli altri boss mentre le guardie del corpo di ciascuno aspettavano all'ingresso del vialetto, quindi abbastanza lontano.


«Tu dicesti che non lo avremmo mai preso vivo. Eccolo, Vincent, ecco chillo schifoso d'o Cinese! Ojccanno!!!»

Vincent Profumo non riusciva a credere ai suoi occhi.

Su una enorme tavola di metallo, che quando la segheria era in funzione doveva servire come base sui cui poggiavano le macchine utensili, c'era Yang Ho Ming.

Legato mani e piedi con dei pezzi di ferro, un fazzoletto in bocca, una maglietta bianca e per il resto nudo.

Ciaccarone lo guardò negli occhi e gli disse: «Vincent, è tuo. Fanne quello che vuoi, poi se avanza un pezzo me lo mangio io!».

Il Cinese sbraitava, si dimenava, cercava di urlare ma le parole per via del fazzoletto conficcatogli in bocca non venivano fuori, si sentivano solo dei mugugni di paura e rabbia.

Attorno alla base di metallo c'erano delle borse da medico, almeno cinque, contenenti attrezzi chirurgici e un set completo di camici, mascherine, guanti, tutto materiale medico sterile. Poi c'erano delle garze, delle bende, dei cerotti, degli aghi, siringhe, lacci emostatici, alcol, acqua ossigenata, disinfettante, mercurocromo, specchi, dei lenzuoli bianchi immacolati, insomma tutto quello che poteva servire per una operazione chirurgica.

Ciaccarone era riuscito a prendere vivo il Cinese grazie al prezioso aiuto di alcuni boss che erano presenti lì e ora la sua folle idea, condivisa peraltro dagli astanti, era quella di vivisezionarlo, una sorta di autopsia da vivo con un finale a sorpresa degno di un film horror: Ciaccarone avrebbe dovuto prendere a morsi il cuore del Cinese per vendicare sua nipote Costanza e suo marito Sallustio e infine punirlo per l'orribile violenza ai danni della piccola MariaLuna Profumo, poco più di una bambina.

Per i troppi farmaci che stava prendendo a seguito dello stupro di sua figlia, Vincent Profumo si manteneva in piedi a stento: era offuscato dalle benzodiazepine e dagli antidepressivi di cui aveva dovuto aumentare la dose. Sembrava inebetito, guardava quel cinese e avrebbe voluto sbranarlo. Ma non ne aveva le forze.

Ciaccarone lo fermò, fermò il suo impeto e gli indicò le borse da medico contenenti i «ferri del mestiere»: i bisturi.

Il Cinese avrebbe dovuto sentire tutto il dolore del mondo, avrebbe dovuto vedere e sentire il sangue uscirgli dalle arterie, dalle vene, avrebbe dovuto sentire il bisturi recidergli gli organi vitali, avrebbe dovuto assomigliare a una vacca squartata e ognuno dei presenti, volendo, avrebbe potuto prendere un organo di quel pezzo di merda che aveva osato portare una guerra alla quale ora non c'era altra fine se non quella di asportare cruentemente tutto il marcio che quel cinese del cazzo si portava dentro.

Togliergli fegato, pancreas, stomaco, cistifellea, intestino, duodeno, milza, polmoni, vederlo schiattare senza che lui potesse fare niente, così come aveva fatto lui mentre i suoi scagnozzi violentavano la piccola MariaLuna.

Il cuore del Cinese però era di Ciaccarone da Barra.

Lo doveva prendere a morsi, sputarlo, vomitarlo, rimangiarlo, risputarlo e rimangiarlo.

Non c'era odio più feroce di quello che Ciaccarone provava per Yang Ho Ming. Ma la prima mossa, come promesso, toccava a Vincent Profumo. Che però non se la sentì di incidere e allora per lui tagliò lo Smemorato, uno dei boss artefici della cattura del Cinese. Allo Smemorato ridevano gli occhi, non vedeva l'ora di cominciare l'operazione.

Indossò camice bianco, mascherina, guanti, occhiali e partì. Il sangue cominciò a schizzare tutt'intorno e un assistente dello Smemorato, in quel caso Turillo 'o Fetuso, inzuppava le garze nel sangue e ne conteneva la fuoriuscita. Sembravano dei chirurghi provetti, in realtà si erano ampiamente documentati presso un loro cumpariello primario all'ospedale del Buon Gesù e si erano fatti dare tutte le indicazioni del caso.

Su un quaderno c'erano degli appunti. Lo avrebbero consultato in caso di bisogno. E male che fosse andata c'era sempre il primario compiacente che si sarebbe messo a completa disposizione.

Ma non ce ne fu bisogno.

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