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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE Due figure della confonnità: la vanità dell'identità e il carattere timorato della rappresentazione 7 CRITICA DELL'IDENTITÀ I. L'inflazione identitaria - povertà epistemologica ed efficacia ideologica 15 II. Segni assoluti grondanti verità 20 III. A proposito dell'onnipotenza 25 IV. Un pensiero dell'essere e non un pensiero dell'altro 27 V. La logica dell'avere: tutto questo mi appartiene 32 VI. Il riflusso verso l'origine 36 VII. La logica della sottrazione: restare in sé 40 VIII. Segnali di sconforto 46 IX. Il principio d'identità o la logica di non-contraddizione 50 X. I fantasmi della metafisica 53 XI. L'odio del tempo e della storia 57 XII. L'antinomia dell'identità e della temporalità - Pessoa, Proust, Diderot, Montaigne 61 XIII. L'illusione dell'autonomia dell'autore e della costanza del lettore 68 XIV. L'identità e la verità. L'antropologia e il linguaggio 70 CRITICA DELLA RAPPRESENTAZIONE XV. Una concezione sostanzialista del reale 75 XVI. La finzione dell'unità e dell'identità del segno e del senso 78 XVII. Una concezione strumentale del linguaggio 81 XVIII. Rappresentazione, descrizione e teoria della conoscenza 84 XIX. Una scrittura non differita 89 XX. Una scrittura della non-differenza (o indifferenza) 91 XXI. Rappresentazione scientifica e rappresentazione teatrale - «comunicare» e interpretare 93 XXII. Critica dell'estetica della rappresentazione - l'arte astratta e la scrittura di Samuel Beckett 96 XXIII. Critica della semiologia della rappresentazione - Austin e gli «enunciati performativi» 100 XXIV. Riproduzione e trasmutazione 103 XXV. Il castello del realismo balzachiano e del neorealismo etnologico 105 XXVI. Il contributo dei nuovi linguaggi della rappresentazione al mite sterminio del senso 109 CONCLUSIONE Al «fondamento» della «rappresentazione»: l' «identità». Compito dell'antropologia: mettere in crisi queste due nozioni 115 Bibliografia 125 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Un'epoca agitata è un'epoca che dubita della coerenza del mondo e della pertinenza dei linguaggi incaricati d'esprimere tale coerenza. È un'epoca in cui più che in precedenza c'è dell'incomprensibile, dell'incerto, dell'ininterpretabile, dei significati fluttuanti sparsi un po' dappertutto, mentre peraltro si ricreano per reazione le certezze identitarie e i linguaggi della «rappresentazione», che non sono affatto quelli del dubbio. Messi di fronte a una crisi della conoscenza e segnatamente a una crisi delle rappresentazioni della crisi (a cominciare, come vedremo, dalla nozione stessa di rappresentazione), dobbiamo urgentemente affrontare in un altro modo le questioni che ci vengono poste: pensare, parlare, scrivere altrimenti. È questa inadeguatezza delle situazioni e della loro concettualizzazione, o raffigurazione, questa insufficienza del linguaggio a designare l'assenza o la trasformazione, che ci spingono alla ricerca, che è essa stessa - non facciamo gli ipocriti - fonte di piacere. La nostra epoca, di cui parliamo tanto male, costituisce una sfida estremamente stimolante per l'immaginario. Ci incita a pensare l'evanescente, l'aleatorio, il precario, il turbolento, senza alcuna certezza di trovare un legame necessario di causalità o un ordine nascosto, che sono le due modalità della razionalità esplicativa. In effetti, oggi è perlomeno difficile riferirsi ancora una volta a un paradigrna dell'ordine. L'indeterminazione di ciò che è singolare, l'indecisionalità del senso, la non-riconciliabilità dei punti di vista differenti sono gli elementi che costituiscono la straordinaria ricchezza di questo scorcio di secolo. La nostra attenzione dovrebbe essere messa in moto dalla natura idiota della realtà. Idiota in senso etimologico, cioè singolare, aleatoria, senza possibilità di duplicazione nel mondo della struttura o nel cielo delle Idee. E questa impresa bisogna ricominciarla senza posa, poiché si scontra continuamente con la stupidità. «La stupidità è qualcosa d'impassibile; nulla può attaccarla senza infrangersi. È dura e resistente, della stessa natura del granito», ci dice Flaubert, che altrove scrive: «La stupidità consiste nel voler concludere». Quello che qui è in questione non è solamente una concezione accademica di ciò che si fa passare per la ragione, che conduce alla non-distinzione e all'indifferenza, e per reazione a quel differenzialismo che, da parte sua, pretende di sopprimere recisamente gli intervalli, gli interstizi, i tra-i-due; in questione sono anche tutte le forme «sedentarie» della ricerca e, più in generale, dell'esistenza. Omero racconta che gli dèi ridevano, ma Platone esclude il riso dalla città e a maggior ragione dalla teoria. Per molti aspetti noi continuiamo a essere eredi di Platone, ovvero adepti dei generi separati e gerarchizzati. Certo, qua e là affermiamo che una società senza riso, senza sogno, senza finzione, senza immaginario sarebbe una società carceraria, ma lo diciamo con una tale serietà! Celebriamo il romanzo in quanto spazio di gratuità, ma in una maniera così poco romanzesca e talmente mercantile! O ancora, vi sono molti discorsi sul gioco, che sarebbe proprio dell'uomo, sull'infanzia ritrovata. Ma perché la maggior parte delle volte questi discorsi sono così poco ludici? Perché non prendono in considerazione il gioco in tutti i suoi stati? Perché non concedono più gioco alla forma? Non è possibile farlo, oggi, a meno d'immaginare un discorso sul metodo che sia allo stesso tempo rigoroso e allegro. Rigettando il riso all'esterno della conoscenza ci siamo sistemati nella stupidità, cioè in un sapere che ha inghiottito la distanza creata dal dubbio, in un sapere di credenza. La forma di pensiero che sarà incoraggiata vivamente in quest'opera, alla quale Alexis Nouss e io diamo il nome di métissage, non è propriamente seria. Ma essa non conduce nemmeno all'ironia, che ride dell'altro, lo giudica, lo esclude come se fosse omogeneo ma non avesse nulla a che vedere con sé; essa conduce piuttosto all'umorismo, una forma di comico che ci permette di evitare l'adesione e l'aderenza con noi stessi, di prenderci in giro, di desingolarizzarci per universalizzarci. Mi è giunto all'orecchio che molti di quelli che rivendicano il pensiero scientifico sono cambiati, che non si danno più arie ricorrendo a toni cardinalizi da esperti riuniti in conclave, che non sono più «ingessati», murati in cittadelle di carta. È vero, si trova sempre meno pensiero in cemento armato e libri fortificati. Parecchie opere che fanno appello alla ragione pubblicate nel corso degli ultimi due decenni hanno un aspetto assai migliore di molte che le hanno precedute. Ripetono un po' meno di quanto facesse Homais. Non copiano più ogni cosa alla maniera di Bouvard e Pécuchet. Cominciano a emergere sempre più numerosi isolotti di libertà e di razionalità critica in un oceano dogmatico. Ma è ancora ben poca cosa. Le scienze dell'uomo e della società, per esempio, sono ancora lontane dall'aver rinunciato all'idea che non c'è più alcun centro, alcuna verità, alcun assoluto. Non sono ancora realmente entrate nell'era della relatività. Esse sono rimaste ben al di qua di ciò che hanno realizzato Kafka, Proust, Joyce, Faulkner per il romanzo, Planck, Einstein, Heisenberg per la fisica dei quanti. Il mio consiglio è di abbandonare i grandi viali e cercare di aprirsi un altro cammino piantando definitivamente in asso Homais, Bouvard e Pécuchet. Per quale ragione nella ricerca propria alle scienze umane non ci dovrebbe essere posto per la sperimentazione, come avviene invece dappertutto, nella fisica, nella biologia, ma anche nella letteratura, nell'architettura, nella pittura, nella musica, nel teatro, nel cinema? Basta con i testi definitivi, lisci, educati in tutti i sensi del termine, positivi e coerenti, che tracciano un solco unico, senza dubbio con la prospettiva di riscuotere tutto quello che è stato scommesso lavorando nella monocoltura, in un solo campo. Oggi la conoscenza può essere solamente frammentaria e incompiuta. Possiamo cogliere solo delle briciole, dei frammenti, delle schegge. Non è più l'epoca dei colletti di celluloide o dei mastodonti. Quest'epoca esige invece duttilità e modestia. L'unica posizione in grado di affennare una scrittura minimale mi sembra essere l'accettazione, né sconvolta né beata, di questa esplosione e di questa separazione, nell'invenzione di una molteplicità metodologica. La percezione della separazione, questa esperienza della non-coincidenza che si manifesta in particolare attraverso gli spazi bianchi, i buchi e i silenzi, è più forte in quei ricercatori e scrittori che si rendono conto, al pari di K., l'agrimensore del romanzo di Katka, che non potremo mai penetrare nel castello, ossia che siamo condannati a restare al villaggio. Questo può provocare panico, ma anche esultanza, come la lettura stessa dei testi di Kafka, il più chapliniano di tutti gli scrittori. Un sentimento di estraneità e soprattutto di inquietudine, titolo dell'opera di Femando Pessoa. Sono gli accidenti nella vita della società che conducono agli accidenti nel testo, a un testo accidentato come questo, fatto di quel che Montaigne chiamava «salti» e «capriole». Come potrebbe essere diverso senza essere adirato con il reale? Le fratture della cultura richiamano discorsi spezzati, discorsi suscettibili di dire e di far comprendere lo sbandamento dei suoni e dei sensi. Tentare di descrivere la realtà di ciò che viviamo oggi esige dei legami inediti tra le parole, ma anche un lavoro di «slegamento» rispetto alle convenzioni della lingua. Non è affatto una questione subalterna, bensì un punto decisivo. Il mondo non parla, e non ha previsto nulla per essere parlato. D'altra parte, non possiamo uscire fuori del linguaggio, che non è un «qualche cosa» che «s'aggiunge» al pensiero. Ora, ci sono tante parole consumate, tante parole che rimuginiamo, tante parole che escono automaticamente dalla bocca o dalla penna senza che si presti loro attenzione, sempre pronte a riprendere servizio, parole che, a forza di trascinarsi, malate, diventano un vero handicap per il pensiero, una minaccia di letargia. È opportuno rinnovare le parole, essere vigili anche quando mostrano la tendenza ad ammassarsi sempre nello stesso modo. È impossibile per un ricercatore, cioè per uno scrittore, sottrarsi alla scrittura. È però un compito sia individuale sia collettivo di una difficoltà estrema, che deve essere ripreso senza posa. Tra le parole che si diffondono, si sistemano, s'incrostano e contribuiscono allo sgretolamento, anzi alla scomparsa dell'esercizio critico del pensiero, ve ne sono due che saranno particolarmente bistrattate in quest'opera. Si tratta delle nozioni parimenti angoscianti d' identità e di rappresentazione, che fanno parte di tutto questo deposito di riflessi condizionati che oggi è d'ostacolo alla riflessione. In apparenza tutto sembra opporre la nozione d'identità alla nozione di rappresentazione. La prima è caratterizzata dalla vanità, dall'arroganza, dal fatto che si espande al di là di ciò che può essere ragionevolmente detto, mentre la seconda, pigra, si tiene al di qua delle capacità del linguaggio. La rappresentazione teme il linguaggio. Se l'identità, come mostreremo, è una captatio fraudolenta di significazioni che dice sempre troppo, che afferma con tutto il suo peso la Totalità e l'Assoluto, la rappresentazione tende invece a farsi piccola piccola. Modesta e quasi timorosa, non dice mai abbastanza. In confronto all'inflazione del sapere identitario che può ricorrere a una specie d'imbottitura semantica, la rappresentazione non dice assolutamente nulla. La rappresentazione recita, ripete. Ma è, come vedremo, ciò che fa anche l'identità. C'è un secondo modo di analizzare ciò che, ancora in apparenza, separa la rappresentazione dall'identità. Per la prima, le cose hanno il loro equivalente nel linguaggio e le parole sono la replica dei fatti: una parola per ogni cosa e una cosa per ogni parola. L'identità al contrario si considera priva di qualsiasi equivalente. Si pone come se fosse insostituibile. L'ideale della rappresentazione, che sembra procedere con una logica del tutto scientifica, è di poter mettere il segno uguale tra le parole e ciò che designano. L'identità al contrario evolve in un'atmosfera di Pentecoste permanente. Poiché si ritiene ineffabile, trascina con sé quasi ineluttabilmente del pathos, mette in moto volentieri il linguaggio del lirismo, si sarebbe quasi tentati di dire della mistica. Quello che sembra dunque caratteristico dell'identità, nella sua tendenza a stirarsi, è una specie di euforia prekantiana, mentre la rappresentazione avrebbe fatto propria la lezione di un sapere limitato. Limitandosi all'enunciazione dei fatti, la rappresentazione sarebbe denotativa, mentre da parte sua l'identità sarebbe crudamente «performativa» nel senso di Austin, cioè farebbe accadere ciò che non esiste ancora. Mostreremo in questo libro che facendo ricorso all'una come all' altra di queste due nozioni - ma quando consideriamo l'una, ecco che l'altra si profila - non facciamo altro che ripetere e riprodurre. La rappresentazione e l'identità si sviluppano in conformità ai pregiudizi, ai preconcetti. Non soltanto esse non rendono conto del movimento, ma si oppongono a esso, al tempo e alla turbolenza, mantenendosi sempre al di qua di un pensiero critico. Il linguaggio, ma anche la storia, non vanno d'accordo né con l'una né con l'altra. Poiché l'identità e la rappresentazione diffidano entrambe delle tensioni tra il sé e l'altro, così come delle avventure del linguaggio, è senz'altro il caso di pensare che esse siano incompatibili sia con il progetto dell'antropologia sia con quello della traduzione da una lingua a un'altra, per i quali c'è dell'altro in me e parte di me nell'altro. Dal momento che indubbiamente la rappresentazione non scomparirà senza l'identità, ci confronteremo con tutte e due, cominciando tuttavia, per scrupolo di chiarezza, dall'identità. È certo utile precisare anche che queste due parole non giungono mai sole. Sono in genere accompagnate da tutta una banda di colleghe, parole ed espressioni da cui si attinge, ma sempre più nell'indifferenza generale, quando non si ha granché da dire. Queste sono riconoscibili soprattutto per il loro aspetto incolore - oppure tendente al grigio - e per il loro carattere di status quo. Sono inoltre in perfetto accordo con la concezione mercantile e meccanicista vigente dell'uomo e della società: non ci trovano nulla da ridire. Saranno però solo due di queste parole che adesso occuperanno la nostra attenzione. Osserviamole con attenzione, prima di dimenticarle con determinazione. | << | < | > | >> |Pagina 22L'identità è tesa come un tamburo su cui si possono far risuonare tranquille certezze. Una delle sue caratteristiche è la sua pronunciata tendenza all'affermazione. Ci sono fatti veritieri, schietti, incontestabili, chiari, che non possono essere confusi con altri e che sono peculiari di certe entità preliminarmente definite. La frase tipo della designazione identitaria è: «è così». Simon, domestico nero di Sartoris, nella saga di Faulkner esclama: «Son così i Bianchi. I negri non sarebbero certo abbastanza furbi per farcela in tutto quel casino». E il centauro di Moacyr Scliar dice a se stesso, rassegnato: «Centauro, ero irrimediabilmente centauro».Parlare d'identità significa affermare che ci sono delle verità da prendere o lasciare, delle immagini che traboccano di senso, dei suoni che possiamo far risuonare molto forte, ma che non c'è mai e poi mai quell'oscillazione strana tra le immagini e i suoni caratteristica, secondo Jean-Luc Godard, del cinema. L'identità è pensiero in cemento armato. Essa pietrifica, assomiglia all'«in sé» sartriano che non vuol sapere nulla dell'insufficienza e della mancanza di definizione. Essa è l'adeguamento perfetto, la giustezza alla quale Godard, ancora lui, reagisce proponendoci questa formula che sarebbe a suo avviso caratteristica del cinema: «Non un'immagine giusta, giusto un'immagine». L'uomo identitario s'impedisce la debolezza, gode ad affermarsi e soprattutto a mostrarsi grande e forte, su di giri. Si monta la testa. Non s'accorge che facendo lo sbruffone si trova in effetti a fare delle rinunce (rispetto a tutte le altre possibilità dell'esistenza). È l'adulto definito e definitivo di Gombrowicz, quello che l'autore di Bakakaï chiama l'«uomo blocco», cui oppone «il verde dell'Immaturità». Forse nessuno meglio di Gombrowicz ha mostrato fino a che punto ciò che chiamiamo «identità» sia un artificio, un'astuzia, una corsa ridicola verso la maturità che consiste nel fingere un'identità alla quale non crediamo nemmeno noi, nel voler apparire per gli altri e innanzi tutto per se stessi: «Gli avversari, messi faccia a faccia, faranno una serie di smorfie. A ogni smorfia costruttiva e bella di Siphon, Mientus risponderà con una contro-smorfia laida e distruttrice». L'identità è falsificatrice. Essa è una menzogna e una smorfia dell'esistenza. Essa permette di ricoprire con un velo quel che è insopportabile nell'esistenza stessa: la nostra socievolezza radicale. È l'aspetto da parvenu dell'essere umano in tutti i sensi del termine: arriva a essere se stesso solamente nel circo e nella falsificazione, ciò che avvelena ma, forse, anche ciò che consente la vita in società. È quello che Gombrowicz chiama la «Forma»: «È il costume che mettiamo per coprire la nostra vergognosa nudità e soprattutto per apparire davanti agli altri più maturi di quel che siamo». I giovani, che hanno il vantaggio sugli adulti di essere individui «in fermentazione», non sfuggono a lungo al processo di maturazione identitaria. Imparando assai presto a «danzare seguendo esattamente i violini», essi divengono, come i più vecchi, dei buffoni obbedienti alle convenzioni: «Falsi nella commozione, orripilanti nel lirismo, funesti nel sentimentalismo, infelici nell'ironia e nella battuta, pretenziosi negli slanci, repulsivi nelle cadute... Trattati artificialmente, come avrebbero potuto non essere artificiali?». Mentre «le nostre azioni sono in primo luogo inconsistenti e capricciose, come delle cavallette», le identità di cui ci avvaliamo, e che consistono nel riempire il vuoto e nel far di tutto per soffocare il non-senso, sono dei personaggi convenzionali il cui ruolo è stato debitamente appreso, personaggi che apprendono dei ruoli e adottano delle attitudini, personaggi préts à porter ma confezionati in modo da starci male addosso tanto mancano di plasticità. Sono maschere, travestimenti, a1ibi ridicoli che ci impediscono di assumere pienamente e con umorismo quel che c'è d'indeterminato in noi. | << | < | > | >> |Pagina 43I discorsi del puro, del semplice, del chiuso, del distinto e della frontiera sono discorsi privativi: senz'alcool, senza macchia, senza peccato, senza contaminazione. In questa prospettiva, esisterebbe un'eternità non turbata dalla temporalità. Ci sarebbe dell'essenziale diventato solo per accidente miscuglio. E se ci si rassegna a pensare il cambiamento è solo per deplorare ciò che sarebbe dovuto rimanere immutabile e inalterabile. Mentre il meticciato è un processo senza fine di bricolage, la purezza appartiene all'ordine della selezione. È la stabilizzazione disperata della storia, ricostruita retrospettivamente a vantaggio delle categorie prime, del primordiale e dell'autentico, a partire dalle quali si sarebbe prodotta un'alterazione. Tuttavia, anche ponendo un punto di partenza assoluto in rapporto al quale ci sarebbe un derivato, essa non sfugge al movimento. Essa stessa è un processo: quello della purificazione, della semplificazione e della mistificazione che ha come effetto di sostanzializzare, naturalizzare, destoricizzare e infine neutralizzare l'incontro con gli altri.La tesi della purezza è refrattaria alla sua propria teorizzazione perché non sopporta la prova dei fatti. È votata all'assurdità. L'identità «pulita», concepita come proprietà di un gruppo esclusivo, sarebbe inerte, poiché essere solo se stessi, identici a ciò che eravamo ieri, immutabili e immobili, significa non essere, o piuttosto non essere più, cioè essere morti. L'assurdità della monade o del solipsismo, secondo il quale per il soggetto pensante non ci sarebbe altra realtà al di fuori di se stesso, è la sua inesistenza, poiché essere significa essere con, essere insieme, condividere l'esistenza, la maggior parte delle volte in maniera conflittuale. Privati del rapporto con gli altri, siamo privati della nostra identità, ovvero condotti attraverso l'autosufficienza e l'autoerotismo all'autismo. La specificità di una cultura o di un individuo proviene dalle infinite combinazioni che si possono produrre, dalle combinazioni di termini eterogenei, disassemblabili, differenti, insomma dalla riformulazione di molteplici eredità. La coppia formata da universalismo e particolarismi (i quali possono essere i risultati di «tradizioni» inventate, per esempio l'«Oriente» per l'Occidente) si trova sempre congiunta; i particolarismi poi non sono mai delle essenze, ma dei processi d'acquisizione, di elaborazione, d'interpretazione, che si costituiscono permanentemente in un movimento d'interazione ininterrotto. Si chiama identità culturale ciò che è il risultato di miscele e d'incroci fatti di memorie, ma soprattutto di oblii. Perciò opporremo alla nozione di purezza originaria la nozione freudiana di «perverso polimorfo» applicata alla cultura. Il che significa che l'identità culturale, nella maniera in cui è stata percepita, non esiste affatto. Prendiamo l'esempio della Francia. Formato nel crogiolo gallico, questo Paese viene molto presto «acculturato» dai Romani. Il periodo medievale è marcato dal pensiero arabo e dal pensiero ebraico, che giungono dall'Andalusia. Più tardi, questo Paese riceve le influenze inglesi dei Lumi. Il surrealismo deve molto a un rumeno, Tristan Tzara, che abitava a Zurigo; il teatro francese degli anni Cinquanta deve molto a Beckett, che era irlandese, ad Adamov, che era russo, e a Ionesco, un altro rumeno. Quanto al cinema della Nouvelle Vague, spesso descritto come tipicamente francese, esso è stato molto influenzato da Hitchcock. Ciò significa che la «cultura francese» non è mai presente tutta intera in uno dei suoi «rappresentanti». André Breton per esempio non è meno francese di Descartes, né Baudelaire di Claude Bernard. Questa cultura dunque non è puramente francese: consiste invece in uno stile fatto di prestiti successivi, di scarti e di sfumature. La cosa più patetica nella concezione identitaria dell'esistenza è tutta l'energia dispiegata nel rifiuto del reale, una protesta continuamente reiterata contro la condizione meticcia dell'essere umano, che si rivela ogni volta perfettamente illusoria. È l'illusione del «noialtri», dell'«io stesso», che non si dà pace di esser nato, che non accetta che l'«io» sia lungi dall'essere semplice, omogeneo, identico a se stesso, ma che sia fatto degli altri. | << | < | > | >> |Pagina 86Raccomandare con forza e ovunque la descrizione etnografica come l'ABC di questa disciplina, ma allo stesso tempo pensarla così poco - per non dire mai - in quanto tale nel quadro della disciplina stessa, significa che abbiamo ereditato una concezione indolente dell'osservazione e soprattutto una concezione povera del linguaggio. Quest'ultimo è riservato per una funzione esclusiva che consisterebbe nell'afferrare la realtà nel momento in cui la fa esistere e la precisa, pareggiandola nell'equazione matematica, esplicandola nella correlazione statistica, espandendola, per esempio nel romanzo, o contraendola, come accade nella novella.È opportuno mettere in discussione la pretesa all'unicità e all'omogeneità del linguaggio. Ovviamente ciò che dico non è mai detto per la prima volta, io non sono il primo a parlare e a scrivere e ogni scrittura è senza dubbio una riscrittura. E tuttavia questa parola non è necessariamente un'imitazione della parola degli altri né una riproduzione fedele del «reale». È proprio dallo sguardo singolare dell'etnografo che nasce la scrittura singolare di tale sguardo. Ma nella misura in cui questa scrittura è «partecipe», essa contribuisce a una spersonalizzazione del suo autore che deve rassegnarsi all'esplosione dell' io. E c'è ancora dell'altro, poiché il linguaggio, nei suoi perpetui slittamenti, è tanto una facoltà di dissimulazione quanto una facoltà di «espressione». Si crede che esso «trasmetta», «capti», «esprima», ma esso, soprattutto, inganna e tradisce. È più menzogna che verità e tirando le somme i partigiani della rappresentazione potrebbero avere delle buone ragione per diffidarne. Scrivere non significa arrivare a dire ciò che si vorrebbe dire, significa piuttosto rendersi conto che tentando di dire ciò che è successo lo si dice altrimenti, lo si viene a sapere altrimenti da come è successo. Gilles Deleuze mostra che nella scrittura di Michel Foucault i rapporti fra dicibile e visibile sono eminentemente instabili. Si assiste, scrive Deleuze, a «una lotta perpetua tra ciò che si vede e ciò che si dice, a delle rapide strette, dei corpo a corpo, delle prese, perché non si dice mai ciò che si vede e non si vede mai ciò che si dice. Il visibile sorge fra due proposizioni, così come l'enunciato sorge fra due cose».
Il fatto che non si possa percepire il mondo al di fuori dell'atto dello
sguardo, né descrivere ciò che si percepisce al di fuori della parola e della
scrittura, implica l'impossibilità di uscire tanto dal corpo quanto dal
linguaggio. L'idea di un'autonomia del referente (di ciò che è descritto,
dell'oggetto, del significato) è un'illusione, mentre la sua problematizzazione
(Jakobson, Wittgenstein) non corrisponde affatto all'abbandono del senso. A
rigore non esistono dunque dei «dati etnografici» e poi delle «rappresentazioni»
di questi «dati», bensì dall'immediato, sempre e dappertutto, esiste il
confronto di un etnologo (singolare) con un gruppo sociale e culturale
(singolare), l'interazione fra un ricercatore e quello che studia. E proprio
questo incontro che merita di essere chiamato «terreno». Questo confronto e
questa interazione costituiscono l'oggetto stesso dell'esperienza etnografica e
della costruzione etnologica, che diventeranno antropologiche solo inscrivendosi
in una rete d'intertestualità.
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