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| << | < | > | >> |IndicePREMESSA Le uniche patrie sono quelle immaginarie 9 Una tradizione contro un'altra 15 La Palestina estesa al mondo intero? 19 Una cena a Tarquinia 23 Ami la patria? Dimostralo! 25 Sentirsi italiani 29 L'umile Italia 31 8 settembre: rinascita della patria? 35 Funzione di supplenza 39 Chi sono i veri patrioti? 41 Tradizioni inventate 45 Per un buon uso del mito 49 Il radicamento territoriale degli scrittori modernisti 51 Cli scrittori all'epoca dei non-luoghi 53 Ognuno è sradicato in modo diverso 55 Identità e nazionalismi 57 L'identità come finzione 61 Confini come passaggi 65 Persone perbene, di passaggio sulla terra 67 In America c'è di bello che sono tutti bastardi 71 Vivere per addizione 75 Anche i fiumi emigrano 79 Farsi Sud 81 Italiani per vocazione 85 |
| << | < | > | >> |Pagina 7«Voi credete forse che siamo esperti d'esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete» Dante A]igliieri. Divina Commedia. Purgatorio. Canto I «Creeremo delle fiction al posto delle vere città e paesi, fiction invisibili, patrie immaginarie» Salman Rushdie, Patrie immaginarie «Il patriottismo è il rifugio delle canaglie» Samuel Johnson «In questo momento il mondo ha bisogno di un nuovo patriottismo... non bisogna credere che la cosiddetta vocazione universale della Francia renda ai francesi più facile che ad altri conciliare il patriottismo e i valori universali» Simone Weil. La prima radice «La mia unica patria sono i miei figli, Lautaro e Alexandra. E forse, ma in secondo piano, alcuni istanti, alcune strade, alcuni volti o scene o libri che sono dentro di me e che un giorno dimenticherò, che è la cosa migliore che si possa fare con la patria» Roberto Bolaņo «I messicani vengono dagli aztechi, i peruviani dagli inca, gli argentini dal mare» Detto popolare argentino | << | < | > | >> |Pagina 9Comincio subito con un appello: bisognerebbe non tanto cercare radici quanto mettere radici. Alla globalizzazione omologante dobbiamo contrapporre non la consunta retorica delle radici, la mitologia (nazi) del sangue e suolo, l'attuale aggressivo revival nazionalistico (la citazione su riportata di Johnson va riferita propriamente al nazionalismo e non al patriottismo), ma un consapevole radicamento dell'individuo dentro un'appartenenza multiforme, fatta di tante appartenenze e piccole patrie, liberamente scelte. Il capitalismo, come evidenziarono perfino con qualche voluttà Marx ed Engels , ha dissolto impietosamente ogni legame («í rapporti feudali, patriarcali, idillici...»), ma in ciò ha anche creato le condizioni per un'emancipazione degli individui. Il punto è capire come ridefinire oggi il radicamento, che comunque corrisponde a un profondo bisogno umano, proprio perché la nostra condizione è quella nomadica, magnificamente espressa nei personaggi dei romanzi di Roberto Bolaņo. Le uniche radici sono quelle che uno decide di avere, le patrie vere sono solamente quelle immaginarie, la nazionalità è un fatto culturale, svincolato da qualsiasi connotazione etnica e ius sanguinis. Salman Rushdie , da esule e immigrato, voleva riappropriarsi della sua Bombay perduta, ormai sprofondata nel passato. Poteva solo ricostruirla nella fantasia, e così scrisse quel capolavoro che è I figli della mezzanotte. Alla fine scopre che lo "specchio rotto" della memoria personale - fatta di avanzi, frammenti, risonanze - contiene molte più cose dello specchio integro ( Patrie immaginarie, Mondadori, 1991). Siamo tutti come Virgilio, che alle anime degli espianti appena sbarcate e ansiose di sapere dov'è la montagna del Purgatorio, risponde che «qui siam tutti peregrini». Tutti proveniamo dalle navi, come gli argentini, e tutti in un certo senso "espatriati" dal nostro passato, come osserva Rushdie, e dunque con il compito di ricrearlo. E anzi con il privilegio, aggiunge Rushdie, della libertà di scegliere le proprie patrie e i propri avi, e infatti lui sceglierà Cervantes, Gogol, Melville, Kafka, accanto ai Tagore e ai Ram Mohan Roy... Diffidate di chiunque parli - magari con un tremito nella voce - di radici, origini, patria, tradizione e perfino di identità. Non che non si tratti di concetti fondamentali per la nostra esistenza, privata e pubblica, ma occorre ripensarli e declinarli di nuovo. Altrimenti ci si condanna ad adorarne solo il feticcio, un'immagine sbiadita e falsa, strumentalizzata dal peggio del nostro ceto politico. Nel suo La mia casa è dove sono Igiaba Scego, figlia di un ex ministro degli Esteri somalo e scrittrice italiana "migrante", dice di sentirsi un crocevia, in bilico tra due lingue e due culture, e dedica il libro «alla Somalia dovunque essa sia». Le radici sono il risultato di una scelta e hanno a che fare con l'immaginario culturale. A ben vedere parlare delle origini non è un'operazione nostalgica rivolta al passato: è sempre, al contrario, parlare del futuro, di cosa si vuole essere, di quali promesse intendiamo mantenere. Innumerevoli tradizioni sono recenti, inventate e artefatte, come ci hanno spiegato Hobsbawm e Ranger ( L'invenzione della tradizione, Einaudi 2002): il kilt l'ha inventato un imprenditore inglese, la "carbonara" lungi dall'essere un piatto arcaico legato alla pastorizia è nato nell'Italia del 1944 occupata dai marines americani, forniti solo di uova e bacon, mentre i black muslim si sono letteralmente inventati un'originaria nazione perduta dell'Islam. Quanto alla polenta delle valli alpine, che sembra appartenere a quei luoghi dall'eternità, non c'era prima di Colombo e della scoperta del mais: ed è tradizionale solo perché «viene pensata così» ( Marco Aime ). Pasolini vedeva una continuità tra i suoi ragazzi di vita (figli di immigrati calabresi) e la mentalità stoico-epicurea dell'antica Roma. Una continuità evidentemente immaginaria, un mito letterario capace però di generare a sua volta realtà. Se infatti le identità collettive sono prodotti immaginari ciò non significa che «non producono la propria realtà, una realtà che può essere letteralmente "mortale"» (Marco d'Eramo, Lo sciamano in elicottero , Feltrinelli 1999). A ricordarci che una comunità è sempre immaginata (e non perciò meno solida) ci ha pensato anche un antropologo marxista, Benedict Anderson , tentando di spiegare le guerre nazionalistiche tra paesi socialisti nel Sud-Est asiatico ( Comunità immaginate, Manifestolibri 2009, ma il libro è del 1983). Le nazioni - comunità cementate da credenze e memorie collettive, come il pubblico dei giornali - sostituiscono le religioni (si muore per una nazione, come per un credo religioso), ci danno un'identità in qualche modo salvifica e soddisfano il bisogno di sacro, di assoluto garantendo una continuità storica. Per Anderson il nazionalismo non è in sé patologico, e in alcuni casi ha perfino pacificato dei territori (Irlanda). Non serve contrapporgli il cosmopolitismo astratto delle élite. Occorrerebbe immaginare forme di cittadinanza inclusive che, partendo anche dalle aspirazioni nazionali (e dai bisogni profondi che queste sottendono) non coincidano con delimitazioni etniche. Se la modernità inventa continuamente un passato immaginario e tradizioni che sembrano arcaiche, bisogna anzitutto esserne consapevoli, e dunque rifiutare "invenzioni" scadenti, manipolate, strumentali, imposte dall'alto. Anche il paesaggio che ci sembrò più "naturale" è il prodotto dell'intervento umano, e spesso espressione di un degrado. Antonio Pascale , scrittore neo-illuminista e agronomo, ci ha ricordato come perfino la caratteristica, spoglia macchia mediterranea è «il risultato di secoli e secoli di sfruttamento intensivo e spropositato del legno... là dove oggi ci sono serre e vivai che producono comunissime piante ornamentali, o ortaggi costosi, prima c'erano alberi come la quercia, il faggio, il pino nero, l'ontano, nei secoli è stato tutto disboscato». Torniamo all'identità, che oggi somiglia sempre più a un patchwork e a un palinsesto, ma solo noi possiamo prendercene cura. A volte i sovranisti si sono richiamati, goffamente, a Simone Weil (del tutto aliena alle esibizioni muscolari e allo stile prepotente oggi in voga) e soprattutto all'ultimo Christopher Lasch , quello della Ribellione delle élite (Feltrinelli 2001). Però Lasch resta un paladino della democrazia. Alle nuove élite della finanza e dell'informazione - cosmopolite, spregiudicate, ironiche - bisogna contrapporre non il populismo vagamente razzista degli attuali tribuni della plebe mediatici o un sovranismo nazionale infarcito di retorica aggressiva, ma un "popolo" formato da tanti individui capaci di autogoverno e di riflessione critica, consapevoli e non manipolabili. Per Leonardo Sciascia la nazionalità è un fatto culturale, è la scelta di una cultura, «e perciò assimilabile alla paternità, piuttosto che alla maternità, che non consente valutazione, giudizio, scelta». E così elogia lo scrittore Jean Giradoux , che intendeva affermare questa idea appunto razionale, "paterna" di nazione, proprio quando i fascismi europei si fondavano su un'immagine irrazionale, e "materna" della nazione. | << | < | > | >> |Pagina 51Facciamo un passo indietro e spostiamoci di nuovo sulla letteratura. I grandi scrittori del Novecento, quelli del cosiddetto modernismo, sono tutti ben radicati nelle loro piccole patrie. Universali proprio in quanto provinciali: Svevo e Trieste, Joyce e Dublino, Kafka e Praga, Musil e Vienna, Proust e Parigi... Anche quando scrivono di città un po' più appartate, la loro grandezza consiste proprio nell'aver trasformato una periferia in periferia universale e luogo dello spirito. Mentre ho sempre guardato con sospetto gli autori che si presentano immediatamente come "cosmopoliti", adattati alla middle class culturale del pianeta (che vuole sentirsi intelligente e informata), insapori e inodori come i cibi degli aeroporti, neutri e impersonali come la musichetta degli ascensori. Alla fine del secolo scorso però, con il caleidoscopio del postmoderno, la globalizzazione e la fine delle grandi narrazioni ideologiche, il paesaggio culturale e geografico è diventato molto più frammentario. Ai luoghi subentrano i non-luoghi. Impossibile radicarsi in un non-luogo, per definizione privo di identità e di memoria. E allora a quel bisogno - ineliminabile - di radicamento si risponde in altro modo: ci si radica molto di più in una patria immaginaria, in un luogo elettivo, in un'identità che viene scelta e che ha a che fare anzitutto, come abbiamo visto, con l'immaginario, con i consumi culturali, con la nostra mutevole esperienza del mondo. Pasolini, nato a Bologna e legato - per scelta "emotiva" e culturale - al Friuli materno e alla sua lingua (che in parte reinventa nelle poesie), si radica nella nostra tradizione rinascimentale, nei ruderi e nelle pale d'altare delle chiese quattrocentesche dell'Appennino (come scrive nella poesia La scavatrice), Sciascia in una paradossale "Milano siciliana", in una Sicilia cioè arcaica ma rivisitata dall'illuminismo, Carlo Levi - ebreo torinese - in una Matera denominata capitale del Sud del mondo, di un mondo magico e ancestrale... | << | < | > | >> |Pagina 57La sinistra, sostituendo la classe operaia con i migranti, si è complicata la vita - almeno secondo Carlo Freccero - poiché la coscienza identitaria dei migranti «non è qui ma altrove». Eppure in ciò i migranti prefigurano una condizione che oggi appartiene a tutti. La nostra identità è sempre altrove, e fatta sempre più di immaginario. Prendiamo la mia generazione: da ragazzo mi fingevo Vietcong, Guardia Rossa, Black Panther, Feddayn, Tupamaro, indossavo maschere preferibilmente esotiche. La mia "patria" era una generazione ribelle e sognatrice, fatta di giovani che dovunque rifiutavano le convenzioni sociali. Intendiamoci: sono stati anni ruggenti, di mitologie d'accatto ma anche di solidarietà spontanee: in una vacanza in Sardegna, a vent'anni, ricordo che bastava girare con il quotidiano Il Manifesto (della allora nuova sinistra) per essere ospitato ovunque! Qualche anno dopo, in un altro viaggio on the road - negli Stati Uniti - era sufficiente il segno di "v" con le dita per avere dove dormire la notte. Quella appartenenza - a una visione del mondo, a una "ideologia", a una comunità un po' reale e un po' immaginaria - era più forte di qualsiasi appartenenza territoriale o nazionale. La destra vuole difendere le nazioni intese come aggregati umani insediati in specifici territori e che condividono una discendenza e un senso comune. Ma l'idea di nazione, che pure nella storia ha avuto declinazioni diverse (anche democratiche e umanitarie, se si pensa alla tradizione francese, tra illuminismo e Rivoluzione, a Rousseau per il quale la patria era «voluta» prima che «sentita»), contiene qualcosa di angusto, di potenzialmente xenofobo, con la sua idea di un primato, con il suo richiamo all'omogeneità etnica e alla purezza della lingua. Nella nostra tradizione c'è anzitutto un patriottismo liberale e repubblicano: Giuseppe Mazzini , che proiettava la Giovane Europa nella Giovane Italia e che immaginava una repubblica europea intesa come libera associazione di libere nazioni. Il nazionalismo ottocentesco ha via via svelato il suo volto aggressivo ed espansionista, e nel secolo successivo ha generato due guerre mondiali. Su questo tema si svolse un'accesa discussione negli anni '30 sulle pagine della rivista Giustizia e libertà. Da una parte Carlo Rosselli non voleva lasciare a Mussolini il monopolio della storia patria e dell'appartenenza nazionale, contrapponendo a un Risorgimento neoguelfo, moderato, sabaudo, un Risorgimento democratico e popolare (di seguito i partigiani vollero chiamare se stessi "patrioti"). Dall'altra Chiaromonte sosteneva che il principio di nazionalità è incompatibile con l'ideale della libertà. Non pretendo di dire l'ultima parola su una questione così intricata. Probabilmente l'unità politica del nostro paese è stata un passaggio obbligato, e ha fondato un moderno Stato nazionale, anche se si trattò di una rivoluzione fallita e coincise con la sconfitta delle tesi federalistiche di Cattaneo. Bisognerebbe infine sempre distinguere tra concetti solo apparentemente affini, come ci insegna Umberto Saba , con una formula genialmente sintetica: «patriottismo, nazionalismo e razzismo stanno fra di loro come la salute, la nevrosi e la pazzia». | << | < | > | >> |Pagina 67Quello che non mi convince nei discorsi sovranisti - che affermano una "sovranità" assoluta del territorio nazionale ma anche del proprio io inteso come identità compatta e granitica - è l'idolatria che li sottende. In che senso? Nel senso che di fronte alla instabilità e precarietà della condizione umana, di fronte al vuoto insondabile su cui appare sospesa e di fronte a un mondo informe e indistinto, si appigliano illusoriamente a degli idoli, a dei feticci rassicuranti che però non hanno alcun vero fondamento. Già Simone Weil diceva che non ci sono atei ma solo idolatri, e cioè persone che al posto di Dio assumono come assoluto un partito politico, una squadra di calcio, uno Stato, il paraurti della propria auto (per il quale sarebbero disposti ad accoltellare), la cura del proprio corpo, l'azienda per cui lavorano. Sarebbe meglio per loro, aggiunge, che accettassero il vuoto. Proviamo a rivolgerci al pensiero di un'altra donna - e spesso sono le pensatrici ad avere un punto di vista davvero radicale, slegato da qualsiasi velleità di dominio sulle cose - da Simone Weil a Iris Murdoch , da Hannah Arendt a Elsa Morante , da Maria Zambrano a Natalia Ginzburg , da Anna Maria Ortese alla filosofa ungherese Agnes Heller , da poco scomparsa, che alla fine degli anni '70 ebbe un momento di notorietà per la sua "teoria dei bisogni" e che ha scritto un prezioso libretto, Persone perbene. Rettitudine e innocenza nel mondo postmoderno (EDB Lampi 2015). Ci ricorda, tra molte altre cose, che noi tutti, donne e uomini, siamo individui di passaggio sulla terra, individui che sono capitati per caso in questa o in quella comunità, e il cui valore umano e la cui rettitudine morale sono qualcosa di profondamente indipendente dalla comunità nella quale sono appunto capitati per caso. [...] La Heller sottolinea che è bene non considerare il nostro prossimo come la personificazione della sua comunità, del suo popolo, della sua religione, ma guardarlo invece come una persona che è lì per caso e di passaggio, e percepire noi stessi nella stessa maniera. La fedeltà a tutte le norme della nostra comunità non è l'unico metro valido per misurare la rettitudine degli altri. Le appartenenze sono casuali e spesso le "comunità" limitano la libertà delle persone e perseguitano le minoranze: ragionare in termini di "noi" e "loro" è l'anticamera del razzismo. | << | < | > | >> |Pagina 82[...] L'ideale resta vivere per addizione! Una modernità caleidoscopica. E, confesso, dopo dieci pagine di elogio dell'olio d'oliva e della luce meridiana mi prende una voglia di fiordi norvegesi e aringhe affumicate. Ma soprattutto devo sapere che il Sud a cui mi riferisco è quello di Carlo Levi, Camus e Silone, e cioè in buona parte una fiction, un luogo un po' reale e un po' fiabesco, un mito culturale, un'utopia di convivenza fondata su un'esperienza reale eppure sempre contraddittoria. So bene infatti che tutti i "valori" del Sud tendono sempre a ribaltarsi in disvalori: il dolce far niente (critica preziosa dell'ideologia della prestazione) in assenteismo lavorativo, l'accoglienza in invadenza, la protezione della comunità in familismo e oppressione dell'individuo, il saggio fatalismo in inerzia e acquiescenza ai potenti di turno, il pensiero magico in rifiuto dell'illuminismo, la passionalità nel delitto d'onore, l'arte di arrangiarsi in pratiche quotidiane contigue all'illegalità... Ed è irresponsabile elogiare in quanto "creativo" chi passa con il rosso, come pure fece uno sciagurato artista napoletano. Però, come ho ripetuto varie volte, ogni identità implica la scelta di una parte contro l'altra. Dunque si tratta del "mio" Sud, proprio come quella di Rushdie era la "sua" India.| << | < | |