Autore Frances Larson
Titolo Teste mozze
SottotitoloStorie di decapitazioni, reliquie, trofei, souvenir e crani illustri
EdizioneUtet, Novara, 2016 , pag. 306, ill., cop.fle., dim. 15,4x23x2,5 cm , Isbn 978-88-511-3642-0
OriginaleSevered. A History of Heads Lost and Heads Found [2014]
TraduttoreLuca Fusari
LettoreGiovanna Bacci, 2016
Classe antropologia , storia criminale , storia della scienza , storia sociale , scienze improbabili , musei , medicina , guerra-pace












 

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Indice


Prologo. La testa di Cromwell                            9

Introduzione. Teste irresistibili                       15

1. Teste rimpicciolite                                  29

2. Teste-trofeo                                         57

3. Teste giustiziate                                    85

4. Teste incorniciate                                  115

5. Teste miracolose                                    141

6. Teste d'osso                                        167

7. Teste dissezionate                                  207

8. Teste viventi                                       235

Conclusione. Le teste degli altri                      263


Ringraziamenti                                         269

Fonti                                                  271

Indice delle illustrazioni                             303


 

 

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INTRODUZIONE
Teste irresistibili



Questo libro parla di teste mozze. La nostra storia ne è piena. Se diciamo "cacciatori di teste" pensiamo a mondi esotici, strani e pericolosi, lontani dalla civiltà, ma la verità è che per trovare una testa umana in bella mostra basta guardarsi intorno. Anche noi abbiamo le nostre particolari tradizioni da cacciatori di teste: nei secoli, la nostra società ha sempre utilizzato teste umane per decorare più o meno ogni angolo, dal patibolo alla cattedrale, dalla sala anatomica alla galleria d'arte. Queste tradizioni hanno in noi radici profonde e resistono, pur nel silenzio, ancora oggi.

La testa di Oliver Cromwell ha una storia straordinaria non soltanto perché è sopravvissuta intatta per tre secoli, ma anche perché negli anni ha assunto identità diverse. Staccata sul patibolo e infilzata in quanto testa di traditore, in pochi decenni diventa un pezzo da museo; a seconda delle circostanze si trasforma in trofeo, cimelio prezioso, memento mori e data set. Il suo valore muta con il clima storico, mentre si fa emblema delle migliaia di teste umane che nei secoli hanno arredato i luoghi della giustizia, della scienza e dello svago. In questo senso, grazie soltanto alla sua longevità e al suo pedigree, fa da chiaro trait d'union di molte delle storie che andremo a raccontare.

La testa di Cromwell, tuttavia, è soltanto una testa, eccezionale, di tanti anni fa. Incorpora due tra i cliché più diffusi riguardo alle teste mozze: che sono insolite, che sono antiche. Di tanto in tanto fa notizia la storia della testa errante di un personaggio famoso: di recente il teschio di Ned Kelly e la testa imbalsamata di re Enrico IV di Francia sono stati sottoposti ad analisi scientifiche e, nell'anniversario della sua scomparsa, i giornalisti hanno raccontato la solita storiella dell'archeologo Flinders Petrie che alla sua morte, nel 1942, donò la propria testa al Royal College of Surgeons. Aneddoti come questi prosperano sul luogo comune che vede in ogni testa umana un reperto storico di interesse singolare; ma la realtà è ben diversa. La storia di Cromwell è sbalorditiva proprio perché rivela un aspetto poco noto di un tessuto culturale che ci appartiene e, forse, una parte della nostra stessa natura umana.

Per lungo tempo le teste decollate hanno avuto nella nostra società un posto preciso e un determinato valore – anche contestato o inquietante, ma pur sempre un valore. Le teste umane venivano esibite, e talvolta lo sono tuttora, in nome della scienza, della guerra, della religione, dell'arte, della giustizia e della politica. Di soldati che usano teste come trofeo si sente parlare ancora oggi, non sono storie di secoli fa. Negli ultimi anni terroristi e assassini hanno messo online video di decapítazioni scaricati da milioni di europei e americani. Agli studenti di medicina tocca dissezionare teste umane e la stragrande maggioranza di essi la trova un'esperienza illuminante. I pellegrini vanno ad ammirare le teste dei santi esposte in chiese di tutta Europa. Gli artisti trovano ispirazione nelle sale anatomiche e negli obitori, nella contemplazione di cadaveri e teste tagliate. C'è chi, convinto che in futuro sarà possibile far ricrescere un corpo intorno al cervello e riportare una persona in vita, chiede che dopo morto la sua testa venga rimossa e criopreservata. E un'infinità di teste conservate, rimpicciolite, messe sotto vetro e scarnificate viene mostrata agli entusiasti visitatori dei musei, templi della moderna civilizzazione.

C'è chi prende teste umane; c'è chi dona la propria testa; c'è chi espone teste e va a vederle: a ben vedere, le teste sono ovunque, qui e ora. Le collezioni più grandi sono costituite dalle migliaia di teschi umani – tra cui di tanto in tanto spunta una testa imbalsamata con la carne ancora al suo posto – che riempiono gli scaffali dei magazzini dei musei di tutto il mondo. Lì, al buio e in solitudine, schiere di teste umane riposano e testimoniano mute le tradizioni dei nostri antenati. Grandi collezioni nazionali come il Natural History Museum di Londra e la Smithsonian Institution di Washington DC conservano migliaia di teschi umani, e buona parte dei musei provinciali, soprattutto quelli specializzati in archeologia o scienza, hanno una piccola collezione. Il mio improbabile e affascinato interesse per le teste umane è nato quando lavoravo al Pitt Rivers Museum, una spettacolare collezione di curiosità da tutto il mondo annidata tra i dipartimenti scientifici della University of Oxford.

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Alcuni dei capitoli che leggerete parlano tanto della decapitazione quanto dell'influsso culturale della testa mozza nella nostra società; in particolare mi riferisco al capitolo sulle teste-trofeo prese dai soldati in battaglia e a quello sulle teste dissezionate, che apre le porte della sala anatomica. Inutile sottolineare che oggi la decapitazione di una persona viva è ormai evento rarissimo, ma nella società contemporanea esistono casi in cui persone normali si ritrovano a manipolare e smembrare corpi umani in modalità poco considerate e spesso nascoste. Quanta crudeltà occorra per tagliare una testa umana dipende dalla testa stessa: l'omicidio per decapitazione è un'atrocità; l'esecuzione capitale per decapitazione è considerata inaccettabile; smembrare un soldato appena caduto sul campo di battaglia per farne un raccapricciante souvenir è illegale e disonorevole, come lo è rubare parti del corpo per la ricerca scientifica. Staccare la testa a qualcuno che è morto centinaia di anni fa, o che ha dato il proprio consenso scritto alla dissezione per scopi di ricerca medica, invece, è socialmente accettabile.

Nel frattempo la storia ci insegna che avere parte attiva in una decapitazione, oppure accettarne l'esistenza, guardarla con i proprio occhi e persino godersi lo spettacolo sono tutte facoltà umane come tante altre. Il potere della decapitazione come rito sociale riecheggia ancora oggi nelle frasi fatte, nei gesti e nelle battute che facciamo. Cerchiamo di tenere la testa sulle spalle, di non perdere la testa; di non farci venire il sangue alla testa quando qualcuno ci fa arrabbiare, e di tenergli testa (senza spaccargliela); certi imprevisti ci capitano tra capo e collo; mettiamo una taglia, sempre metaforica, sulla testa di qualcuno, o vogliamo la sua testa su un piatto d'argento, o immaginiamo che a causa di un errore cadrà qualche testa. Tutte frasi che, proiettando la nostra storia sul presente, trasformano l'orrore in humour e regalano alla potenza di quello spettacolo una nuova ubiquità, di ordine linguistico.

Per secoli le esecuzioni capitali di qualsiasi genere hanno intrattenuto «persone d'ogni ceto e classe sociale», come osservava Thackeray nel 1840 durante l'impiccagione di Courvoisier: «Borsaiolo o Pari, ciascuno è solleticato allo stesso modo dallo spettacolo, e ha la medesima sete di sangue che domina la nostra razza». Molti uomini di scienza, anche in pieno XX secolo, si sono sporcati le mani trafficando con teste umane, raccolte e studiate per le più svariate imprese intellettuali. Oggi aprire un cranio è la norma per un chirurgo che vi deve inserire una sonda o incidere un tumore, magari continuando a parlare con il paziente di cui esplora la testa. I sovrintendenti dei musei medici badano a teste tagliate che fluttuano dentro contenitori pieni di sostanze conservanti, di tanto in tanto ne cambiano il liquido o, quando necessario, fanno piccole correzioni ai parametri di conservazione. L'accettabilità di questa o quella condotta dipende dal momento e dal contesto.


Anche quando avviene nella legalità, la decapitazione provoca orrore, e parte dell'orrore sta proprio nel fatto che una testa mozza è qualcosa di molto affascinante: la faccia di una persona morta è una sirena, pericolosa ma irresistibile. Nei musei medici ho visto teste di bambini. Bimbi di un'altra epoca, di cent'anni fa, sospesi e trasfigurati nel liquido conservante, oggi, a scopo didattico. Ho letto í dettagli della loro morte — infanticidio, aborto, malattia o deformità — con una specie di intorpidita ma consapevole deferenza, verso di loro e verso i miei più oscuri desideri, chiedendomi se non mi stessi spingendo troppo in là, se non stessi rischiando di avere gli incubi, ma incapace di resistere a quegli sguardi soffocati. Sono viaggiatori nel tempo, dal XIX secolo al XXI; abitanti della terra dei vivi e dei morti; animati e al contempo inanimati. E sono le loro facce, perché la faccia è la più espressiva configurazione esistente di pelle e muscoli, a spingermi volente o nolente alla ricerca di un legame, sono quelle facce a posizionarli nel mondo dei vivi con più insistenza di qualsiasi altro "esemplare" del museo. Più di tutte le parti del corpo in bella mostra alle pareti – reni e fegati, mani e piedi – sono le facce che accompagnano i visitatori mentre esplorano i confini della loro idea di turbamento.

È impossibile confrontarci con una testa senza essere consapevoli di una cosa: in questo faccia a faccia, è dentro noi stessi che stiamo guardando. Nell'uomo la reazione spontanea e inconscia all'espressione facciale del prossimo è un meccanismo innato. Davanti a una faccia triste, felice, arrabbiata o sofferente, nasce in noi una risposta neurologica rapida e automatica che inconsciamente ci spinge a imitarla. Quando è la faccia di una testa senza corpo, il riflesso concreto di istintiva empatia stride con la consapevolezza che quella persona è morta. Dopotutto, ciò che manca è tanto importante quanto ciò che resta, e il corpo perduto è ingombrante nella sua assenza quanto la testa è assente nella sua presenza.

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Ci sono tanti buoni motivi fisiologici per cui le teste risultano affascinanti, potenti, e ispirano l'istinto di staccarle. La testa umana è un centro di comando biologico e una gioia per gli occhi. Vi alloggiano quattro dei cinque sensi: vista, olfatto, udito, gusto. Contiene il cervello, centro del sistema nervoso. Incanala l'aria che respiriamo ed emette le parole che pronunciamo. Come scrive il biologo evoluzionista Daniel Lieberman: «Quasi tutte le particelle che entrano nel corpo, per nutrirci o consegnarci informazioni sul mondo, passano attraverso la testa, e quasi tutte le attività sono legate a qualcosa che succede lì dentro».

Nella testa umana è stipato un numero enorme di componenti: oltre 20 ossa, fino a 32 denti, un grosso cervello, ovviamente, e diversi organi sensoriali, oltre a dozzine di muscoli e numerose ghiandole, nervi, vene, arterie e legamenti. Sono tutti strettamente collegati e profondamente integrati in uno spazio ridotto. La testa è anche bella da vedere, potendo vantare uno dei più espressivi gruppi di muscoli conosciuti. È attrezzata con una serie di elementi che ben si prestano all'ornamento: capelli, orecchie, naso e labbra. Grazie a un'impressionante addensamento di terminazioni nervose e a un'impareggiabile capacità di movimento espressivo, la testa collega la nostra interiorità al mondo esterno più intensamente di qualsiasi altra parte del corpo.

Questa straordinaria sala macchine, singolare, dinamica e stipatissima, si trova in alto, bene in vista. La postura bipede ha permesso che la nostra testa relativamente tonda, corta e ampia, sormontasse un collo snello e quasi verticale. La maggior parte degli altri animali ha un collo più ampio, tozzo e muscoloso perché deve reggere la testa nella parte anteriore del corpo, rivolta in avanti. La testa umana, sorretta dalla colonna vertebrale, richiede un collo meno muscoloso, tanto che tastando una gola si possono sentire con molta facilità le vene e le arterie principali, i linfonodi e le vertebre. In breve, è molto più facile decapitare un uomo che un cervo, un leone o un altro degli animali che normalmente associamo all'immagine del trofeo di caccia.

Ma ciò non vuol dire che sia facile. Il collo umano sarà anche fragile rispetto a quello degli altri mammiferi, ma staccare una testa da un corpo non è impresa da poco. Lo prova un'infinità di decapitazioni malriuscite, specie in paesi come la Gran Bretagna dove questo genere di esecuzione è sempre stato relativamente raro, e i boia di conseguenza inesperti. Per decapitare una persona viva occorrono un gesto potente e preciso, una lama affilata e pesante. Non c'è da meravigliarsi che la testa tagliata sia il trofeo più ambito dal guerriero. Anche quando il carnefice è esperto e la vittima sottomessa, per tagliare una testa possono occorrere molti colpi. Quando nel 1766, in Francia, il conte di Lally si mise in ginocchio, immobile e bendato ad attendere l'esecuzione, la lama non riuscì a mozzargli la testa. Fu sbalzato in avanti e lo si dovette rimettere in posizione; per decapitarlo occorsero quattro o cinque colpi. Famosa è la storia di Maria Stuarda, messa a morte nel 1587: il primo colpo si conficcò nella nuca, il secondo andò a segno ma lasciò intatto un piccolo tendine che si dovette segare con la lama della scure. Era un'impresa difficile anche se la vittima era già morta: quando a Tyburn fu decapitato il cadavere di Oliver Cromwell, il boia dovette sferrare otto colpi per farsi strada tra gli strati di tela incerata che ne avvolgevano il corpo e completare l'opera.

A parte tutti gli imprevisti del caso, se la si esegue con perizia su una vittima sottomessa la decapitazione è un modo veloce di farla finita, benché nessuno sia rimasto cosciente abbastanza a lungo da spiegare quanto veloce. Alcuni esperti ipotizzano che a causa della rapida perdita di pressione sanguigna nel cervello la coscienza vada persa entro due secondi. Secondo altri evapora mano a mano che il cervello consuma tutto l'ossigeno disponibile nel sangue, cosa che negli umani avviene in circa sette secondi — cioè sette secondi di troppo, se sei una testa appena mozzata. La decapitazione potrebbe essere uno dei modi meno strazianti di morire, ma si pensa che sia comunque dolorosa. Molti scienziati sono del parere che, per quanto fulminea, provochi uno o due secondi di dolore acuto.

La potenza culturale della decapitazione compiuta con un gesto secco è legata alla pura velocità e forza con cui avviene; è quasi una sfida all'inafferrabile momento della morte perché, a dispetto delle imperfette congetture scientifiche, la morte vi appare come un evento istantaneo. Lo storico Daniel Arasse spiega che la ghigliottina, che ha trasformato la decapitazione in un modello di efficienza, «ci mette davanti all'invisibilità della morte nel preciso istante in cui avviene, esatta e indistinguibile». Basta pochissimo, quando si contemplano i misteri della morte, per dimenticare che la decapitazione è tutt'altro che invisibile. Al contrario, è una faccenda molto, molto sanguinolenta, al punto che l'Occidente non la utilizza più nelle esecuzioni capitali nonostante sia una delle tecniche più umane a disposizione. La decapitazione è più veloce e prevedibile della morte per impiccagione, dell'iniezione letale, dell'elettrochoc o del gas, ma è anche uno spettacolo troppo macabro per la nostra sensibilità.

La decapitazione è una contraddizione in termini perché è al tempo stesso selvaggia ed efficiente. È una forma di barbarie crudele e irrispettosa che, al di là delle ragioni biologiche che fanno della testa degli altri un trofeo desiderabile, trae parte del suo fascino dall'umana incapacità di non guardare. Anche in una società democratica e urbanizzata ci sarà sempre qualcuno che vuole ammirare lo spettacolo. Allo stesso modo, spesso le teste mozze radunano persone e le galvanizzano in un contesto emotivamente carico, più che — oppure oltre a — ripugnarle. La decapitazione è il peggiore dei soprusi, ma anche un atto creativo, perché al netto della crudeltà produce un oggetto di potenza straordinaria che attira la nostra attenzione, che ci piaccia o no.

Anche la relazione tra carnefice e vittima può rivelare sorprese, perché a volte cela una strana intimità venata persino di ironia, oltre che di pura e semplice brutalità. Ogni diverso incontro con una testa decollata, che avvenga nel contesto di una guerra, di un delitto, della medicina o della religione, può cambiare il modo in cui percepiamo l'atto della decapitazione. Ci siamo dati un'infinità di spiegazioni per il fascino spaventoso della testa mozza. Forse sì, il suo ascendente sui vivi è universale. A dispetto della sua natura raccapricciante, la testa mozza riesce a ispirare, a stimolare studi, preghiere, ironia, scritti e disegni, a respingere o attirare gli sguardi; ci fa riflettere sui limiti della nostra umanità. Approfittare della natura irresistibile della testa mozza sarà anche banale, ma ignorarla è pericoloso. Questo libro racconta una storia scioccante, ma è pur sempre la nostra storia.

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Teste rimpicciolite



Mentre meditavo su questo libro e su come scriverlo andai da sola a vedere le teste rimpicciolite in mostra al Pítt Rivers Museum. La solitudine mi concesse un momento di contemplazione. Nella teca le teste sono appese ciascuna a una corda: hanno l'espressione seria, gli occhi chiusi, i capelli lunghi e immobili. Dev'esserci silenzio, lì dentro. Custodiscono i loro segreti. Guardarle mi sembrava un'intrusione maleducata, ma rimasi a guardare. Cercavo di riconciliare il loro passato turbolento e sanguinoso con la loro presenza inerte, davanti a me.

[...]

L'apogeo degli shuar come cacciatori di teste, con razzie che circa una volta al mese falciavano centinaia di persone, giunse nel tardo XIX secolo, stimolato dal boom del commercio internazionale di teste rimpicciolite. Nelle città europee e americane le teste venute dal Sudamerica, dall'India e dal Pacifico si trovavano nei negozi come nelle case d'asta, nei musei o nelle abitazioni private. Vendevano sempre bene, e poco a poco l'offerta crebbe per soddisfare la domanda. Il meccanismo era semplice: gli europei volevano le teste rimpicciolite degli shuar e gli shuar volevano i coltelli e le armi da fuoco degli europei. Le teste rimpicciolite giunte nei nostri musei non sono i resti di uno stile di vita puro e primordiale, ma piuttosto una conseguenza dei rapporti economici sorti durante l'espansione coloniale e dell'influenza di una certa fantasiosa idea di che cosa fossero le "culture selvagge". Le più celebri tribù di cacciatori di teste erano tutt'altro che "ferme nel tempo": reagivano agli stimoli e ai gusti dello straniero.

Dopo il 1880 l'espansione del commercio di gomma e corteccia di china, che forniva il principio attivo del chinino con cui si cura la malaria, fece aumentare il numero di coloni europei in Ecuador. I nuovi arrivati barattavano con gli shuar tessuti, machete, punte di lancia d'acciaio e pistole in cambio di prodotti locali come maiali, cervi, sale e teste rimpicciolite. Ma quando i coloni cominciarono ad allevare e macellare bestiame per conto proprio la domanda di maiali e cervi shuar diminuì; a un certo punto le teste rimpicciolite e la manodopera rimasero l'unica merce di scambio a disposizione degli indigeni. E se ai missionari si potevano continuare a chiedere stoffe o machete, oltretutto a un prezzo più basso rispetto ai mercanti, le armi da fuoco andavano cercate altrove, e scambiate con le teste: e fu così che in Sudamerica si consolidò il commercio del tipo "teste in cambio di armi".

Quando i visitatori vengono a vedere le teste rimpicciolite al Pitt Rivers Museum, quella che si trovano davanti agli occhi è una storia del fucile dell'uomo bianco. Oltre a fornire un incentivo economico ai predatori shuar, le armi da fuoco divennero anche il modo migliore per procurarsi altre teste: insieme ai coltelli d'acciaio erano ben più efficienti rispetto alle lance di legno e pietra, e offrivano così agli shuar un netto vantaggio nelle battute di caccia. Gli europei e gli americani compravano teste e fornivano agli shuar l'attrezzatura necessaria a razziarle, velocemente e in numero sempre maggiore: le armi portavano teste che portavano armi. In pieno XX secolo il cambio tra testa rimpicciolita e arma da fuoco era, generalmente, alla pari. Si racconta di un capo shuar che scambiò teste con armi e immediatamente le usò per tendere un'imboscata a un altro drappello di guerrieri shuar; ottenute altre teste, si procurò altre armi.

Non era sempre stato così, però. Le tradizioni della caccia alle teste shuar risalgono perlomeno al XVI secolo, ma le informazioni più accurate che abbiamo al riguardo furono raccolte verso la fine del XIX, quando la creazione delle teste rimpicciolite rientrava nei complessi riti culturali praticati per imbrigliare lo straordinario potere che secondo gli shuar aveva ogni anima dopo la morte. Più della testa, consideravano prezioso il potere che essa conteneva. Le teste non erano "trofei di guerra" nel senso comune del termine, perché gli shuar e gli achuar vissero perlopiù in pace. Quindi non venivano prese in battaglia, ma raccolte durante battute di caccia organizzate appositamente, perché le tsantsas erano oggetti potenti, e chi possedeva tsantsas era un uomo potente. In questo contesto, per gli shuar cacciare teste era una forma di violenza socialmente accettabile.

Dopo una spedizione riuscita i cacciatori venivano accolti con grandi festeggiamenti: erano le celebrazioni più importanti dell'anno, che sancivano il trasferimento del potere insito nelle tsantsas alle donne della famiglia, a garantire che ci fosse cibo abbondante per tutti. In totale ogni pochi anni si tenevano tre cerimonie celebrative, concluse le quali il valore delle tsantsas si perdeva, dal momento che a differenza dei mercanti che le compravano gli shuar non sapevano che cosa farsene, una volta trasferito il potere dell'anima al gruppo di chi l'aveva catturata. Certi shuar conservavano le tsantsas per ricordo, altri se ne sbarazzavano o le vendevano a viaggiatori e coloni. A tutti gli effetti, non è perché fossero sacre che gli shuar non le esibivano, ma per la ragione opposta: erano insignificanti, come la busta vuota di una lettera importante.

L'intensificarsi dei baratti "armi in cambio di teste" con gli stranieri finì per svilire il significato spirituale dell'appropriazione di una testa – la necessità di placare l'anima vendicatrice della vittima e trasferirne ai vivi il potere imbrigliato – e in molti casi l'usanza di rimpicciolire teste divenne un semplice sotterfugio per alimentare il commercio. Non era più questione di far circolare energie, ma di accumulare beni. Le tsantsas persero la valenza spirituale e divennero prodotti commerciali; ormai c'erano shuar che uccidevano soltanto per poterle vendere. In questo modo gli europei e gli americani contribuirono a creare i cacciatori di teste senza scrupoli e assetati di sangue che si erano aspettati di trovare al loro arrivo. Con l'aumentare della domanda i cacciatori di teste shuar si fecero meno selettivi: storicamente l'obiettivo delle loro scorrerie erano le teste maschili, perché soltanto maschile era l'anima vendicatrice da imbrigliare, ma a un certo punto il commercio coinvolse anche le teste di donne e bambini, prive di significato rituale.

Così teste di donne e teste di bambini, mozzate da coltelli europei, finirono in vendita come souvenir per le strade delle città e dei borghi sudamericani. Erano poco più che macabre opere d'arte per turisti e viaggiatori convintissimi di aver comprato qualcosa di autentico, proveniente da una terra di guerrieri primitivi, non certo tsantsas realizzate apposta per il mercato. Ancora meno autentiche erano le teste rimpicciolite di coloni e di sudamericani nati, cresciuti e morti in città, che niente avevano a che vedere con i cacciatori tribali ma che finivano magari sotto il bisturi di un tassidermista compiacente. Capitava spesso che i tassidermisti mettessero in circolazione tsantsas "false": sfruttando l'occasione per arrotondare, prendevano accordi con qualcuno che lavorava all'obitorio per ottenere "materia prima", gente morta nell'anonimato, poveri e diseredati, le cui teste cadevano vittima del desiderio europeo e americano di curiosità esotiche.

La domanda di teste rimpicciolite era tale che in mancanza di cadaveri umani certi opportunisti rimpicciolivano teste di scimmia o bradipo che, ridotte e "rimodellate", spesso imbrogliavano i cacciatori di curiosità. L'ingegnere e viaggiatore americano Fritz Up de Graff commenta: «A Panama, dove i turisti hanno generato una vivace domanda di queste rozze bizzarrie, le teste umane o di scimmia vengono fatte su ordinazione o vendute a 25 dollari l'una». C'erano teste finte fatte di pelle di capra, legno, resina o gomma. Nonostante le leggi che in seguito ne vietarono il commercio, fino a metà XX secolo continuarono a circolare sottobanco ancora molte tsantsas.

Ciò significa che in realtà la maggior parte delle teste rimpicciolite shuar dei musei potrebbe essere falsa. Molte non sono neanche umane e alcune di quelle umane non hanno niente a che vedere con gli shuar, a ulteriore conferma che l'idea del cacciatore di teste isolato dalla storia era un costrutto occidentale. I visitatori vedono questi reperti e li scambiano per i trofei raccapriccianti di un popolo selvaggio e ancora vergine, quando in realtà si tratta dei trofei raccapriccianti prodotti dalla fascinazione europea e americana per il concetto di popolo selvaggio e ancora vergine.

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È difficile non vedere l'ipocrisia dei collezionisti che nel XIX secolo condannavano la barbarie dei cacciatori e al contempo andavano in cerca di teste umane da mettere in bella mostra a casa propria. A essere coinvolti in questo macabro traffico non erano soltanto i commercianti ma anche gli scienziati che, specialmente a fine secolo, ricevevano inviti alquanto espliciti a raccogliere teste e altre parti del corpo. In questo senso la caccia alle teste era poco meno che un dovere professionale.

Prendiamo, per esempio, le indicazioni contenute in Notes and Queries on Anthropology, il manuale di riferimento per gli antropologi britannici dediti alla raccolta di reperti. La prima edizione degli "Appunti e questioni sull'antropologia", pubblicata nel 1874, consigliava di «portare in Inghilterra, se possibile», gli scheletri e i teschi indigeni per sottoporli ad analisi specialistica. Inoltre, se «dopo una battaglia o un altro massacro si può ottenere la testa di un indigeno ancora provvista di parti molli», sarebbe opportuno impacchettarla e spedirla in patria dentro un barilotto di alcol o salamoia. La seconda edizione, del 1892, fa raccomandazioni persino più pignole: «Anche il semplice turista può contribuire al progresso degli studi più tecnici raccogliendo esemplari di scheletri, capelli, o anche parti del corpo come mani, piedi, cervello o teste intere, da spedire ai nostri laboratori o musei dove le loro caratteristiche verranno decifrate dai nostri esperti anatomisti».

Questo appello alla raccolta di parti anatomiche umane era pubblicato sotto gli auspici di due tra le più rispettabili istituzioni britanniche, e la comunità accademica fu ben lieta di accontentarle. Era come se la scienza giustificasse una moltitudine di peccati, specialmente se gli "oggetti di studio" erano poveri, prigionieri o passavano per primitivi. In viaggio all'estero i collezionisti facevano cose che in patria avrebbero meritato la galera: c'erano scienziati che disseppellivano cadaveri nel cuore della notte; altri li trafugavano dagli obitori o li compravano dalle prigioni; altri ancora offrivano ai parenti del defunto beni preziosi in cambio di parti anatomiche o chiedevano cortesemente agli indigeni di averne qualcuna dopo una battaglia o una scorreria.

Il segno più spudorato di questa morbosa avidità è il "bottino" stesso, perché i nostri musei sono pieni dei macabri resti che uomini e talvolta anche donne di cultura spedivano con orgoglio alle metropoli occidentali per farli esaminare a fondo. Arrivata al museo, ogni nuova acquisizione – ogni cranio, ogni scheletro, ogni testa rimpicciolita, ogni brandello di pelle secca, ogni organo conservato in vasetto – veniva inventariata con scrupolo dal curatore, che in seguito decideva se esporla o no. Leggere certi registri apre gli occhi sulla quantità di vite umane ridotte, di pagina in pagina, a una superficiale lista di acquisizioni:

    - Tre teste provenienti da Tangalung, Borneo centrosettentrionale,
      da C.V. Creagh, governatore di Sandakan.
    - Teschio "testa piatta" deformato artificialmente dal dott. Franz
      Boas, Clark University, Worcester, Massachusetts.
    - Orecchie di uomo e donna adulti, dal prof. George Thane.
    - Scheletro della Patagonia, da C. MacMunn.
    - Scalpo di un isolano delle Andamane raccolto dal colonnello Cadel,
      sovrintendente delle isole Andamane.

Questa è del museo Pitt Rivers. Altre, e altrettanto lunghe, se ne potrebbero ricavare dalle collezioni di tante istituzioni europee e americane. Da una breve scorsa al catalogo del Museum of Archaeology and Anthropology della University of Cambridge, per esempio, affiorerebbero un frammento di tessuto facciale maori, un certo numero di teste imbalsamate delle isole Salomone, un teschio-trofeo del Sarawak con i capelli ancora attaccati, la «testa imbalsamata di un malese» e cinque teste rimpicciolite sudamericane.

Liste delle acquisizioni come queste trasformano in reperti scientifici un'infinità di persone morte. Il fatto che l'identità del collezionista fosse sempre e comunque registrata con più precisione di quella dei morti consegnati alle istituzioni la dice lunga. I loro nomi erano ormai spariti nel nulla e all'arrivo nei musei eccoli ricevere nuovi nomignoli come "mongoloide" o "etiope", "brachicefalo" (a testa tonda) o "dolicocefalo" (a testa allungata), "gracile" o "robusto". Venivano misurati ed etichettati, puliti, incollati, verniciati e smaltati; alcuni ricuciti e messi in mostra, altri fatti a pezzi e studiati. Venivano appesi dentro teche di vetro e stesi sui tavoli, ritratti e descritti, chiusi in scatole da portare a dibattiti durante i quali uomini ben vestiti se li passavano di mano in mano discettando sui raffinati dettagli delle teorie dell'evoluzione umana. E con il passare dei decenni il numero di esemplari maneggiati da questi eruditi aumentò quasi a dismisura.

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La differenza tra collezionare teste-trofeo e contribuire a crearle, ovviamente, è grande. Nessuno scienziato, neanche Jameson, aveva mai brandito la lama. La pura brutalità del gesto della decapitazione faceva la differenza tra "loro" e "noi", dimostrando di essere un simbolo irresistibile di diversità culturale. La caccia alle teste incarnava tutti i limiti morali della "società selvaggia". La stampa dipingeva i cacciatori di teste come gente guidata dall'istinto, incapace di riconoscere le implicazioni etiche delle proprie azioni: tribù guidate da istinti vili e belligeranti, istinti naturali così irresistibili da portarle inesorabilmente verso l'autodistruzione. A differenza di James Jameson, non sapevano che cos'era bene e cosa male.

A fine XIX secolo l'idea occidentale della caccia alle teste condizionava una dicotomia molto più profonda, quella tra i "rozzi" indigeni e il "raffinato" pubblico che li osservava. Per secoli in Europa e in America lo sguardo verso le culture straniere è stato vittima di un pregiudizio radicato e spregiativo, che consentiva a chi visitava una fiera o un museo di definirsi in opposizione alle persone che andava a vedere. A distanza rassicurante, sul palco, tra le pagine di un libro o una rivista, dentro una teca o circondato da una barriera protettiva di corde, il fantastico "selvaggio primitivo" incarnava tutto ciò che la società borghese non era. Da allora abbiamo fatto parecchia strada, ma non è il caso di rallegrarsene troppo: prima torniamo per un attimo alle teste rimpicciolite del Pitt Rivers. Tutt'oggi, quando ci si imbatte nelle tsantsas dentro un museo, gli echi ancora vivi di quella fin troppo comoda dicotomia non sono da sottovalutare.

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Tra i doveri di un museo c'è anche quello di raccontare la storia dei morti e di presentare le culture straniere come parti razionali e importanti della stessa comunità globale moderna. Raccontando che responsabilità sia lavorare sulle "mummie di palude", alcune delle quali giacciono decapitate, l'archeologa Melanie Giles scrive: «Rievocare il contesto storico e ambientale di questi fatti violenti è utile per cominciare a interpretarli non come gesti estranei o barbari, ma come strategie che nella loro brutalità erano razionali, adottate in epoche di crisi sociale». Anziché porci al di qua dello steccato e mantenere i vecchi confini coloniali, possiamo esplorare gli spazi aperti dalle tsantsas.

Le teste shuar, ma in genere tutte le teste conservate in un museo, non smettono di esercitare il proprio potere sui vivi, di attirare folle, e per questo possono spingerci una volta di più a fermarci e pensare. Possono aiutarci ad abbattere gli stereotipi e a sfidare i luoghi comuni su usanze che crediamo primitive. Le tsantsas non sono ciò che sembrano. Sono il prodotto di una relazione tra euro-americani e sudamericani e hanno tanto a che fare con la "nostra" storia quanto con la storia shuar e achuar. Questo è il punto, questa la loro importanza, se vogliamo che rimangano esposte a Oxford. Grazie alle teste possiamo approfondire i dettagli più complessi del legame tra l'Occidente "civilizzato" e le culture sudamericane nel corso dei secoli e smentire non soltanto la convinzione diffusa che le tsantsas siano trofei di guerra (non lo sono affatto) ma anche l'idea che quando le osserviamo al di là del vetro nella teca di un museo britannico, esse non abbiano nulla a che fare con noi.

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[teste-trofeo]



E poi c'era il «tanfo di carneficina», come lo ricorda Ladd. «Senza contare il caldo, la puzza da sola sarebbe bastata a fare secco anche un uomo forte.» I morti erano ovunque, in tutte le fasi di decomposizione. Corpi maciullati che penzolavano dai grovigli di filo spinato, galleggiavano sui fiumi e giacevano a migliaia dov'erano caduti, intrappolati dalla foresta, o sporgevano dal terreno fangoso e dalle sepolture poco profonde. Tanti erano stati mutilati dalle esplosioni, smembrati, bruciati dal napalm, anneriti dall'esposizione agli agenti atmosferici del Tropico. Non era insolito vedere sui campi di battaglia corpi senza testa e teste senza corpo, e anche al di qua del fronte capitavano incidenti terrificanti. Poteva decapitarti un cavo spezzato su una nave, così come l'elica di un aereo fermo in pista. Un membro del servizio trasporti dell'esercito, dopo mesi di lavoro sfiancante sulle navi che portavano i rifornimenti, durante un blackout cadde dentro una stiva e andò a scontrarsi con un gancio che gli staccò la testa di netto. Lo riportarono su dentro a un cesto.

Eugene Sledge scrive che «la feroce lotta per la sopravvivenza [...] erose la patina di civiltà e ci rese tutti selvaggi». La sensazione era che fosse l'habitat stesso a stimolare una sorta di degenerazione sociale. C'erano pezzi di corpo umano ovunque, i cadaveri nemici erano lì a disposizione. In altre parole, il paesaggio morale era surreale quanto il paesaggio fisico, dal momento che i soldati erano privi dell'impalcatura sociale che ne definiva la vita quotidiana in patria. Erano circondati dai morti, avevano l'ordine di uccidere e si sentivano a un passo dalla morte: in queste circostanze, per dirla con le parole dello storico Jonathan Glower, all'uomo può capitare di «sfuggire ai vincoli dell'identità morale». Dí diventare insensibile a ciò che lo circonda.

Pensiamo per esempio a quando a Peleliu, nell'avanzata verso le linee nemiche, Sledge e la sua unità si imbatterono in un mitragliere giapponese che, morto in posizione di tiro, sembrava pronto a colpire, con l'occhio sul mirino e mezza testa esplosa. Mentre Sledge parlava con i fucilieri americani che avevano partecipato alla battaglia si accorse che uno di loro lanciava pezzetti di corallo nella testa spaccata del soldato morto. «Ogni volta che la centrava sentivo come il rumore di una goccia in quell'orribile ricettacolo.» Ma l'americano, osserva Sledge, avrebbe potuto benissimo essere un ragazzino che gioca a tirar sassi in una pozzanghera dietro casa sua, perché i suoi movimenti erano disinvolti: «Non c'era alcuna cattiveria in quel gesto».


Se gli Alleati erano diventati "selvaggi", ai loro occhi i giapponesi non erano neanche esseri umani. Nella mente del pubblico americano e delle forze armate il nemico era stato scrupolosamente disumanizzato. La propaganda e la stampa dipingevano i giapponesi come guerrieri dalle irrazionali tendenze suicide, esseri dotati di un'affinità per il combattimento nella giungla che agli americani risultava incomprensibile. Li definivano "cani pazzi", "parassiti gialli", "topi ringhianti", scimmie, insetti e rettili.

Le nuove reclute sentivano aneddoti sul nemico: «Si nascondono sugli alberi come linci. A volte quando attaccano strillano come una mandria di bestie terrorizzate al macello. Altre volte arrivano così in silenzio che non li sentirebbe neanche un serpente». Un marine commentava: «Preferirei combattere contro i tedeschi. Quelli sono esseri umani, come noi [...] I giappi sono animali [...] Affrontano la giungla come se ci fossero cresciuti, e come certi animali li vedi soltanto da morti». Era credenza diffusa che i giapponesi sapessero vedere al buio e sopravvivere cibandosi soltanto di larve e radici. E The Japs Soldier, un depliant del Dipartimento della guerra tratto da un filmato per le reclute, informava i lettori che i marine delle isole Salomone erano convinti di poter percepire la presenza del nemico dall'odore, dal «puzzo animale di selvaggina».

Se i giapponesi erano animali, certi americani si consideravano predatori in attesa. In certe zone degli Stati Uniti si distribuivano ai ragazzi, per incoraggiarli ad arruolarsi, "licenze di caccia" simili a quelle ufficiali. «La stagione è aperta. Senza limiti. Licenza di caccia al giapponese. Munizioni e armi gratuite! Stipendio garantito. Entra nei marine degli Stati Uniti!» Come dopo una battuta di caccia grossa, qualcuno di loro tornava a casa con un trofeo che ne dimostrava la bravura.

Quando nei conflitti moderni i guerrieri si tengono una testa per trofeo, è di solito all'opera un forte fattore razziale. Durante le guerre del XIX secolo le truppe britanniche e tedesche avevano portato a casa teste dall'Africa meridionale e orientale, ma era difficile che europei bianchi catturassero teste di altri europei bianchi. Tutti i teschi-trofeo della seconda guerra mondiale analizzati finora dai medici legali americani sono giapponesi, e non si ha notizia di teste trafugate nel teatro di guerra europeo. Il razzismo non è l'unico motivo che spinge i soldati a prendersi la testa di un nemico — in fondo sono addestrati a comportarsi da assassini in battaglia, e qualunque avversario viene in una certa misura disumanizzato — ma è senz'altro uno dei principali. Le guerre del XX secolo in Vietnam, in Corea e nel Pacifico videro un aumento della razzia di trofei, in parte per via del terreno e dei termini di ingaggio, ma in parte anche per i pregiudizi razziali che pervadevano i conflitti stessi, in cui spesso i soldati si vedevano come cacciatori di animali nella giungla.

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[teste giustiziate]



Aneddoti come questi danno un'idea chiara dell'incredibile difficoltà di decapitare una persona in un colpo solo, anche se è legata e bendata, senza contare poi la distrazione della folla berciante che lancia oggetti e disturba. Nemmeno in caso di condannato già morto o privo di sensi era garantita la pulizia dell'operazione. Nel 1803 fu disposto che, dopo l'impiccagione, la testa del rivoluzionario irlandese Edward Despard fosse mozzata da un chirurgo. Purtroppo, come ci racconta lo storico V.A.C. Gatrell, il dottore «mancò l'articolazione che intendeva recidere; mentre continuava ad armeggiarvi intorno, uno dei boia prese la testa tra le mani e la girò più e più volte, e persino allora fu arduo separarla dal corpo». Alla fine il boia di Despard riuscì a sollevare il trofeo e scandire davanti a 20 000 spettatori il classico proclama: «Ecco la testa di un traditore!».

Malgrado le difficoltà, o forse proprio per questo, quando una decapitazione filava liscia dava grande prestigio al carnefice. Da metà XVI secolo in poi i boia europei più ricchi cominciarono a ingaggiare assistenti che si occupavano delle punizioni di grado inferiore, fermo restando che il compito di mozzare teste era riservato al padrone. Cominciarono a circolare storie mitiche sui boia e sui loro poteri magici: si diceva che fossero in grado di ritrovare bambini perduti o oggetti rubati, che sapessero esorcizzare gli spiriti maligni e curare malattie con l'imposizione delle mani, che le spade custodite in casa loro tremassero ogniqualvolta una persona veniva condannata a morte. Si raccontava che un boia avesse decapitato un uomo in piedi con velocità tale da lasciare come traccia visibile sul cadavere soltanto un'esile striscia di sangue lungo la circonferenza del collo. E si diceva che certi boia avessero giustiziato gruppi interi di criminali in pochi minuti.

Nel 1488 Claus Flügge, boia di Amburgo, compì una notevole impresa decapitando settantanove pirati uno dopo l'altro. Quando a opera terminata il senato gli domandò come si sentisse, lui rispose: «Così bene che potrei andare avanti e sbarazzarmi dell'intero Saggio e Onorevole Senato». I senatori non colsero l'ironia e l'insolenza di Flügge gli costò nientemeno che la testa.

Di solito, quando il boia ci lasciava la pelle era questione di nervi o incompetenza. Troppo spesso lo stato in cui era ridotta la testa del traditore mostrata al pubblico sottolineava la sproporzione di potere tra assassino incompetente e vittima indifesa, e negli ultimi anni del XVIII secolo il governo francese decise di cambiare le cose. Levò di mano al boia la spada, sostituendola con la corda di una carrucola: venne commissionata una macchina per la decapitazione.


La ghigliottina era progettata per funzionare con discrezione. Nell'aprile 1792 la Francia ne fece lo strumento ufficiale delle esecuzioni, perché una faccenda brutale come la condanna a morte si trasformasse in qualcosa di più pulito, ordinato, affidabile, e perciò più umano e meno spettacolare. I commentatori videro nella ghigliottina un progresso rispetto alle procedure difficoltose e imprevedibili degli anni precedenti, quando la velocità della morte di una persona dipendeva in larga parte dal reato, dal censo del condannato e dalla competenza, o incompetenza, del boia. Adesso chiunque fosse stato condannato a morte in Francia sarebbe morto alla stessa maniera, ucciso con velocità ed efficienza da una macchina.

I primi spettatori a vedere la ghigliottina in azione, in ogni caso, non ne rimasero colpiti. Erano abituati a scene più drammatiche. La macchina era troppo veloce e fredda; non c'era niente da vedere. Era difficile che capitassero errori, che si creasse confusione, e l'interazione tra boia e condannato sul patibolo era pressoché inesistente. Nessuno aveva alcun problema ad assistere al momento in cui una testa veniva tagliata, anzi, la gente ci era abituata; la delusione stava proprio nel fatto che non riuscivano più a vedere il momento in cui la testa veniva tagliata. Più che altro, i primi testimoni della ghigliottina in azione sembravano confusi: la morte era così veloce che distinguerla era impossibile.

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[teste miracolose]



Oggi migliaia di cristiani rivolgono preghiere alle teste dei santi, conservate nelle chiese di tutta Europa e spesso custodite in reliquiari riccamente ingioiellati. La testa di sant'Agnese si trova in una scatola d'argento nel sancta sanctorum della sua chiesa, a Roma, e pare che poco lontano, nascoste sotto l'altare maggiore di San Giovanni in Laterano, ci siano le teste dei santi Pietro e Paolo. Anche la testa di san Sebastiano è a Roma, nella basilica dei Santi Quattro Coronati; la testa di santa Caterina è diventata un'importante attrazione turistica a Siena; quella di santa Lucia è conservata nella cattedrale di Bourges, nella Francia centrale; la testa di sant'Elena è nella cripta della cattedrale di Trier; il cranio di sant'Ivo nella cattedrale di Treguier, in Bretagna. Le teste di queste persone hanno passato così tanto tempo fuori dalla tomba che è improbabile pensare che siano restituite alla terra in tempi brevi.

La più famosa di tutte è la testa di santa Caterina. Fu staccata dal corpo nel 1384, quattro anni dopo la morte, e insieme al dito indice portata da Roma, dov'era spirata, alla città natale, Siena, dove da allora la custodisce la basilica di San Domenico. Le annuali celebrazioni di santa Caterina si sono fatte più fastose dopo la sua proclamazione a patrona d'Italia nel 1939 e d'Europa nel 1999. Come nel caso di sant'Oliviero a Drogheda, per le strade della città si tiene una processione seguita dalle autorità cittadine ed ecclesiastiche, da membri delle forze armate e ministri del governo. Si celebra una messa nella chiesa che, in una cappella, custodisce la testa. Il dito della santa viene poi portato fuori per benedire la città di Siena, l'Italia e l'Europa intera. A volte anche la testa va in processione, come nel 2011 per il 550° anniversario della canonizzazione. Nel frattempo a vedere la testa mummificata di santa Caterina, avvolta in un velo bianco e custodita in un reliquiario d'argento, arrivano turisti da tutto il mondo.

Le reliquie possono contribuire a rendere nota una località, perché oltre ai pellegrini attraggono investimenti economici e politici: le sacre membra movimentano di tutto, dai bilanci delle trattorie economiche al tasso di famiglie reali in visita. E le leggende raccontano che spesso è il santo stesso a decidere dove andare, per sottolineare il proprio ruolo nelle fortune di una città o un borgo e rafforzare il legame con la sua gente. Esistono tanti racconti di santi che dopo la decapitazione portano da sé la propria testa fino al luogo di sepoltura. San Dionigi partì da Montmartre e fece ben dieci chilometri a piedi, reggendosi la testa e recitando un sermone lungo la strada. Si dice che san Nicasio di Reims avesse continuato a recitare il salmo 119 nonostante lo avessero decapitato all'altezza del verso 25. Esistono oltre 150 casi noti di martiri che raccolgono la propria testa e si incamminano verso un luogo da loro scelto.

Santa Caterina non portò la propria testa a Siena, ma una versione degli eventi dice che aiutò gli uomini che la trasportavano in segreto: furono fermati e perquisiti per le strade di Roma, ma quando le guardie aprirono il sacco con la testa di Caterina lo trovarono pieno di petali di rosa e permisero ai viaggiatori di ripartire. Questo sarebbe il segno che Caterina acconsentiva al trasferimento della testa nella sua città, Siena. La sua non è l'unica testa che decise il proprio fato. Si dice che, mentre attorno al 1035 si tentava di portarla da Auxerre a Pfäfers, un miracolo avesse reso impossibile il trasporto della testa di san Giusto di Beauvais oltre i confini della parrocchia di Flums, in Svizzera: aveva scelto di rimanere in quel luogo, e per questo la chiesa locale commissionò un reliquiario in cui custodire i resti della sua testa; nei secoli a venire centinaia di pellegrini avrebbero visitato il borgo per venerare la celebre reliquia.

Che sia a Drogheda o a Siena, a Flums o altrove, una testa può portare grande benessere. I cimeli sacri rinvigoriscono la comunità, stimolano investimenti religiosi, economici e artistici, magari sotto forma di straordinari reliquiari coperti d'oro, argento e gemme preziose, costruiti per custodirli ma anche per abbagliare i fedeli. In parte i reliquiari scintillanti rallentano la decomposizione che minaccia il loro contenuto: se sei un'antica palla rugosa di materia organica putrefatta può essere utile trovarti dentro una scatola d'oro tempestata di gemme al centro di un edificio sacro dove la gente, di norma, fa silenzio e porta rispetto. Come accade per il reliquiario di Drogheda, queste opere d'arte creano la giusta atmosfera per il momento in cui il pellegrino si trova faccia a faccia con un essere sacro giunto da un altro e più glorioso mondo.

In certi casi il cadavere è letteralmente incastonato in un surrogato di corpo d'oro, come fosse rivelato dai cieli. Nel Medioevo molte teste di santo erano custodite in "busti-reliquiario". Quello di san Giusto, realizzato in Svizzera nel XV secolo in argento laminato d'oro e ottone, è il più straordinario, perché mostra il santo che tiene in mano la propria testa: fu decapitato dai soldati romani a soli nove anni, e suo padre lo ritrovò che teneva la testa tra le mani. La storia narra che il bambino diede la testa al padre e gli disse di portarla alla madre, Felicia, perché la baciasse. Ricevuta e baciata la testa del figlio, la donna divenne la prima persona a venerare la reliquia di san Giusto.

Il dettaglio interessante è che il reliquiario non mostra san Giusto mentre stringe la testa a sé. No: la testa sembra quasi fluttuare davanti al petto, sorretta da un'energia tutta sua. Le mani del santo si limitano soltanto a sfiorarla, a farle quasi da cornice, non lasciando molti dubbi su dove si concentri davvero il suo potere miracoloso. Gli occhi sono semichiusi, e il potere del santo nasce dalla sua parziale assenza, dal carattere soprannaturale di questa parte del corpo separata dal resto. La testa tagliata è dinamica e lontana, una luccicante visione dall'aldilà. I reliquiari trasformano i resti umani in opere d'arte, e plasmano una cultura dell'esibizione che sfida í confini tra vita e morte — come in tempi più recenti hanno fatto gli artisti laici.

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[teste d'osso]



Rosenbaum fu una delle prime vittime di una mania, quella per il cranio umano, che nel XIX secolo imperversò in Europa e America. Era affascinato da quella "nuova scienza" che divenne nota come "frenologia". Era stato l'interesse per la frenologia a spingerlo a rubare la testa di Haydn nonostante i rischi e il concreto disgusto insito nel maneggiare cadaveri; con tutta probabilità Rosenbaum aveva seguito le conferenze del famoso frenologo viennese Franz Joseph Gall, che più di chiunque altro, tra XVIII e XIX secolo, rese popolare il collezionismo di teschi. La Schädellehre (dottrina del cranio) di Gall si basava sull'idea che studiando la testa delle persone se ne potesse dedurre il carattere. Identificò ventisette tratti della personalità localizzati nel cervello e impressi sul cranio, dalla memoria e dal linguaggio all'astuzia, dall'arroganza all'arguzia e alla costanza. Secondo Gall il carattere della persona era letteralmente inscritto nella conformazione del cranio. E la sua si dimostrò una teoria irresistibile.

Gall era un oratore brillante e parlava al pubblico circondandosi della sua collezione di teste. Riempiva tavoli interi di teschi umani e animali, busti di uomini famosi, calchi e modelli colorati del cervello umano in cera, tutti in bell'ordine. Alle pareti appendeva grandi illustrazioni e diagrammi della testa. Prendeva un cranio mentre parlava della vanità di un tale, o del suo particolare senso del colore, e ne indicava le aree legate a quegli ambiti, particolarmente sviluppate. Quando poteva approfittare di un reperto fresco, il suo assistente dissezionava un cervello di animale, o talvolta umano, davanti al pubblico. Le conferenze di Gall divennero celebri prima a Vienna e poi in tutta l'Europa settentrionale, attirando un pubblico ampio ed eterogeneo, dai turisti ai commercianti, dagli ambasciatori agli accademici. La combinazione di terminologia medica, dimostrazioni dal vivo – in pochi, tra il pubblico, potevano aver già assistito a una dissezione – e fine oratoria era inebriante. Dopo ogni lezione la gente si metteva in fila per farsi leggere la testa da Gall. Era scienza provvista di poteri psichici, questa: lo scienziato ti conosceva meglio di quanto conoscessi te stesso, e tutto grazie ai segreti inscritti nella forma della tua testa.

In poco tempo la frenologia si diffuse in tutta l'Europa settentrionale e convertì in adepti centinaia di persone. Lo storico Roger Cooter racconta che nel 1826 sembrava che la «mania craniologica» si fosse «propagata come una peste [...] possedendo ogni fascia della società [britannica] dallo sguattero al signore». Il fenomeno era come «una specie di fungo intellettuale, una pianta infestante». Un viaggiatore in visita a Londra constatò quanto fosse difficile passeggiare in strada senza «essere colpiti dal numero di situazioni in cui busti e calchi frenologici sono esposti e messi in vendita». Le vetrine delle botteghe esibivano calchi di teste che si potevano comprare per pochi scellini. Gli appassionati potevano comprare serie di calchi dedicate a facoltà umane particolari come la benevolenza, la combattività o l'arguzia, o pagare per un calco della propria testa. James De Ville, che a Londra era uno dei venditori di mercanzia frenologica di maggior successo, proclamava di saper realizzare in meno di sette minuti, e senza arrecare il minimo disturbo al modello, una forma precisa dalla quale avrebbe ricavato un calco utilizzabile «per gli studi frenologici o come ricordo di famiglia».

Spesso i libri di frenologia erano best seller. Nel 1860 La costituzione dell'uomo, del frenologo scozzese George Combe, con 100 000 copie vendute eclissò persino L'origine delle specie di Darwin, che avrebbe raggiunto le 50 000 soltanto alla fine del secolo. All'apice del successo, le vendite della Costituzione dell'uomo erano superate soltanto da quelle della Bibbia, del Pellegrinaggio del cristiano e di Robinson Crusoe. Persino Robert Louis Stevenson aveva detto la sua sulla popolarità della frenologia a Edimburgo attorno al 1820: «Lo studente di legge», commentava, «dopo aver esaurito la poesia di Byron e i romanzi di Scott, informò le dame del proprio interesse per la frenologia», con il sottinteso che saperne discorrere aumentava il prestigio personale nell'alta società. Ogni grande città e molte cittadine potevano vantare una "società frenologica", i cui membri si riunivano per discutere delle teste di criminali, celebri pensatori o scemi del villaggio. La frenologia incuriosiva le classi in ascesa con il suo miscuglio di chiacchiere da salotto, pretese scientifiche e approccio diretto all'oggetto di studio, ma raccoglieva molti seguaci anche nelle classi medio-basse, tra i commercianti e tra gli artigiani specializzati. Negli anni trenta del XIX secolo in Inghilterra «non era cosa insolita udire il meccanico che ne discorreva, continuando a maneggiare gli attrezzi del suo mestiere». Non c'è da sorprendersi che oratori ed "esperti" sbucassero ovunque, a tentare di vendere corsi, mappe, manuali e letture della testa.

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Samuel George Morton pubblicò Crania Americana nel 1839 e Crania Aegyptiaca nel 1844; Barnard Davis fece uscire Crania Britannica nel 1856 e il monumentale Thesaurus Craniorum nel 1867. Messi tutti insieme, questi libri costituivano un elenco di migliaia di crani e decine di migliaia di misurazioni. Il Thesaurus Craniorum conteneva la cifra straordinaria di 25 000 misurazioni di crani. Barnard Davis ammise: «Quando cominciai, l'idea di dover compiere oltre 25 000 pignole e attente misurazioni da solo era quasi opprimente». Quasi! Per qualche motivo, forse temprato dalla continua ripetizione meccanica degli stessi gesti, mano a mano che procedeva il compito gli risultava più facile. Un necrologio ricorda che «il suo punto forte era un'instancabile energia nel collezionare e catalogare i reperti, piuttosto che la profondità di osservazione, giudizio o deduzione», e forse lui stesso sarebbe stato il primo a concordare. Il suo obiettivo principale, così sembra, era la creazione di una banca dati di forme di cranio a disposizione degli studiosi, piuttosto che l'ideazione di una rivoluzionaria teoria razziale.

E in questa impresa gli strumenti a sua disposizione non erano affatto pochi. Barnard Davis usava semplici metri da sarta, calibri e righelli, ma con il passare del secolo l'armamentario si fece sempre più sofisticato. Anzi, basterebbe la profusione di strumenti da sola a testimoniare la popolarità della disciplina. A fine XIX secolo ne erano disponibili oltre 600 tipi diversi: c'erano goniometri e craniofori, craniografi, compassi e calibri, tavole osteometriche, dinamometri e antropometri, c'erano goniometri mandibolari, stereografi, cefalometri, ciclometri e orbitostati. Ai fondamentali e semplici craniometro e calibro, Morton aggiungeva un goniometro facciale, un craniografo per disegnare il teschio e un cranioforo che ne misurava il volume. Il craniografo era un'asse di legno lunga un metro e ottanta e larga trenta centimetri, con un supporto per il cranio a un'estremità e all'altra una lente per osservarlo in scala ridotta. Lo studio di Morton doveva essere una vera foresta di metri e righelli.

Anziché pubblicare ricerche scientifiche, nel 1880 un curatore dell'Army Medical Museum usò i crani per sperimentare nuovi strumenti di misurazione, come se fosse diventata un'attività fine a se stessa. Il risultato erano grandi tavole con le distanze, gli angoli e le proporzioni di ciascuna testa, così che ciascun ladro, pirata o povero diavolo potesse venir trasformato in una serie di numeri sulla pagina.

C'era un che di autoritario in questo impulso di convertire le persone in numeri. Sia Morton che Barnard Davis, come tanti loro contemporanei, tendevano a credere che le differenze razziali fossero antiche e immutabili. Barnard Davis scrisse a proposito della «essenziale e irriconciliabile eterogeneità delle razze umane», e come il collega credeva che i discendenti di genitori di razza mista si sarebbero dimostrati sterili o, perlomeno, decisamente meno fertili. Ovviamente non è così, ma alla fine Morton meditò di eliminare la fertilità dai criteri di distinzione tra le specie animali, convinto com'era che le diverse razze costituissero gruppi biologici incompatibili. Uomini come Morton e Barnard Davis consideravano l'eterogeneità umana allo stesso modo in cui consideravano il cranio: rigida e inflessibile. Con le loro scrupolose misurazioni del corpo umano cercavano di mettere ogni persona in un posto preciso, all'interno di confini irremovibili. Il problema è che nella convinzione di scoprire la differenza razziale contribuirono a crearla.

Questa montagna di attrezzature e statistiche conferiva alla misurazione dei crani l'aspetto di una vera scienza, così come ridurre le persone a numeri dava l'impressione di poterle prevedere, ma i dati oggettivi avevano il brutto vizio di non tornare mai. C'erano sempre eccezioni, lacune, e gruppi di individui che non si incastravano nel puzzle. Le teste delle persone riuscivano sempre a mettere in dubbio in modo irritante le idee prevalenti riguardo alle gerarchie razziali.

Certe piccole frasi nei libri di Morton rivelano quanto gli risultasse arduo cogliere la complessità del quadro che cercava di dipingere. Per esempio, a un tratto si dichiara «incapace» di trovare le differenze tra gruppi che secondo lui avrebbero dovuto essere diversi. Ammette di aver deciso di non calcolare una dimensione media dei crani caucasici nella sua collezione perché le teste indù ed egiziane, più piccole, l'avrebbero abbassata. Al tempo stesso include i peruviani nel gruppo degli indiani d'America e così facendo riduce le dimensioni medie del gruppo. Se un sottogruppo di indiani d'America ha la testa grande non lo include neanche nelle pubblicazioni. Non tiene conto del sesso né della statura, e quindi abbassa la dimensione media del gruppo "negroide" sulla scorta di una grande quantità di teschi femminili. Sia i peruviani da lui inclusi che gli indù da lui esclusi hanno la testa piccola soltanto perché sono bassi di statura. Morton arrotonda per eccesso la media dei tedeschi e degli anglosassoni, per difetto quella degli egiziani "negroidi".

E così via. Questo è il problema di tutti í risultati di Morton: poiché la sua collezione è il risultato di una raccolta casuale influenzata da incontri fortuiti e dal giro delle sue conoscenze, certi gruppi contano molti più pezzi di altri, ridotti magari ad appena uno o due crani; in alcuni sono di più le donne, in altri i bambini. Nei suoi dati non c'è coerenza, e peraltro nemmeno in quelli degli altri craniologi, perché la natura del materiale rendeva pressoché impossibile una "raccolta sistematica". I campioni rappresentativi erano il sogno del craniologo, il quale però nella realtà doveva trarre conclusioni da un assortimento di teste variegato.

Un altro problema significativo riguardava la definizione precisa di "razza". Alcuni gruppi di Morton erano divisi per religione o etnia – arabi, celti, indù, negri – e altri per nazionalità – afghani, olandesi, inglesi. Fatto ancora più preoccupante, Morton sosteneva di aver escluso dai calcoli «gli idioti» e «le razze miste», ma queste definizioni non fanno che confermare la fluidità delle categorie che cercava invece di fissare. Con che criterio si definiva il grado di idiozia che costava l'esclusione? E con quale autorità? Si tratta di definizioni assai poco scientifiche. Morton si scontrava con il tipo di decisioni arbitrarie che affliggono la storia del concetto di "razza" da sempre, perché a un esame minuzioso qualunque classificazione razziale non può reggere. La razza si definisce in base alla nazione, alla regione, al paese, al sistema di credenze? Alla fine da qualche parte dovrai pur tracciare un confine, ma troverai sempre individui "simili" tra loro al di qua e al di là della linea.

La verità è che le categorie razziali venivano create prima ancora di cominciare le misurazioni, che pertanto si traducevano nel tentativo di capire in che modo corrispondessero ai teschi berberi, nubiani, eschimesi, arabi, indù, neri africani, nativi americani e bengalesi analizzati. Spesso la documentazione era vaga, specialmente se i teschi erano stati rubati dalla tomba, dissepolti per caso o presi sui campi di battaglia da gente che non nutriva alcun interesse personale per le grandi questioni intellettuali dell'epoca. Come scrive Morton nel 1849, «talvolta teschi europei e africani mi venivano spediti scambiandoli per indiani: che essi si trovassero nello stesso cimitero è comprensibile; ma un occhio esperto li sa distinguere senza difficoltà». Quindi si mise a classificare le persone in gruppi basandosi su crani di origine incerta.

Di solito il massimo che si potesse sperare di conoscere riguardo a un cranio era qualche informazione su nazionalità, età e sesso; di norma le più dotate di documentazione attendibile erano le teste dei criminali. Ma i craniologi, come i frenologi, dedicavano davvero tanto tempo a ponderare sugli individui che non soddisfacevano le loro aspettative. Prendiamo l'antropologo francese Paul Broca, che misurò con diligenza teschi parigini del XII, del XVIII e del XIX secolo, certo di registrarne il progressivo aumento di dimensioni. Quando scoprì che le teste del XIX secolo erano le più piccole, riuscì a dimostrare che erano state raccolte in un cimitero destinato ai meno abbienti, e concluse che il motivo del risultato imprevisto era quello.

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La variazione di forma della testa è influenzata dal clima, dalla salute e dall'alimentazione, oltre che dall'identità dei genitori e dei nonni, elementi che di per sé hanno poco a che vedere con il luogo in cui vivono. Senza voler considerare il fatto che circa il 90 per cento della variazione craniometrica globale si riscontra all'interno di popolazioni locali, è la stessa definizione di "regione geografica" a risultare problematica. Se la "razza" è un costrutto culturale senza basi biologiche, gli studi sulla "discendenza" o sulla "regionalità" hanno lo stesso difetto, perché gli scienziati devono prima definire una regione geografica, poi usare i test per decidere quanto vi corrispondono í crani. A ogni cultura corrisponde una mappa del mondo diversa, tanto che le regioni, come le razze, hanno ciascuna una storia culturale propria. Ma l'esistenza di valori anomali e di ragioni ampiamente condivise che si oppongono alla correlazione tra forma e provenienza della testa non scoraggia certe persone dal tentativo di misurare un cranio per stabilirne la provenienza.

Ovviamente, se le domande sono ragionevoli lo saranno anche le risposte. Quando i criteri vengono definiti con scrupolo, quando le informazioni sono convalidate da test incrociati e quando ai dati delle misurazioni si aggiungono informazioni come il contesto archeologico o il profilo genetico delle ossa, la craniometria è uno strumento utile. Ma soprattutto il cranio aiuta a mettere a fuoco aspetti molto importanti della condizione umana, perché come tutte le altre ossa del corpo viene plasmato dalla crescita, dalla salute, dalla nutrizione, dall'ambiente e dalla discendenza, dai traumi, dall'usura e dagli interventi medici subiti in vita. In passato, però, il cranio ha affascinato gli studiosi per motivi più profondi di qualsiasi domanda specifica possiamo porci oggi sulla causa di morte di una persona o sulla sua dieta tipo.


Il carattere delle imprese clandestine dei primi cacciatori di crani era decisamente quello della caccia al trofeo. Nel loro audace fervore di classificazione dei popoli del mondo, spesso i collezionisti tiranneggiavano su di loro; le enormi collezioni di resti umani dei nostri musei sono uno sgradevole memento dell'oppressione e della diseguaglianza del passato.

Negli ultimi trent'anni sempre più comunità indigene hanno chiesto la restituzione dei loro antenati morti per poterli seppellire e farli riposare in pace. In Gran Bretagna e Stati Uniti sono entrate in vigore leggi che disciplinano il trattamento dei resti umani nei musei, e a livello sia nazionale sia istituzionale sono state riviste le linee guida dei negoziati tra istituzioni e discendenti che reclamano i resti dei loro cari. Nel frattempo, molte parti anatomiche esposte nei musei sono state tolte dalle collezioni in segno di rispetto e sepolte, in un certo senso, tra carta priva di acidi e gommapiuma, in ambienti freschi, bui e solitari, lontano dall'occhio indiscreto del pubblico.

Negli ultimi anni teste, ossa e parti del corpo di morti di tutto il mondo sono tornate ai loro discendenti: da Londra allo stretto di Torres, da Birmingham alla California, da Edimburgo all'Australia, per fare solo qualche esempio. La testa di un re ghanese giustiziato dai coloni olandesi nel 1838 e conservata in un museo medico a Leida fu restituita nel 2009. Nel settembre 2011 venti crani furono restituiti alla Namibia dal Medizinhistorisches Museum, il museo di storia della medicina di Berlino. Quand'erano arrivate in Germania, alla vigilia della prima guerra mondiale, le teste erano intere, conservate in formaldeide con la pelle e i capelli intatti, ma a forza di dissezioni eseguite negli anni venti ne rimasero soltanto i teschi. La Smithsonian restituì il cervello di Ishi ai suoi discendenti tribali nel 2000, perché lo riunissero alle ceneri e lo seppellissero nella sua terra. I rappresentanti della riserva di Redding Rancheria e la tribù di Pit River decisero di mantenere il segreto sul luogo di sepoltura di Ishi.

Gruppi indigeni di tutto il mondo hanno riallacciato i legami tra morti e vivi che si erano interrotti quando qualcuno aveva trasformato i loro antenati in "reperti". I crani di migliaia di criminali e poveri rimangono perlopiù indisturbati perché non c'è una comunità di viventi altrettanto numerosa che li reclama. È però successo al Museo Lombroso di Torino, per esempio, che si è visto chiedere la restituzione di teste e teschi di criminali, perché ricevessero degna sepoltura. A conforto della sua teoria biologica sul comportamento criminale, infatti, nel XIX secolo Cesare Lombroso aveva raccolto 400 teschi, cervelli e modelli in cera di teste; molti venivano dagli obitori delle prigioni ed erano stati ceduti senza il permesso delle famiglie dei carcerati. Il Museo Lombroso intende mantenere intatta la collezione, a testimonianza del contributo del suo creatore alla storia della scienza, ma la semplice esistenza di un dibattito intorno ai reperti è già sintomo, forse, di un mutato atteggiamento nei confronti dei resti umani, a prescindere dalla loro provenienza.

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[teste viventi]



A inizio XIX secolo non erano pochi quelli che tentavano di riportare in vita i morti. Una scoperta casuale, avvenuta a Bologna attorno al 1780 grazie a un bisturi d'acciaio, un uncino d'ottone e un paio di zampe di rana dissezionate, fece scoppiare una specie di nuova moda. Gli esperimenti di Luigi Galvani sulla contrazione muscolare portarono alla scoperta alquanto allarmante che una scarica elettrica rianimava gli animali morti, che saltavano e sobbalzavano e talvolta si dimenavano al contatto con una sonda di metallo. Galvani chiamò questa energia «elettricità animale», che era convinto fosse emanata dall'interno dell'animale stesso. In altre parole, era convinto di poter riaccendere con i suoi strumenti, per qualche secondo o minuto alla volta, la forza vitale di un corpo morto. Di lì a poco altri scienziati cominciarono a sperimentare con gli arti smembrati di piccoli mammiferi e a domandarsi quanta energia potessero ridare ai morti con i dispositivi elettrostatici e, più avanti, con le prime pile. Nel frattempo i dottori cominciarono a somministrare ai loro pazienti piccoli shock elettrici con generatori a frizione per curare di tutto, dalla paralisi parziale alla melancolia.

Giovanni Aldini, nipote di Galvani, fu il suo più fervente adepto e passò i primi anni del XIX secolo a girare l'Europa con le sue grandi batterie di dischi di zinco e rame, a dimostrare l'esistenza dell'elettricità animale. Era uno spettacolo stupefacente vedere parti di coniglio, pecora, cane e bue volteggiare sul tavolo a un semplice tocco di Aldini. A volte tagliava la testa a un cane davanti al pubblico e la rianimava con le sue sonde galvaniche: i denti cominciavano a battere, gli occhi a roteare nelle orbite, mentre gli spettatori si chiedevano se il cane fosse ancora vivo e soffrisse quel tormento.

Nel 1803 Aldini fece un certo scalpore quando in Gran Bretagna utilizzò per i suoi esperimenti il corpo di un uomo, George Foster, impiccato per omicidio nella prigione di Newgate. La dimostrazione ebbe luogo in pubblico, presso il Royal College of Surgeons di Londra. Davanti agli spettatori sbalorditi Aldini fece la sua magia:

Per prima cosa il trattamento venne applicato alla faccia: la mandibola del criminale morto cominciò a tremare, i muscoli vicini a contorcersi orribilmente, e un occhio di fatto si aprì. Nella parte successiva dell'esperimento la mano destra si alzò e si serrò, le gambe e i fianchi furono messi in movimento. Alla parte meno informata del pubblico sembrava che il disgraziato fosse sul punto di tornare in vita.

Davanti a prove tanto suggestive furono in molti a credere alla teoria dell'"elettricità animale". Anzi, qualcuno trovava le prove anche troppo credibili. Durante una dimostrazione pubblica simile, a Glasgow nel 1818, il petto di un altro assassino morto si inarcò e l'uomo parve respirare mentre «in ogni muscolo del volto si scatenava simultanea l'azione; rabbia, orrore, disperazione, angoscia e spettrali sorrisi, uniti nella loro atroce espressione»; diversi spettatori dovettero uscire e uno di loro svenne.

A Bologna Aldini aveva fatto esperimenti sulle teste umane, in un caso mozzandone due e poi collegandole tra loro, per poi investirle di corrente elettrica. A quell'epoca i criminali decapitati alimentarono diversi esperimenti simili in tutta Europa. All'inizio del XIX secolo in Germania il galvanismo raggiunse un picco febbrile talmente alto che gli esperimenti su teste umane decapitate furono messi al bando.

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CONCLUSIONE
Le teste degli altri



Quando scrivi un libro come questo finisci per replicare quasi gli stessi meccanismi che cerchi di analizzare e descrivere. Io non ho mai visto decapitare nessuno, né ho mai visto una testa appena tagliata. I libri hanno la stessa capacità di contenere l'orrore che ha il telo chirurgico nelle sale anatomiche o la teca nei musei: ci offrono la cornice che permette di sviluppare la nostra indagine e allo stesso tempo promette di proteggere la nostra integrità. Ci tengono a distanza. Un senso di distacco, insieme al potere latente che nasconde, lega le storie raccontate fin qui, malgrado le loro infinite differenze.

Spesso il distacco fisico di una testa dal corpo è preceduto dall'implicito distacco sociale che caratterizza il carnefice nei confronti della vittima. Spesso questa presa di distanza ha assunto la forma del razzismo, come nella campagna del Pacifico durante la seconda guerra mondiale, o come nel caso dei primi antropologi che misuravano le variazioni craniche umane. In certi casi il razzismo era così estremo che le vittime venivano considerate né più né meno che subumani. Lo stesso si può dire del pregiudizio di classe che permetteva alle prime generazioni di anatomisti di prendere le distanze da "pazienti" poveri e diseredati. In questi casi l'alienazione del povero aiutava a trasformare il suo cadavere senza nome in "materiale clinico" in mano a dottori che lo smembravano nelle sale settorie degli ospedali.

Un genere diverso di distanza sociale è quello condizionato dalle credenze religiose su paradiso e inferno, che pongono certe persone, santi o peccatori, al di fuori della società normale e ne rendono i corpi più idonei a essere fatti a pezzi. In passato i corpi dei criminali erano privati del diritto a rimanere intatti dopo la morte e la dissezione entrava a far parte del loro castigo eterno. I corpi divini, d'altra parte, trascendevano le leggi di natura ed erano così potenti che venivano ridotti abitualmente a brandelli e distribuiti tra i vivi, come reliquie sacre. I corpi dei criminali e i corpi santi erano isolati e trattati in modo diverso dagli altri.

Oggi la distanza si sancisce tramite un sistema calibratissimo di anonimato professionale, come nelle facoltà di medicina organizzate in modo da trasformare i corpi delle persone in reperti numerati da esaminare più facilmente. È una distanza sociale generata di proposito, all'interno del contratto tra i medici e coloro che scelgono di donare il proprio corpo alla scienza.

A prescindere dalle circostanze specifiche, di solito chi stacca una testa si vede intrinsecamente diverso dal proprietario della testa. Lo oggettífica, in una certa misura. È facile intuire che tagliare la testa a qualcuno rende questo qualcuno un oggetto di particolare potenza, una cosa che si può aprire in due, mostrare agli altri, esporre in pubblico, ma il più delle volte il processo è iniziato già prima di praticare il primo taglio. Detta in un altro modo, è raro che qualcuno decapiti un uomo avendolo conosciuto di persona – anche se certi anatomisti, si sa, hanno dissezionato amici o familiari. È molto più probabile che a incontrare la lama del coltello sia "il nemico", "il donatore", "il reperto" o "la carne incorruttibile" di un essere divino. Questo distacco in senso sociale può trasformare una persona in oggetto prima ancora che sia morta.

Spesso alla distanza sociale corrisponde la distanza fisica. La decapitazione e i suoi prodotti appartengono a un mondo molto lontano dalla quotidianità. È estremamente insolito che qualcuno venga decapitato per strada, a casa o mentre bada alle proprie faccende, perché di solito le teste vengono tagliate e prese in posti separati dalla sfera domestica. Questa lontananza geografica può permettere al carnefice di assumere un'identità alternativa e occupare una realtà alternativa, dove i codici morali normali vengono capovolti.

Il miglior esempio lo si ha sul campo di battaglia. Nelle giungle del Pacifico, durante la seconda guerra mondiale, spesso i soldati responsabili di atrocità ricordavano la propria esperienza come se appartenesse a qualcun altro. «Quello non sono io. Mi è successo qualcosa»; oppure: «Ho cominciato a uccidere in tutti i modi che potevo. È successo. Non sapevo di avercelo dentro». Il paesaggio sconosciuto, l'assenza di legami con la vita da civili, contribuirono a ribaltare l'ordine morale. Quando sei in un altro mondo è più facile essere un'altra persona. In questa realtà alternativa, lontani dalla famiglia e dagli amici, gli uomini venivano incoraggiati ad agire con violenza ed elogiati quando uccidevano.

Gli echi di questo effetto di "scissione della personalità", l'emersione di un'indole nuova in un contesto governato da regole capovolte, sono evidenti anche nei rituali di esecuzione. I boia e i criminali condannati pativano la medesima segregazione nella comunità. Si "esibivano" per il pubblico sul patibolo, che delimitava uno spazio esclusivo governato da regole diverse. A volte le vittime sfondavano la barriera rivolgendosi pietose e imploranti al pubblico, ma in generale restavano intoccabili anche se in bella mostra. Oggi gli spettatori guardano online i criminali che decapitano le vittime. Il ruolo dell'osservatore è mediato dalla videocamera: certifica al tempo stesso che gli eventi registrati sono avvenuti davvero e che appartengono a una dimensione spazio-temporale diversa. La separazione ci tiene a distanza, ma può anche incoraggiarci a guardare malgrado le nostre riserve, o giustificare la nostra volontà di prendere parte all'evento.

Forse la stessa idea di condividere un'interazione con persone che occupano mondi diversi permeava anche l'iniziativa coloniale. Uomini come James Jameson non si vedevano soltanto lontani, nel tempo e nello spazio, dagli indigeni che raccoglievano per studiarli; si sentivano anche giustificati dall'approdo in terre straniere dov'era possibile sperimentare nuove personalità sfuggendo alla legge.

In medicina, dietro le porte della sala settoria o operatoria sono permesse procedure che all'esterno sarebbero sconvolgenti e trasgressive. Anche i dottori vivono in un mondo diverso da noi. I tirocinandi che imparano la "disumanità necessaria" indispensabile a praticare la loro professione riflettono spesso sulla cultura profana distante e incredula che si sono lasciati alle spalle e su quanto si siano allontanati dalla loro precedente identità e contesto di riferimento. A rinsaldarne l'identità nuova è almeno in parte la complessa coreografia della vita professionale: azioni e consuetudini rituali come lavarsi le mani, indossare camice e maschera, lavorare in sale chiuse al pubblico, consentono ai dottori di comportarsi in modi estranei all'ordinario.

Allo stesso modo i prodotti della decapitazione, le teste, pretendono spesso una sfera ontologica tutta loro. Oggi vengono invariabilmente messe sotto vetro nei musei o nelle chiese o tenute sottochiave, invisibili. Le nostre interazioni con loro sono governate da rigidi codici di comportamento e soltanto un ridotto numero di professionisti le può maneggiare. Quando "impresari" come Gunther von Hagens "tolgono la cornice", nasce la polemica. Allo stesso modo, quando i teschi-trofeo o le teste rimpicciolite sbucano in ambienti domestici, nascoste in soffitta o in cantina dopo tanti anni, di solito la loro presenza è perturbante. Sono reperti privi di un ruolo deputato nella nostra società e per questo tendono a rimanere eternamente "fuori posto".

Le teste conservate sono incoerenti con il nostro quotidiano, ma molte di esse furono create in luoghi popolatissimi di corpi morti. Contesti "separati", quindi, ma soprattutto ambienti in cui il contatto tra vivi e morti è strettissimo. Viviamo in una società dove i vivi hanno poco a che fare con i morti, ma nei teatri di guerra, nelle facoltà di medicina e persino, potremmo dire, nei musei, è pieno di cadaveri. E quando hai la morte sotto gli occhi tutti i giorni, quando vedi un sacco di cadaveri, finisce che ti ci abitui.

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