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| << | < | > | >> |Pagina 17Ero, credo, in quarta elementare e dovevo quindi avere una decina d'anni, quando il nostro insegnante di storia ci portò in visita didattica alla chiesa di Åseda. Per circa un'ora ci parlò di come era stata costruita la chiesa e del significato delle decorazioni, peraltro piuttosto spartane, nello spirito di una luterana sobrietà. Tornati a scuola, ci assegnò come compito un tema su quello che avevamo visto e sentito. Il giorno dopo tornai da solo alla chiesa e passai un paio di ore a prendere appunti su date e citazioni bibliche riportate su statue e affreschi, oltre che a tentare di descrivere particolari che mi erano sfuggiti alla prima visita.La settimana dopo, letto il tema, l'insegnante mi trattenne alla fine della lezione per chiedermi se avevo qualcosa in contrario a che lo mandasse al giornale locale. Non ricordo cosa pensai o provai in quel momento, ma devo aver accettato, visto che qualche giorno dopo il mio tema apparve come articolo sul Vetlanda-posten. Conservo ancora il ritaglio ingiallito nascosto in qualche cassetto, purtroppo senza indicazione di data. Due sono le domande che vengono rivolte più spesso a uno scrittore nelle interviste o agli incontri con i lettori: quando hai iniziato a scrivere, e perché scrivi. Nessuna delle due ha una risposta semplice. Cosa significa infatti «scrivere»? Do per scontato che la domanda si riferisca a quando ho cominciato a scrivere letteratura. Ma quand'è che si scrive «letteratura», o almeno qualcosa che con un po' di buona volontà possa essere definita tale? Anche la cattiva e la pessima letteratura sono «letteratura», nonostante normalmente si tenda a identificarla con la «buona letteratura». Senza contare che non si «inizia» a scrivere così, da un giorno all'altro. Se da un lato si potrebbe forse dire che sia proprio con l'articolo sulla chiesa di Åseda che ho cominciato – nel senso che ho preso il compito molto più sul serio dei miei compagni — dall'altro in quel testo non c'è niente che possa far presagire che avrei scritto romanzi e racconti: avrebbe benissimo potuto essere il primo passo di una futura carriera di giornalista. Da questo punto di vista, il mio secondo ricordo di scrittura è forse più interessante. In settima classe, a tredici anni, ci assegnarono il compito assolutamente idiota di tenere un diario delle vacanze estive. Iniziai diligentemente a descrivere quel che facevo, ovvero un'inutile serie di banalità. Ma poi accadde qualcosa: abbandonai la realtà e mi misi a fantasticare su cosa sarebbe potuto succedere quell'estate. In altre parole, mentii. Non so più cosa scrissi, ma ricordo bene la sensazione di libertà che provai non appena smisi di sforzarmi di essere sincero... e noioso. Per tutta la mia carriera scolastica, fino al liceo, devo aver scritto centinaia di elaborati più o meno lunghi, non solo in svedese, ma anche nelle altre materie. Eppure l'unico che ricordo, a parte l'articolo sulla chiesa, è proprio quello in cui lasciai perdere la realtà e diedi libero corso alla fantasia. In compenso non ricordo che voto presi. A quindici anni salii a bordo della M/S Bergensfjord per attraversare l'Atlantico e passare un anno in un collegio negli Stati Uniti, come ho raccontato in Bisogno di libertà. All'epoca avevo due passioni: la geologia e le immersioni, ed ero deciso a metterle insieme studiando oceanografia e specializzandomi in geologia subacquea. Nella scuola americana passai innumerevoli ore in biblioteca per scrivere una relazione di trenta pagine sulla deriva dei continenti, che mi valse tra l'altro il diploma di science student of the year, un po' di ironia della storia, tenuto conto del seguito. La cosa più vicina alla scrittura letteraria a cui mi dedicai in quel periodo fu il diario che tenevo con una certa irregolarità e le lunghe lettere: all'epoca non solo non esistevano ancora computer, internet, posta elettronica o Skype, ma una chiamata intercontinentale costava circa cento corone al minuto. In un intero anno telefonai a mia madre un'unica volta, a Natale. | << | < | > | >> |Pagina 22Ogni tanto marinavo la scuola e andavo in un caffè con la scusa di studiare inglese per il mio corso universitario, cosa che in effetti facevo, ma non solo quello. Avevo sempre letto molto, però in quel periodo la lettura assunse tutt'altra portata, soprattutto i romanzi di autori inglesi e americani. Era qualcosa di più che leggere per piacere, era diventato maniacale. Non mi limitavo a un libro ogni tanto, quando ero nello spirito giusto; leggevo ininterrottamente, e di ogni autore l'opera omnia tutta di fila. Tutto Kurt Vonnegut, tutto Hemingway, tutto Saul Bellow, tutto George Orwell, tutto Henry Miller, tutto Jack Kerouac. E in fretta, non avevo tempo da perdere. Ricordo benissimo che leggevo un romanzo controllando continuamente quante pagine mi mancavano prima di poter iniziare il successivo. Era un modo morboso di leggere e di appropriarmi della letteratura. Invece di trovare nei libri dei fili conduttori sulle possibilità della vita, mi ci buttavo a capofitto senza dar loro il tempo di depositarsi nelle circonvoluzioni del cervello e nelle radici del cuore.A salvarmi dalla lettura compulsiva – perché di quello si trattava – furono due cose. La prima è che, dopo un viaggio a Parigi, decisi che volevo andarci a vivere per qualche tempo. Ricominciai quindi a studiare francese, con grande stupore del mio insegnante, e mi iscrissi a un corso serale in cui leggevamo – alla fine solo l'insegnante e io, perché tutti gli altri si erano presto stufati – Lo straniero di Camus. Con le mie conoscenze limitate della lingua, non potevo semplicemente precipitarmi attraverso il romanzo a caccia del successivo, ero costretto a procedere lentamente e con attenzione. E lo stesso per i successivi letti in francese: Le parole di Sartre, La condizione umana di Malraux, La sinfonia pastorale di Gide, i sette volumi de I re maledetti di Maurice Druon, e altri trovati casualmente in una libreria locale. La seconda ancora di salvezza fu che iniziai a «scrivere», anche se non ricordo esattamente quando. All'inizio poesie, come tanti. La maggior parte erano bagatelle, ma una era una composizione piuttosto lunga su come avevo vissuto la morte di mio padre, che in seguito (ma quando?) rielaborai in un racconto in prosa, e dopo molti anni e rimaneggiamenti entrò a far parte del mio primo libro, la raccolta Splitter. | << | < | > | >> |Pagina 30Fu in quel periodo che iniziai a segnare a margine tutti i passi interessanti e degni di riflessione che trovavo, per poi trascriverli a mano in piccoli taccuini. Come al liceo con la lettura, anche queste citazioni diventarono maniacali. Mi ero imposto di non iniziare un nuovo romanzo prima di aver copiato tutti i passi che avevo segnato in quello appena finito. A volte ci volevano ore, a volte addirittura giorni. Mi sentivo quasi sollevato quando mi capitava un libro brutto, o peggio, in cui non ci fosse proprio niente che valeva la pena di ricordare.L'aspetto paradossale era che raramente rileggevo le citazioni che avevo trascritto con tanta fatica. Ma in un certo senso speravo che il solo fatto di scriverle avrebbe alimentato la riserva di materiale che prima o poi avrebbe trovato sbocco nei miei libri. Qualche anno fa mi è venuta l'idea di riportare sul computer tutte le citazioni copiate a mano. Nella mia ingenuità, ero convinto che ci avrei messo qualche settimana. Quando arrivai alla fine, parecchi mesi dopo, scoprii che nel corso degli anni avevo trascritto – come continuo ancora a fare, anche se in modo più sporadico – l'equivalente di millecinquecento pagine dei libri che avevo letto. Ho scoperto anche, non so bene se con gioia o delusione, che alcuni pensieri o formulazioni che ritenevo originali nei miei romanzi non erano affatto miei, ma presi dagli autori trascritti! | << | < | > | >> |Pagina 51Per molti, soprattutto uomini, la letteratura è un'alternativa ad altre forme di rappresentazione della realtà. In effetti è vero che la letteratura può anche rispecchiare quello che succede nel mondo e alle persone reali, però il suo compito principale non è essere una «storia vera» o essere «basata su una storia vera», come proclamano spesso le pubblicità dei libri, ma di esplorare le possibilità che rientrano nell'ambito della realtà. Se il compito di uno scienziato è descrivere il più esattamente possibile la realtà com'è o come è stata, e un giornalista dovrebbe fare lo stesso con l'attualità, lo scrittore, o perlomeno il romanziere, dedica invece le sue energie a mostrare quello che gli altri non vedono, soprattutto le possibilità che noi uomini potremmo realizzare... o impedire che si realizzino. Insomma, se ho fatto il mio dovere, anche MacDuff e la sua amata Mary esistono da qualche parte nella realtà.| << | < | > | >> |Pagina 75Dopo La vera storia del pirata Long John Silver, un romanzo tumultuoso, variegato e ricco di avvenimenti, volevo scrivere qualcosa di più asciutto, scarno e poetico, perfino «bello». Magari a qualcuno può suonare un po' strano: non lo era a suo modo anche Long John Silver? La bellezza può avere diverse forme: un tramonto può essere bello nel modo più classico, come in una tranquilla sera d'estate dal cielo limpido e sereno, o in modo drammatico, quando il sole scompare dietro torreggianti nubi temporalesche disarmoniche e irregolari. Oltre alla distinzione che facciamo tra buono e bello, tra funzionale ed elegante, tra etica ed estetica. Una bella barca non sempre naviga bene, mentre una buona barca non sempre è bella. Ci sono scarpe che sono il non plus ultra dell'eleganza, ma che un uomo — e ancor più una donna — non può mettersi senza avere male ai piedi. Con la letteratura è più o meno la stessa cosa. Ci sono libri buoni, o anche ottimi, che non contengono molta bellezza. Ci sono anche libri stilisticamente perfetti, per esempio alcuni di Calvino, ma che sembrerebbe innaturale definire buoni o di profondo senso etico. Altri possono essere libri insostituibili, come Se questo è un uomo di Primo Levi, ma definire «bella» la sua testimonianza sarebbe quasi immorale. L'ideale, d'accordo con Flaubert, sarebbe ovviamente scrivere libri che siano sia belli che buoni, veri e formalmente perfetti, forti da un punto di vista etico quanto estetico, in modo che ogni parola, ogni frase, ogni paragrafo e capitolo, come il libro nella sua totalità, siano plasmati sia per il contenuto che per la forma, unendo utile dulci in ogni dettaglio, in tutte le loro parti. La questione tuttavia è se sia possibile, o addirittura auspicabile. Con gli anni sono arrivato alla conclusione che bisogna decidere se si vuole scrivere – preferibilmente – un buon libro o un libro bello, se si vuole che domini la bellezza a spese del contenuto o viceversa, se la forma sia al servizio del contenuto, o se il contenuto debba servire in primo luogo a far risaltare la musicalità del testo. Questi ragionamenti erano una specie di basso continuo alle mie riflessioni sul genere di romanzo in cui cimentarmi dopo La vera storia del pirata Long John Silver. Tutto dunque è partito dal desiderio di scrivere un libro «bello». Cosa c'era quindi di più naturale che scegliere un soggetto che avesse a che fare con la bellezza, o più precisamente, inventare un personaggio che vivesse solo per la bellezza. Era possibile una vita del genere, e aveva senso? Visto che un tempo avrei voluto fare il geologo e sono tuttora un appassionato di pietre, era piuttosto scontato che la mia scelta cadesse su un gioielliere che viveva per le sue pietre e i suoi gioielli, ma che al tempo stesso, e in parte per la stessa ragione, cioè la passione per una bellezza cristallina, era molto solo. Ma cosa doveva succedere al mio gioielliere? Con chi doveva incontrarsi o confrontarsi? Che prezzo doveva pagare, se doveva pagarlo, per la sua passione? | << | < | > | >> |Pagina 89Ma così è con la letteratura. Consegnare un romanzo è un po' come vedere un figlio che se ne va di casa e diventa adulto. Una volta che si è fatto del proprio meglio per renderlo un essere libero e indipendente, in grado di camminare sulle sue gambe, vivere la sua vita e realizzare i suoi sogni, e non quelli dei genitori, bisogna anche accettare che lo faccia davvero, che viva la sua vita. Per quanto sia difficile. L'amore per i propri figli e i propri libri non consiste nel tenerli spasmodicamente legati, ma nell'avere fiducia che sappiano portare con sé nella vita quello che hanno imparato e quello che sono. Ovvero lasciarli liberi.| << | < | > | >> |Pagina 123Forse è questo uno dei motivi per cui la letteratura prende raramente sul serio la scienza. Quando in un romanzo compare qualche scienziato, sono spesso personaggi maniacali, di sesso maschile, che sacrificano tutto – famiglia, amici e denaro – per il sogno della grande scoperta che cambierà il mondo. Il prototipo è ovviamente Faust, che vende l'anima al diavolo sull'altare della conoscenza, o mr. Hyde, che fa più o meno la stessa cosa. Ma anche gli scienziati pieni di buone intenzioni e che agiscono per il bene dell'umanità, come il Balthazar Claës della Ricerca dell'assoluto di Balzac, diffondono attorno a sé infelicità.Quello che volevo fare io, invece, era raccontare storie di scienziati e scienziate più o meno come sono realmente, con i loro sogni e speranze, successi e delusioni, la loro razionalità e irrazionalità. Questa volta le sfide erano principalmente due. La prima, come sempre, era dar forma e vita agli scienziati come sono (quasi) nella realtà, ovvero come potrebbero essere, nel bene e nel male. La seconda era far entrare nella letteratura le scoperte e i metodi della scienza, anche questi come sono davvero, nel senso che tutto ciò che viene detto e pensato sulle varie branche della scienza corrisponda in effetti a ciò che attualmente si sa o non si sa sul mondo e sugli uomini. Può sembrare banale, ma non lo è. C'è un antagonismo tra letteratura e scienza che non è così facile da superare. La scienza ambisce a descrivere le leggi del micro e macrocosmo che regolano l'universo, di cui noi stessi come esseri umani facciamo parte. Quando la scienza tenta di prevedere cosa succederà d'ora in poi, lo fa a partire da una necessaria o verosimile conformità alle sue leggi, che non lascia posto alle contraddizioni, all'irrazionalità, alla follia... e nemmeno alla volontà libera e creativa dell'uomo di modificare la propria realtà o quella dell'ambiente circostante, che costituisce il cuore stesso del racconto sull'uomo proposto dalla letteratura. Nel mondo della scienza si può sostenere a ragion veduta che non c'è niente di nuovo sotto il sole; quello che succederà è stabilito dalle stesse leggi di natura che sono sempre esistite e sempre esisteranno. Nel mondo dell'uomo e della letteratura, invece, c'è discontinuità tra le leggi di natura e l'essere umano, una discontinuità che può essere identificata con la libertà di scegliere di non accettare tacitamente le condizioni imposte dalla natura alle nostre azioni, pensieri ed emozioni. In letteratura, e soprattutto nel romanzo, sono il cambiamento, i passi avanti, le crepe nel muro, la resistenza e la follia a essere importanti, non ciò che è statico, immutabile, regolare e necessario. Non è un caso che una delle principali regole empiriche per scrivere un racconto appassionante sia che i personaggi debbano cambiare, nel bene o nel male, nel corso dell'azione. Così come non è un caso che non si scrivono romanzi sul decorso di una malattia o su catastrofi naturali e uragani. Si scrivono romanzi su come le varie persone reagiscono ai fenomeni naturali, su come combattono un cancro mortale, come tentano di salvare i loro figli e di gestire la propria disperazione durante uno tsunami o come un equipaggio cerca di trovare scampo in mezzo a una tempesta. I racconti di Otto personaggi in cerca (con autore) si inseriscono appunto nell'area di tensione tra il naturale e l'umano, tra il predeterminato e la possibilità dell'uomo di diventare qualcosa di diverso da ciò che la natura l'ha reso. È esattamente la linea di separazione che attraversa gli scienziati stessi: nel loro lavoro devono essere analitici, obiettivi, emotivamente neutri, scettici e critici. Allo stesso tempo sono esseri umani con emozioni, sogni, ambizioni, paure e posizioni di fede. Nella mia vita di accademico ho incontrato tanti cosiddetti materialisti, scienziati che affermano con decisione che l'anima è un epifenomeno, che le emozioni sono una questione di chimica, che l'evoluzione dell'uomo è darwinianamente cieca, che la morale è il riflesso di un sostrato biologico e che il comportamento umano dev'essere spiegato a partire dalle stesse leggi fisiche che regolano l'universo nelle grandi come nelle piccole cose. Il che non impedisce alle stesse persone di esprimersi continuamente in termini di fede e di convinzioni, di rimproverare i figli e moraleggiare sui comportamenti scorretti dei colleghi, di mettere nepotisticamente da parte il senso critico quando c'è da attribuire un incarico, o di perdere il controllo quando si innamorano. Speravo anche che i miei racconti servissero da stimolo agli scienziati per una riflessione sulle contraddizioni con cui sono costretti a convivere, spingerli a domandarsi perché abbiamo bisogno della scienza, e ancor più perché abbiamo bisogno di indagare su questo o quel settore della realtà. Perché la questione del valore e dell'utilità della scienza non può essere affrontata dalla scienza stessa, ma solo a partire da una posizione etica che sostiene che sia importante per l'umanità avere una conoscenza il più possibile certa del mondo e di sé. Ma nemmeno questo è scontato. Purtroppo in realtà non è affatto impossibile che la scienza abbia fornito all'uomo gli strumenti per autodistruggersi. Ho raggiunto il mio scopo? Non ci giurerei. Curiosamente, molte delle reazioni che mi sono arrivate erano domande su chi fossero le persone reali che mi erano servite da modelli. La mia preside di facoltà all'epoca era convinta di essere stata lei a ispirare il personaggio della filosofa, e un emerito professore di greco il filologo Knut Stenlund. Molti ovviamente hanno pensato che lo scrittore e studioso di letteratura dell'ultimo racconto sia io, malgrado il protagonista Gustav Berndtsson scriva la sua ultima parola all'inizio del racconto e muoia alla fine. Tutti possono credere quello che vogliono. Dimostra che i miei ritratti di scienziati sono verosimili e possibili in questo mondo. È stata invece una delusione scoprire che pochi hanno notato che Otto personaggi è, nel complesso, abbastanza unico come tentativo – riuscito o meno che sia – di far convivere letteratura e scienza. Il che ha anche una sua spiegazione. La maggior parte dei lettori di narrativa, critici compresi, sono umanisti e si interessano moderatamente alla scienza. Gli studiosi di scienze naturali sono spesso più attratti dalle discipline umanistiche – intuiscono che in fondo la scienza non può spiegare cosa significhi essere un uomo — ma in compenso sono talmente specializzati da avere conoscenze solo all'interno della loro disciplina. L'uomo nella sua interezza, una composita mescolanza di geni, evoluzione, posizioni di fede, racconti, morale, psiche, relazioni sociali e neuroni, non è l'oggetto dei loro studi. Dove dunque si può trovare risposta alla domanda se questo è un uomo? In passato era compito della filosofia, che oggi però si è in gran parte ridotta all'analisi concettuale e alla logica. Resta la letteratura, che almeno potenzialmente può rappresentare gli uomini come realmente sono e possono essere. Se i miei racconti hanno un messaggio, è forse proprio questo: che la scienza, come viene praticata, non potrà mai spiegare l'uomo in tutta la sua complessità, le sue contraddizioni e la sua creatività, né capire come possa essere capace di compiere il bene e il male più estremo, a volte nella stessa persona.
In questa luce, la dedica a Primo Levi non
dovrebbe essere così strana: la sua testimonianza sul proprio e altrui vissuto
ad Auschwitz è tra i libri più importanti della storia della letteratura per
cercare di capire l'umano e l'inumano nell'uomo.
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