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| << | < | > | >> |Pagina 7Era diventato un rito che si ripeteva ogni anno. Il destinatario del fiore ne compiva stavolta ottantadue. Quando il fiore arrivò, aprì il pacchetto e lo liberò della carta da regalo in cui era avvolto. Quindi sollevò il ricevitore e compose il numero di un ex commissario di pubblica sicurezza che dopo il pensionamento era andato a stabilirsi sulle rive del lago Siljan. I due uomini non erano solo coetanei, ma erano anche nati nello stesso giorno — fatto che in quel contesto poteva essere considerato come una sorta d'ironia. Il commissario, che sapeva che la telefonata sarebbe arrivata dopo la distribuzione della posta delle undici, nell'attesa stava bevendo un caffè. Quest'anno íl telefono squillò già alle dieci e trenta. Lui alzò la cornetta e disse ciao senza nemmeno presentarsi. «È arrivato.» «Cos'è, questa volta?» «Non so che genere di fiore sia. Lo farò identificare. È bianco.» «Nessuna lettera, suppongo?» «No. Nient'altro che il fiore. La cornice è la stessa dell'anno scorso. Una di quelle cornici da poco che uno si monta da solo.» «Timbro postale?» «Stoccolma.» «Calligrafia?» «Come al solito, stampatello, tutte maiuscole. Lettere dritte e ordinate.»
Con ciò l'argomento era stato esaurito e i due rimasero
seduti qualche minuto in silenzio, ognuno dalla sua parte
della linea telefonica. Il commissario in pensione si lasciò
andare contro lo schienale della sedia davanti al tavolo della cucina,
succhiando la pipa. Sapeva comunque che non ci
si aspettava più che ponesse qualche domanda risolutiva oppure iperintelligente,
in grado di gettare nuova luce sulla
faccenda. Quel tempo era passato da un pezzo, e la conversazione fra i due
anziani conoscenti aveva piuttosto il carattere di un rituale intorno a un
mistero che nessun altro essere umano al mondo aveva il benché minimo interesse
a risolvere.
Il suo nome latino era Leptospermum (Myrtaceae) Rubinette. Si trattava di un arbusto piuttosto anonimo dotato di piccole foglie simili a quelle dell'erica, che produceva un fiore di due centimetri con una corolla di cinque petali. Era alto grossomodo dodici centimetri. La pianta era originaria delle regioni montuose e del bush australiani, dove cresceva in robusti agglomerati. In Australia la chiamavano Desert Snow. Più avanti, un'esperta del giardino botanico di Uppsala avrebbe constatato che si trattava di una pianta insolita, raramente coltivata in Svezia. Nella sua perizia, la studiosa scriveva che l'arbusto ero imparentato con il Leptospermum Flavescens, e che sovente era confuso con il ben più comune cugino Leptospermum Scoparium, che cresceva abbondante in Nuova Zelanda. La differenza, a detta dell'esperta, consisteva nel fatto che il Rubinette presentava un piccolo numero di microscopici puntini rosa sulle punte dei petali, che conferivano al fiore una vaga sfumatura rosata. Il Rubinette era, in definitiva, un fiore sorprendentemente modesto. Era privo di valore commerciale. Non possedeva proprietà medicamentose note né effetti allucinogeni. Non si poteva mangiare, era inutilizzabile come spezia e senza utilità nella fabbricazione di coloranti vegetali. Per contro aveva una certa importanza per gli abitanti originari dell'Australia, gli aborigeni, che tradizionalmente consideravano la zona intorno ad Ayers Rock e la relativa flora come sacre. L'unico scopo della pianta sulla terra sembrava di conseguenza essere quello di fare omaggio della sua capricciosa bellezza all'ambiente circostante.
Nella sua perizia, la botanica di Uppsala constatava che
se quel piccolo arbusto era poco comune in Australia, in
Scandinavia era addirittura raro. Personalmente non ne
aveva mai visto un esemplare, ma dopo un'indagine fra i
colleghi era venuta a sapere che erano stati fatti dei tentativi di introdurre
la pianta in un giardino di Göteborg, e che si immaginava venisse coltivata
privatamente in luoghi diversi, da appassionati di giardinaggio e botanici
dilettanti dotati di piccole serre. Era difficile da coltivare in
Svezia perché esigeva un clima mite e secco, e doveva essere ricoverata al
chiuso durante i mesi invernali. Non tollerava il terreno calcareo ed esigeva
annaffiature dal basso, direttamente sulla radice. Era una pianta per
coltivatori esperti.
Questo fatto che si trattasse di un fiore raro in Svezia avrebbe dovuto, in teoria, rendere più facile rintracciare l'origine di quello specifico esemplare, ma in pratica era un'impresa impossibile. Non esistevano registri da consultare o licenze da esaminare. Non c'era nessuno che sapesse quanti coltivatori privati si fossero cimentati in generale nell'impresa di cercare di ottenere un fiore così difficile. Poteva trattarsi di tutto, da qualche singolo entusiasta a diverse centinaia di appassionati di giardinaggio con a disposizione semi oppure piante. Che potevano essere stati acquistati privatamente oppure tramite ordine postale da qualche altro coltivatore o giardino botanico di qualsiasi parte d'Europa. La pianta poteva perfino essere stata procurata direttamente durante qualche viaggio in Australia. Cercare di identificare proprio quel coltivatore specifico fra i milioni di svedesi che hanno una piccola serra oppure un vaso alla finestra del soggiorno sarebbe stata, in altre parole, un'impresa disperata. Il fiore era solamente l'ultimo di una lunga serie di sconcertanti omaggi che arrivavano regolarmente dentro una busta imbottita il primo di novembre. Il genere variava ogni anno, ma si trattava sempre di fiori belli e relativamente rari. Al solito, il fiore era stato essiccato, montato con cura su carta da acquerello e messo sotto vetro in una cornice di tipo semplice nel formato 29 X 16 centimetri. | << | < | > | >> |Pagina 129Lisbeth Salander trascorse la mattina del giorno di Natale leggendo il controverso libro di Mikael Blomkvist sul giornalismo economico. Il libro, di duecentodieci pagine, aveva per titolo I cavalieri del tempio e per sottotitolo Ammonimento per reporter economici. La copertina trendy recava la firma di Christer Malm e mostrava una fotografia della Borsa di Stoccolma. Christer Malm aveva lavorato in PhotoShop e occorreva un momento prima che l'osservatore si rendesse conto che l'edificio era sospeso in aria. Non c'era terreno sotto le fondamenta. Era difficile immaginare una copertina più adatta a rendere in maniera efficace il tono del contenuto.Lisbeth constatò che Blomkvist aveva uno stile eccellente. Il libro era scritto in maniera chiara e accattivante, e anche persone ignare dei labirinti del giornalismo economico potevano leggerlo con profitto. Il tono era mordace e sarcastico, ma soprattutto convincente. Il primo capitolo era una sorta di dichiarazione di guerra in cui Blomkvist si esprimeva senza peli sulla lingua. I giornalisti economici svedesi negli ultimi vent'anni erano diventati un gruppo di galoppini incompetenti che si davano un sacco di importanza e non erano capaci di pensiero critico. Quest'ultima conclusione la traeva dalla constatazione che diversi reporter economici si accontentavano il più delle volte di riportare in maniera pedissequa le dichiarazioni rilasciate da dirigenti industriali e speculatori di Borsa — anche quando i dati erano palesemente fuorvianti ed erronei. Tali reporter erano perciò o così ingenui e facili da ingannare da meritare di essere sollevati dai loro incarichi, oppure – cosa peggiore – erano persone che consapevolmente tradivano il loro compito di eseguire verifiche critiche e fornire al pubblico un'informazione corretta. Blomkvist asseriva che spesso si vergognava di essere chiamato reporter di economia, perché rischiava così di essere mescolato con persone che in generale non considerava dei reporter. Metteva a confronto i contributi dei giornalisti economici con il modo di lavorare dei reporter giudiziari o dei corrispondenti esteri. Dipingeva un'immagine del grido d'indignazione che sarebbe seguito se il cronista giudiziario di un grande quotidiano avesse cominciato a riportare in maniera acritica i dati forniti dal pubblico ministero come automaticamente veri, per esempio in un processo per omicidio, senza assumere informazioni dalla difesa o intervistare la famiglia della vittima per farsi un'idea di ciò che fosse plausibile o non plausibile. La sua idea era che le stesse regole dovessero valere anche per i giornalisti economici. Il resto del libro era costituito dalle prove a sostegno della tesi introduttiva. Un lungo capitolo esaminava il rapporto su una società dot.com in sei dei principali quotidiani economici oltre al programma televisivo A-Ekonomi. Citava e riassumeva ciò che avevano detto e scritto i reporter prima di confrontarlo con la realtà della situazione. Descrivendo l'evoluzione dell'impresa menzionava volta per volta le semplici domande che un reporter serio avrebbe dovuto porre, ma che la bella schiera di reporter economici aveva trascurato di porre. Era un approccio brillante. Un altro capitolo trattava del lancio delle azioni della Telia — e costituiva la parte più canzonatoria e ironica del libro, dove alcuni giornalisti di economia menzionati con nome e cognome venivano biasimati senza mezzi termini, e fra loro anche un certo William Borg, verso il quale Mikael sembrava particolarmente irritato. Un altro capitolo ancora, alla fine del libro, metteva a confronto il livello di competenza dei reporter economici svedesi e stranieri. Blomkvist descriveva che cosa seri reporter di Financial Times, The Economist e di alcuni quotidiani di economia tedeschi avessero scritto su temi paragonabili. Il confronto non deponeva a favore dei giornalisti svedesi. Un capitolo conclusivo includeva l'abbozzo di una proposta su come affrontare quella deplorevole situazione. Le parole finali del libro si ricollegavano a quelle introduttive. Se un reporter parlamentare svolgesse il suo compito in modo analogo, spezzando acriticamente una lancia in favore di ogni decisione approvata, per quanto assurda possa essere, oppure se un reporter politico difettasse di giudizio alla stessa maniera – ecco, quel reporter verrebbe licenziato o in ogni caso trasferito dove non possa fare così grande danno. Nel mondo dei reporter economici non vale il normale compito giornalistico di fare un esame critico e riportare i risultati ai lettori. Qui invece si acclama l'imbroglione di maggior successo. Qui si crea la Svezia del futuro e qui si seppellisce l'ultima fiducia nei giornalisti come categoria professionale. Erano parole e non favole. Il tono era aspro e Lisbeth non aveva nessuna difficoltà a capire l'acceso dibattito che era seguito sia sull'organo del settore, Journalisten, sia su certi giornali economici e negli articoli di fondo e nelle pagine economiche dei quotidiani. Anche se nel libro si facevano solo pochissimi nomi, Lisbeth Salander supponeva che l'area fosse sufficientemente circoscritta perché tutti capissero esattamente a chi ci si riferiva quando venivano citati i diversi giornali. Blomkvist si era procurato nemici amareggiati, fatto che si rispecchiava nelle dozzine di commenti malevoli alla sentenza dell'affare Wennerström. Chiuse il libro e guardò il ritratto dell'autore sul retro della copertina. Mikael Blomkvist era fotografato di lato. Il ciuffo biondo scuro ricadeva un po' noncurante sulla fronte, come se un soffio di vento fosse passato proprio un attimo prima che il fotografo scattasse o come se – cosa più probabile – il fotografo Christer Malm gli avesse fatto lo styling. Guardava dritto nell'obiettivo con un sorriso ironico e uno sguardo che probabilmente voleva essere affascinante e giovanile. Abbastanza un bell'uomo. Sul punto di farsi tre mesi di galera.
«Salve,
Kalle Blomkvist»
disse ad alta voce parlando da sola. «Sei alquanto arrogante, eh?»
All'ora di pranzo Lisbeth Salander avviò il suo iBook e aprì il programma di posta Eudora. Formulò il testo in un'unica riga sintetica. Hai tempo? Firmò Wasp e inviò la mail a plague-xyz-666@hotmail.com. Per sicurezza passò il semplice messaggio nel programma per criptare Pgp. | << | < | > | >> |Pagina 230Un pomeriggio della seconda settimana di Mikael a Hedeby bussarono alla porta del suo chalet. Mikael mise da parte il fascicolo del rapporto di polizia che aveva appena iniziato a leggere – il settimo della serie – e chiuse la porta dello studiolo prima di andare ad aprire a una bionda sulla cinquantina avvolta in un'ampia pelliccia.«Salve. Volevo solo dare un saluto. Mi chiamo Cecilia Vanger.» Si strinsero la mano e Mikael tirò fuori le tazze per il caffè. Cecilia Vanger, figlia del nazista Harald Vanger, appariva come una donna aperta e sotto molti aspetti attraente. Mikael si ricordò che Henrik aveva parlato di lei in termini elogiativi dicendo che non frequentava il padre benché fossero vicini di casa. Chiacchierarono un po' prima che lei spiegasse il vero motivo della sua visita. «Mi è sembrato di capire che sta scrivendo un libro sulla famiglia. Non sono sicura che l'idea mi piaccia» disse. «Volevo almeno vedere che genere di persona fosse.» «Sì, Henrik Vanger mi ha affidato questo incarico. È la sua storia, per così dire.» «E il buon Henrik non è del tutto neutrale nei confronti della famiglia.» Mikael la scrutò, incerto su che cosa volesse veramente dire. «Lei è contraria a un libro sulla famiglia Vanger?» «Non ho detto questo. E quello che penso probabilmente non ha importanza. Ma suppongo che lei abbia già capito che non è sempre stato così semplice fare parte di questa famiglia.» Mikael non aveva idea di che cosa avesse detto Henrik e di quanto sapesse Cecilia sul suo incarico. Aprì le braccia. «Io ho un contratto con Henrik Vanger per scrivere una cronaca familiare. Henrik ha dei punti di vista particolari su diversi membri della famiglia, ma io credo che mi atterrò a ciò che può essere documentato.» Cecilia sorrise senza calore. «Ciò che vorrei sapere è se dovrò andare in esilio o emigrare quando il libro uscirà.» «Non penso proprio» rispose Mikael. «La gente è in grado di vedere le differenze fra persona e persona.» «Come mio padre, per esempio.» «Suo padre il nazista?» domandò Mikael. Cecilia alzò gli occhi al cielo. «Mio padre è pazzo. Io lo vedo solo qualche volta all'anno anche se abitiamo porta a porta.» «Perché non lo vuole incontrare?» «Aspetti prima di partire in quarta a fare un sacco di domande. Ha intenzione di citare quello che dirò? Oppure posso avere una normale conversazione con lei senza aver bisogno di temere di essere messa in piazza come un'idiota?» Mikael esitò un attimo, incerto su come esprimersi. «Ho l'incarico di scrivere un libro che cominci quando Alexandre Vangeersad sbarca con Bernadotte e si concluda ai giorni nostri. Sarà incentrato sull'impero economico di famiglia nell'arco di molti decenni, ma naturalmente anche sul perché questo impero si è sgretolato e sui contrasti che esistono all'interno della famiglia. Nel racconto è impossibile evitare che venga a galla anche del marcio, ma ciò non significa che dipingerò in nero la vostra famiglia o ne darò un'immagine infamante. Per esempio ho incontrato Martin Vanger, che mi è sembrato una persona simpatica e che descriverò come tale.» Cecilia non rispose. «Quello che so di lei è che insegna...» «In effetti è anche peggio, sono preside del liceo di Hedestad.» «Mi scusi. So che Henrik la apprezza, che è sposata ma separata... e questo è più o meno tutto. Può tranquillamente parlare con me senza bisogno di temere di essere citata o criticata. Da parte mia, verrò sicuramente a bussare alla sua porta un giorno o l'altro, a fare qualche domanda su avvenimenti specifici sui quali forse è in grado di gettare luce. Allora si tratterà di un'intervista e potrà scegliere se rispondere oppure no. Ma comunque l'avvertirò quando starò per farle domande di quel tipo.» «Perciò posso parlare con lei... off the record, come usate dire voi.» «Certamente.» «E adesso è off the record?» «Lei è una vicina che è venuta a dare un saluto e a bere una tazza di caffè, nient'altro.» «Okay. Allora posso chiederle una cosa?» «Prego.» «Quanta parte del libro tratterà di Harriet Vanger?» Mikael si morse il labbro inferiore ed esitò. Decise di scegliere un tono leggero. «Se devo essere sincero, non ne ho la minima idea. È chiaro che potrà benissimo occupare un capitolo — si tratta innegabilmente di un avvenimento drammatico, che ha influenzato almeno Henrik Vanger.» «Ma lei non è qui per indagare sulla sua scomparsa?» «Che cosa glielo fa credere?» «Be', il fatto che Gunnar Nilsson ha trascinato qui quattro grossi scatoloni. Dovrebbero corrispondere a ciò che Henrik ha raccolto con le sue indagini private nel corso degli anni. E quando ho sbirciato nella vecchia camera di Harriet dove Henrik era solito conservare quel materiale ho visto che non c'era più.» Cecilia Vanger non era stupida. «Credo che questo lo debba discutere con Henrik Vanger e non con me» rispose Mikael. «Ma è vero — Henrik mi ha parlato molto della scomparsa di Harriet e penso che sia interessante leggere quel materiale.» Cecilia fece un altro sorriso senza allegria. «Certe volte mi domando chi sia più pazzo — mio padre oppure mio zio. Devo aver discusso con lui la scomparsa di Harriet almeno mille volte.» «Qual è la sua opinione in proposito?» «È una domanda da intervista?» «No» rise Mikael. «È una domanda da curiosità.» «Quello che invece incuriosisce me è se anche lei sia un grullo. Se ha fatto suo il ragionamento di Henrik o se è lei a spingere Henrik.» «Vorrebbe dire che Henrik è un grullo?» «Non mi fraintenda. Henrik è una delle persone più affettuose e premurose che io conosca. E gli voglio molto bene. Ma a questo riguardo è ossessionato.» «Però l'ossessione ha un fondamento concreto. Harriet è davvero scomparsa.» «Io sono solo talmente stufa di tutta questa storia. Ha avvelenato le nostre vite per così tanti anni, e non finisce mai.» D'improvviso si alzò e si infilò la pelliccia. «Devo andare. Lei mi sembra una persona piacevole. Lo pensa anche Martin, ma il suo giudizio non è sempre dei più acuti. Venga a prendere un caffè da me, quando ha voglia. Io sono quasi sempre a casa la sera.» «Grazie» rispose Mikael. Mentre lei si avviava alla porta, le gridò dietro: «Non ha risposto alla domanda che non era una domanda da intervista!» La donna indugiò un attimo e poi rispose senza guardarlo. «Io non ho idea di che cosa sia successo a Harriet. Ma credo che si sia trattato di una disgrazia con una spiegazione così semplice e comune che rimarremo tutti stupiti, se e quando la scopriremo.» Poi si voltò e gli sorrise – per la prima volta con calore. Quindi lo salutò con la mano e scomparve. Mikael rimase seduto immobile al tavolo della cucina, a meditare sul fatto che Cecilia Vanger era una delle persone evidenziate nella sua tabella dei membri della famiglia che si trovavano sull'isola quando Harriet era scomparsa. | << | < | > | >> |Pagina 395Lisbeth Salander era consapevole che la propria calma era soltanto superficiale e che non aveva esattamente il controllo dei propri nervi. La visita del tutto inaspettata di Blomkvist l'aveva scossa in un modo che non aveva mai sperimentato prima in relazione con il suo lavoro. Spiare la gente era il suo pane quotidiano. In realtà non aveva mai definito ciò che faceva per Dragan Armanskij un vero lavoro, ma piuttosto un complicato passatempo, quasi un hobby.La verità era – come aveva constatato ormai da un pezzo – che scavare nella vita della gente e scoprire i segreti che cercavano di nascondere le piaceva. Lo aveva fatto – in una forma o nell'altra – fin da quando riusciva a ricordare. E lo faceva ancora oggi, non solo quando Armanskij le dava un incarico ma talvolta anche per suo piacere personale. Le dava un pizzico di soddisfazione – era proprio come un videogioco complicato, con la differenza che si trattava di persone in carne e ossa. E adesso all'improvviso il suo hobby era seduto in cucina e le offriva dei panini. La situazione le sembrava totalmente assurda. «Ho un problema affascinante» disse Mikael. «Dimmi, quando hai svolto la tua indagine personale su di me per Dirch Frode... sapevi anche solo vagamente per che cosa sarebbe stata utilizzata?» «No.» «Lo scopo era raccogliere informazioni su di me perché Frode, o più esattamente il suo committente, voleva propormi un lavoro da free-lance.» «Aha.» Lui le rivolse un lieve sorriso. «Un giorno tu e io faremo una conversazione sugli aspetti morali del frugare nella vita privata di un'altra persona. Ma in questo preciso momento ho tutt'altri problemi... Il lavoro che mi è stato affidato, e che io per qualche incomprensibile motivo mi sono accollato, è senza paragoni l'incarico più bizzarro che abbia mai avuto. Posso fidarmi di te, Lisbeth?» «In che senso?» «Dragan Armanskij dice che sei totalmente affidabile. Ma io te lo chiedo comunque. Posso raccontarti dei segreti senza che tu li vada a riferire a nessuno, ma proprio a nessuno?» «Aspetta. Tu hai parlato con Dragan; è lui che ti ha mandato qui?» Ti ammazzo, dannato imbecille di un armeno. «No, non esattamente. Tu non sei l'unica che è capace di trovare l'indirizzo di qualcuno, ci sono arrivato per conto mio. Ti ho scovata tramite l'anagrafe. Ci sono tre persone che si chiamano Lisbeth Salander e le altre due non erano plausibili. Ma ho contattato Armanskij ieri e abbiamo avuto un lungo colloquio. All'inizio anche lui credeva che volessi lamentarmi del fatto che avevi ficcato il naso nella mia vita privata, ma alla fine si è convinto che avevo un motivo del tutto legittimo.» «Che sarebbe?»
«Come ho detto, il committente di Dirch Frode mi ha incaricato di un lavoro.
Ora sono arrivato a un punto in cui mi occorre con urgenza l'aiuto di un
ricercatore competente. Frode mi ha parlato di te e ha detto che eri competente.
Gli è solo sfuggito, ed è così che sono venuto a saperlo, che
avevi fatto un'indagine personale su di me. Ieri ho parlato
con Armanskij spiegandogli cosa volevo. Lui ha dato l'okay
e ha cercato di telefonarti, ma tu non hai mai risposto, così... eccomi qui.
Puoi chiamare Armanskij per controllare, se vuoi.»
Lisbeth Salander impiegò diversi minuti per trovare il cellulare sotto il mucchio di indumenti che Mimmi l'aveva aiutata a levarsi. Mikael Blomkvist osservò il suo imbarazzato rovistare con grande interesse, mentre faceva un giro per l'appartamento. I mobili della ragazza sembravano provenire esclusivamente dai container dei rifiuti. Su un piccolo tavolo da lavoro in soggiorno aveva però un imponente PowerBook. Su una mensola aveva un lettore di cd. La sua collezione, invece, era tutt'altro che imponente – una misera decina di cd di gruppi che Mikael non aveva mai sentito nominare, e i cui componenti fotografati in copertina parevano vampiri dello spazio esterno. Constatò che la musica non era la sua passione. Lisbeth vide che Armanskij le aveva telefonato non meno di sette volte la sera prima, e due volte quella mattina. Fece il suo numero mentre Mikael si appoggiava contro lo stipite della porta e ascoltava la conversazione. «Mi... mi dispiace, ma era spento... lo so che mi vuole dare un incarico... no, è qui nel mio soggiorno...» Alzò il volume della voce. «Dragan, ho i postumi di una sbronza e mi fa male la testa, perciò smetti di blaterare; hai dato l'okay al lavoro oppure no?... Grazie.» Clic. Lisbeth Salander sbirciò Mikael Blomkvist attraverso la porta del soggiorno. Stava guardando i suoi dischi e i suoi libri e aveva appena trovato una boccetta scura di medicinali a cui mancava l'etichetta e che aveva sollevato curioso in controluce. Quando stava per svitare il tappo, lei allungò la mano e gli portò via il flacone, ritornò in cucina e si sedette massaggiandosi la fronte finché Mikael non si sedette di nuovo a sua volta. «Le regole sono semplici» disse lei. «Nulla di ciò che discuterai con me o Dragan Armanskij arriverà a conoscenza di altri. Sottoscriveremo un contratto in cui la Milton Security si impegna al silenzio. Voglio sapere qual è lo scopo del lavoro prima di decidere se voglio lavorare per te oppure no. Significa che manterrò il silenzio su ogni cosa che mi racconterai, sia che assuma l'incarico oppure no, a condizione che non mi riveli che conduci gravi attività criminose. In questo caso farò rapporto a Dragan, che a sua volta informerà la polizia.» «Bene.» Mikael esitò. «Forse Armanskij non ha proprio ben chiaro per che cosa ho in mente di ingaggiarti...» «Ha detto che volevi che ti aiutassi con una ricerca di carattere storico.»
«Sì, è esatto. Ma ciò che vorrei tu facessi è aiutarmi a
identificare un assassino.»
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