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| << | < | > | >> |IndiceLimite 11 Introduzione. L'irriducibile arbitrarietà dei limiti 18 1. Limiti geografici o territoriali L'ecumene e il limite territoriale, 19 L'illimitatezza spaziale, 23 27 2. Limiti politici La cancellazione delle frontiere, 28 Il potere senza limite, 34 38 3. Limiti culturali La deculturalizzazione planetaria, 40 Il paradosso di una cultura dell'illimitatezza, 43 48 4. Limiti ecologici I limiti del pianeta, 49 La crisi ecologica e la minaccia del crollo, 56 64 5. Limiti economici L'accumulazione senza limite, 65 L'assuefazione consumistica, 69 77 6. Limiti della conoscenza L'illimitatezza del razionale: l'onnipotenza tecnoscientifica, 78 Al di là dei limiti della tecnica: il transumanismo, 86 91 7. Limiti morali La dinamica dell'emancipazione, 93 L'emancipazione tradita nella trasgressione, 96 101 Conclusione. L'autolimitazione e l'ideale della decrescita: ricostruire un mondo comune 107 Riferimenti bibliografici |
| << | < | > | >> |Pagina 11Introduzione
L'irriducibile arbitrarietà dei limiti
Ma come diceva Boileau: «Cacciate il naturale, tornerà
al galoppo», cacciate i limiti fisici, torneranno
al galoppo. Cacciare l'idea che ci sono dei limiti alla
biosfera significa distruggere la biosfera, e in un futuro non lontano
distruggere la specie umana. I limiti della biosfera sono a loro volta fondati
sui limiti del pianeta, non dobbiamo dimenticarlo, ci conviene
non dimenticare che gli esseri umani hanno i piedi
sulla Terra, nella sostanza terrestre, anche se hanno
la testa rivolta verso il cielo.
La condizione umana è inscritta dentro dei limiti. Alcuni riguardano la nostra situazione nel mondo, altri sono inerenti alla nostra natura. Siamo prigionieri di un piccolo pianeta la cui situazione eccezionale nel cosmo ha permesso la nostra comparsa. D'altra parte la nostra intelligenza, non meno eccezionale, ci permette di adattarci a una grande varietà di situazioni, ma non ci autorizza a fare tutto né a conoscere tutto. La nostra sopravvivenza presuppone dunque un buon funzionamento delle nostre organizzazioni sociali, in armonia con il nostro ambiente: in altri termini, la sottomissione a norme che ci impediscono di cadere nella dismisura e nell'illimitatezza. Il problema è che ogni limite e ogni norma sono arbitrari, e che le frontiere sono sempre incerte. Ci sono limiti che non devono essere superati, ma bisogna conoscerli. Perché se si scavalca il limite, addio limiti. Questa arbitrarietà è uno scandalo per la ragione. La riflessione filosofica, fin dai suoi albori, ha avuto gioco facile nel denunciarne i paradossi. Per esempio, il filosofo megarico Eubulide di Mileto, nel IV secolo a.C., solleva il problema del sofisma del sorite. Qual è il limite che permette di dire che, aggiungendo un chicco di grano a un altro chicco, ottengo un mucchio? E all'inverso: avendo un mucchio di grano, a partire da quanti chicchi tolti posso dire che il mucchio non esiste più? Di qui, la tentazione di arrivare, a partire dall'arbitrarietà del limite, alla conclusione della sua inesistenza e dell'impossibilità di definire un mucchio, o addirittura dell'inesistenza del mucchio stesso. Questa conclusione affrettata è esattamente quella che l'Occidente ha adottato nel corso della sua storia, illustrando così la dimensione tragica della condizione umana, stretta tra l'impossibilità di definire norme razionali e quella di vivere senza norme. «I pregiudizi sono i pilastri della civiltà», fa dire André Gide a uno dei personaggi del suo romanzo I falsari. C'è molto di vero in questa affermazione scandalosa. Avere troppi pregiudizi è negativo, ma non averne nessuno è vergognoso. La riabilitazione dei pregiudizi è un luogo comune nei pensatori della controrivoluzione francese. Per Edmund Burke (Riflessioni sulla Rivoluzione francese), il pregiudizio che interviene spontaneamente nelle situazioni determina innanzitutto l'istinto di seguire con costanza la via della saggezza e della virtù; il pregiudizio fa della virtù un'abitudine per gli uomini. Tuttavia, data l'assurda arbitrarietà di certe regole, la trasgressione è giustificata in numerosi casi, anche se non può essere eretta a norma del tipo «Vietato vietare». Ogni società ha i propri tabù, di cui alcuni sembrano effettivamente di portata universale, come quello dell'incesto. Ci sono limiti che bisogna far arretrare senza abolirli e norme che bisogna abolire, ma per sostituirle con altre norme che appaiono meno arbitrarie nel luogo e nel tempo in questione. Pascal, che non era un relativista, diceva comunque: «Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là». Non si può tuttavia concludere, e Pascal non lo fa, che nel mondo non c'è né verità né errore. Ci sono poi dei limiti che il progresso della conoscenza rende sempre più incerti, come quelli tra l'uomo e l'animale o quelli tra la vita e la morte. «La separazione tra l'umano e il regno animale è fluida, incerta, soggetta all'evoluzione e a mutazioni imprevedibili» (George Steiner, Frontières incertaines). È sconcertante, per esempio, pensare che lo scimpanzé ha in comune con noi il 98 per cento del DNA. Sempre Steiner osserva: «La posta in gioco fondamentale ... è la natura della morte, finora frontiera assoluta. Oggi la morte comincia a diventare una funzione biochimica, soggetta a correzione» (ibid.). Questo rimette in discussione le frontiere incerte tra l'uomo e il non-uomo, tra l'organico e l'inorganico, o anche le frontiere tra il pensiero e la materia. Questa incertezza dei limiti ci deve portare alla conclusione che i limiti non esistono? L'uomo moderno, liberato dalla costrizione medievale e approdato al Rinascimento, ha preteso, al tempo stesso faustiano e prometeico, di liberarsi da qualsiasi limite nel momento stesso in cui iniziava, con la scoperta dell'America, «il tempo del mondo finito», secondo la celebre formula di Paul Valéry. Prometeo aveva pagato con il fegato il furto del fuoco sacro, che aveva fatto scendere sulla Terra per rendere la condizione umana meno precaria. Giordano Bruno pagò con la vita l'avere rivendicato il diritto di oltrepassare il limite della cosmologia di Tolomeo, ma ormai era troppo tardi. Una volta andata in frantumi la volta di cristallo che separava il mondo sublunare di Aristotele dalla sfera celeste, il mondo della finitezza era esploso in mille pezzi. Citando la frase di Paul Valéry del 1930 «inizia il tempo del mondo finito», oggi si pensa piuttosto all'annuncio della fine del mondo, data la valanga di catastrofi che ci piombano addosso e, ancor più, di quelle che si annunciano. In realtà, Valéry intendeva dire che ormai avevamo scoperto, esaminato, catalogato, fotografato i più remoti angoli del pianeta (Geneviève Azam, Le Temps du monde fini). È il verbale dell'inchiesta sulla finitezza iniziata alla fine del XIV secolo, quando Vasco da Gama fece il giro del mondo. Sul mappamondo non ci sono più parti bianche. «Oggi il minimo fazzoletto di terra, fino al cuore della selva amazzonica, fino ai canyon gelati dell'Antartide, è stato esaminato, fotografato, analizzato dall'occhio freddo del satellite» (Jean-Marie Gustave Le Clézio, Il continente invisibile) Ma contemporaneamente, l'invenzione del telescopio ci rivela che viviamo in un universo infinito. Il tempo del mondo finito si annuncia dunque come il tempo dell'universo infinito. Il momento della percezione dei limiti coincide con l'impero dell'illimitato (Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all'universo infinito). L'uomo occidentale si è abbandonato a una «caccia all'infinito» (secondo la felice espressione dello psicoanalista Gérard Pommier). Ha realizzato il programma indicato da Francis Bacon nella Nuova Atlantide: «Far arretrare i confini dell'impero umano per realizzare tutte le cose possibili». In quanto «signore e padrone della natura», cioè uguale a Dio, secondo la non meno celebre formula di Cartesio, l'uomo occidentale ha voluto rifare il mondo. La sua attività laboriosa permette di dare corpo al vecchio mito del corno dell'abbondanza. Questa attività si libera delle forze fisiche dei lavoratori, degli animali e degli aiuti naturali (vento e acqua) e diventa industriale grazie all'impiego delle macchine azionate dal fuoco. L'uomo occidentale ha creduto così di poter produrre senza limiti e di potersi affrancare dalla finitezza della riserva di risorse naturali e di energie non rinnovabili e fossili. La sua ingegnosità sfrenata, dal momento in cui è diventato ingegnere, si è creduta capace di risolvere tutti i problemi. La scienza e la tecnica avrebbero dato una risposta a tutto. Ma se l'uomo può tutto, perché dovrebbe rimanere prigioniero della camicia di forza della morale? Il diritto a godere senza nessun intralcio, conseguenza dell'abbondanza illimitata, non può che abolire tutte le norme sulle quali si fondava la vita in società. L'iperconsumo ci libera da qualsiasi imperativo che non sia quello di consumare senza sosta. La trasgressione è proclamata come un diritto, se non come un dovere. Ci se ne vanta anche ai vertici dello Stato (Michel Onfray e Nicolas Sarkozy, Confidences entre ennemis). «Nella sua impresa di demistificazione [il mondo moderno] non ha capito che i miti implicavano che venissero fissati dei limiti alla condizione umana, dando al tempo stesso un senso a quei limiti. Sostituendo il sacro con la ragione e la scienza, il mondo moderno ha perduto ogni senso dei limiti e ciò facendo ha sacrificato il senso stesso ... Quando la finitezza della condizione umana è percepita come alienazione e non come fonte di senso, si perde qualcosa di infinitamente prezioso in cambio del perseguimento di un sogno puerile» (Jean-Pierre Dupuy, La Marque du sacré). Questo trionfo dell'illimitatezza non corrisponde, propriamente parlando, alla postmodernità, ma piuttosto al compimento, tardivo e tuttavia logico, della modernità, alla piena realizzazione del suo programma, in sostanza a una ipermodernità. E tuttavia i fatti sono ostinati e la realtà resiste. Le generazioni attuali sono le prime a veder sorgere lo spettro di limiti invalicabili. In questo senso, «il tempo del mondo finito» ci si impone senza scampo. Poiché già i primi avvertimenti disinteressati, arrivati negli anni settanta del XX secolo con il primo rapporto al Club di Roma, non sono stati ascoltati, la negazione dei limiti e lo spregio della misura oggi fanno sì che limiti e misura risorgano nella forma di catastrofi: cambiamento climatico, contaminazione nucleare, nuove pandemie, fine del petrolio a buon mercato, esaurimento delle risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili, effetti deleteri dei prodotti chimici di sintesi, controproduttività dei nostri sistemi tecnologici, crisi sociali e fallimento bruciante della promessa di felicità, minacce integraliste e terroriste, rivolte identitarie. Siamo entrati nell'era dei limiti, non c'è nessun dubbio. Chiaramente, tutte le forme di dismisura si intrecciano, si compongono e si rafforzano reciprocamente. L'illimitatezza moderna è un mostro unico e proteiforme. Per afferrarlo nella sua globalità, per tentare di contrastarlo, bisogna descriverne e analizzarne le diverse sfaccettature: limiti geografici, limiti politici, limiti culturali, limiti fisici o ecologici, limiti economici, limiti della conoscenza, limiti morali. Se ne potrebbero elencare molti altri: il limite tra il reale e il virtuale, tra l'umano e il non umano, tra l'io e l'altro, tra giustizia e ingiustizia, tra diritto e non diritto, tra civiltà e barbarie, tra guerra e pace ecc. In effetti ci sono diversi prismi per osservare questo oggetto multiforme, a seconda che si parta dalle frontiere o dalla trasgressione, ma tutte le impostazioni più o meno coincidono e sono a loro volta arbitrarie. L'approccio che noi proponiamo ha il vantaggio della semplicità, e corrisponde abbastanza all'ordine della scoperta storica dei limiti da parte dell'Occidente. Malgrado l'assurdità anche delle frontiere così definite, l'approccio transdisciplinare, quanto mai necessario e giustificato, è la cosa che la nostra modernità trova più difficile da concepire. | << | < | > | >> |Pagina 24Tuttavia, anche ammettendo che il progetto di colonizzazione delle galassie sia possibile, questo farebbe retrocedere i limiti, ma non li sopprimerebbe comunque. Per definizione, non si raggiungono mai i limiti dell'infinito, e dunque si è sempre trattenuti all'interno dell'umanamente possibile del proprio tempo. E se l'affrancamento dalla sfera terrestre fosse tecnicamente possibile, a che prezzo avverrebbe il grande esodo nel cosmo, il quale porrebbe peraltro un certo numero di interrogativi? Sarebbe auspicabile? E se l'esodo diventasse necessario, si scoprirebbe in tempo il pianeta accessibile e in grado di essere «terraformato» per spedirci in massa o in modo selettivo i superstiti dell'inquinamento o della guerra atomica? In caso di evacuazione dell'umanità, prima della morte del Sole, o prima che la Terra diventi invivibile, come avverrebbe la selezione tra quelli autorizzati a partire e quelli votati a soccombere all'implosione? Secondo Jean-François Lyotard (Il postmoderno spiegato ai bambini), la selezione è già cominciata, in base al criterio del sottosviluppo. D'altra parte, bisognerebbe che il cosmo stesso non fosse stato a sua volta inquinato dai nostri rifiuti e che disponessimo delle risorse di ogni genere necessarie per realizzare il progetto (il geofisico André Lebeau, ex direttore dell'Agenzia spaziale francese, nel suo libro L'Enfermement planétaire, considera l'eventualità molto poco probabile). Secondo uno specialista, il problema delle scorie nucleari potrebbe essere definitivamente risolto grazie a dei razzi cargo lanciati nello spazio (Dzhermen Gvishiani, La Science et la technique face aux problèmes du développement). Dunque per disinquinare la Terra inquineremo lo spazio? Trasformato in una discarica, lo spazio potrà essere ancora una nuova frontiera? Le prospettive di colonizzazione delle galassie sono esaltanti o deprimenti a seconda che si sia ottimisti o pessimisti, tecnolatri o tecnofobi. Questi scenari da fantascienza ai quali l'umanità forse è destinata si basano comunque sull'idea che la tecnica può rispondere a tutti i problemi che essa stessa produce, il che pone la questione del limite della conoscenza e del rifiuto di affrontare la dismisura della nostra forma di organizzazione sociale.Fondata o meno che sia, questa fuga in avanti tecnicistica liquida sbrigativamente i problemi sociali e politici, o piuttosto presuppone che questi problemi siano a loro volta di natura tecnica o risolvibili con la tecnica. Se i problemi della Megamacchina, cioè dell'organizzazione sociale del capitalismo globalizzato contemporaneo che trasforma gli uomini in ingranaggi di un gigantesco macchinario, fossero tecnici o soltanto tecnici, allora forse bisognerebbe accettare questo destino con entusiasmo o con rassegnazione (Serge Latouche, La Megamacchina). Tuttavia, dato che la Megamacchina è innanzitutto un'organizzazione sociale, il problema non sta tanto nel fallimento della scienza e della tecnica né nella loro intrinseca perversione, quanto nella dismisura dell'uomo moderno. Le prospettive che abbiamo evocato non sono, data la situazione attuale, delle soluzioni per l'uomo e l'umanità, ma se mai dei mezzi di sopravvivenza per altre specie che eventualmente emergeranno nella nostra posterità. Ma non sarebbe più ragionevole riterritorializzare la vita, piuttosto che lanciarsi in questo tuffo vertiginoso e quanto mai arrischiato nell'ignoto? | << | < | > | >> |Pagina 776.
Limiti della conoscenza
I limiti della nostra capacità di conoscere
segnano
in qualche modo i limiti del nostro potere di fare;
essi sono dunque legati ai limiti dello spazio umano e
dell'uomo stesso, ma anche dell'economia e degli
ecosistemi. In un'opera di futurologia sovietica del
1964, l'accademico Semion Isaakovič Volkovič,
avversario implacabile di Malthus e difensore fanatico
dei pesticidi e dei concimi chimici, rispondeva
ai curatori: «No,
non ci possono essere
limiti» (in
La Vie au XXIe siècle,
a cura di Sergej Gouchtchev e Michail Vassiliev). Questo tipo di certezza a
priori definisce perfettamente l'essenza della metafisica progressista
dell'illimitatezza, caratteristica della
modernità occidentale. Il rifiuto dei limiti della conoscenza è strettamente
legato al
negazionismo
dei limiti ecologici, alla religione della crescita e al sogno
di onnipotenza. E si ripropone anche a livello etico.
La volontà di conoscere tutto, senza sforzarsi troppo
di cercare di comprendere, e di fare tutto, sfocia nel
rigetto di ogni norma morale. I limiti della conoscenza pongono dunque in primo
luogo la questione dei limiti della scienza, ma anche quelle relative alla
tecnica e infine quelle relative all'essere che li definisce, cioè l'uomo.
L'illimitatezza del razionale: l'onnipotenza tecnoscientifica «I saperi sono estremamente vasti, riguardano una enorme quantità di cose, ed è lecito domandarsi se abbiano un limite ... È possibile che a un certo punto la scienza in quanto tale arrivi a toccare i propri limiti? Ha dei limiti? Per il momento non se ne vedono, è un'avventura. Goethe diceva: "Il sentiero? Quale sentiero? Avanti". Si va avanti a testa bassa, non si sta a pensare se quello che si fa è filosoficamente ragionevole. Un amico fisico, che dei filosofi avevano messo in guardia dal fare affermazioni del genere, ha risposto con la battuta "Eppur si muove". Io credo che fosse l'atteggiamento corretto: sul piano della conoscenza niente è proibito, si va avanti senza stare a pensare, nel peggiore dei casi si cade, ma non è grave, si torna indietro. Lo spirito umano è fatto così» (Hubert Reeves, Limites de la science). È vero, gli architetti alessandrini volevano scolpire il monte Athos in forma di gigante e costruire una città nella sua mano... Quelli del Medioevo hanno costruito cattedrali sempre più alte, fino a raggiungere, a Beauvais, a Sienne o a Narbonne, i limiti delle possibilità tecniche ed economiche e vedersi poi costretti a lasciare dei mostri incompiuti. L'ordine di idee della maggioranza degli studiosi corrisponde probabilmente a quello di Hubert Reeves: riflette, ma contribuisce anche a creare, l'ordinaria dismisura della società moderna. Così, si sono costruite petroliere giganti da 250 000 tonnellate, e poi da 500 000. Arrivati a un milione di tonnellate, ci si è resi conto che era troppo pericoloso e si è dovuto fare marcia indietro. Lo stesso è avvenuto per le navi da crociera giganti, come hanno dimostrato i recenti e tragici incidenti di queste città galleggianti con più di 5000 passeggeri, e in particolare il naufragio della Concordia della compagnia Costa, andata a urtare nel gennaio 2012 contro gli scogli dell'isola del Giglio. Stesso discorso per i grattacieli: 300 metri, 500, 800, 1000 in Cina... Secondo Dominique Janicaud (La Puissance du rationnel), con la geometria euclidea, fin dalla sua origine in Grecia, la scienza si è affacciata sull'illimitato. È la matematica che inventa il primo concetto di infinito. Lo sviluppo scientifico successivo sarà in qualche modo l'affermazione della potenza del razionale. La geometrizzazione galileiana del mondo sfocerà nella pretesa baconiana e cartesiana di padroneggiare l'universo e nel trionfo imperialistico della calcolabilità strumentale. La volontà di «rifabbricare» il mondo attraverso la scienza e la tecnica è manifesta nel progetto tecno-scientifico della modernità. L'uomo pretende di ricreare il mondo meglio di quanto hanno fatto Dio e la natura. Per Henri Atlan, «è nell'attività creatrice che l'uomo raggiunge la pienezza della sua umanità, in una prospettiva di imitatio Dei che gli permette di essere associato a Dio, in un processo di creazione continua e perfettibile» (Les Étincelles du hasard). Questo studioso è dunque un sostenitore dell' ectogenesi e dell'utero artificiale, in nome dell'emancipazione della donna: «L'utero artificiale completerà la liberazione sociale delle donne rendendole uguali all'uomo riguardo alle costrizioni fisiologiche legate alla procreazione. La rivoluzione iniziata in modo apparentemente anodino con la pillola e la lavatrice arriverà a compimento con l'ectogenesi» (Henri Atlan, L'utero artificiale). La visione dell'anno 2000 di Marcellin Berthelot, chimico della fine del XIX secolo, è una delle tante illustrazioni di questa ossessione demiurgica: «In quell'epoca - ci dice il nostro dotto ottimista - nel mondo non ci saranno più né agricoltura, né pascoli, né contadini: il problema della coltivazione del suolo sarà stato eliminato dalla chimica ... ognuno per nutrirsi avrà la sua tavoletta azotata ... fabbricata a basso costo e in quantità inesauribili dalle nostre fabbriche ... In questo impero universale della forza chimica ... la Terra diventerà un grande giardino ... dove la razza umana vivrà nell'abbondanza e nella gioia della leggendaria età dell'oro» (discorso pronunciato al banchetto della Camera sindacale dei prodotti chimici il 5 aprile 1894, cit. in Jacques Testart, Agnès Sinaï e Catherine Bourgain, Labo planète ou comment 2030 se prépare sans les citoyens). Nel 1968, il rapporto futuristico della Rand Corporation era un ottimo pezzo di bravura che mostrava come, in fatto di delirio tecnoscientifico, il progetto rimanesse sempre lo stesso: il rapporto prevedeva che verso il 1995 la sintesi delle proteine alimentari avrebbe risolto il problema delle carestie, che si sarebbe arrivati a controllare le condizioni meteorologiche e che si sarebbero potute eliminare sia le malattie psichiche sia quelle ereditarie (ibid.). Nel 1996 Yves Coppens, professore al Collège de France, a cui il presidente Chirac aveva affidato la presidenza della Commissione sullo sviluppo sostenibile e l'ambiente, esclamava: «Smettiamola di dipingere di nero il futuro! Il futuro è magnifico. La prossima generazione imparerà a disegnare la propria mappa genetica, ad aumentare l'efficacia del proprio sistema nervoso, a mettere al mondo i figli dei suoi sogni, a controllare le placche tettoniche, a programmare i climi, a passeggiare fra le stelle e a colonizzare i pianeti che vorrà. Imparerà a spostare la Terra per metterla in orbita attorno a un sole più giovane ... Porterà l'umanità, ne siamo sicuri, a una riflessione più matura, a una libertà più grande e a una più grande coscienza delle responsabilità che accompagnano questa libertà» (Une réalité bien vivante, in «Le Monde», 3 settembre 1996). Alcuni manuali scolastici non sono da meno, e magnificano la tecnica e le sue prospettive senza la minima allusione all'insostenibilità del nostro sistema. I bambini vengono indottrinati convincendoli che non esistono limiti né alle risorse naturali né alle capacità umane. «Le automobili elettriche - si legge in uno di questi manuali - saranno le automobili del futuro. Utilizzeranno un combustibile poco costoso e poco inquinante ... Le automobili funzioneranno con pochissima acqua, e dunque non inquineranno l'ambiente» (cit. in Educación y ecologia, a cura di Fernando Cembranos, Yaho Herrero e Marta Pascual). Gli studiosi accarezzano addirittura l'utopia dell'invenzione del moto perpetuo, che libererebbe dai limiti delle leggi della natura! Immersi nella logica produttivistica, sognano soprattutto di vincere la maledetta seconda legge della termodinamica, la legge dell'entropia, quella che ci condanna all'irreversibilità delle trasformazioni della materia e al degrado dell'energia. Per questo a suo tempo respinsero con disprezzo i lavori del grande fisico Ludwig Boltzmann , che li avvertiva dei limiti della scienza (tale disconoscimento probabilmente portò Boltzmann al suicidio: Michel Guet, Tombeau de Ludwig Boltzmann). Risolvere tutto con la scienza: è quello che hanno tentato anche gli scienziati italiani durante il periodo fascista per assecondare la volontà autarchica di Mussolini. La storia ha fatto giustizia di queste ambizioni, ma la vicenda merita una riflessione. Tutte, o quasi, le difficoltà tecniche per inventare dei sostituti ai prodotti che mancavano all'Italia erano state superate, si trattasse del petrolio, del caucciù, del cotone o dei metalli rari. Tuttavia, malgrado la straordinaria abilità degli scienziati e degli ingegneri, nessuna produzione è stata sufficiente a coprire i bisogni: il progetto si è scontrato con i limiti dell'ecosistema e l'ambizione di liberarsene è rimasta frustrata. È successo per esempio con le speranze riposte (già all'epoca) nell'idrogeno, il «gas elettrico» come veniva chiamato allora, in grado - si diceva - di ricombinarsi con l'ossigeno in una pila senza dispersione «che si sottrae al secondo principio della termodinamica»! La ragione del fallimento è che non si può fare niente con niente. Il sogno degli scienziati si è infranto contro la legge dell'entropia (Marino Ruzzenenti, L'autarchia verde). Nel nostro sistema termoindustriale, contrariamente al famoso adagio, non basta avere delle idee, bisogna soprattutto avere petrolio (o carbone)! La scienza può fare meraviglie nella trasformazione, ma è impotente a creare ex nihilo, a ottenere qualcosa dal nulla. «La tecnica, insomma, può fare prodigi, non miracoli» ( Giorgio Ruffolo , Il capitalismo ha i secoli contati). «Credere che con la ricerca e l'invenzione - scrive Masanobu Fukuoka (La rivoluzione del filo di paglia), uno degli inventori della permacoltura - l'umanità possa creare qualcosa di meglio di quello che ha creato la natura è un'illusione» (va notato di passaggio che probabilmente non è un caso che questa osservazione venga da un giapponese e non da un angloamericano). | << | < | > | >> |Pagina 101Conclusione
L'autolimitazione e l'ideale della decrescita: ricostruire un mondo comune
«Secondo i greci, gli dei precipitavano nell'abisso della dismisura coloro che volevano perdere. Nella hybris. Nel desiderio insaziabile di essere o apparire più di quello che si può e si deve essere, più belli, più forti, più potenti, più ricchi, più famosi ecc. Chi sconfinava nell'illimitatezza doveva essere ostracizzato, escluso dalla città, perché per la città niente è più pericoloso dello scatenamento della hybris. È la hybris che scatena gli odi inestinguibili. Il desiderio insaziabile di alcuni nutre l'odio di tutti. In un certo modo questo è anche il messaggio universale di tutte le religioni ... I bisogni (spiegava Durkheim ) possono essere soddisfatti soltanto se sono limitati, e limitati da qualche autorità morale legittima. In mancanza di questo gli uomini scivolano in quella che veniva chiamata anomia, la perdita di qualsiasi regola. Una variante della hybris ... [Le società moderne] sono entrate nel XX secolo prima con i totalitarismi e poi con il trionfo delle tecnoscienze e del capitalismo finanziario guidato da una logica di assoluta illimitatezza. Diventate completamente faustiane, non vogliono più conoscere nessun limite né all'arricchimento materiale, né alle invenzioni tecniche, né allo stravolgimento di tutte le norme morali ereditate. In definitiva, è legittimo e valorizzato soltanto il movimento ininterrotto di trasgressione di tutti i limiti immaginabili. Movimento che si trasforma nella propria fine ... Di conseguenza, e tutti lo sanno o lo percepiscono, la questione centrale che ormai si pone all'umanità è quella di stabilire se saprà dominare il proprio dominio. Limitare l'illimitatezza» (Alain Caillé, Pour un manifeste du convivialisme). Non si potrebbe riassumere meglio la tematica che abbiamo delineato fin qui. L'umanità oggi si trova in una situazione tragica. Per guadagnarsi la vita, gli uomini e i gruppi, nella maggioranza dei casi, non hanno altra scelta che quella di contribuire, ciascuno per proprio conto, alla «banalità del male». Trovano lavoro soltanto accettando di diventare ingranaggi della Megamacchina e dunque di partecipare alla dismisura. Ma, per sopravvivere, il mondo oggi è anche condannato a reinventare la giustizia. Questa situazione è nuova. La finitezza del pianeta ci costringe a limitarci sia sul piano ecologico sia sul piano dei conflitti. Le guerre antiche provocavano morti e disastri di ogni genere, ma non chiamavano in causa la continuazione della vita sulla Terra. Oggi non è più così, con l'arsenale nucleare esistente, che supera di parecchie volte quello che basta a far saltare il pianeta. D'altra parte, l'inquinamento e le minacce all'ambiente, antichi quanto l'uomo, fino a un periodo recente venivano facilmente digeriti e riciclati dalla biosfera. I predatori della natura potevano nuocere tranquillamente ai loro vicini o infliggere ferite all'ambiente senza mettere veramente in pericolo l'abitacolo umano nel suo insieme. La situazione non è più questa da quando siamo entrati nell'Antropocene. Con gli inquinamenti globali è stata superata una soglia, ed è in pericolo l'intera biosfera. L'equità sociale e ambientale, o quantomeno un minimo di cura e di giustizia, sono diventati una condizione indispensabile per prolungare la nostra presenza nel mondo, e quindi un'urgenza. Per scongiurare l'implosione del sistema è indispensabile un'autolimitazione della dismisura dei modi di produzione e di consumo dominanti, che sono soprattutto quelli delle classi dominanti. Nell'odissea umana oggi c'è una nuova sfida che è impossibile dire se sarà raccolta. Il tentativo di rompere il cerchio di ferro della finitezza con una fuga in avanti tecnoscientifica, che sia la migrazione nel cosmo o la modifica della specie, non contribuirà certo a risolvere i problemi sociali e antropologici generati dall'illimitatezza. E se anche fosse realizzabile, una simile avventura sarebbe auspicabile? Debellare l'illimitatezza e ritrovare il senso dei limiti è un imperativo per la sopravvivenza dell'umanità, ma anche una sfida. In effetti, come abbiamo visto, in tutti i campi - geografico, politico, ecologico, economico o morale - il limite si scontra con il paradosso della sua arbitrarietà e con il conflitto con la ragione. La ragione razionale può spingerci sulla via dell'irragionevole. L'antinomia tra ragione razionale e ragione ragionevole non può essere risolta dalla ragione stessa. Il limite deve essere fissato e accettato liberamente. Ma quale istanza sarà legittimata a farlo? Al termine dell'odissea di distruzione di ogni norma imposta dalla trascendenza, dalla rivelazione o dalla tradizione, la sola autorità ragionevole rimane il démos, ovverosia gli umani emancipati che si fanno carico della loro autonomia e si danno delle frontiere tra loro e per loro, costitutive di un mondo comune che contiene diversi mondi comuni. In effetti, paradossalmente, ricreare dei limiti e delle frontiere è necessario non soltanto per scongiurare il crollo, ma anche per ritrovare un mondo comune. Gli uomini fanno veramente comunità solo nella prossimità e percependo la loro differenza dagli altri. Il senza frontiere alla moda tra i radical-chic distrugge sia il comune sia il mondo. La concorrenza universale cara agli esperti di Bruxelles, per quanto leale e non falsata, è un controsenso a livello non solo economico ma anche antropologico. Gli uomini, come le collettività, sono inevitabilmente differenti. Bisogna fare di queste differenze una ricchezza e organizzarsi di conseguenza per il bene comune, anziché ostinarsi a percorrere il vicolo cieco dell'omogeneizzazione totale. Le frontiere, che sono necessarie tra le culture, tra i popoli, tra le economie, tra gli uomini, possono comunque essere spostate nel tempo dalle generazioni successive, che avranno constatato le imperfezioni e le ingiustizie di norme arbitrariamente decise dalle generazioni precedenti.
In origine il progetto della decrescita si proponeva
più modestamente di far fronte alla dismisura economica, ma oggi si vede che
progressivamente questa dismisura è il veicolo di tutte le altre, e dunque la
decrescita assume necessariamente una dimensione
più ambiziosa. L'autolimitazione, ritrovare il senso
del limite, è una questione che si pone per l'individuo, ma ancora di più per
l'essere collettivo: l'umanità o la società. «Il senso fondamentale di una
politica ecosociale ... è ristabilire la correlazione tra
meno lavoro e meno consumo da una parte e più autonomia e più sicurezza
esistenziale dall'altra, per tutti e tutte ... Una vita più libera, più serena e
più ricca. L'autolimitazione si sposta così dal livello della
scelta individuale al livello del progetto sociale. La
norma del sufficiente, in mancanza di un riferimento
nella tradizione, va definita politicamente» (André Gorz,
L'Ecologie politique entre expertocratie et autolimitation).
È questa la visione della decrescita.
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