Copertina
Autore Bruno Latour
Titolo Disinventare la modernità
SottotitoloConversazioni con François Ewald
EdizioneEleuthera, Milano, 2008, Caienna , pag. 68, cop.fle., dim. 11x18x0,5 cm , Isbn 978-88-8949-042-6
OriginaleUn monde pluriel mais commun [2005]
TraduttoreCarlo Milani
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe filosofia , antropologia , epistemologia
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Bruno Latour, ci può riassumere il suo percorso?

Il mio percorso, molto semplicemente, è quello di un figlio della buona borghesia provinciale borgognona che abbandona il mestiere paterno di commerciante di vini per fare filosofia all'università e che, grazie al servizio militare, scopre l'antropologia – in un'epoca assai favorevole all'antropologia africana – e si converte ai metodi empirici sul campo.

Con approccio empirico, ma non necessariamente empirista, ho cercato di accostarmi alle questioni classiche della filosofia attraverso metodi presi in prestito dagli antropologi. Quando ero ad Abidjan, mi sono rapidamente reso conto che l'antropologia andava al cuore delle altre culture – le scienze, le tecnicne, il diritto, l'economia, le religioni – ma stranamente si limitava a trattare i margini delle nostre culture, come i patrimoni, le feste e tutto quello che rimaneva in qualche modo arcaico. Per questa ragione ho immaginato un programma di ricerca, chiamato antropologia simmetrica, che permettesse di analizzare con gli stessi procedimenti e principi sia le culture moderne sia le altre culture, i margini ma anche il fulcro delle nostre società. Volevo un'antropologia in grado di cogliere in entrambi i casi il cuore di produzione delle verità.

Sono partito dal seguente postulato: se si vogliono comprendere le società contemporanee, è necessario studiare la loro principale fonte di verità, le scienze. Cosa accadrebbe se applicassimo metodi antropologici ed etnografici alla produzione scientifica?


Alcuni dei suoi professori sono rimasti punti di riferimento per lei: ad esempio, cita spesso Michel Serres.

Ho imparato molto da Michel Serres, che ho conosciuto in California. Condivido soprattutto la sua ambizione di creare un flusso tra la cultura letteraria e la cultura scientifica. Ma mentre lui è rimasto nella tradizione filosofica del commento dei testi, io mi sono prefisso come obiettivo di mettere sul tappeto la questione dell'antropologia delle scienze. D'altra parte, lo stesso Serres utilizza questo termine. Perciò, dopo l'Africa, ho trascorso due anni in un laboratorio americano per applicare i metodi antropologici classici, persino quelli obsoleti, ai ricercatori scientifici.

Ricordo ancora lo sgomento di Roger Guillemin, premio Nobel per la medicina, borgognone come me, quando mi vide fare antropologia nel suo laboratorio: mi occupavo di tutto quello che si trovava lì, della disposizione degli spazi, delle relazioni familiari dei ricercatori, del metodo di lavoro, degli scritti, delle lettere, degli esperimenti, ecc. Ne scaturiva una visione della produzione scientifica decisamente differente da quella che mi avevano insegnato attraverso Gaston Bachelard e Georges Canguilhem, ma direi abbastanza vicina a quella di filosofi originali come François Dagognet di cui la Francia trabocca.


Quali sono i suoi riferimenti antropologici?

All'epoca ho imparato molto da Marc Augé, anche lui legato all'ambiente africanista. Ho letto un buon numero di altri antropologi, un po' da autodidatta visto che non ho mai preso la laurea in antropologia. In definitiva, i concetti sviluppati dall'antropologia mi hanno sedotto meno dei suoi metodi, perché non sono molto riconvertibili. Ad esempio, le nozioni di rituale e di mito risentono pesantemente del fatto che la vecchia antropologia, non essendo simmetrica, studiava in maniera differenziale la nostra società contemporanea rispetto alle altre. In effetti il mio primo studio verteva su questa sorta di distanziamento: dovevo spiegare, nei termini imposti dalla committenza per quel lavoro, per quale ragione i poveri abitanti di Abidjan non riuscissero a rimpiazzare i quadri superiori francesi inviati nelle imprese. Mi sono accorto immediatamente che la letteratura antropologica in proposito ne dava una lettura totalmente deformata. Non ho mai creduto all'antropologia in quanto concettualizzazione adeguata del rapporto con gli altri, in quanto disciplina in grado di stabilire una simile connessione, cosa che invece chiamo diplomazia...

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E come si procede?

Si fa riferimento a quella molteplicità di piccoli fattori che un antropologo come me ama prendere in considerazione: Pasteur lavora all'Accademia delle scienze di Parigi, è un ottimo sperimentatore, la sua miopia gli dà un vantaggio colossale al microscopio; Pouchet sta invece a Rouen e non se la cava tanto bene quando manipola i suoi matracci, ecc. Ci si può aspettare che la differenza nel tipo di spiegazione storica è profonda. I filosofi della scienza della tradizione epistemologica amano trovare una spiegazione nel fatto che la ragione finisce per trionfare sulle proprie condizioni di produzione e dunque per eliminarle (Pasteur dunque finisce per vincere malgrado tutte queste condizioni di produzione!), mentre noi riteniamo che proprio perché moltiplichiamo le condizioni di produzione finiamo per spiegare qualcosa che appartiene all'ordine della vittoria, del predominio o dell'egemonia di un programma di ricerca. Una tale differenza è evidentemente fonte di vivaci e continue polemiche. Così, noi veniamo accusati – a volte non senza ragione – di essere relativisti, cioè di ritenere che Pasteur e Pouchet, questi due nemici che abbiamo ristabilito nella loro simmetria, hanno lo stesso valore. Cosa che in definitiva non è vera, perché Pasteur ha finito per costruire la batteriologia e la grande biochimica del secolo scorso, mentre Pouchet è scomparso nel dimenticatoio della storia (anche se di fatto non scompare proprio perché viene indicato come l'irrazionale dal lavoro multiplo ed eterogeneo di Pasteur).


In rapporto al programma di un Thomas Kuhn, la sociologia delle scienze introduce già questa idea della costituzione di una verità scientifica; forse non con l'insieme dei fatti che un antropologo delle scienze mette in moto, ma comunque affrontando anche questa dimensione della battaglia.

Ma noi consideriamo questo storico delle scienze americano come uno dei fondatori della disciplina! Infatti, il grande raccapriccio di Thomas Kuhn è sempre stato di vedersi raccomandato da gente come noi, e per una ragione molto semplice: chiamando paradigmi i cambiamenti, Kuhn afferma che gli scienziati si trovano all'interno di una visione del mondo che li delimita, con i suoi vantaggi (arrivano a lavorare su fenomeni che diventano visibili in quanto delimitati) e i suoi inconvenienti (è difficile uscire dai limiti imposti dal paradigma). Per lui si tratta di una visione del mondo: contrariamente agli esseri studiati dagli scienziati, il mondo in quanto tale non si modifica.

A mio avviso, l'interesse maggiore – ma anche il rischio – dell'antropologia delle scienze è di avere abbordato risolutamente la questione della pluralità dei mondi. Non è sufficiente considerare solamente le visioni soggettive o ideologiche dei fisici, forzatamente diverse le une dalle altre, ma bisogna osservare le conseguenze delle loro azioni. La filosofia delle scienze tocca questioni di ontologia e di metafisica che la filosofia aveva abbandonato dopo Kant – cosa che continua a farle onore.

Tuttavia è importante porre nuovamente questa domanda antica: una volta scoperti dagli esseri umani, cosa succede a questi fenomeni viventi o naturali?


Secondo Bachelard, l'epistemologia si basa sulla distinzione fra l'enunciato scientifico e l'enunciato non scientifico; da qui l'idea di uno sforzo, di una specie di vittoria su se stessi, sui propri pregiudizi e le proprie illusioni. È la stessa questione della sua filosofia del no, delle resistenze, degli ostacoli epistemologici, delle rotture... Al contrario, il suo programma – o quello dei sociologi della scienza – sembra andare verso l'indistinto. Lei mescola gli enunciati con una moltitudine di oggetti in un grande contenitore riempito di formule scientifiche, esperienze, polvere di laboratorio, appetiti, passioni, ecc. La scienza è senz'altro presente, ma in fin dei conti non ci si perde nel cambio?

È evidente che studiare in maniera empirica e dettagliata la pratica scientifica ci fa perdere molto e soprattutto l'idea di affrancarsi dalle proprie condizioni di produzione, nel senso di quella grande tradizione che in Bachelard sottintende che ci troviamo sempre in lotta con noi stessi, che la verità consiste nell'affrancarsi in primo luogo dai propri sentimenti iniziali, anzi persino da quelli che si manifestano in seconda istanza.


Sì, e questo ci conduce a una nozione estremamente importante: la scienza è un'etica. La figura del sapiente è anche un modo per legare la verità oggettiva a un lavoro su se stessi. Un modo di dire che senza questa introspezione, non c'è alcuna verità. È una figura filosofica classica, no?

Ritroviamo qui il mito della vie savante, la vita sapiente.


Sapiente o spirituale?

Quando mi occupo di scienza, non faccio teologia ma pratica scientifica!


Torniamo alla questione cruciale di sapere cosa distingue un enunciato dall'altro.

La questione è capire come si ottiene questa differenza fra scientifico e non scientifico: attraverso un'accumulazione di piccole differenze o attraverso una grande distinzione posta in via preliminare?

Le modalità esplicative sono ancora una volta del tutto differenti. Riprendendo l'esempio di Pasteur e Pouchet, sosteniamo, non solo in teoria ma anche in forza degli studi empirici che si sono moltiplicati in questi ultimi trent'anni, che la distinzione fra i due si esprima meglio attraverso una massa di piccole differenze (che vanno dall'apprendimento dei gesti necessari all'asepsi e all'antisepsi fino al fatto di ritrovarsi all'Accademia delle scienze) piuttosto che con l'imposizione, al principio dell'analisi, di una separazione tra la ragione o il razionalismo del primo e la sragione o l'irrazionalismo del secondo. A mio avviso, coloro che esaltano d'ufficio una grande distinzione non sono motivati da un qualsivoglia lavoro scientifico, ma privilegiano un rapporto con l'etica e la gestione dello Stato. Ma perché sequestrare il lavoro scientifico per questo fine morale e politico che non ha nulla a che vedere con la scienza?

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È perfettamente possibile pensare che gli enunciati siano legati a un equipaggiamento sempre più complicato che li rende possibili.

Con la sociologia delle scienze noi lo facciamo decisamente meglio. Bisogna rendersi conto che non siamo passati da una versione ricca dell'epistemologia delle scienze a una versione povera dell'attività scientifica. È vero tutto il contrario: siamo passati da una versione straordinariamente eterea dell'attività scientifica, secondo cui le idee si scontravano tra loro all'interno di cervelli che non erano nemmeno cervelli, a una visione finalmente realistica delle scienze. La cosa più divertente è che per questo veniamo accusati di essere relativisti!

La scienza non si limita a delle idee o a degli enunciati (in effetti, chi ha mai parlato degli strumenti, a eccezione di Bachelard, in maniera purtroppo furtiva, con la sua stupenda espressione fenomenotecnica?). La scienza è la socializzazione, nel mondo che viviamo, di esseri fino a quel momento invisibili, caratterizzati da applicazioni molto particolari. Possiamo addomesticarli, controllarli, far loro compiere cose che possono essere montate in scene sperimentali, ecc.


Secondo lei, cos'è la scienza nella nostra società?

Precisiamo innanzi tutto che non possiamo mettere insieme i pedologi che si occupano dei lombrichi nella foresta amazzonica, i fisici delle particelle che lavorano al CERN, i sociologi del Collège de France e via dicendo.


Ma perché l'attività scientifica è tanto importante?

Senza i pedologi non ci sono i lombrichi. Questi ultimi vengono resi essenziali per la salute dei suoli dalla scoperta dei pedologi, ecc. Come si può pensare l'economia senza gli economisti, la storia senza gli storici, una cartina della Francia senza i geografi, la pedagogia senza i pedagoghi, la fisica senza i fisici? Di fatto, le discipline scientifiche sono delle condutture che permettono a questi nuovi esseri di entrare in contatto con noi.


L'epistemologia rimane legata a un'idea di distinzione, mentre lei sogna invece la fusione, l'effusione o l'attaccamento con questi esseri molteplici e multiformi. Per quale ragione?

Perché l'epistemologo non si interessa alle scienze, ma allo Stato, soprattutto in Francia dove vuole fondare la Repubblica! Secondo lui, la scienza è semplicemente un mezzo per parlare di tutt'altra cosa. Come mai si è gettato così a capofitto sulla scienza? Per la seguente ragione, perfettamente argomentata dalla storia occidentale: possiamo avere degli enunciati veri – alcuni rari enunciati matematici – che sfuggono alle loro condizioni di produzione. Da Platone in poi, si è affascinati da questi enunciati che permettono di sbarazzarci della politica, delle interconnessioni, della complessità e molteplicità dei legami, della soggettività. Dal canto nostro, noi preferiamo dire che si tratta sicuramente di un problema politico della massima importanza, ma non di un problema scientifico. Ricordiamo che, senza i pedologi, i lombrichi non farebbero parte del mondo occidentale.


Quindi la scienza amplia il nostro mondo?

Certamente, e non vedo perché questo fatto susciti una tale polemica. I filosofi sono sempre stati ossessionati dalla verità scientifica: Descartes per primo ha suggerito che ogni epistemologo avrebbe dovuto conoscere la differenza tra un enunciato scientifico e un enunciato non scientifico. Ma il problema non sta lì. È evidente che la scienza è vera e che noi abbiamo enunciati oggettivi sul mondo. Piuttosto, le vere questioni sono: possiamo costruire un mondo comune con questi esseri socializzati in mezzo a noi, con questi esseri dalle connessioni che si moltiplicano fra loro, e poi anche con noi? Possiamo vivere con gli embrioni a uso terapeutico e contemporaneamente avere delle famiglie? Possiamo avere nello stesso tempo i vermi terricoli e la deforestazione brasiliana? Tutto questo è compatibile, forma un cosmo, per riprendere l'espressione di Isabelle Stengers, cioè un'armonia?

Questa domanda è antica, ma si pone ora in un modo nuovo. È senza dubbio una questione ben più appassionante di quella, noiosa, che verte sulla capacità o meno degli scienziati di produrre enunciati oggettivi sul mondo (è ovvio che ne sono capaci, altrimenti per quale ragione verrebbero strapagati per lavorare nei laboratori?). Non ho mai dubitato, nemmeno per un secondo, che i laboratori nei quali studiavo producessero verità scientifiche. Mi è sempre sembrato assolutamente evidente. I ricercatori sono relativamente onesti, hanno buoni strumenti, calibrano bene i loro esperimenti. Per ragioni politiche e morali che lei d'altra parte condivide, e cioè stabilire un luogo nel mondo politico che sfugga alle proprie condizioni di produzione, si è cercato nella scienza un modello che si è poi voluto estendere al resto della politica. È una follia! Ed è proprio per questa ragione che mi sono permesso di attaccare gli epistemologi di Stato.

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