Autore Éloi Laurent
Titolo Mitologie economiche
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2017, I colibrì , pag. 128, cop.fle., dim. 13x21,5x1,3 cm , Isbn 978-88-545-1455-3
OriginaleNos mythologies économiques [2016]
TraduttoreRoberto Boi
LettoreRiccardo Terzi, 2017
Classe politica , economia , economia politica , globalizzazione , ecologia , scienze sociali












 

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Indice


  7 Prologo


 19         I.   La mitologia neoliberista

 22 Un'economia di mercato dinamico poggia su una concorrenza
    libera e non falsata

 31 Bisogna produrre delle ricchezze prima di redistribuirle

 36 Lo Stato deve essere gestito come un nucleo familiare,
    lo Stato deve essere gestito come un'azienda

 40 I sistemi di protezione sociale sono finanziariamente
    insostenibili

 42 Le "riforme strutturali" che puntano ad aumentare la
    "competitività" sono la chiave della nostra prosperità

 48 Viviamo una rivoluzione tecnologica senza precedenti,
    alla quale bisogna adattare senza indugio il nostro
    modello sociale

 55 Non si possono cambiare le regole europee, bisogna
    adeguarsi a esse


 61         II.  La mitologia social-xenofoba

 65 I flussi migratori attuali sono incontrollabili e
    condurranno in breve tempo al "grande ricambio"
    della popolazione francese

 68 L'immigrazione rappresenta un costo economico insopportabile

 69 L'immigrazione genera un carico sociale insostenibile

 72 Per ragioni culturali, è impossibile integrare socialmente
    gli immigrati

 75 L'Occidente sta sprofondando in un declino ineluttabile

 78 L'identità nazionale rischia di scomparire nella
    globalizzazione

 81 Si preferiscono i "migranti" ai poveri

 83 L'immigrazione alimenta l'insicurezza


 85         III. La mitologia ecoscettica

 89 Le crisi ecologiche sono esagerate per fini ideologici

 91 I mercati e lo sviluppo sono le vere soluzioni
    all'emergenza ecologica

 96 Non si possono cambiare i comportamenti economici
    senza rinunciare al liberismo

 98 L'ecologia è nemica dell'innovazione e dell'impiego

103 La transizione ecologica è un affare da ricchi,
    sinonimo d'ingiustizia sociale

106 I paesi in via di sviluppo non vogliono saperne della
    transizione ecologica, il che rende i nostri sforzi inutili

110 La gente pretende di voler cambiare i propri comportamenti,
    ma in realtà non è pronta a farlo

113 L'ecologia è punitiva

115 La transizione energetica è troppo costosa

118 Dato che funzionano davvero solo su scala ridotta,
    le pratiche ecologiche resteranno marginali


121 Epilogo


 

 

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Pagina 7

Prologo



L'economia è diventata la grammatica della politica. Col suo uso e le sue regole condiziona il linguaggio, la parola pubblica, il cui libero arbitrio si limita ormai alla scelta del vocabolario, della retorica e dell'intonazione. Oggigiorno la politica si esprime su tutto, ma sempre con riserva di una convalida economica; del resto viene prontamente richiamata all'ordine non appena il suo verbo pretende di affrancarsi dalla tutela di fatturati e statistiche. Questa grammatica economica però non è né una scienza né un'arte, ma piuttosto una mitologia, un credere comune in un insieme di rappresentazioni collettive fondatrici e regolatrici giudicate degne di fede, tanto potenti quanto sindacabili.

Qual è dunque l'utilità della mitologia economica? Cosa spera di ottenere, la politica, sottomettendosi al suo imperio? Verosimilmente pensa di trarne l'autorità che, sempre di più, le sfugge tra le dita. L'economia è diventata l'imperativo sociale che coloro che governano non sono più capaci d'imporre, né con la forza né con la persuasione. La retorica economica – è la sua funzione fondamentale – dice ai cittadini «bisogna» e «si deve» al posto di un politico, la cui parola non trascina più. La retorica economica, ordina, regola, interviene; in breve, offre la confortante certezza che, rispetto alla complessità reale del mondo sociale, esista una soluzione.

Più che mai "lugubre", l'analisi economica si ritrova così ridotta a un culto della fatalità, che mette in scena un universo faticoso e angoscioso fatto di vincoli, di costrizioni, di rifiuti, di punizioni, di rinunce e di frustrazioni. Risponde invariabilmente «non si può» quando i cittadini dicono «noi vogliamo». Riduce i progetti, le ambizioni e i sogni a questioni falsamente importanti: «quanto costa?», «quanto rende?». Segna la fine delle alternative, mentre la sua vocazione sarebbe proprio quella di aprire nel dibattito pubblico il ventaglio delle possibilità, di annunciare non una sentenza irrevocabile bensì delle opzioni aperte e sempre negoziabili, rispetto alle quali essa non possiede né la vocazione né i mezzi per imporsi.

Nondimeno, oggi chi vuole apparire importante "fa l'economista". In un miscuglio particolarmente tossico di ideologia e dilettantismo, un numero crescente di "commentatori" di minuscola competenza recita con tono professionale e spesso comminatorio un catechismo del quale, peraltro, capisce pressoché niente. Ma non importa, giacché si tratta di una sorta d'incantesimo: i "commentatori" si appellano al potere superiore dell'economia. Sanno che "parlare la lingua dell'economia" li metterà dalla parte dei forti, vale a dire di quelli che dicono «no». E che pochi oseranno contestare la loro autorità per procura.

L'economia mitologica, nebulosa di racconti e leggende a uso sociale, inquina dunque il dibattito pubblico. Ma avvelena anche lo spirito democratico. Chi ha poteri di governo si sente obbligato a invocare le mitologie economiche per rafforzare la propria "credibilità" e dimostrare la propria serietà. Ma anche chi si pone su posizioni in apparenza lontane dagli ambienti governativi (da tempo "economizzati"), anche costoro si piegano alla nuova ingiunzione comune, tanto che non parlano più granché d'altro se non di economia. In tal modo tutti sciupano il proprio credito democratico.

Più che mai insomma la credibilità economica sta assorbendo la legittimità politica. L'economia – è il suo principale paradosso – è una mitologia che disillude il mondo.

Per grande fortuna la contestazione – sia dall'interno che dall'esterno – della "scienza economica" è in crescita, sta acquistando forza, sta guadagnando visibilità nel mondo accademico. Tuttavia questa messa in discussione non basta. Si potrebbe anche affermare che la disciplina economica, mano a mano che si scredita e scende di grado nel campo del sapere, guadagna influenza in quello della democrazia. Perché il discorso economico si è appropriato di una zona intermedia tra il campo scientifico e il dibattito politico: ha messo le tende nell'opinione pubblica, ed è da lì che bisogna farlo sloggiare per rimetterlo nella sua giusta posizione.

Mano a mano che cresce l'influenza degli economisti sul dibattito pubblico, il dialogo tra loro si assottiglia e s'impoverisce. È poco noto che i risultati degli studi economici vengono sempre meno vagliati sulle riviste specializzate, di conseguenza sempre meno messi in discussione. Non è sempre stato così. La parte degli studi economici pubblicati in risposta ad altri per contestarli o emendarli è gradualmente aumentata nella prima metà del XX secolo, fino a rappresentare nel 1970 un quarto delle pubblicazioni accademiche. Gli economisti di allora si conoscevano, si parlavano, si confutavano a vicenda. Le controversie abbondavano. Oggi la conservazione ha preso il posto della conversazione: soltanto l'1% degli articoli pubblicati sulle cinque riviste economiche più consultate (tutte di lingua inglese e di cultura anglosassone) è dedicato alla critica di risultati acquisiti. Tra gli economisti, dunque, non esiste più un dibattito accademico degno di questo nome.

Nello stesso tempo, e si tratta di un'evoluzione assolutamente coerente con quella appena descritta, gli studi economici sono ormai nella stragrande maggioranza empirici piuttosto che teorici (i tre quarti degli articoli pubblicati attualmente puntano a convalidare o a invalidare attraverso una serie di dati i modelli economici esistenti, senza mai prendere in esame i loro presupposti). In altre parole: al riparo di un diluvio continuo di numeri, le analisi economiche più influenti non si rinnovano quasi più.

Delle due cose una: o l'economia non ha più bisogno di essere messa in discussione perché ha raggiunto lo stadio supremo di verità rivelata, oppure il sistema ufficiale di produzione e di diffusione del sapere economico, gravemente in défaillance, gira a vuoto. Optiamo umilmente per la seconda ipotesi, e stabiliamo fin dal prologo di questo libro che, date le circostanze, è semplicemente irragionevole lasciarci orientare nelle nostre scelte collettive da un pensiero economico dominante chiuso nelle sue certezze, indubbiamente ponderate, ma altrettanto indubbiamente ormai datate. L'economia è una faccenda troppo seria per essere affidata agli economisti.

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Pagina 17

La speranza di questa breve opera è d'immunizzare i cittadini contro le mistificazioni economiche, e allo stesso tempo di esorcizzare i politici dal loro incantesimo fatale. Ci proponiamo di decostruire, analizzandoli, tre discorsi oggi dominanti, giunti a differenti livelli di maturità, che usano e abusano dei miti economici e allo stesso tempo ci rendono miopi rispetto alle vere sfide del nostro tempo: il neoliberismo in fase terminale, la social-xenofobia emergente e l'ecoscetticismo irriducibile. Perché l'economia – è il suo secondo paradosso – è una modernità superata: pretende di essere una spinta permanente al cambiamento e alla riforma, invece racchiude gli individui e i gruppi nel mondo così com'è, screditando le dissidenze e soffocando i pensieri nuovi.

Questo libro non pretende di ristabilire la ragione economica contro l'economia mitologica: non ci sono verità in economia. Ci sono solo delle ipotesi a monte e delle scelte a valle e, tra le une e le altre, nel migliore dei casi, un metodo e strumenti solidi. In compenso, si vuole dare al lettore il gusto di porsi interrogativi in merito alle problematiche dell'economia, attitudine la cui progressiva scomparsa è carica di minacce per il nostro dibattito democratico.

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Pagina 19

I. La mitologia neoliberista



Che cos'è il neoliberismo? Spesso s'identifica tale discorso economico con gli anni Ottanta e con l'influenza "anglosassone", con Ronald Reagan e Margaret Thatcher che si tenevano per mano al di sopra dell'Atlantico per farla finita con l'Unione Sovietica, in un'offensiva ideologica che annunciava già la grande esclusiva del capitalismo globalizzato emerso dopo la caduta del muro di Berlino. Ma ciò significa dimenticare che le idee neoliberiste si sono cristallizzate in un sistema istituzionale del quale siamo responsabili, ovvero quello dell'Unione europea, la quale si è costruita negli anni Novanta, sia in opposizione al pensiero keynesiano che contro lo Stato assistenziale. Il neoliberismo — che disseminerà poi lungo gli anni Duemila svariate crisi negli Stati Uniti e in Europa — ha indubbiamente il fiato corto, eppure si conserva bene: il punto è che si è insinuato nella mente delle persone quale discorso economico normale, quello la cui contestazione è ritenuta una deviazione, o persino una devianza.

Ora, come tutti i fondamentalismi, il fondamentalismo di mercato che ispira la retorica neoliberista poggia su una morale semplicistica. Il suo escamotage ideologico consiste nel celare il ruolo fondamentale delle istituzioni sociali (regolamenti, servizi pubblici, redistribuzione, tutela sociale) nella prosperità occidentale al fine di ridurre quest'ultima a un assoluto mercantesco che non è mai esistito: mercati senza fede né religione, sistemi d'innovazione e di produzione oppressi e repressi dai sistemi di redistribuzione, uno Stato la cui ragion d'essere sarebbe quella d'impedire con ogni mezzo possibile il dinamismo economico. Tutto ciò non è che una chimera. Il neoliberismo appare infatti come un liberismo arcaico che rinvia il pensiero economico e la politica economica ai loro primi vagiti nel XVIII secolo, e le società alla preistoria sociale. Se Adam Smith merita il titolo di padre fondatore del pensiero economico moderno è perché ha liberato l'economia dalla morale, non dalla politica. Tuttavia è Karl Polanyi che ha descritto meglio questa interdipendenza esistenziale tra potere pubblico e forze del mercato, della quale i miti economici, che sostengono il neoliberismo, rifiutano a prescindere l'evidenza. Proviamo a decostruire questi miti.




Un'economia di mercato dinamico poggia su una concorrenza libera e non falsata


Il neoliberismo conosce due modalità fondamentali: mette in scena alternativamente un'economia asfissiata dalle regole pubbliche e uno Stato sopraffatto da mercati onnipotenti. Queste due visioni apparentemente contraddittorie sono entrambe mitologiche: il mercato esiste solo in quanto regolato, e lo Stato ne trae appunto il suo potere. Il "partenariato pubblico-privato", oggi presentato come uno strumento particolarmente innovativo di gestione pubblica, in realtà è la definizione più semplice dell'economia di mercato. La questione vera, nascosta dalla coltre di fumo mitologico, sta altrove: chi si assume i rischi e i costi dell'economia di mercato? Chi ne possiede le rendite?

Consideriamo innanzitutto il primo mito, che contrappone l'innocenza del mercato spontaneo all'invadenza di uno Stato oppressore. Un mercato è, in modo evidente, un insieme di regole del gioco. Il punto è: chi, al di fuori del potere pubblico, può creare, imporre e gestire tali regole? Questa creazione pubblica del mercato può indubbiamente prendere forme diverse. Può essere fatta per commissione o per omissione: ogni regola genera infatti esortazioni economiche volute (il rispetto dei doveri) e sgradite (il loro aggiramento). Ma nessuno, tranne il potere pubblico, è in grado di creare dei mercati.

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Pagina 34

La ricerca economica di questi primi anni del XXI secolo, alimentata da numerosissimi studi empirici, rimette del tutto in discussione questa ideologia dell'efficienza naturalmente equa: le ineguaglianze non soltanto sono ingiuste, sono anche inefficienti. Provocano crisi finanziarie. Antepongono la rendita all'innovazione. Impediscono lo sviluppo della sanità e dell'educazione. Inchiodano le posizioni sociali. Paralizzano la democrazia. Aggravano il degrado ambientale e alimentano le crisi ecologiche. L'immagine del «secchio bucato» proposta da Okun per screditare le politiche di redistribuzione [Nota: Ogni politica di redistribuzione, come l'imposta sul reddito, sarebbe come un foro che lascia sfuggire un po' di dinamismo economico: alla fine, secondo Okun, il secchio arriva vuoto alla popolazione perché l'equità ha soffocato l'efficienza.] può essere perfettamente invertita: le disuguaglianze sono altrettanti fori nel secchio dell'efficienza; pertanto non serve a niente riempirlo visto che il suo contenuto non arriva più fino ai cittadini. Ciò spiega il fatto che oggi negli Stati Uniti il 2% di crescita del PIL, si concretizza in una decrescita del reddito per il 90% della popolazione: tra l'incremento del PIL e i redditi effettivamente distribuiti alla stragrande maggioranza degli americani s'interpongono le "perdite" dovute al potere finanziario, alla disuguaglianza tra salari e profitti e all'accaparramento delle ricchezze da parte degli individui giunti, con l'aiuto di generosi sistemi pubblici, al vertice della scala dei redditi.

Le disuguaglianze possono dunque essere considerate come "inefficaci" nel senso che ostacolano il dinamismo economico, lo sviluppo umano e lo sviluppo sostenibile.

[...]

Nondimeno si deve fare attenzione a un grave controsenso, molto diffuso: non bisogna cercare di ridurre le disuguaglianze perché intralciano la crescita economica. Questa visione puramente strumentale della giustizia sociale subordina quest'ultima a un obiettivo che è solo intermedio, cioè l'aumento del PIL. È invece importante combattere le disuguaglianze per ridurre drasticamente il loro effetto nefasto sugli obiettivi sociali finali, che sono il benessere delle persone e la sostenibilità delle società.


Abbiamo cercato fino a qui di decostruire due miti economici basilari: la contrapposizione tra il mercato e lo Stato, e la preminenza della produzione sulla redistribuzione. Restano da dissolvere più brevemente tre miti secondari che ne derivano: la necessità di amministrare lo Stato con delle regole ispirate ai principi di gestione privata, l'insostenibilità esistenziale dei sistemi sociali e il comandamento supremo delle "riforme strutturali".

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Pagina 46

Il discorso neoliberista, il cui senso proprio è mettere in scena l'impotenza dello Stato per meglio consentirgli di servire di nascosto gli interessi privati, non detesta nulla dei nostri giorni quanto il conservatorismo. Ritiene infatti di essere "carica dirompente", capovolgimento dei "tabù", lotta contro i "privilegi acquisiti". Nella nuova economia le rendite sono spietatamente snidate e riconquistate da parte di temerari produttori di valore. Le innovazioni tecnologiche fanno cadere uno dopo l'altro gli intermediari di un tempo e i polverosi bastioni del vecchio capitalismo per liberare i prezzi a massimo beneficio di tutti. La crisi occupazionale è concepita come un'opposizione tra degli "insiders" barricati (a cominciare dai dipendenti statali) e degli "outsiders" abbandonati (i giovani soprattutto). Il contratto sociale deve ormai mettere a confronto i meritevoli che si danno daffare (i "makers") e i pigri che approfittano del lavoro altrui (i "takers"). La mistificazione, ingegnosa, va molto lontano: i diseredati diventano dei benestanti e gli industriali degli avventurieri, i ricchi diventano degli oppressi e i poveri dei protetti, le regressioni sociali si trasformano in riforme e i diritti in privilegi, e infine, forse soprattutto, i conservatori diventano dei progressisti e i progressisti dei conservatori.

Tuttavia, per felice combinazione, tutti i rivolgimenti del mondo (globalizzazione, integrazione europea, innovazioni tecnologiche, accelerazione finanziaria ecc.) conducono sempre allo stesso programma politico, il quale consiste in tre grandi capitoli: l'indispensabile riduzione delle spese pubbliche, la necessaria diminuzione dei diritti sociali e l'urgente ammorbidimento della fiscalità per i detentori della ricchezza. Tutto rientra dunque nell'ordine. È nella costanza della sua agenda ideologica che si riconosce il conservatorismo del neoliberismo, dietro la sorridente maschera del progresso. Esploriamone i nuovi volti, a cominciare da quello della "rivoluzione digitale".

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Pagina 55

Non si possono cambiare le regole europee, bisogna adeguarsi a esse


L'Unione europea del 2016 ispira forte inquietudine persino ai suoi più tenaci nemici. Se l'Europa ha potuto raggiungere la pace tra le nazioni attraverso l'economia all'indomani della seconda guerra mondiale, la pace adesso è minacciata, all'interno delle nazioni, da una serie di conflitti sociali che la stessa integrazione economica europea ha fatto nascere e mantiene. Il mercato unico, che avrebbe dovuto unificare i popoli, ha diviso le nazioni – il Regno Unito ne ha fatto l'amara esperienza. L'economia era l'antidoto all'amarezza della guerra; è diventata il veleno lento della democrazia.

La diagnosi è in fondo relativamente semplice: l'Unione europea, pur costringendo gli Stati membri a determinate scelte (che le relative popolazioni disapprovano), è prigioniera di una costituzione economica che le impedisce di formulare risposte comuni alle scosse che la colpiscono e alle sfide che ha davanti. Da ciò risultano due conseguenze: un riflusso dell'attaccamento al progetto europeo e un arretramento dello spirito di cooperazione. I dirigenti europei sono sempre più incapaci di affrontare insieme le sfide del momento, il che contribuisce fortemente a convincere i cittadini della loro collettiva incompetenza. La cultura della cooperazione svanisce, soffocata dal culto della disciplina.

Eppure, come illustrano tanto la storia europea quanto un certo numero di episodi politici recenti, non c'è niente d'ineluttabile in questa evoluzione. Ma bisogna riconoscere la doppia nocività della costituzione economica che regola l'Unione europea. Da un lato blocca gli strumenti comuni, specialmente quelli macroeconomici, come la politica di bilancio, e dall'altro lascia libero corso alle strategie non cooperative, come la concorrenza fiscale e sociale. Il colmo è che i trattati europei impediscono la solidarietà e anzi favoriscono l'egoismo. L'Unione europea del XXI secolo viene dunque vissuta come una serie di piccoli paesi concorrenti impegnati in un gioco a somma zero. Tale concorrenza, che nei trattati viene concepita come fonte di dinamismo e anche di livellamento dall'alto dei sistemi sociali, porta di fatto a un calo della tassazione sulle aziende e sui redditi cospicui, così come alla stagnazione salariale. Del resto si noterà che se la concorrenza europea impone un calo delle retribuzioni più modeste in nome della "competitività", all'inverso costringe a un aumento delle retribuzioni più elevate in nome di quella stessa "competitività" (il padronato francese usa senza vergogna entrambi gli argomenti per difendere, nell'industria dell'auto, tanto l'abbassamento degli stipendi dei dipendenti quanto il livello esorbitante dei compensi ai dirigenti).

Oggi si ritiene che ciò sia il normale corso delle cose nel continente, ma è la negazione stessa del progetto europeo e della sua storia. L'Europa è stata costruita come il continente della migliore offerta sociale alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo. Quando furono messi insieme i primi frammenti di Stato assistenziale in Francia, in Germania, nel Regno Unito, l'ambizione era di fare meglio dei vicini sul piano della correzione delle disuguaglianze sociali, non di fare peggio in materia di tutela dei lavoratori.

Gli europei vivono dunque sotto l'influenza di una costituzione economica nociva che non hanno scritto né mai ratificato. È possibile modificarla? Sì, naturalmente, e quattro recenti casi lo dimostrano.

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