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| << | < | > | >> |IndiceVII Introduzione 3 1. L'evoluzione per selezione naturale 1.1 Breve biografia di Charles Darwin, 3 1.2 La lotta per l'esistenza, 6 1.3 La selezione naturale, 10 1.4 Una nuova immagine della natura, 11 1.5 Darwin dal deismo all'agnosticismo, 13 1.6 Darwin e il male, 14 1.7 Le variazioni casuali, 18 1.8 L'adattamento, 23 1.9 Che cosa vuol dire "darwinismo"?, 25 1.10 Ottimismo o pessimismo?, 28 31 2. Lotta per la vita e selezione naturale nell'uomo 2.1 L'Origine dell'uomo, 31 2.2 Darwin darwinista sociale, 34 2.3 Wallace: dalla selezione naturale allo spiritualismo, 42 2.4 Spencer: la «dura disciplina della natura» e la «sopravvivenza del più adatto», 44 2.5 Spencer "lamarckiano", 49 2.6 Spencer darwinista sociale?, 51 2.7 Darwinismo e scienze umane, 53 57 3. Darvinismo e religione 3.1 Riconciliazioni vecchie e nuove, 58 3.2 Modi di conciliazione, 61 3.3 Fondamentalismi, 65 3.4 Darwin e i gas asfissianti, 67 3.5 In tempi più recenti, 69 3.6 Conclusioni, con considerazioni personali, 71 73 4. Il darvinismo sociale 4.1 Un termine polemico, 74 4.2 Ambiguità, 76 4.3 Darwinismo sociale "predarwiniano", 79 4.4 Le basi biologiche della cooperazione, 81 4.5 Darwinismo socialista, 84 4.6 Lotta e sforzo, 86 4.7 Fascismo e nazismo socialdarwinisti?, 91 4.8 Conclusioni, 93 95 5. Razzismo 5.1 Qualche padre del razzismo, 96 5.2 Darwin e le razze, 98 5.3 Wallace e le razze, 104 5.4 Dalle scimmie all'europeo, passando per i negri, 108 5.5 Sul cervello femminile, 110 5.6 La lotta fra le razze, 112 5.7 Lo «spazio vitale 114 5.8 Che fare delle "razze inferiori"?, 116 5.9 Pacifismo "razzista", 118 5.10 Razzismo scientifico e razzismo mistico, 121 5.11 Razzismo dello spirito, 127 5.12 Razzismo italico, 129 5.13 Antisemitismo italico, 131 5.14 Conclusioni, 133 137 6. Eugenetica 6.1 Nascita, 137 6.2 Utopia, 139 6.3 La crociata, 141 6.4 Controllo sociale della riproduzione, 143 6.5 Eugenetica e genetica, 145 6.6 Medici e bisogni sociali, 147 6.7 Varietà dell'eugenetica, 148 6.8 Eugenetica e socialismo, 150 6.9 Eugenetica antisemita?, 151 6.10 Eugenetica tedesca = nazismo?, 152 6.11 Quale eredità?, 157 6.12 Utopie realizzabili, 160 6.13 Distopie dietro l'angolo, 161 6.14 Fantasie vitalistiche. Una divagazione letteraria, 162 6.15 Controllo delle nascite?, 165 6.16 Malthusianesimo e neomalthusianesimo, 169 6.17 I socialisti fra Malthus e Darwin, 170 6.18 Crescete e moltiplicatevi, ovvero quantità e potenza, 172 6.19 Eugenetica cattolica, 174 6.20 Dopo la Shoah, 177 6.21 Conclusione, con qualche considerazione, 178 185 7. Guerra 7.1 Spiegazioni e giustificazioni predarwiniane, 186 7.2 Darwin e Wallace sulla guerra, 187 7.3 La progressiva estinzione della guerra, 192 7.4 Grandezza e decadenza della guerra, 193 7.5 Selezione o controselezione?, 196 7.6 Rompicapo eugenetici, 199 7.7 Il «darwinismo alla tedesca», 204 7.8 Solo «alla tedesca»?, 213 7.9 L'altra metà della razza anglosassone, 219 7.10 Il «credo politico delle razze latine» e le sue eccezioni, 222 7.11 Apologie italiane della guerra, 226 7.12 «Kultur» contro «Zivilisation», 229 7.13 Antidarwinismo alla tedesca, 232 7.14 Rigenerazione non biologica, 240 241 8. Egoismo 8.1 La bestia nell'uomo, 243 8.2 Peccato e redenzione, 245 8.3 Altruismo e cooperazione, 247 8.4 «Processo etico» contro «processo cosmico», 251 8.5 Aggressività, 255 8.6 Cultura contro natura, 257 8.7 Il gene egoista, 260 8.8 Sociobiologia umana ed etica, 266 8.9 Vivere secondo natura?, 274 277 Bibliografia 313 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina VIIIntroduzioneIl 2009 è un anno di celebrazioni darwiniane. Inevitabile, doveroso, giusto: Darwin ha cambiato il modo di vedere il mondo, anche se non tutti se ne sono accorti, alcuni se ne sono accorti ma fanno finta di niente, altri se ne sono accorti così bene da mobilitarsi contro quella che avvertono come una minaccia ai loro valori. È inevitabile, doveroso, giusto che le librerie siano piene di opere grandi e piccole su Darwin e l'evoluzione (un po' meno di opere di Darwin), che si facciano convegni e seminari, mostre e conferenze, numeri speciali di riviste, lezioni nelle scuole. Sarà un'impressione, ma temo che in tutto questo meritorio fervore ci sia una lacuna, o almeno un insieme di problemi, che non sarà affrontato con intensità pari a quella impiegata in perorazioni o anatemi. Si tratta del rapporto fra le teorie di Darwin e le loro applicazioni o implicazioni per quanto riguarda la società, la morale, la politica, insomma la vita degli individui umani in comunità. Mi spiego: discussioni di questi temi non mancano, ma tendono a essere orientate alla difesa o alla critica delle idee di Darwin, o di quelle che si suppone ne derivino. Per essere ancora più chiari: si dice, e temo che si dirà, poco sul cosiddetto "darvinismo sociale". Di fronte a questo complesso fenomeno gli atteggiamenti si polarizzano: gli uni discolpano Darwin dicendo che le sue idee furono strumentalizzate; gli altri lo accusano di essere il responsabile, diretto o indiretto, delle più disumane applicazioni delle sue idee. I primi tendono a rimuovere o ad accantonare il Darwin che ha parlato dell'uomo in società, vuoi perché considerano obsoleta e poco scientifica questa parte della sua produzione, vuoi perché preferiscono il silenzio al rischio di attirare su questo aspetto del loro eroe l'attenzione degli antievoluzionisti, vuoi perché (devo proprio dirlo) quel Darwin lì non l'hanno letto, così come non hanno letto Spencer, Haeckel e tanti altri: roba non scientifica, morta e sepolta. I secondi, che in genere leggono meno dei primi, non sono spinti ad approfondire le loro conoscenze su certe vicende del passato: non sono forse il razzismo, l'imperialismo e il nazismo cose orrende? Che altro c'è da sapere? Qualcuno deve aver detto che la memoria copre, ma lo storico scopre (nel senso che toglie le coperte). Eppure, nonostante gli sforzi degli specialisti (ormai esiste da tempo una vera e propria "industria darwiniana"), per il grande pubblico il darwinismo sociale è ancora sepolto sotto l'ovvietà o il pudore. Questo libro intende sollevare un po' di coltri, o almeno un po' di polvere dalle coltri. Detto in modo più accademico, intende ricostruire il retroterra storico di dibattiti e problemi che sono ancora fra noi, mostrando come sono nati, come sono stati trattati (o maltrattati) e quanto abbiamo da imparare da una conoscenza del passato che ha prodotto il nostro modo di pensare. Quindi questo non è un libro su Darwin, né una storia dell'evoluzionismo. Men che meno vuole sceverare ciò che è vivo da ciò che è morto dell'opera di Darwin e dei darwiniani, veri o presunti. L'esposizione dei concetti basilari della teoria dell'evoluzione per selezione naturale contenuta nel capitolo 1 è strettamente limitata all'informazione necessaria per seguire i capitoli successivi, che sono il cuore dell'opera. Dispiace trascurare tanti aspetti importanti dell'opera del Nostro, ma, ripeto, questo non è un libro su Darwin, bensì su un contesto, un periodo, un insieme di interpretazioni, applicazioni, usi e fraintendimenti delle sue idee. Nel capitolo 2 viene esposto il pensiero di Darwin sull'evoluzione sociale e sono introdotti Wallace e Spencer. Il primo ha conosciuto solo di recente una meritata rivalutazione. Il secondo deve ancora conoscerla: tanta fortuna ebbe ai suoi tempi, quanta immeritata sfortuna in seguito. Nessuno lo legge più, oggi, e questo è un male (per chi vuole capire qualcosa di quel periodo cruciale, s'intende). Il capitolo contiene anche l'esposizione delle opinioni espresse da Darwin quando estese all'evoluzione umana e sociale la sua teoria. Il capitolo 3 è una sorta di propaggine dei precedenti: vi si espongono alcuni dei modi in cui si cercò di conciliare darwinismo e religione, e si riprendono, da questo punto di vista, temi come il rapporto fra bene e male, bontà e crudeltà della natura, la posizione dell'uomo nella natura, il disegno divino. Il capitolo 4 tratta del darwinismo sociale, cercando di decostruire (come è di moda dire oggi) questa categoria storiografica e polemica, per la quale confesso di nutrire un'avversione viscerale: la considero infatti ambigua, fuorviante, dannosa, un'etichetta di comodo di cui ci si serve (ora come allora) per gettare discredito su chi non la pensa come noi intorno ai rapporti fra natura e cultura, biologia e società. Spero che la trattazione serva almeno a mostrare quanto sia superficiale definire darwinismo sociale qualunque espressione di pensiero in cui si ritiene di avvertire il pericolo del biologismo. Usare le parole adeguate non risolve i problemi, ma usare quelle sbagliate li complica sicuramente. Per onestà, dichiaro qui di non essere affatto diffidente come tanti umanisti di fronte al contributo che la biologia dà alla conoscenza della natura umana. Credo che proprio la conoscenza storica offra al pensiero critico le armi per combattere efficacemente (e non con gli anatemi) le semplificazioni e le distorsioni che dovessero accompagnare la trattazione dei rapporti fra biologia e cultura. Il pensiero critico si nutre di storia. Comunque sia, il darwinismo sociale, o meglio il cosiddetto darwinismo sociale, è un guazzabuglio: ragione di più per cercare di portare un po' di ordine in un fenomeno complessissimo e per evitare giudizi sommari. I capitoli 5 e 6 sono dedicati al razzismo e all'eugenetica. Anche in questi si cerca di far vedere l'intreccio di idee eterogenee, la sovrapposizione di piani diversi di discorso, il conflitto fra idee apparentemente simili. Gli eugenetisti non la pensavano tutti allo stesso modo, i razzismi non erano tutti uguali. Le idee di Darwin e Darwin stesso rimasero impigliati in un contesto in cui è difficile orientarsi tuttora, a distanza di un secolo o più. È difficile per due motivi paradossalmente opposti: da una parte, la distanza temporale ci fa sentire un senso di estraneità, se non di superiorità, rispetto a quei presunti "errori" del passato, che ci sembrano ormai superati; dall'altra, il fatto che le piaghe subite dall'umanità solo ieri non si siano ancora rimarginate induce a rubricare la complessità degli eventi e delle opinioni sotto un paio di etichette, come "razzismo" e "eugenetica", come per chiudere il tutto in un cassetto, nella speranza di non doversene più occupare. Ma la realtà va guardata in faccia, e riserva sempre sorprese. Certi problemi sono ancora fra noi, come ho cercato di far vedere. Queste considerazioni valgono anche per il capitolo 7, sulla guerra. La tesi che vi è esposta è semplice: gli apologeti della guerra non avevano bisogno del darwinismo, comunque interpretato, poiché avrebbero detto le stesse cose anche se il buon vecchio Charlie non avesse scritto una riga. Avevano infatti a disposizione un armamentario ideologico al quale la teoria della selezione naturale ha offerto solo qualche slogan. Ma anche in questo caso si tratta di districare l'intreccio degli argomenti, di grattare la superficie delle parole per far emergere i veri moventi, di spiegare perché quegli slogan furono usati. E anche in questo caso gli eventi della storia hanno da una parte semplificato le cose (la prima guerra mondiale spazzò via – per sempre? – certe apologie della guerra), dall'altra complicato il compito di chi vuole riportare alla luce opinioni e ragionamenti sepolti sotto le macerie di un disastro mondiale. Il capitolo 8, infine, tocca questioni di etica: egoismo, altruismo, aggressività, istinti e ragione, umani e animali, biologia e cultura. È un terreno minato, poiché il dibattito è vivo e acceso, le polemiche talora violente. Il compito che mi sono assunto è solo quello di ripulire, a beneficio di chi voglia interessarsene, lo sfondo delle discussioni attuali, che altri, più competenti, svolgeranno. Aggiungo solo, per quello che può servire, che credo nella possibilità di naturalizzare l'etica e di accertare i fondamenti biologici (non solo genetici, ma complessivamente biologici: neurologici, etologici, ecologici, ecc.) della cultura. Non è una dichiarazione di biologismo, ma di materialismo metodologico, che non comporta affatto il misconoscimento dei diversi livelli della realtà studiati dalle diverse discipline, ma afferma l'esigenza del dialogo fra le discipline, e della correzione reciproca degli eccessi. Come ha scritto l'etologo Danilo Mainardi, il timore del biologismo non deve portare al rifiuto della biologia. Credo che il riduzionismo sia un ideale della ragione, non un pericolo. I pericoli sono altri: innanzi tutto, le riduzioni sbrigative, quelle presentate come bell'e fatte e acquisite, ma anche la tentazione opposta di "ridurre" – verbo qui paradossale ma appropriato – l'umano al solo culturale, tentazione che può generare un determinismo non meno dannoso di quello biologico e il sogno delirante di plasmare l'uomo a piacimento, con la costrizione politica anziché con la genetica. Ammettere che esiste una natura umana pone di per sé limiti alla progettazione politica: può servire a escludere prospettive di riforma dichiarandole irrealizzabili, ma anche a frenare velleità totalitarie e illusioni di onnipotenza. L'essere umano tutto biologia e l'essere umano tutto cultura appaiono ugualmente manipolabili. | << | < | > | >> |Pagina 40Ambivalenza non minore presenta il suo pensiero a proposito delle razze, delle nazioni e dei loro conflitti. Non mette mai in dubbio la superiorità degli europei, e degli inglesi in particolare, sui «selvaggi», ma non si spinge mai a opinioni che potrebbero indurre a definirlo un determinista razziale. Nei suoi scritti non mancano critiche alle brutture dello sfruttamento coloniale o espressioni di simpatia per l'umanità delle popolazioni indigene dell'America meridionale e dell'Oceania. È risolutamente antischiavista, esprime tristezza di fronte alla progressiva estinzione dei maori della Nuova Zelanda, ma considera inevitabile la scomparsa dei nativi di fronte all'avanzata inarrestabile dell'uomo bianco. Condivide l'opinione secondo cui «i notevoli successi degli inglesi come colonizzatori, in confronto con le altre nazioni europee», sono dovuti alla loro «energia audace e persistente», cosa evidente se si paragona «il [diverso] progresso dei canadesi di estrazione inglese e francese». Ma si chiede: «Chi può dire come gli inglesi abbiano acquistato la loro energia?» Vede «molta verità» nell'idea che «i meravigliosi progressi degli Stati Urliti, ed il carattere di questo popolo, siano il risultato della selezione naturale; infatti i più energici, irrequieti e coraggiosi uomini di tutte le parti d'Europa sono emigrati durante le ultime dieci o dodici generazioni in questo grande paese e vi hanno avuto il migliore successo». Di più: sottoscrive la tesi del reverendo Foster B. Zincke (1868, p. 29) secondo cui «tutte le altre serie di eventi — come la civiltà spirituale della Grecia o quella dell'Impero romano — sembrano avere un significato ed un valore solo se pensate in connessione, o piuttosto come sussidiarie alla fiumana dell'emigrazione anglosassone in occidente». E conclude: «Per oscuro che sia il problema dell'avanzamento della civiltà, possiamo almeno vedere che una nazione che ha prodotto per un periodo prolungato il massimo numero di uomini di maggior intelletto, energici, coraggiosi, patriottici, generosi, generalmente dovrebbe prevalere sulle nazioni meno favorite» (Zincke 1868, pp. 167-68).Sarà banale dirlo, ma è vero: Darwin era un uomo del suo tempo, e dei suoi contemporanei condivideva opinioni che oggi possono sembrare pregiudizi, ma allora erano credenze di senso comune, come la superiorità della civiltà europea rispetto al modo di vivere dei «selvaggi» o l'ereditarietà dei caratteri fisici e mentali acquisiti dall'individuo nel corso della sua esistenza, credenza che — ricordiamolo ancora una volta — è scomparsa definitivamente dalla biologia, ma non dal senso comune, solo nella prima metà del Novecento. Per aver trattato dell'uomo sociale, Darwin è stato accusato di avere sconfinato in un campo che non era il suo e di averlo fatto senza il rigore scientifico dimostrato nell' Origine delle specie, avallando così usi strumentali e abusi delle sue teorie. È un'accusa senza senso. Perché avrebbe dovuto tacere? In base a quale criterio avrebbe potuto stabilire confini fra il biologico e il culturale, quando questi sono tuttora oggetto di discussione? Le competenze di uno scienziato vittoriano non erano soggette alle partizioni disciplinari attuali, ed era dato per scontato che le questioni biologiche avessero rilevanza per le questioni sociali e politiche. Se poi Darwin abbia detto cose giuste o sbagliate, confermate o confutate dalla ricerca successiva è un altro discorso. L'applicazione dei concetti di lotta per l'esistenza, selezione naturale e sopravvivenza del più adatto allo studio delle società umane caratterizzò quello che si suole chiamare "darwinismo sociale". Poiché le idee di Darwin furono usate per giustificare ideologie e pratiche sociali loro sgradite, molti hanno cercato di salvare l'immagine di Darwin sostenendo che i darwinisti sociali strumentalizzarono le sue idee. Fu certamente così nella maggior parte dei casi, ma si tratta di un problema molto complesso, al quale dedicheremo il prossimo capitolo. Comunque, dopo tutto quello che abbiamo visto in questo paragrafo, non possono esserci dubbi: Darwin era un darwinista sociale (Greene 1977, Weikart 1995) e, se posso aggiungere un'opinione personale, non poteva non esserlo e ne aveva tutto il diritto. | << | < | > | >> |Pagina 54Il darwinismo stimolò la tendenza a studiare i fenomeni psichici in relazione a quelli fisiologici. Ma la psicologia individuale rimase a lungo sotto l'influenza di Spencer e della sua revisione evoluzionistica della teoria associazionistica: associazioni mentali ripetute perché utili potevano consolidarsi al punto di diventare abitudini automatiche ed ereditarie; col passare delle generazioni, diventavano così stabili da non distinguersi più dagli istinti propriamente detti. In altri termini, complessi mentali e addirittura credenze e ragionamenti si fissavano nel patrimonio mentale comune fin dalla nascita a interi gruppi, se non a tutta la specie umana. E evidente che queste idee, oggi insostenibili perché fondate sull'erronea credenza nell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, dovevano esercitare una grande attrattiva su sociologi e studiosi del rapporto fra natura e cultura.Il darwinismo diede un impulso decisivo agli studi di psicologia animale e comparata, ponendo agli psicologi e ai filosofi il compito di spiegare la genesi graduale dell'intelligenza razionale dalla sfera dell'istinto animale. Contemporaneamente, favorì un maggior riconoscimento dell'importanza dei fattori irrazionali nel comportamento umano. L'uomo non era solo homo oeconomicus, cioè un agente razionale guidato dalla lucida percezione dell'interesse personale, e gli interessi dei diversi individui non si armonizzavano spontaneamente, come se la somma delle razionalità individuali desse automaticamente come risultato la razionalità generale. Questo era particolarmente evidente nel comportamento dei gruppi sociali, soprattutto quelli spontanei e non strutturati, come misero in evidenza i primi studiosi di psicologia collettiva (o "psicologia delle masse"): le masse che allora stavano irrompendo sulla scena della storia e atterrivano le classi dirigenti si comportavano, agli occhi di questi studiosi, secondo moduli istintuali riemergenti dalla preistoria, se non dal passato ferino. L'«anima delle masse», scriveva Gustave Le Bon (1841-1931) nella Psychologie des foules ("Psicologia delle folle", 1895), è radicata nel passato preistorico e sta a disposizione dei demagoghi che sfruttano l'istinto gregario degli uomini. La nozione di "atavismo", cioè del ritorno, o della persistenza, di tratti arcaici o animali nella mente e nel corpo di alcuni individui fu invocata da psichiatri e criminologi come Cesare Lombroso (1835-1909) per spiegare i fenomeni di patologia sociale. Attraverso queste dottrine, il darwinismo influenzò anche il diritto penale, soprattutto in relazione alla questione della pena di morte: il «delinquente nato» doveva essere soppresso in quanto bestia pericolosa e irrecuperabile o trattato come un malato in quanto non responsabile come le persone normali? Anche nelle società più evolute permanevano, aveva scritto Tylor, «sopravvivenze» del passato evolutivo: usanze, istituzioni, forme di comportamento. Se ne vedevano esempi nel gusto per gli ornamenti, nei rituali festivi, nelle cerimonie funebri, nel rispetto per gli anziani, nella celebrazione delle vittorie sul nemico. Ma ve n'erano tracce anche negli aspetti profondi della vita psichica. Per esempio, l'«animismo» (termine coniato da Tylor), cioè la credenza in spiriti e demoni che abitano nelle cose e negli eventi naturali, non era solo una fase evolutiva attraverso cui il sentimento religioso era dovuto passare per arrivare alle espressioni più spirituali, ma anche una struttura mentale dovuta alle origini naturali dell'uomo e tuttora operante nella cultura. I suoi effetti si facevano sentire anche nelle attività intellettuali più raffinate. La nozione di causa, per esempio che è centrale nella scienza e nella filosofia, aveva origine nella proiezione animistica del primitivo appena uscito dall'animalità, che attribuiva a agenti ostili i fenomeni naturali, soprattutto quelli da cui si sentiva minacciato. Anche nei ragionamenti più complessi, il linguaggio continuava a servirsi di personificazioni e reificazioni, come quando si dice che le fasi della luna causano maree. L'uso delle metafore era un'eredità dell'abitudine arcaica di creare enti antropomorfici. Il peso del passato animale e preistorico era considerato maggiore in quelle zone dell'attività mentale in cui meno forte è il controllo della coscienza razionale: il sogno, il comportamento istintivo, la sfera delle passioni, e naturalmente il delirio e la follia. La psichiatria evoluzionistica vedeva nella malattia mentale il riemergere dalla memoria di un mondo mentale primitivo su cui le abitudini razionali si erano soltanto sovrapposte senza annullarlo. I miti che popolano il mondo mentale del primitivo «sonnecchiano e agonizzano nei nostri cervelli inciviliti», scriveva nel 1899 lo psichiatra italiano Eugenio Tanzi (1865-1934), e si risvegliano più spesso di quanto non crediamo. Le stesse funzioni e le stesse leggi valevano per la psicologia normale e per la psicologia patologica. Il «germe del delirio» è in ciascuno di noi: il pensiero delirante è così radicato nell'uomo che «per alcuni popoli costituisce l'espressione più elevata del pensiero normale». Nella cultura evoluzionistica si assottiglia la distinzione fra psicologia e psicopatologia, fra salute e malattia, fra il mondo magico dei primitivi e le formule della scienza, fra l'animalità naturale e la cultura umana, fra le pulsioni e la ragione. È facile immaginare quanta importanza potessero avere queste idee nello studio dei miti e del mondo magico dei primitivi. In Totem e tabù (1913) Sigmund Freud studierà le analogie fra il mondo mentale dei «selvaggi» e quello dei nevrotici. È dunque sbagliato credere che dallo studio evoluzionistico della natura umana si potesse ricavare soltanto la promessa di un progresso illimitato. Non dimentichiamo che l'angoscia di fronte alla prospettiva della degenerazione biologica e sociale e della decadenza della civiltà (per il progressivo prevalere degli elementi inferiori o per il decadimento fatale della razza) divenne, a mano a mano che si avvicinava la fine del secolo, una vera e propria sindrome collettiva e costituì il brodo di coltura in cui prosperarono sia le proposte di controllo eugenetico della riproduzione sia gli attacchi violenti all'idea di progresso. La degenerazione era «la faccia oscura del progresso» (Gilman e Chamberlin 1985; Pick 1999). | << | < | > | >> |Pagina 673.4 Darwin e i gas asfissiantiCome abbiamo visto, una via di conciliazione fra evoluzionismo e cristianesimo consisteva nel presentare l'evoluzione come un dramma in cui il lieto fine annunciato, l'ascesa dell'uomo spirituale, riscattava l'orrore che lo aveva reso possibile. Questo feroce ottimismo cosmico suona strano alle nostre orecchie, dopo due guerre mondiali, la Shoah, la pulizia etnica nell'ex Iugoslavia, il terrorismo globale, i genocidi africani e asiatici, lo tsunami del dicembre 2004. Ma strano sembrò già dopo la prima guerra mondiale, quando la brutalità della storia e la crisi economica e sociale indussero alcuni spiriti umanitari (ma non attenti lettori delle opere di Darwin) a rifiutare l'evoluzione in nome dell'umanitarismo e della democrazia. William Jennings Bryan (1860-1925) è tristemente famoso per aver sostenuto il ruolo del "cattivo" nel famoso «processo della scimmia» del 1925 contro l'insegnante Scopes, che aveva violato le leggi dello Stato del Tennessee parlando in classe delle teorie di Darwin. L'intransigente Bryan era convinto che l'evoluzionismo fosse pericoloso, anche nella versione teistica, che definiva un mero «anestetico somministrato ai giovani cristiani per annullare il dolore mentre la loro religione viene soppressa dai materialisti». Per lui la politica doveva essere «cristianesimo applicato». Tuttavia Bryan non era né uno sprovveduto né un genio del male. Tre volte candidato democratico (sconfitto) alla presidenza degli Stati Uniti, era o intendeva in buona fede essere democratico sia in politica sia in religione. Si battè per l'estensione del voto alle donne, per l'imposta progressiva sul reddito, per la tutela del lavoro minorile, contro le sofisticazioni alimentari, contro i monopoli, per l'indipendenza delle Filippine e contro l'imperialismo americano. Pacifista, si dimise da segretario di Stato del presidente Wilson quando vide che la neutralità americana nella prima guerra mondiale vacillava. Detestava il capitalismo monopolistico perché faceva della ricchezza una proprietà esclusiva dei pescicani industriali e detestava la critica biblica perché faceva della verità teologica una proprietà esclusiva degli intellettuali. Verità e ricchezza dovevano invece essere accessibili a tutti. Il governo doveva prendersi cura dei deboli e dei poveri. Il darwinismo andava combattuto perché era eticamente ripugnante: giustificava la concorrenza spietata, l'egoismo e la supremazia delle élites, predicava la «legge dell'odio, la legge spietata per la quale i forti escludono e uccidono i deboli». Sostituendo la legge della giungla a quella dell'amore e all'insegnamento di Cristo, sovvertiva sia il cristianesimo sia la democrazia sia le basi della stessa civiltà americana. «Una tale concezione dell'origine dell'uomo – affermò nel 1906 – indebolirebbe la causa della democrazia e rafforzerebbe l'orgoglio di classe e il potere della ricchezza». Inoltre, il darwinismo ispirava dottrine come il germanesimo aggressivo che aveva scatenato la guerra (un'opinione, quest'ultima tutt'altro che rara, in Europa come negli Stati Uniti): «La stessa scienza che ha prodotto i gas asfissianti – scrisse Bryan nel 1923 – va predicando che l'uomo ha un'origine animale e vuole eliminare il miracoloso e il soprannaturale dalla Bibbia».
Come mostra il caso di Bryan, dopo esordi pluralistici il fondamentalismo
americano si era venuto sviluppando in senso sempre più antiintellettualistico.
Ora era l'alternativa a una teologia che appariva troppo transigente e
intellettualizzata. E così è stato da allora: queste forme di religiosità sono
entrate in contrasto non solo con la scienza, ma anche con la
teologia in quanto discorso razionale.
3.5 In tempi più recenti La scienza è stata coltivata più spesso di quanto non si creda comunemente da persone convinte che lo studio della natura aiutasse a comprenderne il creatore. Nella seconda metà dell'Ottocento i tentativi di conciliare evoluzionismo e cristianesimo furono favoriti dalla diffusa tendenza a identificare evoluzione e progresso: l'emergenza della mente umana da quella degli animali dava un senso e una direzione all'intero processo, lo completava, gli conferiva retrospettivamente un significato morale. Questo è vero anche di molti dei biologi che hanno sviluppato l'attuale teoria dell'evoluzione: Ronald Fisher, Julian Huxley, Theodosius Dobzhansky, per fare solo alcuni nomi, erano tutti darwiniani convinti, ma ciò non impedì loro di conservare legami personali con forme più o meno tradizionali di cristianesimo (Bowler 2007). Credevano anche in una qualche forma di progresso evolutivo che conduceva a esseri capaci di vita intellettuale e morale (Greene 1990; Kaye 1986). Gli sviluppi recenti della biologia evoluzionistica hanno ridimensionato i motivi della loro fiducia. Il famigerato "disegno intelligente" di cui tanto si parla oggi è solo una delle molte vie seguite da chi vuole salvaguardare la presenza di Dio nell'universo. Non è la più intelligente, ma la più furbesca, e sicuramente non è affatto nuova. A ben vedere, anzi, è il modo più grossolano e culturalmente (potrei anche dire teologicamente) arretrato. Non è nemmeno un tentativo di conciliazione, poiché impone al biologo di cambiare di punto in bianco gli occhiali, senza motivo. Dice sostanzialmente all'evoluzionista: «Spiega con il disegno divino tutto quello che non riesci a spiegare altrimenti. Se nel tuo lavoro incontri difficoltà, fermati: ti sei imbattuto in questioni che non ti competono. Ci penso io, perché sono di mia spettanza». Ma problemi come quelli del dolore, dell'adattamento imperfetto, della malattia e della morte, che sono inseparabili dalla riflessione biologica sull'evoluzione della vita, cambiano volto e significato secondo che vengano affrontati in una prospettiva confessionale o laica. Lo ha dimostrato Darwin, che in mezzo ai dubbi scatenati dalle sue riflessioni sul male, aveva almeno una certezza: scaricare Dio della responsabilità diretta di tutte le «imperfezioni della natura» ci dà del Creatore un'immagine più «degna». Oggi nessun medico credente si limita a pregare rassegnato se ha di fronte un paziente che soffre ma può essere salvato con un materialissimo rimedio chimico: fin tanto che è medico, è materialista; non tralascerebbe di asportare un tumore nemmeno se lo ritenesse parte del disegno divino.
Alcuni sviluppi recenti della teologia cristiana dimostrano che è possibile
fare a meno della caccia alle prove del progetto divino e credere che
Dio abbia, per così dire, rinunciato al controllo minuzioso sul mondo per
dare alle creature una qualche libertà. A differenza di altre religioni, il
cristianesimo può essere vissuto come una religione il cui Dio, «lungi dallo
starsene fuori del creato, vi è entrato effettivamente e soffre insieme
con le creature che ne fanno parte». Cristo sarebbe il simbolo di questa
partecipazione (Bowler 2007, p. 226; Franceschelli 2005). Tutto questo è
suggestivo, poetico, parla al cuore. È consonante con l'atteggiamento di
due personalità così diverse come Darwin e John Henry Newman (1801-1890).
Quest'ultimo, che dopo una lunga crisi uscì nel 1845 dalla chiesa
anglicana per abbracciare il cattolicesimo e divenne cardinale, affermò
che la dottrina del disegno poteva mostrare la potenza di Dio, ma non
insegnava nulla circa gli elementi fondamentali del cristianesimo: morte,
giudizio, inferno, paradiso (Brooke 2003, p. 204). Ma questa nuova forma di
cristianesimo che cosa insegna al biologo evoluzionista? Può indurre i
fondamentalisti alla moderazione? «Se il vero fondamento del fondamentalismo è
un bisogno psicologico di credere, nessun argomento razionale riuscirà a minare
una tale fede» (Bowler 2007, p. 218). Si può anche
dubitare che esista un terreno comune di discussione e di incontro fra
darwinismo e cristianesimo o una via di mezzo fra gli estremismi. Gould
parlava di «due magisteri non sovrapposti», quello della scienza e quello
della religione,
in teoria
non conflittuali. Era un invito alla coesistenza
pacifica o un'involontaria ammissione di possibile complementarità?
Dawkins sostiene che l'evoluzionismo darwiniano implica necessariamente
l'ateismo. L'arcivescovo di Vienna cardinale Christoph Schönborn
e il teologo cardinale Joseph Ratzinger (prima di diventare papa Benedetto XVI e
dopo) affermano che negare «l'evidenza schiacciante di finalismo e disegno» vuol
dire abdicare alla ragione. Resta il fatto che molti
biologi (compresi, ovviamente, molti uomini di chiesa) continuano a fare
ricerca in un quadro teorico ed empirico darwiniano pur essendo credenti, cioè
praticano un naturalismo scientifico senza legarlo a un naturalismo filosofico o
etico, talora anzi dissociandosi da quest'ultimo.
3.6 Conclusioni, con considerazioni personali Chi vorrà rivendicare le vie della scienza a Dio avrà sempre a disposizione risorse inesauribili, poiché non c'è limite all'immaginazione umana e alle possibilità del linguaggio. Sarà sempre possibile conciliare scienza e religione fin tanto che nei testi sacri si troveranno significati simbolici, metaforici, morali "aggiornabili" strada facendo. Inoltre, si potrà sempre dire che, cercando disinteressatamente la verità, lo scienziato celebra le opere di Dio anche senza saperlo. È una curiosa analogia con quello che alcuni solevano ripetere tempo fa a proposito del contributo involontario degli scienziati "borghesi" al sorgere del "sol dell'avvenire": non era necessario essere comunisti per contribuire alla causa, purché si perseguisse la conoscenza oggettiva, poiché "la verità è sempre rivoluzionaria", cioè fa andare le cose nella direzione giusta. La crescita delle conoscenze costringe inevitabilmente i credenti ad aggiornare, per così dire, la loro immagine di Dio. Da Galileo in poi molti intelletti elevati hanno sostenuto che questo "aggiornamento" ha reso un servigio alla stessa religione, affinandola, spogliandola di incrostazioni dogmatiche e arcaiche, avvicinandola al cuore dell'uomo e alla realtà dell'esperienza umana. È un fatto che da quando esiste la scienza moderna, Dio ha cambiato e continua a cambiare volto. Per dirlo con una formula, Darwin ha costretto Dio ad aggiornarsi. Questo non vuol dire affatto assegnare alla scienza il compito di combattere la religione. La scienza deve fare il suo lavoro, e basta. La teologia saprà lei che cosa fare, se vorrà. Se lo spazio religioso è davvero insopprimibile nella natura umana, se nell'uomo parla comunque la voce dell'eterno, Dio non ha nulla da temere: qualunque cosa facciano gli uomini, risorgerà in forme nuove. Il vero credente interverrà a salvarlo dall'oblìo, poiché salvare Dio nel mondo secolarizzato è il suo compito e il senso della sua vita. Ma la domanda sul senso dell'essere ha senso solo per gli spiriti religiosi. È retaggio di una religiosità arcaica e magica il pretendere che la scienza sia onnisciente e onnipotente, o non sia affatto. Il comportamento di chi l'accusa di non mantenere le promesse (molte delle quali non ha mai fatto) è simile a quello di chi, pur proclamandosi non credente, continua a ribellarsi a Dio perché non riesce a fare a meno di un padre con cui prendersela (atteggiamento di cui la cultura vittoriana offre numerosi esempi). Il singolo scienziato è libero di vedere in Dio il garante metafisico della propria attività razionale e del senso dell'esistenza, ma deve ricordare che Dio non c'entra per niente quando si tratta di investigare quelle che gli scienziati vittoriani chiamavano "cause seconde", e che per molti sono anche le uniche. La coesistenza di scienza e religione è sempre possibile sul piano personale ed esistenziale: qui ogni conflitto può essere risolto con mezzi più o meno ingegnosi, o messo a tacere, o semplicemente ignorato. Sul piano personale è possibile condurre una vita lacerata, oppure servire due padroni. I problemi sorgono quando si passa al piano della convivenza sociale, quando cioè le soluzioni soggettive influenzano la vita degli altri, ad esempio nelle questioni legate al sesso e alla riproduzione. In questo caso, sembra impossibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, cioè un totale accordo sia teorico sia pratico: bisogna, tutt'al più, accontentarsi di compromessi pratici in nome della convivenza civile. I conflitti diventano inevitabili quando assumono una dimensione pubblica, cioè quando interviene una chiesa organizzata o un forte movimento di opinione religiosa che si esprime in forme battagliere; e naturalmente anche quando le tensioni sfociano nella contesa per il monopolio dei valori e per l'egemonia morale e culturale, come avviene oggi in Italia, grazie a una classe politica normalizzatrice che ha stipulato un patto scellerato con una parte della gerarchia cattolica. In questi casi saltano le mediazioni faticosamente costruite dai teologi più aperti: la lotta politica non è il luogo delle distinzioni sottili e delle raffinate analisi intellettuali, soprattutto in un paese in cui sia la cultura scientifica sia la cultura teologica sono deboli, e la semplificazione sembra essere l'arma del successo politico. C'è però almeno un senso in cui il conflitto fra scienza e religione è, oltre che inevitabile, utile: quando mantiene viva la «tensione essenziale» (per usare un'espressione del filosofo e storico della scienza Thomas Kuhn) sulle grandi domande: l'ordine dell'universo, il caso, il rapporto fra mente e cervello, organico e inorganico, natura e cultura, biologia e morale. Ma le grandi domande non possono più essere poste senza far riferimento all'evoluzione. | << | < | > | >> |Pagina 764.2 Ambiguità
Poiché il termine "darwinismo sociale" è stato ed è usato per indicare
cose molto diverse, conviene, prima di procedere, fissare alcuni punti,
anche a costo di ripetersi e di anticipare argomenti che saranno trattati in
modo più particolareggiato nei prossimi capitoli.
1. Vi furono molte varietà di darwinismo sociale. Le idee di Darwin (o a lui attribuite) furono invocate a sostegno delle idee politiche più disparate. Vi fu un darwinismo sociale liberista (la versione più nota, quella erroneamente ritenuta tipica), uno solidaristico, uno statalista conservatore, uno nazionalista, uno militarista, uno pacifista, uno socialista, uno anarchico... Per di più, queste varietà furono in competizione fra loro. Ognuno dei contendenti pretendeva di essere il vero interprete del messaggio darwiniano e accusava gli avversari di darwinismo sociale. 2. Spencer è stato da sempre additato come una sorta di prototipo del darwinista sociale. Ma, come abbiamo visto nel capitolo 2, elaborò una dottrina del progresso attraverso la concorrenza prima che Darwin rendesse pubblica la sua teoria e non fu mai un vero darwiniano. È vero che gran parte del darwinismo sociale dovrebbe a rigore chiamarsi «spencerismo» (Harris 1971). Ma molti autori che vengono definiti darwinisti sociali criticavano Spencer servendosi di argomenti tratti dalla biologia darwiniana (o presunta tale). Lo stesso termine "darwinismo sociale", come abbiamo appena visto, nacque anche in funzione antispenceriana. 3. Le diverse varietà di darwinismo sociale localizzavano a livelli diversi della società il conflitto che muove l'evoluzione sociale: per alcuni la lotta e la selezione avvenivano fra gli individui, per altri fra i gruppi; fra i secondi, gli uni pensavano alle classi, gli altri agli Stati, altri ancora alle razze (spesso identificate con le nazioni). In generale, con l'aggravarsi delle tensioni imperialistiche, alla fine del secolo XIX prevalsero i sostenitori della concorrenza fra le nazioni. 4. Una varietà non minoritaria del darwinismo sociale individuava lo strumento del progresso biologico e sociale non nella lotta fra uomo e uomo, ma nella lotta dell'uomo contro la natura, e vedeva nella cooperazione l'arma con cui combatterla nel modo più efficace. Questa interpretazione fu fatta propria da autori che, pur condividendo il rifiuto del laissez faire, si collocavano in un ampio spettro di posizioni politiche: populisti russi, radicali francesi, socialdemocratici tedeschi, socialisti fabiani e new liberals inglesi, progressivists americani, anarchici. 5. Non bisogna credere di avere di fronte un darwinista sociale tutte le volte che si incontrano metafore, analogie o termini biologici applicati allo studio della società. In particolare, non bisogna considerare darwinista sociale chiunque paragoni la società ad un organismo. La cosiddetta "analogia organica" ha una lunga storia, più lunga del darwinismo. Inoltre, è stata usata per sottolineare l'importanza non della concorrenza, ma dell'integrazione, se non della vera e propria armonia, fra le componenti del corpo sociale. Infine, anch'essa è servita a sostenere opinioni politiche diverse: da quelle conservatrici e stataliste a quelle liberali di Spencer. Poiché in quest'ultimo troviamo sia l'analogia organica sia la concorrenza individualistica, siamo di fronte a qualcosa di doppiamente paradossale: due delle tante anime del darwinismo sociale convivevano e confliggevano nel pensiero del preteso prototipo del darwinista sociale, il quale non era nemmeno darwiniano! 6. Bisogna guardarsi dal prendere come prova di un effettivo influsso delle idee di Darwin il mero uso di frasi di moda o di retorica darwineggiante: la retorica del self help, l'ideologia della vita come sforzo e sacrificio, il mito del successo come sanzione della superiorità intellettuale o morale sono tutti anteriori alla diffusione delle idee di Darwin: queste offrirono semplicemente una nuova veste a concetti preesistenti. Quindi non si può vedere un'applicazione delle teorie darwiniane, ad esempio, nell'«ideologia della frontiera» elaborata dallo storico americano Frederick Jackson Turner (1861-1932) o nell'elogio della «vita strenua» da parte del presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt (1858-1910). Allo stesso modo, si può stare sicuri che i cantori dell'imperialismo avrebbero esposto le loro idee anche se Darwin non fosse nato. Lo stesso discorso vale per i militaristi che inneggiarono alla guerra come al cimento nel quale si tempra il carattere di un popolo e si riconoscono le nazioni superiori: il darwinismo non fece che arricchire un repertorio di argomenti consolidato da tempo. Senza contare che non pochi darwinisti sociali furono antiimperialisti e pacifisti, da Spencer al magnate dell'acciaio Andrew Carnegie (1835-1919), che poteva gradire l'affermazione del sociologo William Graham Sumner (1840-1910) secondo cui «i milionari sono il prodotto della selezione naturale», ma incoraggiò e presiedette organizzazioni internazionali filantropiche e pacifiste. 7. Nel corso della loro diffusione, le idee di Darwin subirono molte contaminazioni. Non di rado quello a cui ci si riferiva col termine darwinismo aveva con le idee di Darwin un rapporto molto tenue. È quindi lecito chiedersi: quanto darwinismo c'è nel cosiddetto darwinismo sociale? Abbiamo detto dello "spencerismo", ma una buona parte del darwinismo sociale meriterebbe piuttosto di essere definita «lamarckismo sociale» (Stocking 1968), visto il ruolo preponderante che vi svolse la credenza nell'ereditarietà dei caratteri fisici e mentali acquisiti attraverso l'uso e il disuso degli organi e l'influsso diretto dell'ambiente. Il lamarckismo esercitò a lungo una forte attrazione, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti, su psicologi, antropologi e sociologi, anche dopo la critica fattane da Weismann. Questi gettò nella disperazione molti, fino ad allora convinti che solo se gli effetti dell'educazione e del miglioramento dell'ambiente di vita fossero stati ereditari avrebbero avuto senso lo sforzo morale e i progetti di riforma sociale (La Vergata 1990c). 8. Non bisogna ridurre il darwinismo sociale al razzismo. Pregiudizi razziali pervadono tutta la cultura ottocentesca, con eccezioni che si contano sulla punta delle dita. Interpretazioni razziali della storia circolavano già prima di Darwin. Dopo, molti di coloro che vedevano nel conflitto fra le razze il motore della dinamica sociale ebbero con le sue teorie un legame molto meno stretto di quello che si potrebbe credere. Il più noto di loro, Ludwig Gumplowicz (1838-1909) addirittura rivolse dure critiche a quelli che chiamava i «sociologi darwiniani». Quanto al razzismo nazista, esso fermentò in un clima intellettuale addirittura ostile al darwinismo, considerato con disprezzo come un prodotto della mentalità utilitaristica, mercantile, egoistica tipica degli inglesi. Infine, è inutile dire che l'antisemitismo, l'arianesimo, il pangermanesimo, l'ideologia del legame organico fra l'individuo e il Volk non hanno niente da spartire con la teoria della selezione naturale, anche se questo o quel darwinista può aver civettato con l'una o con l'altro. Tutti questi temi saranno trattati nel capitolo 5. 9. Il darwinismo sociale non può essere identificato con l'eugenetica. Innanzi tutto, anche questa, come vedremo nel capitolo 6, comprese varietà molto diverse, spesso in competizione fra loro. È sbagliato credere che l'eugenetica sia sinonimo di "soluzione finale" o di "pulizia etnica". Fra i suoi sostenitori troviamo infatti personaggi di tutti i tipi e di tutte le opinioni politiche: filantropi e totalitaristi, tecnocrati e razzisti, riformatori sociali e conservatori, liberali e socialisti, democratici, comunisti e fascisti, militaristi e pacifisti. Inoltre, le diverse dottrine eugenetiche si fondavano su teorie evoluzionistiche e teorie dell'eredità diverse e concorrenti. Infine, identificando darwinismo sociale ed eugenetica si esclude automaticamente dal darwinismo sociale la sua variante individualistico-liberista. Infatti, invocando la sostituzione della selezione naturale con la selezione artificiale imposta per legge, l'eugenetica intendeva essere, per usare l'espressione del medico bavarese Wilhelm Schallmayer (1909, p. 61), una «razionale gestione sociale» della riproduzione: cosa inconcepibile per un liberale di tipo spenceriano. | << | < | > | >> |Pagina 844.5 Darwinismo socialistaKarl Marx lesse l' Origine delle specie appena uscì e la definì «stupenda» in una lettera all'amico Friedrich Engels. E un anno dopo, sempre a Engels: «Ecco qui il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del nostro modo di vedere» (cioè della concezione materialistica della storia e della lotta di classe). Di Darwin apprezzava l'impostazione antiteologica e materialistica (non il metodo espositivo, che gli sembrava «goffo» e «tipicamente inglese»). L'idea di lotta per l'esistenza gli piaceva molto meno: «Nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l'apertura di nuovi mercati, le "invenzioni" e la malthusiana "lotta per l'esistenza". È il bellum omnium contra omnes [guerra di tutti contro tutti] di Hobbes». Marx detestava il «miserabile», «plagiario» e «sicofante» Malthus, l'ideologo del capitalismo che giustificava con la sua pretesa legge naturale della popolazione l'inevitabile povertà delle classi inferiori. La sua repulsione è stata condivisa, salvo poche eccezioni, dai marxisti, i quali hanno cercato di separare Darwin da Malthus, riservando a quest'ultimo un trattamento ben diverso. A Marx non doveva piacere nemmeno la selezione naturale, non solo per la sua componente malthusiana, ma anche per il suo carattere intrinsecamente probabilistico. E così si prese una cotta per il rigido determinismo ambientale sostenuto dall'oscuro Pierre Trémaux (1818-1895), compilatore di una Origine et transformations de l'homme et des autres étres ("Origine e trasformazioni dell'uomo e degli altri esseri", 1865). «Un notevole progresso rispetto a Darwin», la definì in una lettera a Engels del 7 agosto 1866: sottolineando l'importanza decisiva del suolo come causa di modificazione diretta degli organismi, Trémaux dimostrava che «il progresso era qualcosa di necessario, non di contingente, come credeva Darwin». Engels, che di scienze naturali sapeva più dell'amico, lo mise in guardia. Anche lui, però, vedeva nel concetto di lotta per l'esistenza «una trasposizione dalla società alla natura del bellum omnium contra omnes» e della «teoria borghese della concorrenza». Darwin non sapeva quale «amara satira» scrivesse dei suoi compatrioti «quando dimostrava che la libera concorrenza, la lotta per l'esistenza, che gli economisti esaltano come il più alto prodotto storico, sono lo stato normale del regno animale». L'appropriazione del darwinismo da parte dei socialisti preoccupava. In un discorso del 1872 alla Società dei naturalisti e dei medici tedeschi, il medico, antropologo, fondatore della patologia cellulare e uomo politico liberale Rudolf Virchow (1821-1902), scettico verso la teoria darwiniana, si pronunciò contro il suo insegnamento nelle scuole pubbliche, insinuando il sospetto che giustificasse il socialismo. Haeckel rispose indignato con uno scritto in cui difendeva sia la libertà di insegnamento sia il darwinismo, il quale non solo non giustificava il socialismo, ma lo confutava, mostrando l'infondatezza della credenza nell'uguaglianza naturale degli uomini e la necessità della concorrenza e della vittoria dei migliori. Anche altri intellettuali tedeschi, biologi e no, fecero propria l'interpretazione di Haeckel, felici di poter finalmente confutare il socialismo con la forza della scienza. Ma molti socialisti avevano già accettato battaglia sullo stesso terreno, affermando la piena conciliabilità fra darwinismo e socialismo (Kelly 1981, Weikart 1999). È innegabile, scrisse Ludwig Büchner, che vi siano disuguaglianze biologiche fra gli uomini, ma il sistema capitalista non le valorizza affatto, poiché i più ricchi non sono necessariamente i più adatti biologicamente. La disuguaglianza dei mezzi e delle condizioni di partenza falsa l'innegabile, inevitabile, necessaria lotta per l'esistenza. Bisogna perciò fare in modo che essa si svolga in modo corretto, ad esempio abolendo l'eredità della proprietà e facendo le riforme sociali (Büchner 1869, 1894). Il darwinismo, incalzava Karl Kautsky (1854-1938), leader della socialdemocrazia tedesca e forse il marxista più ascoltato del suo tempo, insegna che l'uomo non è per natura un egoista individualista, ma un essere che ha ereditato e sviluppato al massimo gli istinti altruistici e cooperativi degli animali sociali. Altri socialisti calarono sul tavolo l'argomento del numero: alla fine la lotta per la vita sarebbe stata vinta dai più numerosi e capaci di aiutarsi, cioè dal proletariato, non certo dai capitalisti che competevano l'uno con l'altro per il tornaconto personale. Così la pensava ad esempio il giurista Enrico Ferri (1856-1929), che in Socialismo e scienza positiva (1894), un'opera tradotta in molte lingue, credette di poter conciliare Darwin, Spencer e Marx e di predire l'avvento graduale ma inevitabile della società socialista. Questi scrittori socialisti non erano da meno dei loro avversari nell'invocare l'evoluzione a sostegno delle loro idee politiche e nel ricorrere, quando serviva, allo stesso determinismo biologico che rimproveravano agli altri. Ristabilendo, grazie alla cooperazione nella lotta collettiva per il progresso, il controllo dell'ambiente e il sano godimento dell'esistenza terrena, il socialismo era, nelle parole del già citato Woltmann (1899, p. 397), «un vero ritorno a Madre Natura».
Darwin si stupiva dell'uso filosocialista che delle sue idee si faceva in
Germania (F. Darwin 1896, II, p. 413). Noi un po' meno, visto che sappiamo anche
quale fine avrebbero fatto certi socialisti socialdarwinisti come Ferri e
Woltmann.
4.6 Lotta e sforzo Molto darwinismo sociale, ormai dovrebbe essere chiaro, fu ben poco darwiniano. Ma c'era qualcosa che collegava fra loro tante opininioni così diverse, un denominatore comune se non a tutte almeno a quelle che insistevano sulle virtù benefiche della lotta? Credo che una risposta si possa trovare nell'immagine predarwiniana della vita umana come cimento, sforzo e conquista attraverso il dolore che tempra. Questa concezione foggiò gli occhiali con cui l'idea darwiniana della lotta per l'esistenza fu letta, interpretata, modificata, distorta, accettata, rifiutata, adattata. Per secoli l'esperienza del dolore ha trovato giustificazione (o consolazione) nell'idea che la sofferenza svolga in fondo una funzione positiva: essa sarebbe il mezzo di cui la natura o la divinità si servono per ammaestrarci o insegnarci la rassegnazione. Sul piano morale, tale visione del mondo ha alimentato le dottrine secondo cui la virtù e il bene si affermano solo nella lotta con il male: «non resta più virtù, / se manca forza al vizio». Detto più prosaicamente, le avversità formano, temprano, migliorano il carattere. Senza la sferza del bisogno le facoltà umane non si sarebbero mai sviluppate: un'idea che percorre praticamente l'intero pensiero dell'occidente cristiano. Nelle parole del dottor Samuel Johnson (1709-1784), autore di un famoso dizionario della lingua inglese, «se né malattie né povertà si facessero mai sentire o temere, ognuno sprofonderebbe in un'indolente sensualità, senza più curarsi degli altri e neppure di se stesso. Mangiare, bere e starsene a dormire sarebbero le uniche occupazioni dell'umanità [...] Il male fisico [...] è la causa del bene morale». Insomma, «no pain, no gain», «aiutati che Dio t'aiuta», e così via fino all'elogio del self help. Dovremmo anche ringraziare gli avversari che ci sfidano, poiché ci stimolano a migliorare: salus ex inimicis nostris. Trapiantate in questa visione della vita qualche idea darwiniana, anche solo orecchiata, e otterrete affermazioni come quella famosa (o famigerata) secondo cui «i milionari sono il risultato della selezione naturale» perché si sono fatti da sé, si sono dati da fare, ci hanno saputo fare e hanno sopraffatto la concorrenza. | << | < | > | >> |Pagina 914.7 Fascismo e nazismo socialdarwinisti?Il termine "darwinismo sociale" ricorre frequentemente in molte opere sul fascismo e sul nazismo. Purtroppo, la frequenza è pari alla disinvoltura con cui si dà per scontato che questa espressione indichi qualcosa di chiaro e distinto, come se essa stessa non abbisognasse di spiegazione. Per di più, non si adduce mai un brano o un documento che consenta di stabilire inequivocabilmente un legame causale diretto tra fascismo o nazismo e darwinismo. Siamo sempre rimandati a qualcosa di dato per acquisito: un generico clima del tempo, invocando il quale lo storico si sente autorizzato a spacciare per definizioni e spiegazioni le proprie impressioni, risparmiandosi così faticose analisi concettuali e dispendiose uscite dal suo campo disciplinare. "Darwinismo sociale" finisce col diventare sinonimo di "brutalizzazione" o "culto della violenza": una cosa che, dopo tutto quello che abbiamo detto finora, non si può accettare, se non altro perché riduce un fenomeno tanto complesso a una sola delle sue espressioni, per giunta alla meno diffusa. Leggiamo ad esempio nell'opera classica (1969) di Karl Dietrich Bracher sulla dittatura nazionalsocialista che il nazismo si alimentò del «clima socialdarwinista dell'epoca» e anzi incorporò una «forma estrema di darwinismo sociale», una brutale esaltazione della forza, che riduceva l'uomo a mero essere biologico, negava l'uguaglianza, la tolleranza, i diritti dell'individuo, insomma i valori della civiltà liberale e democratica; nel darwinismo sociale la guerra aveva «un ruolo centrale». Nella sua fondamentale biografia di Hitler, Joachim Fest scrive che «nella componente socialdarwinista del pensiero di Hitler [...] è avvertibile la tendenza di un'epoca, agli occhi della quale le scienze naturali costituivano l'autorità incontrovertibile [...]. Nessun individuo singolo, bensì l'epoca intera gli ha fornito le idee», idee che rispecchiavano «le mode intellettuali fin de siècle» (Fest 2005, pp. 86, 88). Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Continua inoltre a circolare l'idea che vi sia un filo rosso fra il darwinismo sociale e il nazismo, che anzi il nazismo sia stato il culmine del darwinismo sociale, la piena realizzazione del suo potenziale. Questa tesi aveva trovato la sua espressione più netta nell'opera, a suo modo classica, Die Zerstörung der Vernunft ("La distruzione della ragione", 1959) del filosofo ungherese György Lukàcs (1885-1971): il darwinismo sociale, non definito nemmeno qui, vi era presentato come una dottrina reazionaria che, rifiutando la ragione illuministica prima, hegeliana poi, infine marxiana, culminò nella «bestializzazione dell'uomo operata dal nazismo». Gli studi che da allora si erano accumulati su questo spinoso problema sembravano aver fatto giustizia di tali semplificazioni, ma la tesi è stata riproposta da alcuni autori, ad esempio da Mike Hawkins (1997, pp. 272-91), il quale ha però precisato che non vale per il fascismo italiano. Forse nella scia dell'offensiva religiosa contro Darwin, lo storico Richard Weikart, anche lui autore di ricerche importanti, ha addirittura affermato nell'«American Spectator» del 16 aprile 2008 che «la svalutazione della vita umana praticata dai nazisti derivava dall'ideologia darwiniana» (cit. in Nosengo e Cipolloni 2009, p. 42). Credo che tutto il libro che avete fra le mani sia una confutazione di giudizi del genere. Del nazismo, del fascismo e dei loro legami presunti con le teorie darwiniane avremo modo di dire qualcosa nei capitoli successivi, soprattutto in quelli sul razzismo e l'eugenetica. Qui basterà anticipare alcune tesi che verranno sostanziate a mano a mano che procederemo. Il fascismo e soprattutto il nazismo si svilupparono in un contesto culturale estraneo, e per lo più ostile, non solo alle idee di Darwin, ma al modo di pensare che le aveva generate. Infatti, in entrambi vi era, seppure con importanti differenze, una forte componente irrazionalistica che sfidava non solo lo scientismo, ma la stessa razionalità scientifica. I dati e i concetti biologici venivano avvolti in una nebbia mistica e trasfigurati: il "sangue" dei nazisti non era il sangue dei laboratori di biologia; la solidarietà fra le parti del corpo sociale invocata dai fascisti era presentata come esito della storia spirituale della nazione italiana, non della "simpatia" e degli istinti sociali. La stessa nozione di razza fu declinata in modi difficilmente compatibili con la nozione di razza diffusa fra gli antropologi che per comodità si sogliono definire positivisti. Se con "darwinismo sociale" si intende una forma di biologismo o di determinismo biologico con conseguente sottovalutazione o annullamento della dimensione culturale, bisogna allora che, per meritare la qualifica di darwinista sociale, un autore attinga alla biologia qualcosa di più di parole orecchiate o slogan di comodo sull'importanza del conflitto. E resta ancora da dimostrare che Hitler e Mussolini sapessero di biologia. Mussolini fu socialista e, come tanti suoi compagni di quella stagione, darwinista. Addirittura difese Darwin in un dibattito pubblico con un prete svizzero, ma il suo era un darwinismo generico, confuso, retorico, in cui Giordano Bruno contava quanto Darwin. Il suo distacco dal socialismo comportò l'abbandono definitivo dell'evoluzionismo che aveva condiviso fino alla prima guerra mondiale, con conseguente disprezzo per il positivismo evoluzionistico, come per tutto ciò che veniva dalla «perfida Albione» (La Vergata 1995b, pp. 206-213).
Quanto al preteso darwinismo di Hitler, sottoscrivo quello che hanno
affermato recentemente due giornalisti scientifici, felice di trovare in uno
scritto di occasione parole più chiare che in tanta carta prodotta da storici
professionisti del fascismo e del nazismo: «di citazioni di Darwin nel libro
di Hitler [
Mein Kampf,
"La mia battaglia"] non ce n'è mezza, e l'espressione "selezione naturale"
compare solo due volte, e per nulla significative».
La conclusione è inevitabile: «Almeno se stiamo alle carte, tutto questo
determinante influsso del darwinismo sul nazionalsocialismo si riduce, insomma,
a due fugaci passaggi in cui l'utilizzo del concetto di selezione naturale
appare tanto fuori contesto da far quasi sorridere, se ci dimentichiamo per un
attimo chi è l'autore» (Nosengo e Cipolloni 2009, p. 43). Il nazismo non fu una
forma di darwinismo sociale (Mosse 1992, p. 115).
4.8 Conclusioni A un esame approfondito, il concetto di darwinismo sociale si rivela ambiguo e fuorviante. Infatti le idee di Darwin furono usate per sostenere una grande varietà di opinioni sociali e politiche. Inoltre, molte di queste varietà avevano ben poco di darwiniano, poiché vi svolgevano un ruolo decisivo soprattutto forme di spencerismo e di lamarckismo. I concetti darwiniani furono spesso interpretati alla luce di una visione predarwiniana della vita come cimento, sforzo e miglioramento attraverso la sofferenza. Che il fascismo e il nazismo siano forme di darwinismo sociale è tutto da dimostrare. Quando viene usato oggi, il termine è praticamente sinonimo di "determinismo biologico", etichetta con cui vengono rispediti al mittente i tentativi sgraditi di indagare le basi biologiche del comportamento umano. Uno di questi tentativi fu compiuto dallo stesso Darwin nell' Origine dell'uomo. Non fu il primo né sarà l'ultimo. È assurdo condannarli in quanto tali: la biologia non comporta di per sé il biologismo. D'altra parte, non si vede perché Darwin avrebbe dovuto tacere o fermarsi al di qua di un limite di competenze che allora non esisteva e sul quale tuttora si hanno le idee un po' confuse (inevitabilmente). Doveva forse limitarsi a parlare dell'uomo come entità corporea, trascurando il fatto che è un animale sociale? Aveva tutto il diritto di pronunciarsi sull'estensione e le applicazioni delle sue idee, anche se ciò ha comportato la manifestazione di alcune opinioni che a noi, oggi, possono sembrare influenzate da pregiudizi vittoriani. Darwin era un pensatore complesso, aveva idee complesse, affrontava problemi complessi. Perché avrebbe dovuto astenersi dallo spingere le sue riflessioni fin dove gli era possibile? Mi dispiace per coloro che vogliono farne un santino, ma ribadisco quello che ho scritto nel capitolo 2: Darwin fu un darwinista sociale, anzi l'unico, vero darwinista sociale. Le sue idee furono, sì, usate nei modi più diversi, e anche strumentalizzate, ma si finisce col non capire nulla se si leggono le opere sue e dei suoi contemporanei con l'intento precipuo di attribuire colpe e assoluzioni, o di separare con l'accetta "ciò che è vivo" da "ciò che è morto". Nella storia delle idee, i certificati di morte contengono sempre qualche errore. Non si difende Darwin dandone un'immagine asettica, non si danneggia la teoria della selezione naturale mostrando che il suo autore era un uomo del suo tempo, come nessuno può non essere. Se preferite, Darwin va assolto perché il fatto non sussiste, o meglio perché la fattispecie di reato non è contemplata nel codice della storia. | << | < | > | >> |Pagina 1335.14 ConclusioniIl razzismo non è nato con Darwin e non deve a Darwin, come singolo individuo e scienziato, praticamente nulla di decisivo. Convinzioni e pregiudizi razziali si trovano un po' dappertutto, a partire dalla scoperta del Nuovo Mondo, anche là dove meno ce li aspetteremmo: in Locke e Voltaire apostoli della tolleranza; nei monogenisti come nei poligenisti; in Marx che disprezzava i popoli slavi ed era convinto che lo zar avrebbe potuto russificare i cosacchi deportandoli in un ambiente diverso da quello natìo; nei socialisti fabiani inglesi; in cristiani come Agassiz; in miscredenti come Huxley e Spencer; nei missionari convinti che il battesimo recuperasse i selvaggi alla dignità di uomo... I pregiudizi razziali non comportano di per sé l'elaborazione di una teoria razzista, e ancora meno la persecuzione delle razze ritenute inferiori. È goffo e assurdo cercare di screditare Darwin e la sua opera sostenendo che offrì al razzismo una giustificazione scientifica. Come individuo, Darwin è responsabile del suo linguaggio, delle sue opinioni e dei suoi innegabili pregiudizi vittoriani, ma questi non si sono tradotti in una teoria della discriminazione razziale, e nemmeno in una classificazione gerarchica delle razze. Coloro che hanno invocato il nome di Darwin per giustificare una dottrina discriminatoria e pratiche inumane lo hanno fatto secondo la loro interpretazione delle sue idee. La storia del darwinismo non si riduce alla storia delle interpretazioni corrette (secondo noi) della teoria della selezione naturale. Sia il creazionismo sia l'evoluzionismo furono usati a sostegno della credenza nella superiorità dei bianchi, in difesa di forme di discriminazione e della stessa schiavitù. Il razzismo ha avuto molte forme e manifestazioni. Vi furono: un razzismo paternalistico e uno violento; uno ambientalista e uno ereditarista; uno mistico e uno scientifico (cioè fondato su quelli che in un determinato contesto storico-culturale si presentano come dati scientifici); uno secondo cui le razze inferiori avrebbero potuto farcela ma non ce l'hanno fatta, uno secondo cui potranno farcela se si lasciano guidare dalle razze superiori, uno secondo cui non potranno farcela mai; uno per il quale devono essere tenute sotto controllo e uno che crede che debbano essere schiavizzate o trattate senza scrupoli; uno interventista e uno che sostiene che bisogna lasciar fare alla natura, la quale finisce sempre col ristabilire le gerarchie; uno segregazionista in nome della purezza razziale e uno favorevole agli incroci razziali (o almeno ad alcuni di questi); uno più biologico e uno più storico-culturale (con tutte le varietà intermedie possibili fra questi estremi); uno elitario trasnazionale (un razzismo dello spirito) e uno nazionalistico; uno pessimista e catastrofico e uno ottimista e perfino utopistico; uno eugenetico e uno antieugenetico; uno ariano e uno antiariano; uno antisemita e uno filosemitico... «Il razzismo si è appropriato di ogni idea e movimento importanti dei secoli XIX e XX [...] Il razzismo nelle sue varie forme non ha sempre seguito eguali ispirazioni né ha condotto agli stessi risultati» (Mosse 1985, p.VI). Si può essere razzisti senza essere antisemiti, e non tutti gli antisemiti volevano lo sterminio degli ebrei: in Germania vi furono anche proposte di farli sparire "diluendoli" mediante incroci con i tedeschi genuini, i cui caratteri, in quanto superiori, avrebbero predominato nella discendenza! Gobineau non era antisemita; Knox sì. Diversi cultori tedeschi dell'igiene razziale non erano antisemiti, ma dopo l'ascesa al potere di Hitler chiusero gli occhi di fronte al razzismo mistico dell'ideologia völkisch, che nulla aveva da spartire con Darwin, l'evoluzionismo e la biologia. Vacher de Lapouge era antisemita e anticattolico; l'Action française (fondata nel 1899), il più potente movimento della destra francese, era ultracattolica e antisemita. Vi fu antisemitismo nei socialisti utopisti francesi, e perfino tra i rivoluzionari della Comune. Vi fu un antisemitismo conservatore, ma anche uno "democratico", che in nome della giustizia sociale vedeva negli ebrei il nerbo del capitalismo finanziario e dello sfruttamento. Cesare Lombroso scrisse un libro, L'antisemitismo e le scienze moderne (1894), per mostrarne l'infondatezza, ma lo fece proprio servendosi di quegli stereotipi e di quella biopsicologia raffazzonata da cui si sentiva autorizzato a parlare di tare ereditarie e di «delinquenti nati», oltre che a presentare le popolazioni del Mezzogiorno come piene di criminali potenziali. Razzisti furono anche alcuni intellettuali ebrei: ad esempio, Elias Auerbach, pioniere dell'insediamento sionista in Palestina, rivendicava la purezza della razza ebraica, ma auspicava la coesistenza paritaria tra arabi ed ebrei. «Era dunque possibile credere nelle razze pure e non essere tuttavia razzisti» (Mosse 1985, p. 134). Dimenticavo: negli scritti di Darwin, a differenza di non pochi autori cattolici, non si trova traccia di antisemitismo. | << | < | > | >> |Pagina 1786.21 Conclusione, con qualche considerazioneRiassumiamo. L'eugenetica nacque come risposta al timore che nelle «nazioni civilizzate» la selezione naturale avesse cessato di agire per il miglioramento della popolazione o addirittura funzionasse al contrario, favorendo la riproduzione dei peggiori e scoraggiando quella dei migliori, in una parola, causando degenerazione. La crociata eugenetica fu ispirata dalla convinzione che l'uomo dovesse prendere in mano le redini dell'evoluzione e dalla fiducia che potesse farlo. I caratteri e i tipi umani da salvaguardare e selezionare vennero identificati con le virtù e le caratteristiche delle classi ritenute superiori. Queste classi vennero per lo più considerate come stirpi, se non vere e proprie razze, privilegiate. L'eugenetica si intrecciò con le diverse forme del razzismo. L'eugenetica assunse forme anche molto diverse le une dalle altre, per effetto della diversità dei contesti nazionali, delle strategie comunicative, delle proposte pratiche, delle opinioni morali, delle contrastanti teorie dell'eredità condivise dagli eugenetisti, del diverso peso attribuito ai fattori ereditari e ai fattori ambientali. Il pensiero dello stesso Darwin presenta ambiguità e oscillazioni sui problemi oggetto dell'attenzione degli eugenetisti. Istanze eugenetiche furono fatte proprie da esponenti di tutte le opinioni politiche. In generale, tuttavia, a mano a mano che la fine del secolo si avvicinava, divenne chiaro che invocare l'intervento dello Stato nel controllo sociale della riproduzione segnava la fine del liberalismo individualista, scosso dalla forza del numero e dall'irruzione delle masse sulla scena sociale e politica. Nel linguaggio biologistico dell'eugenetica si espresse la fine della fiducia nella intrinseca capacità di autocorrezione dei processi sociali. Il delirio nazista non fu l'unico, fatale sbocco del movimento eugenetico. Infatti in linguaggio eugenetico, e in nome del «bene della razza», vennero avanzate anche rivendicazioni filantropiche che oggi ci sembrano affatto estranee a quel modo di pensare, come quelle relative alla diffusione dell'igiene pubblica, dell'assistenza medica estesa a tutti, dell'educazione sessuale, del controllo delle nascite, dei diritti della donna e della protezione della madre e dell'infanzia. Come vedremo nel prossimi capitolo, la maggior parte degli eugenetisti condannò la guerra e il militarismo per i loro effetti disgenetici (v. il capitolo 7). La diffusione dell'eugenetica comportò una biomedicalizzazione dei problemi sociali e un grande rafforzamento dell'importanza sociale della classe medica. In un certo senso, l'eugenetica implicava una contraddizione con aspetti fondamentali del contesto culturale in cui era nata. In tale contesto, infatti, evoluzione per selezione naturale voleva dire per lo più progresso verso il meglio attraverso l'eliminazione degli inferiori. Il coronamento di questo processo era l'uomo bianco, maschio, borghese e istruito. Ma se l'evoluzione aveva spontaneamente prodotto questo splendido risultato, come mai a un certo punto minacciava di fare il contrario? Perché l'uomo si permetteva ora di pronunciare una sentenza negativa su quegli stessi processi che lo avevano prodotto e incoronato? Perché non poteva più fidarsi delle benefiche, ancorché dolorose, vie della natura? L' Homo Europaeus superior era stato abbandonato dalla natura? Se ne era liberato? Non ne faceva più parte, come avevano sempre sostenuto gli spiritualisti e i creazionisti? Se la selezione era positiva in natura, perché era negativa nella società, che della natura faceva parte? E se le cose stavano così, che senso aveva favorire la selezione naturale se questa non era sempre sinonimo di progresso? La contraddizione è evidente: da una parte si invocava il carattere benefico dell'evoluzione per giustificare il progresso avvenuto e l'ordine sociale che ne era risultato, dall'altra si temeva che senza l'intervento umano gli stessi meccanismi naturali avrebbero condotto alla degenerazione; da una parte si presentava l'evoluzione sociale come la continuazione dell'evoluzione biologica, dall'altra si diceva che l'evoluzione sociale stravolgeva gli effetti benefici dell'evoluzione biologica. L'idea stessa di selezione a rovescio o controselezione era illogica: se gli organismi più adatti, quelli che vincono la lotta per l'esistenza, sono quelli che si riproducono di più, come si può dire che quelli che si riproducono di più sono i meno adatti? Che ci si trovasse di fronte a un paradosso lo diceva esplicitamente lo stesso Fisher, il matematico padre della genetica delle popolazioni ed eugenetista convinto: gli individui che ascendono ai posti più elevati nella società sono geneticamente superiori (intelligenti, abili, intraprendenti ecc.), ma la mobilità sociale verso l'alto, nelle società moderne, è possibile solo ai meno fecondi, che sono tali perché provengono da famiglie con meno bocche da sfamare, più soldi a disposizione e meno preoccupazioni che li distolgano dal perseguire il successo. Fisher chiamava questo processo «promozione sociale dei relativamente infecondi». Ovunque coloro che occupano le posizioni socialmente inferiori sono i più fecondi ci troviamo di fronte a un paradosso: i membri della società che hanno successo biologicamente [cioè successo riproduttivo] appartengono ai falliti socialmente, mentre le classi di coloro che hanno successo socialmente e prosperano sono, nel complesso, i falliti biologicamente, gli inadatti alla lotta per l'esistenza, destinati, più o meno velocemente a seconda del rango sociale, a scomparire dal genere umano (cit. in Gould 1997, cap. 23). Più di un socialista darwinista ottocentesco aveva risolto il paradosso del conservatore Fisher già prima che questi lo formulasse: "Se gli inferiori socialmente si riproducono di più, vuol dire che non sono inferiori!" O, più minacciosamente: "Invocate la biologia e la natura per giustificare le disuguaglianze sociali e l'ordinamento esistente? Bene, siamo noi i vincitori della lotta per la vita: la forza del nostro numero vi schiaccerà". Ovviamente, questa prospettiva aumentava la paura nei minacciati, i quali si sentivano ancora più motivati a invocare la difesa eugenetica dell'ordine sociale. E il circolo si perpetuava. Il vizio stava nel presupposto di questo modo di ragionare: la sovrapposizione del metro di valutazione biologico-evolutivo ai valori culturali e sociali. Si tratta di due forme di adattamento valutabili secondo parametri diversi e secondo scale temporali incommensurabili: una, quella dell'evoluzione, lunghissima; l'altra, quella dell'evoluzione sociale e culturale, breve e rapida. Qualunque cosa avvenga nella società, la selezione naturale procede per la sua strada: ai suoi occhi, chiunque vinca è sempre il più adatto. La natura non si dà pensiero delle angosce e degli sforzi dei piccoli protagonisti di un piccolo episodio nella storia dell'universo. È comprensibile che gli attori del piccolo dramma si sentano al centro del mondo e si preoccupino di cavarsela nel modo migliore nel piccolo spazio che è dato loro di occupare per un breve tempo; ma, visto che del loro interesse devono curarsi, lo facciano secondo i loro criteri. La natura saprà pensare a se stessa. Ma prima di decidere si informino bene, per quello che possono, su come la natura funziona. Gli stessi sviluppi della genetica hanno dimostrato l'inanità del progetto eugenetico. Non esiste un singolo gene per ogni singolo carattere. Non ereditiamo geni isolati, ma un complesso interattivo. Selezionando un gene si seleziona tutto quello che esso si trascina dietro, e ciò può avere conseguenze imprevedibili. Ma quand'anche riuscissimo a prevederle, sarebbe comunque praticamente (umanamente?) impossibile eliminare totalmente le malattie ereditarie, sia perché i virus non stanno fermi ad aspettare, sia perché la maggior parte delle malattie ereditarie sono dovute a geni recessivi, compaiono cioè solo quando l'individuo ha ricevuto gli stessi geni nocivi da entrambi i genitori, che potevano esserne portatori sani. Per sradicarle, quindi, bisognerebbe impedire la procreazione non solo ai malati, ma anche a tutti i portatori sani, che sono sempre molto più numerosi: qualcosa che sembrò irrealizzabile agli stessi eugenetisti nazisti, dopo che qualcuno ebbe calcolato che per eliminare la schizofrenia si doveva esaminare il 10% della popolazione e sterilizzare il 5%. Ma queste sono contraddizioni e paradossi visibili solo a posteriori. La storia delle idee non segue quella che retrospettivamente può sembrare la via più logica. E oggi? Non è compito dello storico affrontare problemi come quello se sia lecito consentire la riproduzione di individui affetti da gravi malattie ereditarie. Certo, una cosa è porsi questa domanda in nome della razza, un'altra pensando esclusivamente alla qualità della vita del nascituro e di chi lo mette al mondo: qui sta la differenza fra l'eugenetica del passato e l'odierna preoccupazione per l'essere umano in quanto tale. Ma, che si pensi alla razza, alla nazione, all'umanità, o all'individuo, i problemi restano, anzi sono aggravati dalle insospettate possibilità aperte dalle nuove tecnologie biomediche, come la terapia genica, la diagnosi preimpianto, la procreazione assistita. Evocare lo spettro dell'eugenetica nelle discussioni su questi problemi serve solo ad aumentare la confusione. Nel migliore dei casi, «esprime una sorda apprensione di fronte a una inimmaginabile padronanza della vita [...] L'uso inflazionato del termine traduce uno smarrimento concettuale. Lungi dall'indurre all'analisi e alla discussione, esso prende il posto dell'argomentazione in coloro che sono ostili a una data tecnica ma sono incapaci di formulare le ragioni della loro ripugnanza» (Thomas 1995, p. 89). Alcune paure sono immotivate. Le terapie geniche, ad esempio, intervengono su un individuo, senza modificare la linea germinale della sua discendenza. È dunque sbagliato parlare di eugenetica in questi casi, anzi è assurdo, poiché lo scopo e il procedimento di queste terapie consiste nel rimediare a qualcosa che prima sembrava irrimediabile, quindi nel fare esattamente l'opposto di quello che gli eugenetisti volevano! E se oggi si può modificare la struttura genetica, è ragionevole sperare che si sappia fare altrettanto domani per correggere, se necessario, gli errori di oggi (Gayon 1992a, cit. in Thomas 1995, p. 104). Un'ultima riflessione. Ai tempi in cui nacque l'eugenetica non esisteva praticamente nessuna forma di assistenza medica e sociale garantita a tutti, e nessun ammortizzatore sociale salvava dalla fame chi perdeva il lavoro. L'intervento dello Stato a difesa della salute dei cittadini presenti e futuri non poteva non essere salutato dai più come un segno di progresso. Ma lo Stato non poteva prendersi cura della qualità della vita dei cittadini se non sulla base delle conoscenze mediche del tempo, per la soddisfazione di medici e biologi, che si vedevano riconosciuta con prestigio e potere l'importanza sociale della loro missione. Le conoscenze mediche consigliavano la vaccinazione obbligatoria (dei cui benefici oggi pochi dubitano), ma al tempo stesso includevano fra le malattie ereditarie l'alcolismo, la sifilide, la tubercolosi, il cretinismo ecc. e tante altre che oggi sappiamo non essere fatalmente tali. Le stesse esigenze sociali alimentarono dunque sia provvedimenti dagli effetti positivi, come la vaccinazione antivaiolosa (che a lungo sembrò una violazione della libertà individuale e della cui efficacia molti, fra i quali Wallace, dubitarono), sia provvedimenti negativi come la sterilizzazione. È più o meno l'argomento usato da Holmes a proposito di Carrie Buck: se lo Stato deve garantire il benessere dei cittadini, non può esimersi da nessun intervento che gli sia indicato come impellente dalla stragrande maggioranza degli scienziati. Dove fissare il limite? Il concetto della libertà individuale e della sua inviolabilità non è sempre stato chiaro e distinto, e non lo è tuttora, viste certe dolorose polemiche recenti sull'accanimento terapeutico e sulla liceità della libera scelta del modo in cui avviarsi alla morte. Nei regimi totalitari, gli scrupoli erano ancora minori. Lo Stato fascista, si legge sul «Resto del Carlino» del 17 febbraio 1927, ha il diritto di limitare le libertà individuali per il bene di tutti: Lo Stato che domina e controlla in nome di un superiore interesse etico ogni manifestazione, si può dire, della vita associata, che interviene con tutta la sua forza anche per le più piccole infrazioni della solidarietà sociale, dovrebbe poi trascurar l'offesa a volte gravissima che alla solidarietà umana e sociale arreca chi [...] contribuisce al decadimento della razza? (cit. in Cassata 2006, p. 112). Quale alternativa avrebbe messo al riparo dalle aberrazioni di tanti eugenetisti? La mancanza assoluta di assistenza sociale, magari in nome della "sacralità della persona" o dell' "inviolabilità della libertà individuale"? Una società come quella auspicata da Spencer, in cui ognuno doveva fare da sé e nemmeno gli orfani delle vittime di una rapina avevano diritto all'aiuto pubblico? Non dimentichiamolo: dall'alveo dell'eugenetica vennero anche le rivendicazioni dei diritti della donna, le campagne per l'igiene ambientale e gli assegni famigliari! Le conquiste sociali seguono raramente vie lineari. Certo, la filantropia di molti eugenetisti era condizionata da pregiudizi e la loro visione della società era distorta da occhiali molto deformanti, e di buone intenzioni è lastricata la via dell'inferno. Proprio la cecità e l'imprevedibilità dell'evoluzione (anche di quella sociale) ci richiede maggiore responsabilità. Purché la cautela produca più conoscenza, non meno conoscenza, e non degeneri in paralisi. In fondo, le incertezze, le ambiguità, le contraddizioni e le oscillazioni del vecchio Darwin sono le nostre. | << | < | > | >> |Pagina 185Capitolo 7
Guerra
Ha scritto lo storico militare inglese John Keegan (2002, pp. 63-64): L'idea classica del conflitto come elemento centrale della vita umana [...] venne fortemente rivalutata nel diciannovesimo secolo, quando la scienza, grazie al lavoro di Charles Darwin, si accostò a un'interpretazione della stessa evoluzione della vita come a una sorta di lotta dentro e fuori le specie. La sua teoria della selezione del più forte migrò verso la filosofia, le scienze sociali e la politica, e sboccò in varie forme di socialismo, in particolare nel bolscevismo di Lenin e nel nazionalsocialismo di Adolf Hitler.
L'accostamento di bolscevismo e nazismo come forme di socialismo
può suscitare perplessità, ma la rappresentazione del darwinismo come
«teoria della selezione del più forte» attraverso «una sorta di lotta dentro
e fuori le specie» è quanto meno sbrigativa. Non è però nuova. Scriveva
nel 1889 il medico ungherese e leader sionista Max Nordau: «La massima autorità
di tutti i difensori della guerra è Darwin. Da quando fu enunciata la teoria
dell'evoluzione, costoro possono addobbare la loro barbarie congenita col nome
di Darwin e sbandierare gli istinti sanguinari che
hanno nel profondo del cuore come l'ultima parola della scienza». È
quindi inevitabile chiedersi: Le giustificazioni della guerra nel nome di
Darwin avevano un fondamento? Il darwinismo ha apportato qualcosa di
nuovo nello studio dei conflitti umani e nelle apologie della guerra?
7.1 Spiegazioni e giustificazioni predarwiniane Prima di Darwin, alla guerra erano state attribuite molte diverse funzioni: castigo divino dei peccati, sfogo della sovrappopolazione, scarico all'esterno della violenza endemica, mezzo di affermazione e consolidamento del potere statale, conquista di territori, strumento di riscossa, rigenerazione e unità nazionale, stimolo allo sviluppo dell'inventività e dell'industria umane, febbre benigna che purifica il corpo sociale, scossone che ridesta i popoli infiacchiti, meccanismo provvidenziale che ridisegna i confini degli Stati e cancella le istituzioni obsolete, mezzo di difesa o riaffermazione del diritto, strumento di progresso, tribunale della storia, scuola di patriottismo, fattore di coesione sociale, prova del valore nazionale, fenomeno naturale al pari delle inondazioni e dei terremoti... Ma c'era in particolare un argomento che sembrava inoppugnabile agli apologeti e importante anche a molti di coloro che speravano nella scomparsa della guerra: il suo valore morale, la sua capacità di mobilitare le migliori energie dell'uomo, di elevarlo ad altezze etiche non raggiungibili nella pace, di insegnargli l'abnegazione, il coraggio, la dedizione; insomma, la guerra come scuola di moralità, come occasione di ascesi. Lasciamo la parola a un professionista della guerra, il generale prussiano Helmuth von Moltke (1800-1891), il quale scrisse in una lettera dell'11 dicembre 1880 al giurista svizzero Johann Caspar Bluntschli (1800-1881): «La pace perpetua è un sogno, e nemmeno un bel sogno. La guerra è un elemento dell'ordine del mondo stabilito da Dio. In essa si dispiegano le virtù più nobili dell'uomo: il coraggio e l'abnegazione, la fedeltà al dovere e lo spirito di sacrificio che fa mettere a repentaglio la vita. Senza la guerra il mondo sprofonderebbe nel pantano del materialismo» (cit. in Molinari 1898, p. 251). Era un'opinione tutt'altro che circoscritta ai militari o ai prussiani. In quelle che per brevità chiameremo versioni bellicistiche del darwinismo sociale, non fu sostituita da argomenti biologici. Al contrario: si conservò, si rafforzò e condizionò pesantemente la comprensione e l'applicazione delle idee di Darwin (o di quelle che gli venivano attribuite); convisse con queste, le assimilò e diede loro una piega che solo una catastrofe avrebbe potuto cancellare. Ancora una volta, il concetto di lotta per l'esistenza venne letto e usato alla luce dell'ideologia morale dello sforzo, del cimento e dell'ascesi. Per chi ragionava secondo questa visione del mondo, ogni elemento che poteva rafforzarla, qualunque fosse la provenienza, era dichiarato abile e arruolato. | << | < | > | >> |Pagina 2267.11 Apologie italiane della guerraMolti degli intellettuali che volevano l'intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale sostenevano che, per assurgere al rango di potenza, la giovane nazione doveva temprarsi in un cimento supremo. La propaganda interventista fu non di rado accompagnata da una vera e propria esaltazione della violenza e dall'auspicio di «un caldo bagno di sangue» rigeneratore. Le prove generali erano state fatte in occasione del conflitto russo-giapponese del 1904-1905 e soprattutto della guerra di Libia. Nel 1911 ìl sindacalista rivoluzionario Angelo Oliviero Olivetti aveva invocato una «palingenesi attraverso il crogiuolo ardente della lotta» (cit. in Gentile 1996, p. 39). Ma in tanta retorica bellica è difficile trovare riferimenti all'evoluzione biologica. Uno dei più agitati e facondi, il nazionalista e imperialista Enrico Corradini (1865-1931) poteva proclamare l'uomo «animale guerriero» e la volontà della natura «suprema legge», ma contro l'intellettualismo, l'umanitarismo, il pacifismo, il socialismo, lo spirito borghese, il materialismo, l'individualismo, l'internazionalismo bastava e avanzava l'appello ai valori dello spirito. La «morale della guerra», affermava Corradini, è l'antitesi della «morale universale della bestia trionfante, di tre bestie trionfanti: della materialità, dell'egoismo, della ottusità» del socialista e del borghese. Corradini celebrava «il reggimento e la corazzata» e additava l'antidoto al «cerebralismo anarchico» nell'«avvento d'una nuova civiltà guerresca a restaurare i valori dei popoli migliori e degli uomini migliori» (Corradini 1912, pp. 142, 149; 1916, p. 330). Perorava «la formazione d'una coscienza guerresca da opporre alla coscienza pacifista», cioè alla «triplice pacifista»: «il pacifismo idealista della borghesia colta e cosmopolita dell'Europa contemporanea», «il pacifismo di classe, o meglio della lotta di classe», «il pacifismo plutocratico [...] degli uomini d'affari, dei mercanti, dei banchieri, degli impresari» (Corradini 1913, pp. 171, 173). La parola d'ordine doveva essere: «Con la religione e per la religione della nazione guerreggiare per le supreme ragioni dello spirito». Il nazionalismo era infatti «una dottrina spirituale». Certo, era anche «naturalista», poiché «risottomette l'individuo alle leggi naturali ed universali della pace e della guerra» (Corradini 1913, pp. 175-76). La volontà della natura «è volontà di produzione, volontà di moltiplicazione e propagazione della specie». Attraverso gli uomini avidi e le nazioni ambiziose che seguono l'istinto di colonizzazione e conquista «la natura raggiunge i suoi fini che consistono nel far sì che l'energia produttiva e il vigor di vita vengano trasportati dai punti del globo dove abbondano, nei punti dove mancano». La guerra, avrebbe detto Corradini ne 1922, è «un istinto della specie, perenne, inabolibile da volontà umana, necessario e produttivo». Questa era una di «quelle leggi misteriose [...] che reggono la vita della specie e del cosmo» (cit. in Landucci 1981, p.3121). In tutto ciò c'era ben poco di effettivamente biologico: come è stato giustamente osservato, in un «vago misticismo naturalistico» di questo tipo «c'è spazio per tutto e per il contrario di tutto» (cit. in Landucci 1981, p. 306). Nessun linguaggio biologistico nemmeno nei futuristi, a proposito dei quali tuttavia si è parlato, chissà perché, di «darwinismo sociale» (Gentile 1996, p. 170). Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) affermava che «la guerra è la grande, sacra legge della vita [...] il collaudo sanguinoso e necessario della forza del popolo». La guerra coincideva con la vita stessa: era la generazione del futuro attraverso la lotta, la salutare distruzione del vecchio, la violenza creativa del genio contro il conformismo. «Noi [futuristi] esaltiamo il patriottismo, il militarismo; cantiamo la guerra, sola igiene del mondo, superba fiammata di entusiasmo e di generosità, nobile bagno di eroismo, senza il quale le razze si addormentano nell'egoismo accidioso, nell'egoismo economico, nella taccagneria della mente e della volontà». Bisognava rifiutare una società tollerante, pacifica, che si cullava nell'illusione della naturale bontà degli uomini, e con questa il socialismo, «filosofia del ventre» (cit. in Gentile 1996, p. 169). Agitarsi, distruggere, creare, combattere erano farmaci contro la degenerazione. Questo vitalismo irrazionalistico e frenetico è lontano da qualunque forma di darwinismo. Come scrisse il giornalista e sindacalista Agostino Lanzillo (1918), la guerra era stata la reazione «con mezzi tragici» alla «decomposizione» di una società «pavida», la riaffermazione dell'«eterna qualità della vita», «una sanguinosa e leggendaria rigenerazione»; ma per fare questo aveva attinto «alle attività più profonde, più diverse ed essenziali dello spirito». C'è darwinismo in questo? Non credo. Forse dovremmo inventare una nuova categoria: il "vitalismo spiritualistico" o lo "spiritualismo vitalistico". La «realtà eterna e immutabile della nazione e della razza», per usare le parole pronunciate nel 1918 dal sindacalista rivoluzionario e nazionalista Alceste De Ambris, non era qualcosa di biologico: era infatti definita dai «confini di sangue, di cultura, di storia, di tradizione, di costume della nostra più intima e viva umanità» (cit. in Gentile 1996, p. 147).
Che cosa volete che sapesse di biologia evoluzionistica questa gente?
Quando in tale brodo di coltura del fascismo compariva qualche vago
accenno all'evoluzione, era per metterla fra le cose del mondo di ieri distrutto
per sempre. Scriveva il giornalista e scrittore Mario Missiroli
(1886-1974): «La guerra mondiale ha distrutto l'ideologia del progresso,
concepito come una lenta, ordinata successione di eventi e di istituti, che
si perfezionano svolgendo fino all'estremo la loro idea, la loro ragione
primitiva; ha distrutto la concezione borghese, riformistica,
evoluzionistica [cioè gradualistica],
del mondo e della vita, dell'azione e della storia»
(cit. in Gentile 1996, p. 116; corsivo aggiunto). La rigenerazione della
patria esigeva la sconfitta del male che si annidava nelle ideologie
materialistiche. Anche il darwinismo era una di queste. Per il suo gradualismo,
sapeva di spirito borghese, vecchio, angusto, timoroso, pantofolaio. Le
analogie sono spesso fallaci, ma non possono non venire in mente certe
parole dello scrittore tedesco Ernst Jünger (1895-1998): «Cresciuti in
un'età di sicurezza, desideravamo rischi e pericoli, cose straordinarie,
esperienze enormi, terribili». E ancora: «Rievocando il secolo di storia
tedesca alle nostre spalle, possiamo dichiarare con orgoglio di essere stati
cattivi borghesi» (Jünger 1960, p. 6; 1995, p. 13). Per Jünger la parola
"evoluzione", in qualunque senso, aveva un significato negativo.
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