Copertina
Autore William Least Heat-Moon
Titolo Nikawa
SottotitoloDiario di bordo di una navigazione attraverso l'America
EdizioneEinaudi, Torino, 2000, Supercoralli , pag. 554, dim. 140x222x38 mm , Isbn 978-88-06-15496-7
OriginaleRiver-Horse. The Logbook of a Boat Across America [1999]
TraduttoreMarco Bosonetto
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa statunitense , viaggi , mare , paesi: USA
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Indice


p.V I miei compagni d'acqua corrente

VII La barca

    Nikawa

    I.  Il fiume Hudson

  5 Un celestiale richiamo a bordo
 10 Fiumi senza sorgenti
 17 Dove sta in agguato il demone viscido
 22 Un fiume annegato
 28 Dove non dormirebbero i mohicani
 35 Il disgelo e un torrente senza nome

    II.  L'Erie Canal

 43 La forza di un continente
 50 Liberi dai fardelli terreni
 58 Come Giona nel ventre del Leviatano
 65 Questioni nodistiche e ia corda del
    boia
 71 Dormiamo con una donna di cattivo
    carattere agitata dalla febbre

    III.  I laghi

 79 Segnale di partenza
 87 Come il sole sorse a ovest per rimettermi
    sulla retta via

    IV.  Il fiume Allegheny

 95 Un cocktail d'ammoniaca e un affilato
    coltello da cipolla
103 Uno stormo d'aquile, un letto di ferro
    e cosí via
108 Arca di Espansione Illimitata
113 Zing, boom, taratel!

    V.  L'Ohio

119 Dove si dimostra che l'uomo bianco è
    bugiardo
127 La giornata comincia con un
    Goonieburger
137 Parla Enamel
141 Sulla scia dei ghiacciai
146 Dalla monotonia al tedio
151 Una storia dell'Ohio in quattro
    parole: dai mastodonti ai preservativi
160 Una tempesta infernale
163 Una necessità topografica e del cuore
170 Nudo e senza mazzolino
176 Pesci con otto teste e nessun occhio
181 Il grande omphalos del Piccolo Egitto

    VI.  Il Mississippi

189 Una notte senza luce su un fiume senza
    uscite
194 Il fantasma del Mississippi
197 Villani e samaritani
202 Ci prepariamo al suono di Garry Owen

    VII.  Il basso Missouri

209 Comincia la risalita del grande
    Missouri
217 La mia vita appesa alle radici di un
    pioppo
220 Una lingua senza la parola inondazione
226 Guardando il fiume negli occhi
231 Grappoli di coincidenze e torta di
    pesche
237 Gone with the windings
244 Cattive notizie per la visione del
    mondo di Pilotis
250 Le linee dei sogni di Thomas Jefferson
256 Un serpente d'acqua a prua
262 Cerchi sacri e ruote di formaggio
    dolce

    VIII.  L'alto Missouri

271 Alla scoperta del quarto Missouri
279 La nave fantasma dei canneti del
    Missouri
286 Come rubare terra indiana
294 Una casalinga paranoica
299 Flusso, punti nave e cazzeggio
308 Toro Seduto e la scopa del cielo
313 Un diavolo di marinaio di fiume
323 Salire lassú, sopra i manici di scopa
328 Da zero a zero
334 Camminiamo sotto il grande fiume
340 Perché Ulisse non ha scoperto
    l'America
347 Pilotis inventa un nome indiano di Dio
352 Rivoli, ruscelletti e gocciolii
359 La mia vita diventa una preposizione
373 Piccoli dèi e catechismi in miniatura
376 Mangiando fulmini
382 Insulti al vento
386 Nel quinconce
400 Qualsiasi piano che non prenda in
    considerazione tutto
405 Sul fiume in ebollizione
408 Ex aqua lux et vis
416 Debolezze delle montagne e degli
    uomini
420 Un vicolo da incubo
425 Senza urrah nel cuore

    IX.  I torrenti di montagna

433 Incontriamo Mister Undici
441 Mangio la forza che muove la mia vita
446 Un'arca divina o un miracolo degli
    Shoshone
451 Una tavola imbandita senza vergogna

    X.  Il Salmon River

461 Cocchiumi a balzi audaci

    XI.  Lo Snake River

483 Il mio viaggio ermafroditico
488 Baciando un pegno d'amore
492 Bazzicare intorno alle barche

    XII.  Il Columbia River

501 Sul fiume Cocito
509 Posto dei morti
516 Teatro del Cimitero
519 Un tasso di nome Piano A
526 Robot del fiume
531 Una bettola degna di Ann la Stracciona
536 Da sale a sale, da marea a marea

541 L'Occano Pacifico

543 Un poscritto di apprezzamentO

545 Se volete essere d'aiuto

 

 

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La barca


Se volete i particolari: aveva un nocciolo di balsa spesso cinque centimetri ricoperto di vetroresina, con scafo piatto a poppa e a V a prua; lunga poco piú di sei metri e mezzo e larga auasi due e mezzo nel punto di massima ampiezza; circa settecentosettanta chilogrammi di peso vuota, venti centimetri di pescaggio minimo che diventavano settantacinque con motore e carico; modello C-Dory, costruita vicino a Seattle nel gennaio del 1995. La barca poteva essere facilmente caricata su un piccolo rimorchio.

A bordo c'era lo stretto necessario: bussola, scandaglio, doppio tachimetro e doppio misuratore per i due serbatoi di carburante da duecentosessanta litri che alimentavano i due motori Honda a quattro tempi e quarantacinque cavalli (molto efficienti ed ecologicamente avanzati). L'unico tergicristallo veniva azionato da una leva manuale. La nostra radio era una Apelco tascabile sintonizzata sulle onde nautiche. Per risparmiare peso e guadagnare spazio, non riempimmo la cisterna d'acqua potabile; per evitare spiacevoli corvées e avere una scusa in piú per fermarci nelle città fluviali che avremmo incontrato, lasciammo a terra la toilette chimica.

Nella cabina di prua stava un po' rattrappita una cuccetta a V, e nella cabina di pilotaggio (un metro e novanta centimetri scarsi) se ne poteva ricavare una seconda, benché angusta, abbassando il piccolo tavolo di navigazione. A poppa della cabina di pilotaggio c'era il ponte a pozzo con un tettuccio floscio, una bella postazio- ne per stare seduti, bere qualcosa e guardarsi attorno una volta or- meggiati.

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Un celestiale richiamo a bordo


Per circa cinque chilometri dopo che fummo usciti dal porticciolo di Elisabeth nel New Jersey sulla baia di Newark (vicoli sporchi, edifici cadenti e una diffusa sensazione di declino, l'accoglienza del sindaco in persona sulla banchina, un discorso di commiato che in quei Giorno della Terra fosse di buon auspicio per la nostra navigazione attraverso il continente e che gli permise di dire che la storia era già passata di lí quando George Washington, quasi alla stessa data, fu condotto su una barca a remi fino a New York per l'ultima tappa del suo viaggio inaugurale) e per altri due fino al Kill Van Kull (dove una freccia trapassò la gola di un marinaio di Henry Hudson, come ricorda il toponimo), dovemmo rimanere dietro una nave da carico norvegese che prendeva il mare tanto vuota da far stare le sue eliche possenti in acqua solo fino a metà, tracciando una scia tempestosa e provocando un tale rollio che la nostra bagnarola beccheggiava a prua e a poppa. Rallentai troppo in fretta e l'ondata di ritorno ci prese la poppa e per poco non superò la bassa balaustra che proteggeva il ponte. Non avevamo neppure una pompa per vuotarlo, e la porta della cabina era tenuta spalancata da un gancio, per far entrare l'aria salmastra della baia di New York in quell'azzurro e luminoso mattino d'aprile.

Il mio copilota sbraitò: - Non rallentare cosí bruscamente quando cavalchiamo l'onda! Ci farai colare a picco! - Eravamo salpati da dieci minuti e già stavamo avvicinandoci al fondo, diciotto metri piú giú. Mi voltai e vidi la baia che saliva oltre la balaustra appena prima che l'acqua spingesse Nikawa abbastanza in alto da far sí che la barca prendesse l'onda successiva da sotto e venisse scaraventata verso le eliche tritatutto del cargo. Poi la prua scivolò giú dall'altra parte del rigonfiamento d'acqua, virammo alla larga dalle enormi eliche, e misi in folle; lasciai che quella carretta d'alto mare ci distanziasse, finché non ebbi una linea sgombra a babordo. Andammo avanti, tagliammo la scia del traghetto di Staten Island e facemmo rotta verso l'Atlantico.

- Ecco come si comincia, - disse il mio amico, un marinaio d'acque profonde, uno di quelli che chiamerò Pilotis. Naturalmente non era quello il vero inizio. Chi può dire quando comincia un viaggio - non il movimento, ma il sogno del viaggio, che preme per farsi strada verso la realtà? Per questo viaggio in particolare posso citare un possibile incipit: sono un lettore di cartine, di solito non si tratta di carte nautiche, ma di carte stradali. Leggo le cartine come altri leggono le Sacre Scritture, lo stesso testo piú e piú volte, alla ricerca di una rivelazione; i libri che ho scritto cominciano tutti col mio sguardo che vaga sulle cartine del territorio americano. A casa ho un vecchio atlante stradale, talmente consumato che l'ho fatto rilegare, le pagine sono cosí lisce per quanto le ho tenute fra le dita che sospirano quando le giro. Ho evidenziato in giallo ogni strada che ho percorso, le pagine sono fitte di segni, ormai posso dire di aver visitato tutte le contee degli Stati Uniti continentali, Alaska esclusa, tranne una manciata nel profondo Sud dove andrò ben presto. Mettete un dito a caso su un punto qualsiasi della cartina degli Stati Uniti e io ci sono stato, o comunque sono stato a non più di quaranta chilometri di distanza, con l'eccezione dei deserti del Nevada, dove lo scarto può essere doppio. Non l'ho fatto di proposito, è capitato da sé, in quarant'anni dedicati a memorizzare il volto dell'America. Se qualcuno parla di Pawtucket o Cross Creek o Marfa voglio che mi appaia un'immagine dei miei viaggi; quando leggo luogo e data all'inizio di un articolo di giornale su Jackson Hole voglio che sia presente dentro di me l'orizzonte frastagliato del Teton e un penetrante profumo di piñon. Un abitante della Pennsylvania potrebbe chiedermi «Hai visto la taverna storica di Scenery Hill?». E io voglio potergli rispondere: «Come sta il fantasma? Sono sempre buoni i cartocci di lievito?» Le parole che maggiormente hanno influenzato la mia vita sono quelle dell'autorevole Thomas Fuller, illustre storico della vecchia Inghilterra: «Conosci piú che puoi il tuo paese d'origine prima di affacciarti oltre i suoi confini».

Vent'anni fa avevo già percorso cosí tanti chilometri di strade americane che sapevo ormai in agguato il giorno in cui non avrei piú potuto prendere il volo verso posti nuovi - come Huck Finn, originario del Missouri come me, nonché viaggiatore fluviale. Fu allora che norai ìa ragnatela di linee azzurro pallido che ricamavano il mio atlante come vene varicose. Erano fiumi. Cominciai a seguire col dito quelle contorsioni, alla ricerca di un modo per attraversare l'America in barca. Dapprima fui semplicemente curioso di sapere se fosse possibile o meno effettuare un simile viaggio senza uscire dall'acqua troppe volte e per tratti troppo lunghi, ma poi presi a pensare con interesse crescente a come sarebbe apparsa l'America vista dai fiumi e a desiderare di poter osservare quei luoghi segreti nascosti a chi viaggia sulle strade. Un viaggio del genere mi avrebbe permesso senz'altro di accedere a nuovi territori e a piú vaste conoscenze, ma non fui capace di trovare una via fluviale attraverso il continente che non comportasse molti chilometri di trasbordo e un ampio ricorso ad acque di frontiera - il Golfo del Messico o i Grandi Laghi. Io volevo una via che solcasse la nazione dall'interno.

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Non molto tempo fa la maggior parte degli abitanti della valle dell'Hudson - poveri esclusi - diede retta agli avvertimenti dello Stato e smise di mangiare qualunque cosa provenisse dal fiume. Ora, a una generazione di distanza dall'approvazione da parte del Congresso del Clean Water Act, la legge sulla tutela delle acque, molti pesci tornano a fare la loro comparsa in tavola, soprattutto varie specie di anadromo che trascorrono gran parte della loro vita nell'Atlantico. Ciò nonostante, proprio mentre noi risalivamo l'Hudson, la centroquattresima legislatura del Congresso si adoperava, su iniziativa dell'estrema destra, per abolire il Clean Water Act, idea particolarmente bizzarra e odiosa vista la comprovata efficacia di questa legge nel rendere piú pulite le acque americane. Comunque, Pilotis e io notammo che persisteva un'evidente correlazione fra la disponibilità a mangiare i pesci dell'Hudson e quanto le persone abitavano lontano dal fiume: con la distanza cresceva la paura. Che vivessero in riva al corso d'acqua o un po' discosti, tutti quelli che incontravamo mostravano la stessa rabbia verso la General Electric, che trecentoventi chilometri piú a nord, col permesso dello Stato, scaricava da trent'anni nell'Hudson una sostanza mortale come il policloruro difenile.

Oltre alle numerose motivazioni biologiche (fra cui l'istinto di sopravvivenza) che rendono desiderabile che l'acqua del fiume sia pulita e ricca di vita, ci sono anche ragioni poetiche, come i bellissimi nomi dei pesci dell'Hudson. Quanto sarebbe piú povero il fiume senza il rotolapietre, il ghiozzo dalla testa cornea, la lasca decorosa, il madtom col margine, il succhiaporci settentrionale, lo strozzaporci, il cavallo rosso dalla testa corta, il rockling dalle quattro barbe, il mummichog, il gobione nudo, il pettirosso striato di mare, lo scorfano viscido e altri ospiti piú rari come il pescerospo ostrica, il gag, il guardagiú, il pescefarfalla quattr'occhi, il contemplatore di stelle settentrionale, il blenny dalle lentiggini, il dormiglione grasso, piú intere classi di pinnacurva, acciughe, pesci ago, pesci pipa, fianchi d'argento, jacks, labri, soffiatori e passerini (dall'occhio destro o dall'occhio sinistro).

Bordeggiamo oltre Cold Spring, un grazioso villaggio con un lungofiume ospitale non lontano da una piccola sorgente la cui acqua placò la sete del generale Washington; oggi i binari della ferrovia corrono vicinissimi alla fonte, e, nonostante le pietre decorative che la ingentiliscono, ben pochi viaggiatori moderni penserebbero di usarla per dissetarsi.

Sulla riva occidentale si stagliava nella luce fioca la roccia quasi completamente spoglia del possente Storm King. Grazie a quel taglio nelle Highlands, eravamo in procinto di oltrepassare gli Appalachi sulla spinta della marea. Sarebbe bastato sbarrare quella fenditura, interrompere il flusso commerciale che l'aveva attraversata nel corso della storia, e New York sarebbe stata un'altra Boston o un'altra Philadelphia. Storm King è importante anche per la giurisprudenza statunitense, in quanto protagonista di una battaglia legale piuttosto recente contro una compagnia elettrica accusata di provocare danni all'ambiente; il processo ha sancito il diritto da parte dei cittadini a costituirsi parte civile in difesa dell'ecosistema.

Dubito che esistano altri fiumi negli Stati Uniti che possono vantare una presenza maggiore dell'Hudson nella storia, nell'arte e forse anche nella letteratura, a causa della lunghezza, e tale importanza si svela nell'abbondanza e nella varietà dei toponimi riportati dal folclore. Il fiume stesso ha avuto molti nomi, fra cui, per citarne alcuni, Cahohatatea, Shattemuck, Muhheakunnuk, Mahicanittuck, Mohegan, Grande Rivière, Angoleme, Río San Antonio, Río de Gomez, Río de Montaigne, Nurumbega, Manhattan, Mauritius, River of the Prince, Nassau, Groote, Noordt, River of the Mountains e North (usato tuttora). Sulle sue rive non c'è nome piú altisonante di Storm King (Re Tempesta); il rilievo era noto a Henry Hudson come Klinkerberg e ai coloni olandesi come Butter Hill (Collina del Burro), descrizione che nel XIX secolo fu giudicata dal locale «poeta damerino» N.P. Willis nient'affatto confacente alla maestà con cui dominava il fiume sottostante. Cosí, secondo un giornalista, gli appioppò a sangue freddo Storm King. Un'etichetta che gli è rimasta appiccicata perché è piú accurata di altre, visto il modo in cui il monte devia venti e perturbazioni trasformandoli in sciagure, come un monarca senza cuore fa con le leggi.

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I viaggi per fiume di solito fanno apparire questo paese come dovrebbe essere: un numero notevole di persone che mescolano case, granai e commerci con un paesaggio naturale sgombro da quegli invadenti abusi lungo le strade. Nonostante la minaccia fisica costante rappresentata dall'acqua corrente, scendere un fiume può indurre nel viaggiatore una sensazione di armonia, facendogli credere che non tutto è in balia dell'egoismo e della cupidigia privati che tanto contribuiscono ad avvelenare le nostre possibilità di costruire un benessere salutare e duraturo. Seguire un fiume significa entrare a tutti gli effetti nel territorio, perché il fiume segue l'andamento del terreno senza eccezioni, non può fare altrimenti. Ero venuto fin qui con la convinzione che non avrei davvero conosciuto l'America finché non l'avessi guardata dalle anse e dai rettilinei dei suoi corsi d'acqua, da quei luoghi nascosti accessibili soltanto a una piccola barca.

A Kennerdell ci fermammo sotto un ponte a sgranchirci le gambe. Raccontai a Pilotis di come mi ero preparato a quell'avventura, passando in rassegna scaffali e scaffali di resoconti di viaggi ed esplorazioni attraverso gli Stati Uniti. Uno dei libri che avevo letto era Journey to Pennsylvania (Viaggio in Pennsylvania) di Gottlieb Mittelgerber, un tedesco arrivato qui nel 1750 per consegnare un organo da chiesa e ripartito solo quattro anni piú tardi. Era un uomo semplice ma non per questo privo della sensibilità necessaria a comprendere la durezza delle condizioni di vita degli immigrati, spesso sfruttati da datori di lavoro e intermediari. Nelle nuove colonie vide abbastanza per rimanere deluso.

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Pagina 141

Sulla scia dei ghiacciai


Il mio amico del cuore disse: - Oggi è uno di quei giorni che i piloti d'aereo chiamano «limpido secco». Si direbbe di poter fare un salto e nuotare nel blu del cielo -. Lasciammo Gallipolis e affrontammo l'ampia curva a gancio che segna anche la punta meridionale dello Stato dell'Ohio. La prima parte corre a sud, poi a ovest, poi ancora a sud; quindi il fiume risale l'altro tratto della parabola lungo un corso piú o meno stabile. Il territorio dell'Ohio compreso fra questi segmenti di fiume è in gran parte parco forestale nazionale, e anche la sponda del West Virginia è ricca d'alberi fino al fulcro dell'arco, dove la città industriale di Huntington si spalma sulla pianura.

Avevamo percorso un quinto della nostra rotta attraverso il continente e solo per qualche decina di chilometri ci eravamo discostati dalla via tracciata dall'ultima era glaciale e dalle sue varie glaciazioni. Muovendoci genericamente di traverso rispetto allo spostamento degli antichi nevai, stavamo seguendo - lí come altrove - una rotta teorica, tagliata da mare a mare, come sbozzata da enormi scalpelli di ghiaccio: se si traccia su una cartina degli Stati Uniti il limite meridionale degli ultimi ghiacciai, si ottiene una linea molto simile a quella del nostro itinerario. Le nostre possibilità erano indissolubilmente legate all'acqua, antica o moderna, surgelata o in altre forme.

Navigando su un fiume si percorre un corridoio naturale, piú che viaggiando in qualsiasi altro modo, perché l'acqua corrente deve rimanere fedele alle caratteristiche della terra; eravamo contenti di sapere che la nostra era una strada primordiale e piú ancora che stavamo ricapitolando spostamenti umani antichi di ottomila anni, o forse piú. Non c'è nessun altro tipo di viaggio in cui accade qualcosa del genere, perché non c'è pista, strada o sentiero che sia cosí antico, primigenio e immutato nel suo itinerario. Il fiume, caso unico nella natura, costruisce da sé la propria destinazione, e ci rendeva felici la sensazione che l'Ohio dalle alte sponde, il cui corso aveva subito meno variazioni di qualunque altro grande fiume a est delle Montagne Rocciose, ci stesse portando proprio là; neppure le chiuse e le dighe bastavano a eliminare questa impressione. Una scoperta che era della massima importanza nella nostra ricerca di una via d'acqua attraverso l'America.

Uno stormo di gabbiani dal becco striato si alzò dalla superficie liscia del fiume e la rasentò in volo, poi superammo una fila di chiatte nella speranza di passare la chiusa di Byrd prima del loro arrivo, ma non fu necessario; per la prima volta il manovratore ci fece entrare nella conca ausiliaria, che era lunga la metà di quella principale (circa centottanta metri). Ma anche lí Nikawa sembrava un cavallo a dondolo, e qualche turista della domenica ci salutò sorridendo - si fa sempre coraggio ai perdenti - mentre le facce degli altri tradivano una specie di malinconia, come se nelle loro vite non trovasse spazio nient'altro che un'ancora.

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La pioggia intensa e l'alzarsi dell'acqua avevano trascinato con sé nuovi relitti e ramaglie dalle colline ormai fronzute; abbondavano soprattutto oggetti con ottime doti di galleggiamento: pezzi d'albero e di plastica. Ma c'erano anche parecchi emblemi dell'Ohio (i pneumatici galleggianti) e anche i materassi di semi d'acero, decisamente meno pericolosi, che potevamo arare senza problemi. Su un tronco alla deriva stavano appollaiate due sterne migratrici, ala contro ala, intente a nulla che non fosse guardare spassionatamente il fiume, com'è costume da queste parti; persino al nostro passaggio continuarono ad esercitare il loro passatempo preferito.

L'aria intiepidí, il vento si alzò, e passammo dall'acqua liscia come vetro a quella increspata, un cambiamento che si palesò piú all'orecchio che agli occhi: lo scafo di Nikawa, sensibile alla superficie dell'acqua, conduceva i suoni come un calice di cristallo e registrava ogni slic e slap, tlinc e tlanc, sbenc e sbonc, ogni gorgoglio e singulto della corrente. Nikawa parlava il fiume, gli dava una lingua e diceva come andare avanti mentre quell'acciottolio ciacolava, sciabordava e bisbigliava una rotta. Avevamo imparato da molte leghe a prestare ascolto allo scafo - non che me ne ricordassi sempre -, e quel giorno mi lasciai guidare soltanto dagli occhi, sull'acqua scintillante verso l'orizzonte occidentale, che sussurrava: - Forza, il tramonto è vicino -. E io obbedivo, anche se il vento rinforzava, l'acqua rumoreggiava e brontolavo per la situazione meteorologica. Pilotis diede un colpetto sulla targa che stava sulle nostre teste e disse: - Il capitano ha intenzione di procedere lungo la via che gli si apre davanti o di farci sbattere il muso in qualche posto del cazzo? - Rallentai, mi infilai i tappi per le orecchie, mi lasciai guidare dallo scandaglio in acque piú profonde, vale a dire piú facili, e le cose andarono meglio. Gli esotici profumi della calendula e dell'eucalipto si diffusero nella cabina di pilotaggio, anche se la presenza di entrambi era inspiegabile in quelle circostanze. Non si vedevano moli, cosí non ci fermammo a Rising Sun nell'Indiana - dall'altra parte del fiume rispetto a Rabbit Hash nel Kentucky - nonostante la luce pomeridiana sembrasse allettante e noi avessimo bisogno di bere qualcosa, magari un phroso; forse da qualche parte in paese c'era un chiosco di bibite artigianali e un vecchio sodaman che conosceva i segreti del Tenderfoot Punch (2 once di rum, i cucchiaio di pudding Nesselrode, succo d'uva, uno spruzzo d'amaro, ghiaccio a scaglie). Viaggiare nella prateria crea strani appetiti, ma il fiume dà forme bizzarre alla sete.

E via con la corrente, oltre la confluenza del Big Bone Creek. Due o tre chilometri più su, in collina, c'era una sorgente dove animali di un'altra epoca come il mastodonte, l'elefante artico e il bradipo a tre dita venivano a leccare il sale sui bordi della pozza o a sguazzare nel fango. I viaggiatori di fine XVIII secolo riferivano di mucchi di ossa incastonate nella roccia o disseminate sul terreno; la gente usava le costole di mastodonte come pali per le tende e le vertebre come sgabelli, oppure si portava via come souvenir dei molari da tre chili e mezzo, zanne lunghe come due uomini tozzi e femori alti come una donna prestante. Thomas Jefferson venne a sapere di questo incredibile giacimento di reperti preistorici nel 1805 e inviò una spedizione che ne ricavasse una collezione ampia e rappresentativa; nei trentacinque anni successivi gli scavi portarono alla luce gli scheletri di venti elefanti e di un centinaio di mastodonti, materiale sufficiente a rifornire vari musei americani ed europei, finché la cavità salata non fu svuotata da ogni tipo di fossile. Verso l'inizio della Guerra Civile la sorgente era poco piú di una stazione termale per giovani signore «avviate al declino», qualsiasi cosa significhi, e anziani obesi che speravano di smaltire un po' di adipe grazie alle acque ricche di zolfo. Quanto alla collezione personale di Jefferson, un servitore ignaro la macinò e la usò come fertilizzante. Sotto Nikawa ora c'erano il sale, e la storia, di Big Bone Lick.

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Il fantasma del Mississippi


Ecco il genere di errori che mi piaceva commettere: Commerce nel Missouri non era ancora stata spazzata via completamente. Oltre alla chiesa bianca con tanto di campanile, c'erano alcune case, un ufficio postale, e lí accanto una piccola cantina dove si faceva il vino, ma il resto del paese, nonostante il nome sopravvivesse, era un ammasso di edifici distrutti e sbarrati, dove era impossibile rifornirsi di carburante o di qualsiasi altra cosa. La casa dei Williams era a nord, lungo una strada in discesa, ai piedi di una scarpata boscosa; si trattava di una baracca cresciuta negli anni per aggiunte successive, in modo tale che ora era un formicaio di stanze semibuie. All'interno, l'aria era compatta, un odore misto di bambini, cibo in cottura e umidità di fiume; un'aria piuttosto pesante, ma generata da gente viva, il tipo di gente di cui eravamo felici di fare ancora parte.

La moglie di Dariel, Annie, ci offrí pane e mortadella come antipasto e poi pescigatto - nelle versioni blue e flathead - pescati nel fiume; li sminuzzò, li mescolò a farina di granturco e li fece friggere in una casseruola di ferro. - Ce n'è abbastanza? - disse Pilotis. - Voglio dire, con la vostra famiglia... - Dariel rispose: - È difficile rimanere senza pescegatto da queste parti.

Ci sedemmo al tavolo della cucina, mentre la cena sfrigolava nella casseruola. Dariel manovrava grossi macchinari in una cava; era un lavoro pericoloso, si trattava di spostare dei massi sull'orlo della voragine. Lo Zampognaro tirò fuori un piffero e suonò un'antica melodia dell'Erie Canal, e i pargoli, il nipote e le nipotine dei Williams, uscirono da qualche angolo invisibile della casa: una bambina appena guarita dalla varicella, un giovanotto di dieci anni e la sua sorella maggiore. Il maschietto, Michael, si sedette, incantato dalla musica, l'adolescente fece finta di nulla e la bambina si spaventò. Michael cominciò ben presto a inondarci di domande. Da dove eravamo spuntati? Era annegato qualcuno? Avevamo pensato che la nostra barca sarebbe andata a fondo? Quando sentí Pilotis nominare New York, si alzò e disse: - Avete visto la Statua della Libertà? Io solo in un libro -. Raccontammo la nostra storia, il ragazzo sempre piú affascinato dall'ennesima stranezza che il Mississippi aveva portato nella sua vita. Il suo entusiasmo crebbe a tal punto che le domande si trasformarono in un racconto tutto suo. Aveva un lieve difetto di pronuncia, conseguenza di una perforazione al timpano che gli dava problemi di udito; di recente aveva subito un intervento teoricamente risolutivo, ma si faceva ancora una certa fatica a capire quello che diceva. La parola che avevo identificato come «Thomas» era in realtà «Commerce», mentre «accetta» era «statua». Ci informò del trattamento indegno che gli riservava la sorella maggiore e disse che una volta aveva tentato di venderla, a Farmington, e gli avevano offerto cinquanta dollari. - Piantala! - intervenne lei.

Parlava cosí tanto che a un certo punto gli dissi: - Figliolo, penso che un giorno ti candiderai come governatore. - No, - ribatté, - voglio fare lo scrittore. - È piú o meno la stessa cosa, - disse Pilotis. - In entrambi i casi si parla a vanvera -. Michael prese una matita. - Ho già la mia firma -. E ce lo dimostrò con cura. - Prima devi scrivere un libro, poi puoi fare gli autografi, - dissi. - Sono a buon punto, - rispose. - Il mio primo libro s'intitolerà Un profilo del Missouri. Uno pensa che sia storia, ma non è cosí. Parla di un ragazzino di dieci anni che non ha sorelle e cammina sul confine del Missouri con suo padre. Attraversano il fiume Missouri senza problemi, ma quando arrivano al Mississippi il padre affoga, e il ragazzino deve andare avanti da solo. Quando torna da dov'era partito, va dal governatore che gli dà un milione di dollari, e il ragazzino diventa una leggenda.

Pilotis fece un cenno nella mia direzione e disse: - Stai attento a che cosa ti esce di bocca davanti a questo signore. È famoso per aver già fregato un paio di storie. Eccolo al lavoro con la penna, vedi? - Michael ribatté: - Gliela posso lasciare. Io ne ho altre. Come Il fantasma del Mississippi. Parla di un fantasma con gli occhi azzurro pallido, senza naso, con lunghe dita ossute che afferrano il collo delle ragazze.

In quel preciso istante la stanza piombò nel buio. Dopo qualche esclamazione di sorpresa e qualche gridolino della sorella maggiore, Dariel disse che probabilmente era colpa della piena. - Penso che avrai successo come scrittore, le coincidenze sono dalla tua parte. È cosí che se la cava il nostro capitano, - commentò Pilotis rivolto a Michael.

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Ritornammo fra le braccia del Mississippi appena a valle della confluenza del Wood River, dove s'imbarcò la spedizione di Lewis e Clark in un altro giorno di maggio del 1804, ma con lo stesso clima umido e depressivo. Traversammo il Mississippi, e davanti ai nostri occhi si aprí il grande Missouri, scaricando con violenza un'immensa quantità d'acqua che s'incuneava nell'altro fiume, scuoteva Nikawa, la faceva sfarfallare in una confusione di correnti che corrispondeva appieno a quella dimostrazione di forza che desideravo sperimentare da tanto tempo. Il momento era arrivato, e l'ansia di assistere all'inizio della nostra scalata cancellò quasi completamente ogni pensiero triste. Il confronto col fiume che piú di ogni altro avrebbe deciso della riuscita o del fallimento del nostro viaggio verso il Pacifico mi diede una tale scarica di adrenalina, entusiasmo e apprensione, che mi sentii quasi come se stessimo ripartendo da capo. Hermann Melville scrisse: «Lasciate che chi non è mai stato lontano se ne vada da casa per scoprire che cosa significa "casa". Giacché quando torni ad avvicinarti al tuo fiume natio, egli sembra scorrere dentro di te con tutta la sua forza, e per la gioia tu giuri di costruire altari come pietre miliari su entrambe le sue sacre sponde».

Aspettavo questo momento non solo da Elizabeth nel New Jersey, ma da quando avevo dieci o undici anni e pensavo a come ci si doveva sentire entrando su una piccola barca nello stomaco del Missouri, il fiume tumultuoso per eccellenza, e le piene mi mettevano di buon umore perché volevo che lui non ci negasse nulla. Finalmente il fiume vicino al quale ero venuto alla luce, la cui acqua avevo bevuto dalla nascita fino a quando ero entrato in marina. Il Big Muddy era dentro di me, la sorgente del mio stesso sangue, l'umore delle mie ossa, il mio archetipo di fiume, una trappola sinuosa che una volta mi aveva quasi preso con sé, un corso d'acqua la cui origine piú remota è un torrente che si chiama Inferno Mugghiante (Hell Roaring Creek) e lascia le montagne all'ombra di una vetta il cui nome è Nemesis. Dovevamo risalirlo tutto fino alle montagne, fino a duemilasettecento metri sul livello del mare, dove avremmo potuto metterci a gambe larghe su una riva e sull'altra e bere la sua purezza sorgiva.

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Come rubare terra indiana


Parecchi anni fa stavo passeggiando lungo il mare a Seattle per vedere da vicino che cosa succedeva sul Puget Sound, quando un uomo mi si avvicinò chiedendo aiuto. Era stanco, forse malato e probabilmente piú giovane di quanto sembrasse. Sulla sua maglietta c'era scritto HOKA-HEY, un saluto indiano, cosí gli domandai di che tribú era. - Sioux, - rispose. - Vuol dire Lakota? - Parve stupirsi e svegliarsi, i suoi occhi si riempirono di lacrime, e disse aprendosi un po': - Sí, Lakota. Lakota Oglala -. E sorrise.

Il 31 maggio Nikawa fece il suo ingresso in quello che un tempo era noto come il Paese Sioux, una vasta regione corrispondente a quasi tutta la metà settentrionale delle Grandi Pianure, dimora dei popoli su cui si è formata l'idea prevalente nel mondo riguardo ciò che è un indiano d'America. Oggi negli stessi Stati Uniti ci sono tribú che non hanno alcun legame con la nazione Sioux eppure hanno assimilato elementi culturali e ornamentali dei Sioux del XIX secolo. Fino al momento in cui, alcune settimane piú tardi, avremmo raggiunto le montagne, gli unici indiani che avremmo incontrato sarebbero stati Sioux; furono i loro antichi nemici, i Chippewa, a battezzarli con questo nome, che significa «vipere».

Ricordai alla ciurma che per i successivi duemilaquattrocento chilometri avremmo attraversato territori indiani, riserve in cui saremmo stati degli stranieri, e suggerii a tutti di evitare la parola «Sioux». Chiesi anche che ricordassero i nomi dei quattro rami in cui sono divisi questi abitanti delle Pianure settentrionali: Teton, Santee, Yanktonai e Yankton. Ognuno di essi, tranne l'ultimo, è composto da piú bande: ci sono per esempio gli Oglala, gli Hunkpapa e gli Assiniboin. Sarebbe stato ancora meglio, dissi, chiamare i Teton «Lakota», i Santee «Dakota» e gli altri «Nakota» - se voleste fare amicizia con un londinese, lo chiamereste limey, europeo o inglese?

Affrontammo il problema a colazione nel breakfast grill del Fort Randall Casino and Hotel mentre una giovane cameriera yankton ci punzecchiava ricordandoci delle nostre perdite della sera precedente con le slot machine (solo il Professore aveva vinto venti dollari). Pilotis disse: - Bisogna considerare i soldi come un risarcimento -. E lei: - Allora ne dovete perdere ancora un bel po'.

A metà del XIX secolo gli Yankton, sotto la solita pressione dei bianchi, furono obbligati a vendere la maggior parte delle loro terre per trenta centesimi l'ettaro, nonostante l'amichevole disposizione dimostrata nei confronti degli invasori e delle loro iniziative che cambiavano il mondo. Nel 1862 gli Yankton avvertirono persino i coloni di un imminente attacco da parte di altre tribú. Sin dall'epoca dei primi mercanti, nella seconda metà del secolo, le terre degli Yankton costituirono la via d'accesso al Paese Sioux, e gli Yankron rappresentarono per molti bianchi il primo incontro con indiani che vivessero secondo le antiche visioni tradizionali. In breve,, gli Yankton erano spesso i primi autentici aborigeni, con tanto di penne, in cui s'imbatteva chi viaggiava sul Missouri, e incontri simili cominciavano di solito con trepidazione. Se queste regioni fossero state abitate da una tribú ostile e bellicosa, per esempio dai Teton, la penetrazione bianca verso l'Ovest sarebbe stata piú lenta e avrebbe richiesto un maggiore spargimento di sangue. Nonostante gli importanti negoziati condotti da Lewis e Clark con gli Oro e i Missouri piú a valle, furono i colloqui di Gavin Point fra i capitani e gli Yankton a rivelare loro quanto poco capissero il mondo della gente rossa che di lí a poco li avrebbe circondati.

La patina d'avventura e romanticismo che ricopriva la grande spedizione ha reso ciechi molti statunitensi riguardo agli obiettivi cruciali che si poneva, obiettivi di carattere politico ed economico piú che scientifico. Compito chiave del capitano Lewis era informare i popolo che vivevano in quelle terre da dodicimila anni e forse piú del fatto che da quel momento diventavano «figli» di un potente e lontano Padre Bianco. Si trattava di un atto di conquista, non di scienza. (Oggi l'Ovest americano è ovviamente un bastione di resistenza a qualsiasi cosa provenga da Washington, se non gli assegni dei sussidi, e quelli che gridano piú forte contro le «ingerenze» federali sono i nipoti di chi si è impossessato delle terre degli aborigeni. Le milizie di estrema destra sono per gli indiani un vero spasso).

Il mondo dei popoli delle Pianure era dotato di complessità e autonomia maggiori rispetto a qualsiasi altro contesto nativo incontrato fino a quel momento dalla spedizione, ma i primi contatti furono propizi: i due scout mandati in avanscoperta da Lewis furono bene accolti dagli Yankton, che li trasportarono all'accampamento nakota su una pelle di bisonte in segno di rispetto, anche se piú tardi un capo, Weuche, disse senza mezzi termini che la sua gente voleva qualcosa di piú delle semplici parole, delle medaglie della pace e delle bandiere americane. Quando seppe che la spedizione non era arrivata fin lí per commerciare, chiese per i suoi guerrieri il permesso di fermare la prossima imbarcazione mercantile e di servirsi liberamente. L'incontro successivo, invece, quello coi Teton Brulé, fu cosí spiacevole per i Corps of Discovery da indurre Clark a scrivere parole d'inconsueta veemenza (ancora una volta modificate dall'editore): «[I Teton] sono i piú vili ed eretici rappresentanti delle razze selvagge [e] rimarranno sempre dei pirati del Missouri finché il nostro governo non prenderà delle misure capaci di far loro capire che dipendono dalla sua volontà per i rifornimenti di mercanzie». Alcuni fanatici della storia patria preferiscono ignorare questa frase, cosí come sorvolano sulla palese impronta imperialistica che animava la spedizione e sulle parole del suo ideatore Thomas Jefferson, che addirittura nella Dichiarazione d'indipendenza menzionava i «feroci indiani selvaggi, le cui notorie regole di condotta in guerra consistono nello sterminio indifferenziato, senza riguardo per l'età, il sesso e le forze».

Fra noi risalitori del Missouri dell'ultima ora era diffusa l'idea che la nostra serata al casinò degli Yankton fosse un ribaltamento di due secoli di storia, anche se gli unici guerrieri che avevamo visto erano gli uomini-montagna della sicurezza con tanto di baffi, distintivo («toraci metallici»), fototessera e piccole bandiere americane sulle maniche. Il nostro rapporto con gli Yankton fu un condensato di storia, benché rimaneggiato: la sera precedente, quando il Professore aveva cominciato la sua striscia vincente, parecchi impiegati indiani si erano raggruppati attorno alla slot machine come allo scintillio di un falò, mentre lui infilava monete come forse Clark aveva distribuito trecce di tabacco. Sembrava che fra la nostra ciurma e i Nakota si fosse instaurata una relazione simile a quella fra i marinai di fiume e i capi tribú dei tempi andati. Quando la fortuna si esaurí, una giovane Yankton chiese da dove venivamo, Pilotis rispose, e lei disse: - State ripercorrendo le orme di Lewis e Clark? - Era una domanda che ci avevano già fatto, e io risposi: - Sí, ma solo perché questa è la miglior rotta fluviale verso ovest -. La ragazza scosse la testa. - Voglio dire se state riportando in vita un pezzo di storia -. Avrei risposto di no, fino a quella sera.

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Appoggiai la schiena al suolo tiepido, una crosta pallida e screpolata, e osservai l'altro capo della creazione che passava su di noi mentre gli ammassi di nubi si disperdevano nel loro cammino verso est, marinai dell'aria che non avrebbero resistito abbastanza neppure per vedere il confine del South Dakota. Pensai a quanto era distante nel tempo e nello spazio l'inizio del viaggio, quanto ero diverso dal tizio che si faceva passare per me venti mesi fa, quello cosí ansioso di scoprire i segreti dei passaggi fluviali. Se lui - il mio io di allora - e io ci fossimo potuti sedere l'uno di fronte all'altro, lui avrebbe voluto sapere quello che sapevo io e assorbire le mie esperienze, mi avrebbe guardato con invidia, proprio come faccio io con chi è tornato dalla luna. Ma fra lui e me ci sarebbe stata per sempre una differenza: io ero partito, e lui no. Lui aveva messo in moto la macchina del viaggio, ma non ci era salito. Cosí come io, sdraiato su quella collina del Dakota, non potevo sapere se Nikawa avrebbe raggiunto il Pacifico, lui non era mai riuscito a vedere l'esito dei suoi preparativi, a meno che da qualche parte, su qualche altro lido lontano, non esista la possibilità temporale di incontrare i nostri sè passati, tutte le persone che siamo stati. Le cellule che ci compongono si ricambiano totalmente ogni sette anni, perciò il cervello fornisce costantemente ricordi a un estraneo; chi siamo stati è solo un compagno di viaggio fantasma. Quanto a me, che cosa avevo da imparare da colui che aveva progettato la traversata o da tutti gli altri che ero stato un tempo? Il diciottenne che desiderava scrivere, il trentenne che voleva insegnare, il cameriere in attesa della bustapaga, il marinaio ragazzo che vagava per Port-au-Prince, il marito che non riusciva a far funzionare il matrimonio, il figlio che aveva sentito il padre sofferente dire una notte, verso la fine - Voglio essere come Alce Nero, andare sulle montagne e morire, - il ragazzino imberbe che era quasi svenuto la prima volta che una ragazza l'aveva baciato sul serio, il giovane troppo vecchio per avere paura di dormire da solo nei boschi e che invece aveva paura.

Quante cose avrei potuto raccontare a tutta quella gente a proposito di dove mi aveva spedito! E che ricordi di primi baci e morte, delle montagne di Haiti e del tramonto sulle colline degli Ozarks potevano regalarmi loro. Avrebbero saputo ridisegnare le linee sbiadite della mappa del mio lungo viaggio fin qui, indicare chiaramente dove avevo preso una strada diversa da quella che loro avevano in mente, potevano dirmi se avevano gradito quella digressíone o no, se l'avevano giudicata una buona idea o una cosa schifosamente stupida. Se la memoria umana fosse perfetta e onnicomprensiva, forse sarei una persona sola dall'inizio alla fine, ma l'oblio mi separa da ciò che sono stato, facendomi rinascere a ogni istante. Parafrasando le parole di Santayana, chi non può ricordare pienamente il suo passato è condannato ad andare avanti facendone a meno.

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Toro Seduto e la scopa del cielo


Quel sabato mattina mi sporsi oltre il bordo di Nikawa per controllare lo scafo e vidi un muro di ammassi nuvolosi attraversare il fiume limaccioso, e dalle nubi apparve all'improvviso un volto sorridente con la barba. Se credessi che il Motore della Creazione abbia un aspetto umano, avrei potuto scambiare quel viso per il Suo, ma Lui ero solo io; immersi le mani nel fiume e mandai in frantumi il firmamento e me stesso, poi restai perfettamente immobile a guardare il cielo a pezzi e quel ceffo d'uomo riformarsi pian piano come se l'acqua sapesse con esattezza la casella di ogni tessera, e tutto parve di nuovo com'era prima, ma era un inganno della riflessione, un altro trucco del fiume, perché nel minuto che occorse alla superficie per ritrasformarsi in uno specchio io ero invecchiato di un minuto, le nuvole si erano gonfiate in nuove forme, la popolazione mondiale era cresciuta di 162 individui, il pianeta aveva veleggiato per altri millesettecento chilometri nell'etere, il sistema solare si era avvicinato di dodicimila chilometri alla costellazione del Cigno e la zolla continentale su cui scorre il Missouri era slittata microscopicamente verso la Siberia. Un fiume immobile è un'illusione della condizione umana, la stasi è solo un concetto, mentre il fiume che scorre è una metafora del corso delle cose. Le montagne rimandano alla solidità, i fiumi alla continuità.

Tuttavia sono state delle acque tranquille a svelare all'umanità il suo volto. Mentre osservavo me stesso riassemblarsi, pensavo a colui, o colei, che per primo aveva intuito che quella figura sull'acqua era la sua faccia e non il viso di un demone fluviale, pensavo alla prima persona capace di immaginare che il fiume cieco l'avesse creata - e infatti era composta in gran parte d'acqua - in modo tale da potersi non solo guardare - pure un rospo serviva allo scopo - ma anche concepirsi e immaginare i fiumi come gambe e braccia del mare primigenio inviati a terra per imparare a respirare, camminare, sorridere, amare, sognare e stimare le proprie sorgenti.

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Robot del fiume


Il mattino successivo iniziava il mio centesimo giorno di viaggio, l'ottantesimo sul fiume, cosí decisi di concedermi una domenica di pausa sotto il portico della vecchia casa colonica per dedicarmi al diario di bordo e starmene sulla sedia a dondolo come un pilota in pensione che passa il suo tempo a guardare le barche sull'acqua; dalla veranda in cima al pendio vedevo il Columbia che si faceva strada verso l'oceano sgravato del nostro peso. Quando annunciai la giornata di vacanza alla ciurma riunita per colazione, ci furono lanci di cappelli, con mia sorpresa, cosí pensai che forse la difficoltà con cui ci alzavamo dal letto negli ultimi tempi era dovuta alla stanchezza piú che alla paura del Banco o ad altri motivi. Ma, come avrei capito nel corso della giornata, avevo ragione solo a metà. Alcuni particolari ignoti sarebbero affiorati con le unghie, come talpe disperate in un campo allagato.

Ci raggiunse per il tratto finale verso il Pacifico un giovane amico del «Los Angeles Times»; essendo circondato da un equipaggio di forgiatori di parole, proposi di trascorrere il pomeriggio in quella terra promessa della bibliolatria che è la Powell's City of Books, nel centro di Portland. Una volta lí, nonostante li avessi avvisati, i miei marinai persero l'orientamento e non si fecero piú vedere per quattro ore; dopodiché li guidai un paio di isolati piú in là al Jake's Famous Crawfish, un ristorante centenario specializzato in cucina marinara, con un ménu eccellente e un bancone che è una delle vedute storiche della città. Prendemmo posto accanto a una finestra da cui fortunatamente non si vedeva acqua, ma io mi trasferii ben presto alla stanga d'ottone per stare vicino a quel promontorio di storia cosí attraente alla fine di un viaggio. Vicino a me c'era una coppia, lui leggeva «The New Yorker» e lei una copia consunta di Fear of Flying. I lettori a Portland sono come i musicisti a New Orleans: ovunque. La donna era bella, ma gravata da un dolore muto che sembrava escludere ogni speranza, un'espressione dipinta da Modigliani. Si voltò verso di me e senza convenevoli o preamboli cominciò a raccontarmi la sua vita senza reticenze, come se dentro ci fossi stato anch'io, tranne forse per un paio di giorni. Ero un po' a disagio e alla fine dissi: - Il suo amico, qui, potrebbe sentire la mancanza delle sue attenzioni -. Lui, che non aveva piú girato pagina da quando lei aveva iniziato a parlare, era piegato come una torre di Pisa verso la conversazione, un'inclinazione che rischiava di farlo finire sul pavimento. Cosí disse con enfasi: - Non siamo insieme -. Lei: - Ehi, voi due, non mi parlate dietro le spalle, sono troppo puttana per questo -. Le parole della donna, per quanto prive di humor e assolutamente autocentrate, non mancarono di coinvolgermi, come ogni volta che qualcuno si apre con onestà. Lei suggerí di andare in un posto piú tranquillo, e io indicai la ciurma e le dissi della lunga traversata. - Cento giorni? - commentò. - Credo che capiranno -. Devo ammettere che all'improvviso sentii tutto il peso delle privazioni del viaggio fluviale, come mai prima, e presi in considerazione l'invito. Dopotutto, nessuno dei miei allegri compagni, neppure Pilotis, si era fatto ottomila chilometri di fila; tutti si erano concessi un po' di tregua, si erano allontanati dal fiume, avevano visto la famiglia, baciato la loro sposa. Forse avrebbero capito davvero.

Mi voltai verso la donna per dirle qualcosa, non ricordo cosa, e lei mi mise le braccia attorno al collo, si avvicinò e mi diede un bacio schioccante, a bocca aperta. Dovetti lottare per divincolare la mia faccia stupita. Lei si ritrasse, mi guardò furiosa e disse abbastanza forte perché tutti sentissero: - Sei un robot! Un robot! - E in quel momento mi sentivo davvero un automa incapace di spiccicare verbo, tutti i miei macchinari lavoravano a pieno regime per convogliare ogni oncia di carburante interno in un rossore che neppure cento giorni di vento e sole potevano dissimulare. Poi le cose peggiorarono: - Devi essere curato! - Ora avevamo l'attenzione dei padroni. Era il momento di decidere in fretta se recitare la commedia fino in fondo e consapevolmente oppure ritirarsi al coperto; ovviamente non feci né l'una né l'altra cosa. - Hai bisogno di una cura! - Sussurrai: - Potremmo evitare la parola «cura»? - La ciurma, convinta che avessi provocato io la reazione della donna, osservava la scena impassibile. Prima che ricominciasse a inveire, le ordinai un drink, le chiesi scusa e rientrai goffamente al tavolo. - Mi raccomando, niente salvagente per un amico che affoga, eh? - dissi all'equipaggio.

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