Copertina
Autore William Least Heat-Moon
Titolo Prateria
SottotitoloUna mappa in profondità
EdizioneEinaudi, Torino, 1994 , Isbn 978-88-06-12923-1
OriginalePrairy Erth (a deep map) [1991]
TraduttoreIgor Legati
LettoreRenato di Stefano, 1995
Classe narrativa statunitense
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Indice


        Intersezioni

  5 Dal libro dei luoghi comuni:
    intersezioni
 13 Sulla Roniger Hill

    I.
    Saffordville
 25 Dal libro dei luoghi comuni:
    Saffordville
 32 Nel quadrilatero: Saffordville
 37 Sulla prima terrazza
 47 Sotto la gonna della vecchia Nell
 54 Lungo la strada fantasma
 57 In città: Cottonwood Falls

    II.
    Gladstone
 69 Dal libro dei luoghi comuni: Gladstone
 76 Nel quadrilatero: Gladstone
 82 In sella
 88 Il bisonte rosso
 93 Sul Poggio
 98 In paese: il Palazzo di Giustizia

    III.
    Thrall-Northwest
107 Dal libro dei luoghi comuni:
    Thrall-Northwest
114 Nel quadrilatero: Thrall-Northwest
121 Ricaricare il sistema
129 Giú nella conca
134 Digressione sulla parola Kansas
140 In paese: l'Emma Chase Café

    IV.
    Fox Creek
151 Dal libro dei luoghi comuni: Fox Creek
16o Nel quadrilatero: Fox Creek
166 Inseguendo la milleseicentosessanta-
    seiesima preda
176 Sopra il basamento cristallino
182 All'esterno del Z Bar
188 In paese: l'inventario di Gabriel

    V.
    Bazaar
197 Dal libro dei luoghi comuni: Bazaar
202 Nel quadrilatero: Bazaar
209 In estasi
217 Trentasei reperti
226 Nelle sue pagine
231 In paese: una sera al Darla's

    VI.
    Matfield Green
241 Dal libro dei luoghi comuni:
    Matfield Green
248 Nel quadrilatero: Matfield Green
257 En las casitas
265 Ex radice
273 La via piú breve per la Cina
283 In paese: contro Harry B. (I)

    VII.
    Hymer
289 Dal libro dei luoghi comuni: Hymer
294 Nel quadrilatero: Hymer
301 Sotto il terreno di copertura
309 Il seme del reticolo topografico
320 Verso la mezza
328 In paese: contro Harry B. (Il)

    VIII.
    Elmdale
337 Dal libro dei luoghi comuni: Elmdale
343 Nel quadrilatero: Elmdale
353 Nelle stradine sterrate a fondo cieco
362 Scatola di montaggio: il capitolo sul
    pioppo
370 Sulla cresta della Osage Hill
384 In paese: contro Harry B. (III)

    IX.
    Homestead
391 Dal libro dei luoghi comuni: Homestead
401 Nel quadrilatero: Homestead
410 Oltre i «denti del drago»
421 Tra i tamburini sospirosi
426 A proposito del Fokker 99E
442 In paese: vita e opinioni di Sam Wood
    con relativo commento (I)

    X.
    Elk
457 Dal libro dei luoghi comuni: Elk
463 Nel quadrilatero: Elk
473 Tra gli "Hic jacet"
483 Il totem del falco e il suo lessico
492 Al Diamante della Pianura
513 In paese: vita e opinioni di Sam Wood,
    con relativo commento (II)

    XI.
    Cedar Point
525 Dal libro dei luoghi comuni:
    Cedar Point
532 Nel quadrilatero: Cedar Point
542 Consultare sempre il Genio del luogo
556 A proposito del topo dei boschi
565 Secondo il «Leader»
58o In paese: vita e opinioni di Sam Wood
    con relativo commento (III)

    XII.
    Wonsevu
589 Dal libro dei luoghi comuni: Wonsevu
597 Nel quadrilatero: Wonsevu
613 Verso un abbecedario Kaw
636 In compagnia di Alba Imminente
646 Sotto l'erba
652 In attesa che il buco nero IASF emani
    luce

    Cerchi
659 Dal libro dei luoghi comuni: cerchi
664 Sulle tracce dei Kaw

681 Ringraziamenti

 

 

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Pagina 5

Dal libro dei luoghi comuni: intersezioni


Cosa portare: se dovete comprare una valigia, compratela non troppo grossa e robustissima. Collaudatela gettandola dal terzo piano: se la ricuperate incolume è adatta al Kansas, altrimenti no.
JAMES REDPATH e RICHARD HINTON,
Hand-Book to Kansas Territory (1859).



In qualunque stagione dell'anno il forestiero, se ascoltasse la voce dell'esperienza, non comincerebbe mai un pellegrinaggio [nel Kansas] senza un cappotto, un ventilatore, un parafulmine e un ombrello.

JOHN JAMES INGALLS,
In Praise of Blue Grass (1875).



Probabilmente era necessario che noi creassimo una terminologia americana perché molte delle nostre terre avite sono uniche nel loro genere e hanno una propria identità. Seguendo un criterio di abbreviazione scientifica le terre delle nostre praterie centrali vengono spesso chiamate semplicemente prairyerths (terre di prateria).

JOHN MADSON,
Where the Sky Began (1982).

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Pagina 13

Sulla Roniger Hill


Tramonto: mi trovo in cima alla Roniger Hill e cerco d'immaginarmi sopra una gigantesca mappa degli Stati Uniti. Se si tracciassero due linee fra gli angoli metropolitani dell'America, una da New York City in direzione sud-ovest fino a San Diego e l'altra da Miami in direzione nord-ovest fino a Seattle, la loro intersezione cadrebbe a poche miglia da questo crinale piatto, situato a 155 miglia a sud-est del centro geografico degli stati contigui, a 13o miglia dal punto geodetico (il punto di riferimento da cui prendono origine tutte le carte geografiche del Nord America) e a tre miglia dal centro esatto della Chase County (Contea Chase), Kansas. Se si prendesse una carta geografica di un metro di lato dei quarantotto stati e la si piegasse a metà sia in senso nord-sud che in senso est-ovest, le pieghe s'incontrerebbero a un pollice dal punto in cui sono: cosí è facile rendersi conto che la Roniger Hill è quasi al centro della nazione. Ma secondo me questo fatto è soltanto accidentale rispetto al motivo per il quale mi trovo qui. In realtà non so neanch'io perché sono qui, ma la ragione, qualunque essa sia, mi ha spinto a partire da casa e a sgropparmi cinque ore d'autostrada (che diventano otto percorrendo le strade secondarie, costellate di buoni café-food, che attraversano le colline del Missouri).

Per anni i forestieri hanno considerato questa prateria desolata, spoglia e monotona, una terra piú nuda di qualunque altra o quasi, ma io so che non sono qui per esplorare la vacuità nel cuore dell'America: io sono qui, nel bel mezzo delle Flint Hills del Kansas, in cerca di ciò che c'è, in cerca della terra e di ciò che la plasma, sono qui perché nutro sospetti e oscuri presentimenti di minacce che incombono su tutta l'America: e spero che le dimensioni ridotte di questa contea mi consentano di vederci più chiaro.

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Pagina 32

Nel quadrilatero: Saffordville


Nel 1952, in occasione della mia prima visita alla Chase County, avevo dodici anni e facevo il navigatore accanto a mio padre che guidava la nostra Pontiac Chieftain ornata dallo splendido marchio costituito da una testa indiana cromata svettante sul cofano. (Dietro quel naso aquilino abbiamo viaggiato per mezzo decennio girando quasi tutta l'America). In queste ultime settimane ho cercato nella memoria qualche ricordo di quel primo contatto con le praterie del West. Che cosa avevo visto a quel tempo, che cosa avevo provato? Ma poiché oggi, a parte il viaggio di ritorno, non ne conservo alcun ricordo, immagino che allora le praterie mi fossero parse soltanto interminabili miglia da percorrere. In fin dei conti questa è l'impressione che, oggi come sempre, gli Americani provano attraversando il Kansas.

Nel 1965, quando ho finito il servizio militare in Marina e ho attraversato la prateria un'altra volta per andare in California, quelle terre coperte di erba mi son sembrate diverse, vive e proteiformi. Oggi penso che i due anni passati a guardare l'Oceano Atlantico avessero cambiato il mio modo di guardare i paesaggi, soprattutto quelli pianeggianti e ondulati. E ho anche iniziato a considerare le praterie, poco distanti dalla città in cui sono nato, la mia terra natale, e ho cominciato ad amarle non perché attirano l'attenzione come i monti o la costa, ma perché la respingono sfidando la capacità di mantenerla sveglia. All'inizio trovavo duro essere «qui e ora» nelle praterie, ma amavo la chiarezza lineare di un posto che richiedeva da me un apporto, la capacità di aprirsi a esso attivamente: vedere lontano, vedere poco. Cosí ho imparato un segreto che consiste nel prendere a piccole dosi le distanze allucinanti della prateria e nel riempirsi gli occhi dei piccoli particolari che attirano l'attenzione. A parte l'orizzonte e il cielo, la prateria non concede nulla facilmente, nemmeno l'umidità. Bisogna osservare attentamente le variazioni, i colori, le piccolezze. Non si tratta d'imparare a pensare in maniera piatta - raramente le praterie sono piatte - bensí a pensare in maniera aperta e spoglia, a vedere senza l'aiuto di punti di riferimento, a fissare l'orizzonte per ritirare poi lo sguardo a mezzo campo dove sembra che non esista quasi nulla. Pian piano ho capito che, come il mare non è altro che acqua, le praterie non sono altro che erba, e che la vita della prateria è sostanzialmente al suo interno, sotto gli steli, le zolle e le pietre. La prateria non è un posto che mostra tutto, bensí un immenso nascondiglio esposto dove, come nei geodi che abbondano nella contea, la meraviglia è celata all'interno dell'apparente monotonia. Alla fine ho capito di non essere un uomo di mare, di costa o di montagna, bensí un tipo da prateria, e appena l'ho capito ho cominciato a cercarne in lungo e in largo i motivi.

Questo è uno: sto viaggiando a ovest di Emporia sulla strada 50 che qui segue il corso della valletta poco profonda e larga due miglia in cui il Cottonwood River scorre verso est, e sono entrato nella zona collinare attraverso un avvallamento boscoso che corre per un certo tratto fra le alture. A un certo punto la strada si alza dal fondovalle e rivela allo sguardo un'aperta distesa di erbe. Il cambiamento è improvviso, netto e sbalorditivo. Se proseguissi verso occidente, viaggerei in mezzo all'erba - prima alta, poi media, poi corta - finché, attraversata la prateria e la pianura ( i due termini non sono sinonimi), comincerei a inerpicarmi sui contrafforti delle Montagne Rocciose.

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Pagina 94

Ci sono molti modi sbagliati di camminare nella prateria, e uno di questi consiste nel tenere gli occhi puntati su una meta lontana: in tal caso, infatti, sembra che la distanza sia sempre la stessa, come nei miraggi. Poiché in questa regione il mio senso dello spazio e del tempo, formatosi nelle foreste, non funzionava, cominciai a chiedermi se ce l'avrei fatta ad arrivare lassú prima che scendesse la notte. Nella prateria le distanze sconfinate e gli spazi aperti trasformano il movimento in stasi e la vastità in un muro, in una cosa tanto difficile da penetrare quanto una fitta foresta. In quello spazio pieno di assenze il vicino e il lontano si uguagliavano, e ogni volta che facevo un passo sembrava che la terra ruotasse sotto di me in direzione contraria e che il piede tornasse a poggiarsi nel punto di partenza. I limiti e i punti di riferimento rendono possibile viaggiare, e noi siamo in grado di arrivare da qualche parte soltanto se circoscriviamo le nostre prospettive. Davanti a me giaceva il Kansas, cosí com'è comunemente concepito da Coronado in avanti, ossia un'infinita distesa da attraversare, il purgatorio del chilometraggio.

Tuttavia continuai a marciare, e ogni volta che scendevo in un avvallamento dove il poggio spariva alla vista tenevo d'occhio una roccia o una zolla d'erba per non perdere l'orientamento. Camminare nei boschi consente d'immaginare una serie di angolini confortanti che si susseguono uno dopo l'altro e di cui è possibile appropriarsi, ma le praterie e le grandi pianure escludono questo possesso. La prateria, di qualunque cosa sia fatta - erba, cielo, vento -, è sostanzialmente un paradigma dell'infinito, una distesa piena di tante cose ma non certo di limiti, e il suo fascino sta proprio in quest'apparente vastità sconfinata; non esiste una piccola prateria come non esiste un piccolo oceano, ed entrambi ti lanciano una sfida che si può esprimere cosí: - Prova a tirarti fuori di qui, piccolo viandante bipede e tronfio buffoncello!

All'uscita da un avvallamento vidi il Jacobs' Mound incombere all'orizzonte e sentii le sue balze sotto i piedi; allora cominciai a risalirne il ripido fianco finché non arrivai sulla cima. A vederlo dalla strada avrei detto che la sommità fosse grande come un isolato, e invece era grande come il diamante di un campo da baseball: il perimetro ellittico misurava un centinaio di passi. La sua imponenza non stava dunque nella grandezza, ma piuttosto nella forma, nella posizione dominante e nella capacità di stimolare l'immaginazione.

Mi sedetti a guardare. In un primo momento non vidi le migliaia di acri circostanti, ma vidi lo spazio e mi dissi: - Buon Dio, quanto spazio! - E mi venne in mente una frase che avevo sentito: - Qui sembra che l'aria non sia ancora mai stata usata -. Da un aeroplano e da una montagna si guarda giú, ma dal Jacobs' Mound si guarda fuori, dentro le cose. Non sei in cielo e non sei per terra: sei piacevolmente a metà, all'altezza di quelli che volano in sogno e sfiorano i tetti e le cime degli alberi. Il Jacobs' Mound è alto quanto il culmine della traiettoria di un sasso tirato in aria.

Allora compresi di amare quella contea immersa nella prateria perché dava l'illusione di essere distante, solitaria, e di amare il suo spopolamento che la rendeva isolata. Il settanta per cento degli Americani viveva sul due per cento del territorio nazionale, ma davanti a me non c'era nessuno di loro.

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Pagina 181

Prima che i figli d'Europa s'impadronissero di queste colline, gli indigeni credevano che le pietre fossero vive perché liberavano il fuoco, cambiavano forma e, se guardate abbastanza a lungo, si muovevano. Per loro le rocce erano un concentrato di potenza e di vita; in tutto il mondo, dove la gente non ha dimenticato la saggezza primitiva, toccare le sacre pietre favorisce la fertilità. Ma qui, quando un contadino concima i campi del fondovalle con polvere di roccia «inerte», la sua chimica non ha poesia né mito. Eppure meditare sulle pietre equivale a immaginare le origini e a rammentare l'antica ricerca della pietra filosofale, quintessenza di ogni materia.

La carta topografica mi dice che ho oltrepassato il pozzo: allora torno indietro e cerco di individuare il punto in cui me lo sono lasciato sfuggire. All'inizio la speranza scema, però poi percepisco qualcosa di anomalo che non si accorda all'ambiente: ed ecco la zona del pozzo. Felice, dopo qualche secondo individuo il chiusino di cemento; ma ora, tranne che nell'immaginazione, non tenterò nessun approccio alla catena dei Nemaha - i veri monti del Kansas -, nessuna osservazione del basamento cristallino che giace in fondo a questo tubo d'oscurità alto tre volte l'Empire State Building, nessun tentativo di fiutare il granito primordiale scaldato dal cuore della terra e coperto dai doni del mare. Ci sono posti in cui non si va e viaggi che non si possono fare. Però adesso ho in tasca una scheggia dei Nemaha che mi ricorda una vecchia moneta passata di mano chissà quante volte.

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Pagina 222

OH NUOVO SPLENDIDO MONDO. La grande bluestem si diffonde nella prateria per clonazione degli steli sotterranei laterali: infatti i suoi rizomi hanno la capacità di replicarsi per piú di un secolo; ma, pur con minore frequenza, si riproduce ancne per via sessuata attraverso i semi. In un campo di grande bluestem troviamo sia i cloni che le pianticelle neonate. Se l'uomo potesse fare cosí, direbbe uno Shakespeare, ciascuno potrebbe sedersi a bere una birra in compagnia del proprio esatto duplicato genetico chiamato bis-bis-eccetera-nipote.

MONOTONIA. A giudicare dai numerosi diari, i viaggiatori del XIX secolo, durante le prime miglia di prateria, restavano sbalorditi, sgomenti e confusi di fronte all'infinita distesa di erbe, pur prevista, che dilagava a ovest del 95° meridiano; ma il loro turbamento non si apriva quasi mai alla novità, e quindi il viaggio si trasformava in una processione di monotone miglia di erba, erba ed erba da qui al tedio.

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Pagina 248

Nel quadrilatero: Matfield Green


Ricordo solo due sogni notturni della mia infanzia, ma quarant'anni dopo li vedo ancora nitidi come in un'istantanea. Il primo è una fantasia aerea, il secondo un sogno di archeologia industriale, ed entrambi li ho sognati solo una volta. Nel primo volavo in aria in una cesta arancione priva di ali e di eliche e misteriosamente azionata da un piccolo orologio a molla senza lancette che, se caricato in continuazione, mi teneva in aria appena al di sopra dei tetti. Nell'altro sognavo di scoprire, accanto allo steccato del vicino di casa, un tratto di ferrovia abbandonata con tanto di traversine, binari e picchetti. Oggi sono convinto che il sogno in cui ho scoperto un pezzo di storia seppellito nel mio giardino è l'impulso che mi ha spinto a venire per la prima volta nella Chase County, ma qualche mese fa, mentre vagavo in campagna, avevo in mente solo una storia strana e bizzarra cui avevo sentito parlare, e precisamente la storia della presunta Ferrovia Orientale, costruita parzialmente e poi abbandonata, che attraversava la contea e che, dicevano, doveva essere ancora visibile dalle parti di Matfield Green persino negli orti delle case. Ho scritto «dicevano» perché, dopo aver perlustrato questa zona parecchie volte in cerca della ferrovia senza trovarla, avevo archiviato la diceria sotto la voce della fantasia popolare insieme al forte di pietra di Zebulon Pike e al portico macchiato in maniera indelebile dal sangue di un uomo assassinato.

Sulla Ferrovia Orientale avevo raccolto queste improbabilità: nel 1900 alcuni affaristi dei Missouri decisero di aprire una via di comunicazione con la Cina costruendo una ferrovia da Kansas City a qualche remoto villaggio messicano, affacciato sul Golfo della California, dal quale il commercio con l'Estremo Oriente potesse proseguire per via marittima. Mi sembrava che chiunque avesse creduto a una storia del genere avrebbe anche potuto credere a una ferrovia costruita, tanto per dire, da Boise nell'Idaho a Uxmal nello Yucatán per favorire il commercio dell'avorio africano. Tuttavia intorno a me continuavano a fiorire indizi su quella strada ferrata e io, incapace di trovarla nelle mie esplorazioni, avevo deciso di considerarla un rebus del mio gioco di quadrilateri, uno schema di parole crociate, pieno di caselle bianche e di lettere sparse qua e là, che andava riempito vincendo l'impulso di guardare la soluzione riportata nell'ultima pagina. Da allora ho evitato di chiedere ai residenti di farmi vedere i famosi binari - sempre che fossero in grado. La ricerca del fantastico - il Graal, la fonte della giovinezza, l'unicorno - è profondamente radicata nell'uomo, e spesso conduce a scoperte piú inattese dei fantasmi. Cosí la Ferrovia Orientale è diventata il mio fantasma. La ricerca dell'assurdo consente ai nostri sogni - e talvolta ai sogni degli altri - di guidare i nostri passi.

Tempo fa, tre miglia a nord del confine meridionale della contea, camminavo lungo la strada 177 che prima si chiamava Kansas 13 e che, con gran gioia dei vecchi residenti, io chiamo ancora cosí perché 177 è solo un numero e nulla piú, mentre 13 è un'antica formula magica, un geroglifico, un'immagine carica di storia, di superstizione, di scaramanzia e di negromanzia: «tredici» è una parola che ci turba mentre 177 è solo un numero di tre cifre che porta alla successiva contea. Orbene quel giorno, mentre camminavo pensando a queste cose e componendo nella mia testa queste righe, o almeno il loro seme iniziale, mi sono ricordato che qualche anno prima, in quello stesso tratto della vecchia strada 13, m'era nato un interesse particolare verso la Chase County. Infatti verso la metà degli anni settanta, viaggiando su quel piccolo meandro d'asfalto fiancheggiato da dirupi rocciosi e alberi del caffè, interamente privo di cartelli pubblicitari - cosa non insolita in questa contea - e simile alla strada che tutti gli americani sognano di percorrere per tornare a casa la sera, m'ero chiesto se era possibile attraversare tutta l'America su strade secondarie come quella. E tre anni dopo, nel tentativo di uscire dal profondissimo brago in cui m'ero esistenzialmente infognato, avevo intrapreso quel viaggio sperando che l'atto di percorrere nuove strade materiali cambiasse la cartografia immaginaria dei territori battuti dalla mia mente. Cosí avevo fatto tredicimila miglia visitando trentotto stati.

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Pagina 295

La malattia americana - sto citando qualcuno che non ricordo - è l'oblio. Una persona o un popolo che non sono in grado di ricordare il passato non possono andare molto al di là di una mera esistenza animale: è la memoria che dà consistenza alle cose.

Piú o meno nel periodo in cui ho cominciato a ficcare il naso nella Chase County mio padre ha avuto un ictus cerebrale. Mi stava dicendo con voce serena al telefono che sarebbe venuto a trovarmi nel giorno del Ringraziamento. Parecchio tempo dopo quel momento in cui aveva iniziato a farfugliare, mio padre non mi riconosceva ancora; per lui ero una persona qualunque e non suo figlio. Quello è stato il nostro periodo piú difficile. Un pomeriggio, sapendo che non parlava ancora bene, gli ho dato una matita e gli ho chiesto di scrivere chi era: impaurito dall'afasía e temendo di non farcela (con tutto ciò che avrebbe comportato), ha preso la matita e con gesti lenti e incerti ha scritto il proprio nome con lettere che, ben lontane dalla calligrafia precisa che da ragazzo cercavo di imitare, incespicavano l'una nell'altra e rotolavano giú. Allora gli ho chiesto di scrivere il mio nome e papà ha esitato, ma poi ce l'ha fatta. Quando infine gli ho chiesto di scrivere chi ero io per lui, è rimasto un po' confuso e ha assunto un'espressione stranita, simile a quella che aveva quando, al medico che gli toccava la gamba sinistra alternativamenre con la punta e con la gomma di una matita, chiedendogli se sentiva pungere, aveva balbettato di non saperlo dire. Poi ha cominciato a muovere la mano destra bloccando il foglio con la sinistra paralizzata e ha scritto qualcosa. Io ho preso il foglio trepidante e sono riuscito a decifrare le parole «mio figlio». Allora l'ho guardato e ho visto che la parte destra del viso sorrideva. Per il momento eravamo sfuggiti all'annientamento del nostro comune passato che era anche il nostro unico legame.

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Pagina 298

[...] c'era un oggetto che avevo comprato pochi giorni prima e che non avevo ancora mai utilizzato, vale a dire uno specchietto retrovisore laterale da automobile. Ultimamente, infatti, avevo letto che i viaggiatori del Settecento, per osservare il paesaggio rimpicciolito in una prospettiva inaccessibile alla vista diretta, usavano uno specchio chiamato specchio Claude. Il poeta inglese Thomas Gray, attraversando per la prima volta il lago Windermere, decise di vedere l'altra sponda solo nello specchio Claude e di conseguenza si bendò sul traghetto. Forse il mio specchio sarebbe riuscito a cambiare la prospettiva delle cose e a farmi vedere ciò che, oppresso com'ero dai ricordi, non sapevo vedere. Allora tirai fuori l'oggetto, rallentai il passo e, vedendo le colline riflesse rimpicciolirsi e assumere una forma diversa, provai una sensazione strana e confortante. Poiché nello specchio la prateria riassumeva l'aspetto delle prime volte, cominciai a riassaporare l'incanto di allora. Guardando all'indietro nello spazio mi sembrava di guardare all'indietro nel tempo: tuttavia vedevo un mondo in cui la sinistra era la destra, un paesaggio bidimensionale che potevo osservare ma non esplorare: la scena era tanto reale quanto impossibile, c'era e non c'era, e io ci entravo allontanandone. Se mi voltavo, la nuova visione spariva lasciandomi un'impressione contraria a quella del vecchio detto secondo cui l'universo scompare quando gli voltiamo le spalle e riappare quando torniamo a guardarlo. Se sporgevo lo specchio in avanti, io, o meglio la mia immagine inversa, entrava nel paesaggio riflesso, in un mondo irreale che esisteva solo nella mia mano e che, pur trovandosi dietro, potevo vedere soltanto guardando in avanti: camminavo in direzione nord e procedevo in direzione sud. Mentre avanzavo inciampando mi resi conto che, sin dal giorno in cui ero sceso dalla Roniger Hill e avevo cominciato a esplorare i quadrilateri, mi ero mosso nella stessa maniera. Perciò compresi che andare avanti o indietro non era essenziale: l'importante era avere un'ampia visuale e una profondità di campo in entrambi le direzioni. Infatti la godibilità del panorama dipende dall'ampiezza della visione.

Cosí, dopo aver già visitato metà dei quadrilateri, compresi che la spinta a esplorare la prateria - caratterizzata da immensi orizzonti circolari - mi era venuta dall'impressione vaga e indefinita di vivere chiuso in orizzonti ristretti; compresi che quel mondo, come una buona biblioteca, mi permetteva di estendermi, di dilatare il tempo, di rompere le costrizioni dell'egocentrismo, di superare il legame animale all'eterno presente per ascoltare le corde mistiche della memoria descritte da Lincoln. Ammesso che si riesca a superare le barriere dell'ignoranza e dell'oblio, viaggiare è un modo per entrare in certe cose e per uscire da certe altre.

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Pagina 371

Benché la vita sia continua e ininterrotta, io conosco la mia solo a frammenti discontinui, e la vita della gente che mi circonda mi è nota in maniera ancora più frammentaria, in briciole, frustoli e brandelli. Quando i parenti o gli amici mi raccontano una storia con qualche particolare sparso qua e là io dico: - Capisco -. E le biografie, la storia, la letteratura e tutte le arti sono, ancor piú dell'autobiografia, pezzetti sparsi che, accostati, danno l'illusione della completezza: ne consegue che noi conosciamo le cose solo a brandelli. Provate a mettere una forte lente d'ingrandimento sulla faccia, tanto per dire, di Dagwood Bumstead - il noto personaggio dei fumetti domenicali - e vi accorgerete che in realtà non c'è niente: il bianco della pagina predomina di gran lunga sui puntini d'inchiostro rosso. A causa dell'incapacità di vedere quel che abbiamo realmente davanti agli occhi, ciò che noi percepiamo come un fumetto è solo un'allucinazione.

Poco tempo fa mio cugino - un ingegnere meccanico che, lavorando a una tesi sulla fisica delle particelle presso la Kansas University, s'è beccato un esaurimento nervoso - m'ha detto: - Indagando sulla struttura della materia mi sono reso conto che più ci si addentra e meno sostanza si trova. Nella materia tutto è spazio, e nello spazio sono sospese minuscole particelle a una determinata distanza fra loro. La crisi mi è venuta al momento in cui ho dovuto abituarmi a vivere negli interstizi aggrappandomi alle particelle infinitesimali -. Mio cugino ha abbandonato la fisica, ha continuato a far l'ingegnere ed è diventato un assiduo lettore delle pubblicazioni di «Christian Science».

Qui non m'interessa tanto dimostrare che la visione umana è un'allucinazione quanto parlare della Osage Hill: ma per farlo devo ricorrere a qualcosa che equivale ai puntini d'inchiostro di cui è composta la faccia di Dagwood. Le mie parole saranno piccole macchie capaci di creare una specie di sogno nel quale voi attraverserete la collina. In realtà suppongo che l'argomento di questo capitolo sia il suo stesso metodo. Gli Indiani d'America, convinti che il passato sia per un popolo ciò che i sogni sono per l'individuo, pensano che le storie tramandate siano appigli per le successive generazioni, reti che impediscono alla gente di precipitare - come mio cugino - in caduta libera nel vuoto, e anche nodi della materia che sospingono la gente in un sogno nel quale l'ascoltatore, o il viaggiatore, immagina di vedere i nessi fra i vari frammenti: da questa allucinazione sorge tutto ciò che per noi ha valore (mi riferisco ai reperti, agli intrecci e alle intersezioni di quel grande reticolo che è il nostro passato).

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Pagina 463

Nel quadrilatero: Elk


Che molti pionieri siano giunti nel West americano guardando il tafanario di un paio di cavalli non è la considerazione di uno storico o di un cittadino qualunque. Come un tipo di Topeka mi fece notare una sera al caffè di Strong City, i turisti che fanno il giro delle Flint Hills su un pittoresco carro da pionieri passano una parte significativa del viaggio a pochi palmi dal deretano sudato dei cavalli che scorreggiano e defecano per strada. Con quel tipo attaccai discorso quando vidi che, armato di una penna rossa e di un righello tascabile, sottolineava una frase del «Kansas History», la rivista della società storica di questo stato. L'uomo in questione era un ingegnere civile piccolo e tozzo, un tipo gioviale dalle opinioni tutt'altro che nebulose. Costui, dopo aver bevuto un sorso di tè nel quale aveva appena strizzato alcune gocce da un contenitore di plastica a forma di limone, mi disse: - Mi venga un colpo se dopo aver mangiato tre limoni non riesco a pisciare un succo piú decente di questo -. Appassionato di acrostici e di storia del West, mi diede l'impressione d'aver letto tutto ciò che era stato scritto sulla Union Pacific Railroad. Io non ero insensibile agli argomenti che l'appassionavano e apprezzavo la passione con cui li affrontava - soprattutto l'astio verso i libri di testo e i professori.

Il tipo mi disse: - Per sei generazioni abbiamo dato ai nostri figli un'immagine del West americano che non è migliore di quella fornita dai romanzi d'appendice del 1880, un'immagine nazionalista, imperialista, romantica e distorta in maniera infernale. Gli Indiani sono spietati selvaggi incalliti o nobilissime vittime. I pionieri maschi sono duri e onesti, le femmine sono madonne della prateria. I treni sono pittoreschi giocattolini che emettono leziosi e adorabili fischi, tut-tut. E quella che è probabilmente la scena piú nota del West - due uomini armati che si affrontano in mezzo a una strada polverosa - se mai è avvenuta, non è documentata da nessuna testimonianza affidabile. Noi crediamo in un passato interamente immaginario e non siamo altro che idioti ben informati. La verità è che i coloni bianchi sono venuti qui non per nobili scopi ma per fini economici e utilitari. Incoraggiati da un governo rapace, imbecille e inumano, i pionieri hanno commesso un genocidio e hanno devastato l'ambiente. E l'eredità che ci hanno lasciato permane.

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