Copertina
Autore Joseph Sheridan Le Fanu
CoautoreSamuel Taylor Coleridge
Titolo Carmilla la Vampira - Christabel
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2011, Grande Fiabesca , pag. 240, ill., cop.fle., dim. 15x21x1,3 cm , Isbn 978-88-6222-265-5
OriginaleCarmilla [1871] - Christabel [1816]
CuratoreFabio Giovannini
TraduttoreFabio Giovannini
LettoreElisabetta Cavalli, 2012
Classe classici irlandesi , fantasy
PrimaPagina


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Indice


                        7
          Introduzione   FABIO GIOVANNINI


                       29
   Carmilla la Vampira   JOSEPH SHERIDAN LE FANU

                      141
            Christabel   SAMUEL TAYLOR COLERIDGE


                      188
Una breve nota biografica su Joseph Sheridan Le Fanu

                      189
            La carriera di Carmilla

                      206
           Il bibliofilo vampirizzato

                      209
                  Vampireide


 

 

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Pagina 7

Introduzione
FABIO GIOVANNINI



Sono quattro i testi seminali dell'immaginario vampirico: The Vampyre (1819) di John William Polidori, Varney the Vampyre (1847) di Thomas Preskett Prest e James Malcolm Rymer, Carmilla (1871-72) di Joseph Sheridan Le Fanu, Dracula (1897) di Bram Stoker. Pubblicati a distanza di circa un ventennio l'uno dall'altro, percorrono tutto l'Ottocento e 'fondano' l'immaginario vampirico che oggi conosciamo. Quello di Carmilla, però, è l'unico nome femminile del quartetto, un nome ancora oggi evocatore immediato di donna succhiasangue e non-morta.

Il personaggio di Carmilla nasce dalla penna dello scrittore irlandese Le Fanu nel 1871-72, in un racconto lungo, a puntate, sulla rivista "The Dark Blue". Era la prima volta che appariva una donna vampiro nella prosa di lingua inglese e il personaggio anticipò di oltre vent'anni il vampiro maschio più famoso, Dracula.

Ai suoi tempi, Le Fanu era considerato "l'Edgar Allan Poe irlandese" e le sue storie di fantasmi erano diventate il classico libro da tenere sul comodino per trarne qualche brivido dopo la mezzanotte. Più di recente, "The Sunday Times" lo ha definito "lo Stephen King della sua epoca". E il reverendo Montague Summers, tra i massimi esperti di vampirologia, riteneva Carmilla "la migliore delle storie inglesi di vampiri"?

Tuttavia la notorietà del racconto di Le Fanu crescerà solo nel corso del Novecento, in parallelo con la rinnovata attenzione per l'immaginario a tema vampiresco. Oggi il racconto è stato ormai tradotto in quasi tutte le lingue, in miriadi di edizioni. Ma rispetto al suo successore Dracula ha avuto minore attenzione critica e di studio. Con questo volume vorremmo ampliare le conoscenze sul ruolo di Carmilla nella costruzione dell'immaginario vampirico odierno e sulla sua influenza nei diversi media.


Da Geraldine a Carmilla

Una villa sul lago. È questo il luogo cardine dell'immaginario vampiresco, la culla di tutto il fantasticare degli ultimi due secoli sulla figura del vampiro. Villa Diodati, in Svizzera, dove nell'estate del 1816 si trovavano in vacanza Lord Byron, il suo medico e segretario John William Polidori, il poeta Percy Bysshe Shelley con la sua compagna Mary Wollstonecraft Godwin (futura signora Shelley) e la sorellastra di lei Claire Clairmont. Resta leggendaria la sfida tra quel gruppo di intellettuali: scrivere ognuno una storia di fantasmi.

È lì, a Villa Diodati, che bisogna tornare per scoprire le origini del vampiro. Lì si posero i semi per il primo testo letterario sul non-morto succhiasangue, perché dalle serate passate in quel luogo scaturì due anni dopo The Vampyre, il racconto di John William Polidori. E lì aleggiavano anche le premesse per la nascita della principale vampira della letteratura, Carmilla.

Molti critici, infatti, hanno individuato in Geraldine, malvagia protagonista del poema Christabel di Samuel Taylor Coleridge, il riferimento innegabile di Le Fanu per creare la sua femmina vampiresca. E Geraldine fece una sua apparizione proprio a Villa Diodati, sconvolgendo uno degli illustri presenti.

Scriveva Polidori nel suo diario, in data 18 giugno 1816: "Ho cominciato la mia storia di fantasmi dopo il tè. A mezzanotte si cominciò a parlare davvero di spettri. L. B. [Lord Byron] recitò alcuni versi da Christabel di Coleridge a proposito del petto della strega; quando calò il silenzio, Shelley all'improvviso si mise a urlare e, mettendosi le mani alla testa, corse via dalla stanza con una candela. Gli si gettò acqua in faccia e gli si diede dell'etere. Stava guardando Mrs. S [Mary Shelley] e all'improvviso aveva pensato a una donna, di cui aveva sentito, con occhi al posto dei capezzoli e che si era impadronita della sua mente, terrorizzandolo".

Quello letto da Byron nella serata ginevrina è un passaggio cruciale del poema di Coleridge, più volte rimaneggiato dall'autore. La prima parte di Christabel venne composta nel 1797, la seconda nel 1800, ma il poema era ancora incompiuto e fu rifiutato dalla seconda edizione delle celebri Lyrical Ballads, edita da William Wordsworth in una contrastata collaborazione con Coleridge. Le prime due parti di Christabel saranno pubblicate solo nel 1816 e il progetto di un seguito e di una conclusione non verrà mai portato a compimento dall'autore.

Il testo era sconvolgente nei temi lesbici e orridi, talvolta imperscrutabile nelle metafore, ma innovativo soprattutto nella forma, come dichiarava lo stesso Coleridge in una nota introduttiva. Non stupisce che la critica del tempo rimanesse sconvolta. William Hazlitt su "The Examiner" del 2 giugno 1816 stroncava il poema e citava una riga dal manoscritto originale di Coleridge, che aveva potuto consultare: "Hideous, deformed, and pale of hue" (Orribile, deforme e di pallida tinta). Era questo il "petto della strega" che terrorizzò Shelley, ma che scompare dalla versione definitiva del poema, lasciando il posto a una semplice allusione, dato che quel "petto" diventa indicibile, "da non dirsi". Più avanti, nel testo di Coleridge, il petto di Geraldine viene definito "old", cioè vecchio o antico, facendo intendere che fosse un seno avvizzito e ripugnante.

Secondo Camille Paglia, quei seni ritornavano floridi dopo la vampirizzazione di Christabel: "Dopo essersi saziata, vuoi bevendo sangue o vuoi succhiando in qualche altro modo l'energia vitale della sua vittima, i suoi seni ritrovavano la loro pienezza sessuale".

Collocato temporalmente in un Medioevo fantastico, Christabel svela innumerevoli similitudini con Carmilla: una ragazza orfana di madre che vive con il padre in un castello nella foresta, l'arrivo inatteso di una sconosciuta che altera l'equilibrio apparente della fanciulla, l'amicizia e l'affetto immediati tra le due ragazze, l'ospitalità offerta alla sconosciuta, la seduzione sulla giovane castellana (con allusioni al lesbismo), il malessere della ragazza sedotta, un uomo che conosce la verità (il bardo Bracy nel poema di Coleridge), la ricorrenza dei sogni.

Con Carmilla, dunque, Le Fanu opera una riscrittura del poema, e per alcuni studiosi si tratta esplicitamente di un "tentativo consapevole di rendere in prosa Christabel di Coleridge".


Come nacque Carmilla

Carmilla viene pubblicato per la prima volta, a puntate, su "The Dark Blue", rivista culturale fondata da John Christian Freund nel 1871. La rivista ebbe un ruolo notevole nella storia del movimento preraffaellita, ma era destinata a un rapido insuccesso commerciale: dopo appena due anni chiudeva i battenti, tra i debiti del suo editore. Su "The Dark Blue" apparivano firme importanti, da A.C. Swinburne a William Morris, da W.S. Gilbert a Dante Gabriel Rossetti.

Il racconto si accordava bene con un'estetica preraffaellita, per ambienti e descrizioni dei personaggi. Non a caso alcune odierne edizioni illustrate di Carmilla propongono immagini tratte da opere dei pittori preraffaelliti. Nel quadro Lady Lilith (1868) di Dante Gabriel Rossetti, ad esempio, la giovane che si pettina i pesanti capelli ramati ricorda indubbiamente Carmilla e anche Laura, voce narrante del racconto, potrebbe essere facilmente associata ai dipinti della scuola.

Poco dopo l'uscita su "The Dark Blue", Le Fanu inserì Carmilla nella sua collezione di racconti in tre volumi, In a Glass Darkly (criptico titolo desunto da una frase di san Paolo: "Per speculum in aenigmate"), con la semplice aggiunta di un prologo che collegava la storia al personaggio del dottor Hesselius, sorta di psicanalista pre-freudiano, filo conduttore tra i diversi racconti dell'antologia.

La misura di Carmilla, una sessantina di pagine, lo allontana sia dal racconto breve di fantasmi – tipico del periodo – sia dal romanzo vero e proprio, come sarà invece Dracula.

Fino a pochi anni prima, anche in tema di vampiri, era nelle abitudini dei lettori inglesi il lungo romanzo d'appendice a puntate, il cosiddetto penny dreadful di migliaia di pagine al costo di un penny, in cui accadevano le cose più straordinarie. Un genere che a poco a poco era declinato, proprio perché troppo farraginoso, troppo complesso e nello stesso tempo elementare negli sviluppi. Invece Carmilla riesce, in sessanta pagine, a condensare una storia capace di intrattenere e avvincere il lettore, lasciandogli motivo di riflessione e di emozione.

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Pagina 31

PROLOGO



Su un foglio allegato al racconto che segue, il dottor Hesselius ha scritto una nota piuttosto elaborata, alla quale ha aggiunto un riferimento al suo saggio sul singolare argomento illustrato dal manoscritto.

In quel saggio, affronta questo argomento misterioso con la competenza e l'acume a lui consueti, e con una notevole chiarezza e concisione. Il saggio costituirà un volume a sé nella collana delle opere complete di quell'uomo straordinario.

Dato che pubblico il caso, in questo volume, semplicemente per destare interesse nei 'profani', non anticiperò in nulla l'intelligente signora che lo riferisce; e dopo le dovute considerazioni, ho deciso, perciò, di astenermi dal presentare qualsiasi précis delle argomentazioni del competente dottore, né un estratto delle sue affermazioni su un soggetto che secondo la sua descrizione "coinvolge, probabilmente, alcuni dei più profondi arcani della nostra dualistica esistenza e dei suoi intermediari".

Ero ansioso, scoprendo questo scritto, di riavviare la corrispondenza iniziata dal dottor Hesselius, tanti anni prima, con una persona così intelligente e scrupolosa come sembra sia stata la sua informatrice. Con mio grande rammarico, però, ho scoperto che nel frattempo è morta.

Ella, probabilmente, avrebbe potuto aggiungere ben poco alla narrazione che riferisce nelle pagine seguenti, per quanto posso giudicare, con tanta precisione coscienziosa.

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Pagina 33

I
UNO SPAVENTO PRECOCE



In Stiria, pur non essendo persone facoltose, abitiamo in un castello, o schloss. Con una piccola rendita, in quella parte del mondo si ottengono grandi cose. Otto o novecento sterline all'anno fanno miracoli. In patria sarebbero bastate a stento per farci considerare benestanti. Mio padre è inglese e io porto un cognome inglese, per quanto non abbia mai visto l'Inghilterra. Ma qui, in questo posto solitario e primitivo dove tutto è meravigliosamente a buon mercato, io non riesco proprio a immaginare come una maggior disponibilità di denaro potrebbe aumentare i nostri agi o addirittura i nostri lussi.

Mio padre aveva servito gli austriaci, si era ritirato a vivere della sua pensione e del suo patrimonio, e aveva acquistato questa residenza feudale e la piccola tenuta in cui è situata: un affare.

Non ci può essere niente di più pittoresco o solitario. Si erge su una lieve altura in una foresta. La strada, molto antica e stretta, passa di fronte al ponte levatoio, che ai miei tempi non era mai alzato, e al fossato popolato di pesce persico, solcato da molti cigni e sulla cui superficie galleggiano bianche flotte di ninfee.

Su tutto questo lo schloss mostra la sua facciata dalle molte finestre, le sue torri e la sua cappella gotica.

La foresta si apre davanti al cancello su una radura irregolare e molto pittoresca, e a destra un ripido ponte gotico conduce la strada oltre un ruscello che scorre nel profondo dell'ombra attraverso il bosco.

Ho detto che questo è un posto molto solitario. Giudicate se dico la verità. Guardando dalla porta d'ingresso verso la strada, la foresta in cui si trova il nostro castello si estende per quindici miglia verso destra e dodici verso sinistra. Il più vicino villaggio abitato è a circa sette miglia inglesi sulla sinistra. Il più vicino schloss abitato di qualche importanza storica è quello del vecchio generale Spielsdorf, a circa venti miglia sulla destra.

Ho detto "il più vicino villaggio abitato" perché c'è, a sole tre miglia verso ovest, cioè in direzione dello schloss del generale Spielsdorf, un villaggio in rovina, con la sua caratteristica chiesetta, ora senza tetto, nella cui navata si trovano le tombe sgretolate dell'orgogliosa famiglia dei Karnstein, oggi estinta, un tempo proprietaria dello chateau altrettanto desolato che nel folto della foresta sovrasta le silenziose rovine della cittadina.

In merito ai motivi dell'abbandono di quel luogo impressionante e malinconico, c'è una leggenda che vi riferirò in un altro momento.

Ora devo dirvi quanto sia ridotto il numero di coloro che abitano nel nostro castello. Non includo la servitù o quei dipendenti che occupano le stanze degli edifici annessi allo schloss. Udite e stupite: mio padre, che è l'uomo più gentile della terra, ma sta diventando vecchio; e io, all'epoca della mia storia appena diciannovenne. Da allora sono passati otto anni. Io e mio padre costituivamo la famiglia dello schloss. Mia madre, una signora della Stiria, è morta quando ero bambina, ma io ho avuto una governante di buon carattere che è stata con me, potrei dire, quasi dalla mia infanzia. Non potrei ricordare un tempo in cui il suo volto grasso e benevolo non fosse un ritratto familiare nella mia memoria. Si trattava di Madame Perrodon, originaria di Berna, le cui cure e la cui bontà colmarono in parte la perdita di mia madre, che io quasi non ricordo tanto precocemente l'ho persa. Con lei eravamo in tre alle nostre cenette. La quarta era Mademoiselle De Lafontaine, una signora che voi definireste, credo, una "istitutrice di comportamento". Lei parlava il francese e il tedesco, Madame Perrodon il francese e un inglese stentato, a cui mio padre e io aggiungevamo l'inglese, che parlavamo ogni giorno, in parte per impedire che diventasse tra noi una lingua morta, in parte per ragioni patriottiche. Ne conseguiva una Babele, della quale gli estranei erano soliti ridere e che non tenterò di riprodurre in questo racconto.

C'erano inoltre due o tre giovani amiche, quasi della mia stessa età, che venivano occasionalmente a trovarci, per periodi più o meno lunghi, e io a volte ricambiavo quelle visite.

Questi erano i nostri consueti rapporti sociali; ma naturalmente c'erano delle visite casuali da parte di 'vicini' che venivano da appena cinque o sei leghe di distanza. La mia vita, comunque, era piuttosto solitaria, posso assicurarvelo.

Le mie governanti esercitavano su di me il controllo che potreste attendervi da persone così sagge su una ragazza piuttosto viziata, alla quale l'unico genitore permetteva di fare quel che voleva in qualsiasi cosa.

Il primo episodio della mia esistenza che produsse una terribile impressione sulla mia mente e che, in effetti, non ho mai superato, fu uno dei più precoci avvenimenti della mia vita che riesco a ricordare. Qualcuno lo riterrà tanto trascurabile da non dover essere qui riportato. Capirete a poco a poco, però, perché lo cito. La stanza dei bimbi, come era chiamata nonostante fosse tutta per me, era una grande camera all'ultimo piano del castello, con un soffitto spiovente di quercia. Non avrò avuto più di sei anni, quando una notte mi svegliai e, osservando la stanza dal mio letto, non riuscii a vedere la bambinaia. Non c'era nemmeno la mia balia e pensai di essere rimasta sola. Non avevo paura, perché ero tra quei bambini fortunati che sono tenuti accuratamente lontani da storie di fantasmi, fiabe e tutte quelle leggende che ci fanno nascondere la testa quando all'improvviso cigola una porta o il tremolare di una candela che si sta spegnendo fa danzare sul muro l'ombra di una colonna del letto, vicinissima ai nostri volti. Io ero irritata e offesa di trovarmi da sola, ritenendomi trascurata, e cominciai a piagnucolare preparandomi a un vigoroso attacco di strepiti; quando, con mia sorpresa, vidi un volto austero, ma molto grazioso, che mi guardava dal lato del letto. Apparteneva a una giovane signora, inginocchiata con le mani sotto il copriletto. La guardai con una specie di meraviglia compiaciuta e smisi di piagnucolare. Mi accarezzò con le mani, si coricò accanto a me nel letto e mi attirò a sé, sorridendo; mi sentii subito deliziosamente tranquilla e caddi di nuovo addormentata. Fui svegliata dalla sensazione di due aghi che in quel preciso momento si stessero piantando profondamente nel mio petto e urlai a squarciagola. La signora arretrò, con gli occhi fissi su di me, poi scivolò sul pavimento e, ritenni, si nascose sotto il letto.

Adesso per la prima volta avevo paura e strillai con tutte le mie forze. La balia, la bambinaia, la custode, accorsero tutte e, sentendo la mia storia, non vi dettero peso, calmandomi nel frattempo come potevano. Ma, per quanto bambina, mi accorgevo che le loro facce erano rese pallide da un'insolita espressione di angoscia, e le vidi guardare sotto il letto e in giro per la stanza, sbirciare sotto i tavoli e spalancare gli armadi; e la custode sussurrò alla balia: "Posa la mano su quell'incavo nel letto. Qualcuno vi si è sdraiato e di certo non sei stata tu: il punto è ancora caldo".

Ricordo che la bambinaia mi coccolò e tutte e tre mi esaminarono il torace, dove avevo detto loro che mi ero sentita pungere, e dichiararono che non c'era nessun segno visibile che mi fosse capitato qualcosa di simile.

La custode e altre due cameriere incaricate della stanza dei bimbi rimasero alzate tutta la notte; e da allora una cameriera restò sempre a vegliare nella stanza fino a quando ebbi quasi quattordici anni.

Dopo quell'episodio rimasi nervosa per lungo tempo. Venne chiamato un dottore, era pallido e anziano. Ricordo bene la sua lunga faccia saturnina, leggermente butterata dal vaiolo, e la sua parrucca castana. Per un po', ogni due giorni, venne a darmi delle medicine che ovviamente io odiavo.

La mattina dopo aver visto quell'apparizione ero in uno stato di terrore e non sopportavo di essere lasciata da sola nemmeno un momento, anche di giorno.

Ricordo l'arrivo di mio padre che si mise a fianco del letto e mi parlò con allegria, facendo alla balia innumerevoli domande e ridendo proprio di cuore a una delle risposte; mi batteva la mano sulla spalla e mi baciava, dicendomi di non aver paura, che era solo un sogno e non poteva farmi del male.

Ma io non mi sentivo confortata, perché sapevo che la visita della strana dorma non era un sogno: avevo una paura terribile.

Mi sentii un poco consolata quando la bambinaia mi assicurò che era stata lei a venire a controllarmi e che si era sdraiata accanto a me nel letto, e io dovevo essere mezza addormentata per non aver riconosciuto il suo viso. Ma tutto ciò, per quanto confermato dalla balia, non mi aveva soddisfatto completamente.

Mi ricordo, nel corso di quella giornata, un anziano venerando, con una tonaca nera, che venne nella stanza con la balia e la custode, parlando un po' con loro e molto gentilmente con me; il suo viso era dolcissimo e buono, mi disse che avrebbero cominciato a pregare, mi mise le mani giunte e mi chiese di dire, a voce bassa, mentre loro pregavano: "Signore ascolta tutte le buone preghiere per noi, nel nome di Gesù". Penso che fossero queste le parole esatte, perché spesso le ripetevo tra me, e la mia balia per anni me le fece dire nelle mie preghiere.

Mi ricordo benissimo il dolce volto pensoso di quel vecchio dai capelli bianchi, con la sua tonaca nera, in piedi in quella stanza cupa, severa, scura, tra il mobilio grossolano nello stile di trecento anni prima e la scarsa luce che entrava nell'atmosfera ombrosa attraverso la finestrella di vetro impiombato. Si inginocchiò, insieme alle tre donne, e pregò ad alta voce con un tono di vibrante fervore per quello che mi parve un tempo lunghissimo. Dimenticai tutta la mia vita precedente a quell'episodio, e mi è oscuro anche quanto avvenuto qualche tempo dopo, ma le scene che ho appena descritte si stagliano vivide come le immagini isolate di una lanterna magica attorniata dalle tenebre.

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Pagina 41

II
UN'OSPITE



Vi racconterò adesso qualcosa di così strano che occorrerà tutta la vostra fiducia nella mia sincerità per credere alla mia storia. Non solo è vera, comunque, ma è una verità della quale sono stata testimone oculare.

Era una dolce serata estiva e mio padre mi chiese, come a volte faceva, di accompagnarlo in una passeggiatina lungo quella bellissima foresta panoramica che come ho detto si estendeva di fronte allo schloss.

"Il generale Spielsdorf non può venire da noi presto quanto avevo sperato", disse mio padre, durante la nostra passeggiata.

Avrebbe dovuto farci visita per qualche settimana e lo stavamo aspettando per il giorno successivo. Avrebbe dovuto portare con sé una signorina, sua nipote e pupilla, Mademoiselle Rheinfeldt, che io non avevo mai visto, ma che mi era stata descritta come una ragazza davvero incantevole e mi ero ripromessa di passare molti giorni felici in sua compagnia. Ero più delusa di quanto possa immaginare una signorina che vive in città o in una zona affollata. Quella visita, e la nuova conoscenza che prometteva, aveva alimentato i miei sogni a occhi aperti per molte settimane.

"E quando verrà?", chiesi.

"Non fino all'autunno. Non entro due mesi, oserei dire", rispose. "E sono molto lieto ora, cara, che tu non abbia mai conosciuto Mademoiselle Rheinfeldt".

"E perché?", chiesi, mortificata e curiosa nello stesso tempo.

"Perché la povera signorina è morta", replicò. "Mi ero del tutto dimenticato di non avertelo detto, ma tu non eri nella stanza quando ho ricevuto una lettera del generale questo pomeriggio".

Ero molto colpita. Il generale Spielsdorf aveva detto nella sua prima lettera, sei o sette settimane prima, che la ragazza non stava bene quanto lui si sarebbe augurato, ma non c'era niente che suggerisse il più remoto sospetto di un pericolo.

"Ecco la lettera del generale", disse, porgendomela. "Temo che sia profondamente afflitto; la lettera mi sembra scritta sull'orlo della follia".

Ci sedemmo su una rozza panchina, sotto un gruppo di magnifici tigli. Il sole stava tramontando con tutto il suo malinconico splendore dietro l'orizzonte silvano e il ruscello che scorre accanto a casa nostra, e passa sotto il ripido vecchio ponte che ho menzionato, si snodava quasi ai nostri piedi attraverso molti gruppi di alberi sontuosi, riflettendo nella sua corrente il cielo sempre meno purpureo. La lettera del generale Spielsdorf era così insolita, così appassionata e in certi passaggi così contraddittoria che io la lessi due volte – la seconda volta ad alta voce a mio padre – ed ero ancora incapace di darne una spiegazione, a parte supporre che il dolore gli avesse sconvolto la mente.

Diceva: "Ho perso la mia adorata figlia, perché la amavo come se lo fosse. Durante gli ultimi giorni di malattia della cara Bertha non sono stato in grado di scrivervi. Prima di allora non avevo idea del pericolo che correva. L'ho perduta e adesso so tutto, troppo tardi. È morta nella pace dell'innocenza e nella gloriosa speranza di un futuro benedetto. Il demone che ha tradito la nostra stolta ospitalità è responsabile di tutto. Pensavo di aver accolto in casa mia una compagna innocente, gioiosa e affascinante per la mia scomparsa Bertha. Cielo! Che stupido sono stato! Ringrazio Dio che la mia bambina sia morta senza sospettare la causa delle sue sofferenze. Se ne è andata senza nemmeno immaginare la natura della sua malattia e la maledetta passione di chi ha provocato tutta questa desolazione. Io dedico i giorni che mi rimangono a rintracciare ed eliminare un mostro. Mi si dice che posso sperare di portare a compimento il mio proposito giusto e misericordioso. Attualmente c'è a malapena un filo di luce a guidarmi. Maledico la mia incredulità presuntuosa, la mia deplorevole ostentazione di superiorità, la mia cecità, la mia ostinazione... tutto... troppo tardi. Non posso scrivere né parlare con calma adesso. Sono sconvolto. Appena mi sarò un poco ripreso, intendo dedicarmi per qualche tempo a una ricerca che potrà condurmi probabilmente fino a Vienna. Intorno all'autunno, fra due mesi, o prima se sopravvivo, verrò a trovarvi... cioè, se me lo permettete; vi racconterò allora tutto ciò che adesso non oso nemmeno mettere sulla carta. Addio. Pregate per me, amico caro".

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Pagina 141

SAMUEL TAYLOR COLERIDGE
CHRISTABEL



PRIMA PARTE



È il mezzo della notte all'orologio del castello,
e i gufi hanno svegliato il gallo canterino.
Tu-ui! ... Tu-uuu!
Ed ecco, di nuovo!, il gallo canterino,
come canta sonnolento.

Sir Leoline, il ricco Barone,
ha una cagna senza denti;
dal suo canile sotto la roccia
lei risponde all'orologio,
quattro volte per i quarti, e dodici per l'ora;
sempre così, al sole ed alla pioggia,
sedici brevi ululati, non troppo alti;
secondo alcuni vede il sudario della mia signora.

È la notte gelida e scura?
La notte è gelida, ma non è scura.
Si spande in alto la nuvoletta grigia,
ricopre ma non nasconde il cielo.
La luna è dietro, è luna piena,
e però sembra piccola ed opaca.
La notte è fredda, la nuvola grigia:
è un mese prima del mese di maggio,
e la Primavera si incammina lenta.

L'incantevole dama, Christabel,
che suo padre ama così tanto,
cosa fa nel bosco così tardi,
distante dal cancello del castello?
Per tutta notte ieri lei ha sognato
il proprio fidanzato cavaliere
e a mezzanotte nel bosco vuol pregare
per il bene del suo amato che è lontano.

Camminava furtiva, senza dire niente,
emetteva tenui e soffici sospiri,
e nulla era verde sulla quercia
eccetto il muschio e l'infrequente vischio:
lei si inginocchia sotto l'immensa quercia,
e lei in silenzio prega.

La dama all'improvviso si alzò in piedi,
l'incantevole dama, Christabel!
C'è un lamento vicino, proprio accanto,
ma cosa sia, lei non lo sa dire...
Dall'altro lato sembra provenire
dell'ampio, immenso tronco della vecchia quercia.

La notte è fredda; deserta è la foresta;
è il vento che si lamenta tetro?
Non basterebbe il vento lì nell'aria
a smuovere le chiome inanellate
sulla guancia della bella dama...
Non basterebbe il vento a sollevare
l'unica foglia rossa, l'ultima del suo gruppo,
che danza tanto quanto può danzare,
appesa leggera, appesa là in alto,
sull'ultimo ramo che guarda nel cielo.

Silenzio, cuore di Christabel che batti!
Gesú, Maria, fatele scudo!
Riunì le braccia sotto il suo mantello,
e all'altro lato della quercia andò furtiva.
Cos'è che vede lì?

Lì vede una splendente damigella,
vestita in bianca tunica di seta,
che umbratile brillava al chiaro della luna:
il collo che dava pallore alla tunica bianca,
il maestoso collo era nudo, come nude le braccia;
erano scalzi i piedi venati d'azzurro;
e scintillavano qui e là vivacemente
le gemme aggrovigliate ai suoi capelli.
Credo fosse impressionante da vedere
una tal dama in vesti assai sfarzose...
Bella fino all'eccesso!

"Maria, madre, salvami adesso!",
Christabel disse. "E tu chi sei?"

La strana dama diede la risposta,
con una voce sia debole sia dolce:
"Abbi pietà della mia triste angoscia,
quasi non parlo per la debolezza:
stendi la mano, e non aver paura!"
Christabel disse: "Come sei arrivata?"
E la dama, con voce sia debole sia dolce,
fece così seguire la risposta:

"Il mio sire è di nobile lignaggio,
e il mio nome è Geraldine:
cinque armigeri mi han preso iermattina,
me, proprio me, fanciulla sfortunata.
Con forza e terrore mi spensero le urla,
e mi legarono a un destriero bianco.
Il destriero era veloce come il vento,
e loro dietro galoppavano furiosi.
Spronavano con forza, gli stalloni erano bianchi,
e attraversammo svelti l'ombra della notte.
Com'è vero che mi salverà il Cielo,
chi siano quegli uomini non so assolutamente.
Nemmeno so quanto tempo sia passato
(giacché ero svenuta, penso)
prima che uno, il più alto dei cinque,
mi prendesse dalla groppa del destriero,
una donna sfinita, appena viva.
Mormorarono poche parole i suoi compagni:
egli mi mise sotto questa quercia;
giurò che presto sarebbero tornati;
dove siano andati io non so dire...
Penso che udii, dopo qualche minuto,
il suono della campana di un castello.
Stendi la mano", (così ella concluse),
"e aiuta un'infelice nella fuga".

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