Copertina
Autore Ursula K. Le Guin
Titolo I reietti dell'altro pianeta
EdizioneNord, Milano, 1990, Cosmo 111 , pag. 334, dim. 125x193x25 mm
OriginaleDispossesed. An Ambiguous utopia [1974]
TraduttoreRiccardo Valla
LettoreRenato di Stefano, 1990
Classe fantascienza
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Pagina 1

C'era un muro. Non pareva importante. Era fatto di ciottoli uniti senza pretese, con un po' di malta. Gli adulti potevano guardare senza sforzo al di là del muro, e anche i bambini non avevano difficoltà di scavalcarlo. Dove incontrava la strada, invece di avere un cancello degenerava in una pura geometria, una linea, un'idea di confine. Ma l'idea era reale. E importante. Da sette generazioni non c'era nulla di piú importante, al mondo, di quel muro.

Come ogni altro muro, anch'esso era ambiguo, bifronte. Quel che stava al suo interno e quel che stava al suo esterno dipendevano dal lato da cui lo si osservava.

Osservato da un lato, il muro recingeva un campo spoglio, di una sessantina di acri, chiamato Porto di Anarres. Il campo comprendeva un paio di grosse gru, una piazzola di atterraggio per i razzi, tre magazzeni, una rimessa per gli autocarri e un dormitorio. Il dormitorio aveva un aspetto duraturo, severo, melanconico. Non si vedevano giardini, né bambini: era chiaro che non vi abitava nessuno, che chi arrivava non si fermava a lungo. In effetti si trattava di una zona di quarantena. Il muro chiudeva al suo interno non soltanto il campo di atterraggio, ma anche le navi che scendevano dallo spazio, gli uomini che giungevano con le navi, i mondi da cui provenivano e, complessivamente, il resto dell'universo. Chiudeva nel suo interno l'universo e lasciava fuori Anarres, libera.

Osservato dall'altro lato, il muro chiudeva Anarres. Al suo interno c'era tutto il pianeta: un grande campo di prigionia, isolato dagli altri mondi e dagli altri uomini, in quarantena.

Varie persone percorrevano la strada, dirette al campo d'atterraggio; altre erano ferme accanto al punto dove la strada tagliava il muro.

La gente veniva spesso al Porto dalla vicina città di Abbenay, nella speranza di vedere una nave spaziale, o semplicemente, per guardare il muro. Dopotutto, era l'unico muro di cinta esistente su quel mondo. In nessun altro posto si poteva vedere un cartello che dicesse: «Non entrare». Gli adolescenti, in particolare, ne erano attratti. Si portavano fino al muro e si mettevano a sedere in cima. A volte lo spettacolo consisteva in una squadra di lavoro, occupata a portare nei magazzeni le casse venute coi camion. A volte c'era addirittura un'astronave mercantile, ferma nella piazzola. I mercantili scendevano otto volte l'anno, e il loro arrivo era noto unicamente agli addetti interni del Porto; cosí, per gli spettatori che avevano la buona fortuna di vederne uno, erano oggetto di molta emozione, all'inizio. Ma essi rimanevano sul muretto, a sedere, e la nave rimaneva nella piazzola, accovacciata: una torre nera e tozza, tra incastellature mobili, lontano, in fondo al campo. E dopo un po' una donna lasciava la squadra di lavoro e si avvicinava dicendo: - Per oggi si chiude, fratelli. - La donna portava il bracciale della Difesa: una vista quasi altrettanto rara quanto una nave spaziale. L'arrivo della donna era molto emozionante. Ma anche se il tono era blando, non ammetteva repliche. La donna era a capo della squadra, e in caso di provocazione si sarebbe fatta aiutare dai suoi addetti. E comunque non c'era nulla da vedere. Gli stranieri, gli uomini di un altro mondo, rimanevano nascosti nella nave. Niente spettacolo.

E lo spettacolo era noioso anche per gli addetti della Difesa. A volte la caposquadra si augurava che qualcuno cercasse di superare il muro: un membro dell'equipaggio straniero nell'atto di abbandonare la nave, o un ragazzo di Abbenay sgattaiolato a dare un'occhiata da vicino al mercantile. Ma queste cose non succedevano mai. Non succedeva mai nulla. E quando invece successe qualcosa, la caposquadra non era preparata ad affrontarlo.

Il capitano della nave mercantile Pensiero le disse: - Che vuole, quella gente? Ce l'hanno con la mia nave?

La caposquadra osservò a sua volta, e scorse una vera folla accanto al passaggio: cento persone, forse piú. Rimanevano laggiú ferme, senza sedersi e senza camminare, come la gente che rimaneva immobile davanti alle stazioni, durante la Carestia, ad attendere che passassero i convogli del cibo. La vista le fece venire i brividi.

- No. Quella gente, ah, protesta - disse nel suo iotico lento e stentato. - Protesta contro il, ah, lei lo sa. Passeggero?

- Ah, ce l'hanno col bastardo che dobbiamo prendere a bordo? E chi vogliono fermare? Lui... o noi?

La parola «bastardo», intraducibile nella lingua della caposquadra, non aveva significato per lei, salvo quello di un termine vago straniero per indicare i suoi compatrioti, ma il suono della parola non le era mai piaciuto, e neppure il tono del capitano, né, in fin dei conti, il capitano. - Potete provvedere a voi stessi? - gli chiese, tagliando corto.

- Al diavolo, certo. Lei cerchi solo di scaricare la merce alla svelta. E di accompagnare a bordo il bastardo passeggero. Non c'è banda di Odoniani che possa far paura a noi. - Toccando la cosa che portava alla cintura, un oggetto di metallo, simile a un pene deforme, fissò con superiorità la donna disarmata.

La donna rivolse all'oggetto fallico (che, come sapeva, era un'arma) un'occhiata gelida. - Il carico sarà completato per le ore quattordici - disse. - Tenete a bordo l'equipaggio al sicuro. Partenza alle quattordici e quaranta. Se vi occorrerà aiuto, registrerete un messaggio presso il Centro di Controllo. - E si affrettò ad allontanarsi, prima che il comandante potesse trovare altre occasioni per ostentare superiorità. L'ira la indusse a rivolgersi con veemenza ai suoi subordinati e alla folla. - Laggiú, lasciate libero il passaggio! - ordinò, quando fu vicino al muro. - Passano gli autocarri, si rischiano ferimenti. Toglietevi di mezzo!

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