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| << | < | > | >> |IndiceRitorno dall'universo 1 9 [...] 8 339 Il doloroso imbroglio dopo i viaggi spaziali di Francesco M. Cataluccio 369 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Non avevo nulla addosso, neanche il cappotto. Non era necessario, dissero. Mi permisero di tenere il golf nero: poteva servire. Per la camicia invece dovetti insistere. Dissi che mi sarei disabituato un po' per volta. Mentre passavamo sotto il ventre dell'aeronave, dove ci avevano spinto, Abs mi porse la mano con un sorriso d'intesa. «Attenzione, però...». Ricordavo anche quello. Non gli strinsi le dita. Ero tranquillissimo. Abs voleva aggiungere qualcosa; gli evitai la fatica avviandomi su per la scaletta, verso l'interno dell'aeronave, come se non mi fossi accorto di lui. La hostess mi guidò tra le file delle poltrone fino ai primi posti. Non volevo lo scompartimento riservato. Mi chiesi se non l'avessero avvertita. La poltrona si allungò senza far rumore. La hostess sistemò lo schienale, mi sorrise e se ne andò. Sedetti. Cuscini esageratamente soffici, come dappertutto. Schienali così alti che a stento riuscivo a vedere gli altri passeggeri. Accettavo ormai senza difficoltà i colori vivaci degli abiti femminili, ma avevo l'assurdo e continuo sospetto che gli uomini avessero organizzato una mascherata, e speravo da un momento all'altro di vederne uno vestito normalmente: era soltanto un debole riflesso istintivo. Tutti presero posto in fretta, nessuno aveva bagagli. Nemmeno una borsa o un pacchetto, neppure le donne. Mi sembravano più numerose degli uomini. Davanti a me sedevano due mulatte vestite di penne di pappagallo, vaporose anch'esse come autentiche piume di uccello: evidentemente era la moda. Più avanti sedevano un marito e una moglie, con un bambino. Attraverso i vividi selenofori della banchina e dei tunnel, attraverso la chiassosa vegetazione fosforescente delle strade, la luce del soffitto concavo pareva una sola vampa ardente. Posai le mani sulle ginocchia, impacciato. Ormai erano tutti seduti. Otto file di poltrone grigie, profumo di abeti, il silenzio di conversazioni che si spengono. Mi aspettavo che annunciassero il decollo, che dessero dei segnali, che invitassero ad allacciarsi le cinture, invece niente. Sul soffitto opaco cominciarono a scorrere ombre indistinte, quasi sagome in controluce di uccelli ritagliati dalla carta. Che diavolo vorranno dire questi uccelli, pensai sconcertato. Significheranno qualcosa? Ero come paralizzato dal continuo riflettere, nel timore di fare gesti sconsiderati. Durava ormai da quattro giorni. Così, fin dal primo istante. Mi sfuggiva continuamente il senso di tutto quanto accadeva, mentre il tentativo ostinato di capire un discorso qualsiasi, una qualsiasi situazione, trasformava la tensione in un sentimento terribilmente simile allo sconforto. Anche gli altri dovevano provare le mie stesse sensazioni, ma non ne parlavano mai, neppure quando eravamo soli. Scherzavamo soltanto sulla nostra robustezza, quell'eccesso di forza fisica che ci era rimasto. E del resto bisognava imparare a frenarlo. All'inizio, quando volevo alzarmi in piedi, balzavo fino al soffitto, e tutto quello che prendevo in mano mi sembrava vuoto, come di carta. Ero però riuscito ben presto a controllare il mio corpo. Quando salutavo qualcuno, ormai non gli stringevo più la mano. Era molto facile, ma purtroppo era la cosa meno importante. | << | < | > | >> |Pagina 48«Centoventisette anni fa. Ne avevo trenta, allora. La spedizione... ero pilota della spedizione su Fomalhaut. Sono ventitré anni-luce. Abbiamo volato, tra l'andata e il ritorno, centoventisette anni del tempo terrestre e dieci anni del tempo di bordo. Siamo rientrati quattro giorni fa... Il Prometeo, la mia astronave, è rimasta sulla Luna. Sono arrivato di là oggi. È tutto».Mi guardò senza dir nulla. Le sue labbra si mossero, si aprirono, si richiusero. Cosa c'era nei suoi occhi? Meraviglia? Ammirazione? Paura? «Perché non dici nulla?», chiesi. Dovetti schiarirmi la voce. «Ma allora... quanti anni hai?». Fui costretto a sorridere; non era un sorriso molto convinto. «Che vuol dire, quanti anni ho? Biologicamente, quaranta, ma secondo gli orologi terrestri centocinquantasette...». Lungo silenzio, seguito da un'improvvisa domanda: «C'erano anche delle donne?». «Aspetta», dissi. «Hai qualcosa da bere?». «Come sarebbe a dire?». «Qualcosa che intossichi, mi capisci? Qualcosa di forte. Alcool... ma forse non lo si beve più?». «Molto di rado...», rispose a mezza voce, come se stesse pensando a qualcos'altro. Le sue mani ricaddero lentamente, andando a toccare l'azzurro metallico del vestito. «Ti posso dare... dell'angehen, lo vuoi? Ma sicuramente non sai che cos'è». «No, non lo so», risposi con una durezza che lei non si aspettava. Andò al bar e ne tornò con una piccola bottiglia panciuta. Mi versò il liquore. Non era molto alcolico, aveva uno strano sapore aspro. «Permetti?», dissi dopo aver bevuto, e mi riempii di nuovo il bicchiere. «Serviti pure. Ma non mi hai risposto, forse non ne hai voglia?». «Perché no? Posso benissimo rispondere. Eravamo in tutto ventitré, su due astronavi. La seconda era l' Ulisse. C'erano cinque piloti per ciascuna; il resto erano scienziati. Donne non ce n'erano». «Perché?». «A causa dei bambini», spiegai. «Non si possono tenere i bambini su quelle astronavi, e anche se si potesse, nessuno lo vorrebbe. Al di sotto dei trent'anni non si può volare. Bisogna aver finito due facoltà, più quattro anni di allenamento, dodici anni complessivi. In una parola... le donne di trent'anni in genere hanno bambini. C'erano poi anche... altri motivi». «E tu?», chiese. «Io ero solo. Scelsero quelli che erano soli. Cioè i volontari». «E tu lo volevi?...». «Certo che lo volevo». «E non...». Si interruppe. Sapevo quel che voleva dire. Tacqui. «Dev'essere straordinario... tornar così... », disse in un soffio. Ebbe un fremito. Ad un tratto mi guardò. Le sue gote si fecero più colorite, arrossì. | << | < | > | >> |Pagina 96Quel pensiero era assurdo, tuttavia mi preoccupò. Mi collegai con l'infor dell'albergo, per chiedere l'indirizzo di un medico, di uno specialista in medicina cosmica.All'Adapt, finché potevo farne a meno, preferivo non andarci. Dopo un attimo di silenzio, proprio come se l'automa non fosse sicuro, potei udire l'indirizzo. Il medico abitava nella stessa strada, qualche isolato più avanti. Mi recai da lui. Un robot mi introdusse in una grande stanza semibuia. Oltre a me, non c'era nessuno. Dopo un po', entrò il medico. Sembrava uscito da una fotografia di famiglia del gabinetto di mio padre. Era piccolo, ma non minuto, aveva i capelli bianchi e una barbetta anch'essa bianca, gli occhiali d'oro, le prime lenti che avessi visto su un volto umano dal momento in cui ero atterrato. Si chiamava dottor Juffon. «Hai Bregg?», disse. «È lei?». «Sono io». Tacque, osservandomi per un po'. «Che cosa le duole?». «In sostanza niente, dottore, solo...», e gli riferii le mie strane osservazioni. Senza dir nulla, aprì una porta. Fui introdotto in un piccolo gabinetto. «Si spogli, per favore». «Del tutto?», chiesi, quando fui in pantaloni. «Sì». Mi osservò accuratamente. «Uomini come lei non ne esistono più», disse come parlando a se stesso. Ascoltò il cuore, appoggiandomi sul petto il freddo stetoscopio. Anche tra mille anni sarà sempre così, pensai, e quell'idea mi procurò un piacere sottile. Misurò la mia statura e quindi mi ordinò di sdraiarmi. Osservò attentamente una cicatrice sotto la clavicola destra, ma non disse nulla. Mi studiò per quasi un'ora. Riflessi, capacità dei polmoni, elettrocardiogramma, tutto. Quando mi fui rivestito, si sedette dietro una piccola scrivania nera. Ogni volta che apriva il cassetto per cercare qualcosa, sentivo uno scricchiolio. Dopo tutti quei mobili che in presenza dell'uomo si muovevano come guidati, quella vecchia scrivania mi piacque molto. «Quanti anni ha?». Spiegai la mia situazione. «Lei ha l'organismo di un uomo appena oltre la trentina», disse. «È stato ibernato?». «Sì». «A lungo?». «Un anno». «Perché?». «Stavamo tornando a ritmo forzato. Era necessario entrare nell'acqua. L'ammortizzazione, dottore, lei lo sa; siccome è difficile restare un anno nell'acqua, vigilando...». «È naturale. Pensavo che avesse ibernato più a lungo. Può calcolare subito un anno di meno. Cioè lei non ha quarant'anni; ma trentanove». «E... il resto?». «Non conta nulla, Bregg. Quanto avevate?». «Di accelerazione? Due g». «Lei credeva di crescere, non è vero? No, lei non cresce. Sono semplicemente le vertebre. Lei capisce cosa voglio dire?». «Sì, le cartilagini della colonna vertebrale...». «Ecco, ora che è uscito da quella pressione, le vertebre si estendono. Quanto è alto lei?». «Quando partii di qui ero un metro e novantasette». «E dopo?». «Non lo so. Non mi sono misurato; c'era ben altro cui pensare, lei mi capisce». «Ora è alto due metri e due centimetri». «È una bella storia», dissi, «e durerà ancora molto?». «No, probabilmente si fermerà qui. Lei come si sente?». «Bene». «Le sembra tutto troppo leggero, non è vero?». «È una sensazione che sta scomparendo. All'Adapt, sulla Luna, mi diedero delle pillole per diminuire la tensione muscolare». «Vi hanno degravitato?». «Sì. Durante i primi tre giorni. Dicevano che era troppo poco dopo tanti anni, ma d'altra parte non volevano, dopo tutto quello che avevamo passato, tenerci chiusi ancora più a lungo...». «E qual è il suo stato d'animo?». «Non saprei...», risposi esitando, «certe volte ho l'impressione di essere un uomo di Neanderthal che abbiano portato in una città...». «Che cosa ha intenzione di fare?». Gli dissi della villa che avevo affittato. «Forse non è neanche una cattiva idea», disse, «ma...». «L'Adapt sarebbe migliore?...». «Non voglio dir questo. Lei... io mi ricordo di lei, lo sa?». «Ma come è possibile? Lei non poteva...». «No. Ma ho sentito parlare di lei da mio padre. Avevo dodici anni, allora». «Oh, dev'essere stato molti anni dopo la nostra partenza!», dissi. «Com'è possibile che si ricordassero ancora di noi? È strano». «Io non direi. Strano è piuttosto che ci si sia dimenticati. Ma lei sapeva come sarebbe stato il ritorno, anche se non era in grado di immaginarselo?». «Lo sapevo». «Chi l'ha inviata da me?». «Nessuno... cioè... l'infor dell'albergo. Perché?». «È curioso», disse. «Perché io non sono medico, lei lo sa?». «Ma come?...». «È da quarant'anni che non pratico. Mi interesso di storia della medicina cosmica, perché questa ormai è storia, Bregg, e fuori dell'Adapt non c'è più lavoro per gli specialisti». «Mi scusi, ma non sapevo...». «Ma cosa dice? Se mai sono io che dovrei esserle grato. Lei costituisce una prova vivente contro le tesi della scuola di Millman sull'influsso dannoso dell'aumento della pressione nell'organismo. Lei non rivela neppure l'aumento del ventricolo sinistro né ha tracce di enfisema... e ha un cuore magnifico. Ma tutto questo lo sa?». «Lo so». «Come medico, non ho in sostanza nient'altro da dirle, Bregg, ma a parte tutto...». Esitò. «Come?...». «Come trova il nostro... attuale sistema di vita?». «Confuso». «Lei ha i capelli bianchi, Bregg». «Ha forse una qualche importanza?». «Certamente. I capelli bianchi sono sintomo di vecchiaia. A nessuno oggi imbiancano i capelli prima degli ottant'anni, Bregg, e anche dopo capita di rado». Mi resi conto che era vero: si può dire che non avevo visto neanche un anziano. «Perché?», chiesi. «Esistono dei prodotti appositi, delle medicine che ritardano la canizie. Si può anche restituire il colore originario dei capelli, benché sia una cosa molto complessa». «Va bene...», soggiunsi, «ma perché lei mi dice questo?». Vidi che era esitante. «Le donne, Bregg», disse brevemente. Tremai. «Ma che significa, che ho l'aria di un... vecchio?». «Di un vecchio no, se mai di un atleta... ma lei non cammina mica nudo. Soprattutto quando è seduto, lei sembra.... cioè l'uomo della strada la crede un vecchio ringiovanito. Uno che ha fatto l'operazione di ringiovanimento, quella ormonale ecc.». «Pazienza», dissi. Non so perché mi sentissi tanto a disagio sotto il suo sguardo tranquillo. Si tolse gli occhiali e li posò sulla scrivania. Aveva gli occhi azzurri, leggermente lacrimosi. «Ci sono molte cose che lei non capisce, Bregg. Se fosse destinato a restare così fino alla fine dei suoi giorni, allora il suo "pazienza" non sarebbe fuori luogo, ma... la società nella quale lei è tornato non prova entusiasmo per ciò a cui lei ha donato più che la vita stessa». «Non dica così, dottore». «Dico così, perché penso così. Dare una vita non è ancora tutto. Gli uomini lo hanno fatto da secoli... ma lasciare tutti gli amici, i genitori, i parenti, i conoscenti, le donne... lei ha sacrificato tutto ciò, Bregg!». «Dottore...». Quella parola mi uscì a stento dalle labbra. Mi appoggiai con un gomito alla vecchia scrivania. «Se si esclude un gruppetto di specialisti, sono cose che non interessano più a nessuno, Bregg. Lei lo sa?». «Sì. Me lo avevano detto all'Adapt, sulla Luna... solo, si erano espressi meno... duramente». Restammo per un po' in silenzio. «La società in cui lei è tornato è stabilizzata. Vive tranquillamente. Capisce? Il romanticismo del primo periodo dell'astronautica non esiste più. Si potrebbe fare un'analogia con la storia di Colombo. La sua spedizione fu qualcosa di insolito, ma duecento anni dopo chi si interessava più dei capitani di quei velieri? Sul suo ritorno c'è stato un accenno di appena due righe nel reale». «Ma questo non vuol dir nulla, dottore», dissi. La sua compassione cominciava ad irritarmi più dell'indifferenza degli altri. Ma non potevo dirglielo. «Invece ha il suo significato, Bregg, benché non voglia ammetterlo. Se lei fosse un'altra persona, starei zitto, ma lei ha diritto a sapere la verità. Lei è solo. L'uomo non può vivere solo. I suoi interessi, il patrimonio di esperienze con cui è tornato qui, sono un'isoletta in un mare di ignoranza. Ho seri dubbi che ci sia molta gente disposta ad ascoltare quello che ha da dire. Io sono uno di quelli, ma ho ottantanove anni...». «Io non ho niente da raccontare», risposi seccato. «Quel poco che ho da dire non è niente di eccezionale. Non abbiamo scoperto nessuna civiltà galattica, e poi io ero soltanto un pilota. Guidavo l'astronave. Qualcuno doveva pur farlo». «Ah, è così?», disse sottovoce, inarcando le bianche sopracciglia. Apparentemente ero soddisfatto, ma mi prese la rabbia. «Sì, è così, proprio così! E questa indifferenza, se proprio vuol saperlo, mi interessa solo in considerazione di quelli che ci siamo lasciati indietro...». «Chi è rimasto indietro?», chiese con voce tranquilla. Riacquistai la mia calma. «Molti. Arder, Venturi, Ennesson. Ma perché, dottore...». «La mia non è curiosità pura e semplice. Tutto ciò, e la prego di credermi, perché neanch'io amo le parole grosse, ha fatto parte della mia giovinezza. E per causa vostra che mi sono dedicato a questi studi. Noi due siamo ugualmente inutili. Magari lei può non esser d'accordo. Io non insisterò. Ma, mi scusi, che fine ha fatto Arder?». «Con precisione non si sa», risposi. Improvvisamente tutto mi diventò indifferente. In fin dei conti, perché non avrei dovuto parlare? Guardavo la lucida vernice screpolata della scrivania. Non avevo mai pensato che sarebbe stato così. «Portammo due sonde su Arturo. Persi il contatto con lui. Non riuscivo a trovarlo. Era la sua radio che taceva, non la mia. Quando l'ossigeno fu esaurito, ritornai alla base». «Lei ha aspettato?». «Sì, cioè continuai a girare intorno ad Arturo per sei giorni. Centocinquantasei ore, per l'esattezza». «Solo?». «Sì. Ebbi sfortuna, perché Arturo manifestò delle macchie nuove e io perdetti completamente i collegamenti con il Prometeo, con la mia astronave. Una perturbazione. Arder, senza radio, non poteva tornare. Senza di me non poteva tornare, e non tornò. Gimma mi richiamò. Aveva ragione perché più tardi, tanto per passare il tempo, feci il calcolo di quante fossero le possibilità di ritrovarlo sul quadro, con il radar; ora non ricordo bene, ma mi sembra che il risultato fu 1/1.000.000.000.000. Spero che sia finito come Arne Ennesson». «Che cosa fece Arne Ennesson?». «Perdette la focalizzazione del nodo. Il ritmo cominciò a diminuire. Avrebbe potuto mantenersi in orbita forse ancora per un giorno, avrebbe girato sulla spirale, per poi cadere su Arturo; preferì allora entrar subito nella protuberanza. Lo vidi bruciare dinanzi ai miei occhi». «Quanti piloti c'erano, oltre a lei?». «Sul Prometeo, cinque». «Quanti ne sono tornati?». «Olaf Staave e io. Lo so quello che pensa, dottore, che sia eroismo. Anch'io una volta lo credevo, e leggevo libri che parlavano di eroi. Ma non è vero. Lei non mi crede? Se avessi potuto, avrei piantato lì Arder e sarei tornato subito alla base, ma non potevo farlo. Neanche lui sarebbe tornato. Nessuno sarebbe tornato. Neanche Gimma...». «Perché nega così... ostinatamente?», chiese sottovoce. «Perché c'è differenza tra l'eroismo e la necessità. Io ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque. Lo vede, dottore, per capirlo bisogna trovarcisi. L'uomo è come una vescica piena di liquido. Basta un rinculo defocalizzato o una demagnetizzazione di campo, ne nasce una vibrazione e in un attimo il sangue coagula. Sia chiaro, io non sto parlando di cause esteriori, come le meteore, ma delle conseguenze dei guasti. Basta una stupidaggine qualsiasi, un filo qualsiasi che si bruci negli apparecchi di collegamento, ed è finita. Se poi anche gli uomini, in tale situazione, mancassero al loro compito, queste spedizioni sarebbero dei suicidi, mi capisce?». Chiusi gli occhi per un attimo. «Dottore, mi dica, ma ora non volano più? Come è possibile?». «Lei volerebbe?». «No». «Perché?». «Glielo dirò subito. Nessuno andrebbe più nel cosmo, se sapesse come è laggiù. Questo non lo sa nessuno. Nessuno che non ci sia stato. Eravamo un mucchio di animali disperati e con una paura da morire». «Come fa a conciliare questo con quanto ha detto poco prima?». «Io non concilio nulla. Così è stato. Avevamo paura. Lei lo sa, dottore che, mentre aspettavo Arder, girando intorno a quel sole, pensavo alle persone più diverse e parlavo con loro, parlavo per me e per loro, e alla fine ero convinto che fossero veramente lì con me! Ognuno si salvava come poteva. Provi a immaginarsi, dottore. Ora sono qui seduto davanti a lei, ho affittato una villa, ho comprato una vecchia automobile, ho voglia di leggere, di studiare, di nuotare, ma dentro di me c'è ancora tutto. C'è in me quello spazio e quel silenzio, come quando Venturi chiedeva aiuto e io, invece di salvarlo, lo spinsi giù con tutta la forza!». | << | < | > | >> |Pagina 108«Per lei è difficile capirlo. Ma gli argomenti della ragione sono impotenti di fronte alle abitudini dominanti. Lei continua a non avere idea di quanti fattori, un tempo decisivi nella sfera erotica, siano oggi scomparsi. La natura non tollera vuoti; scomparsi quelli, altri hanno dovuto sostituirli. Prendiamo ad esempio quel fenomeno a cui lei si è talmente abituato, da non notare quasi più l'eccezionalità dei fatti: intendo dire, il rischio. Oggi il rischio non esiste più, Bregg. L'uomo non può suscitar l'interesse della donna con la prodezza, con l'azione folle, benché la letteratura, l'arte e la cultura si siano per secoli nutriti di questo tema: l'amore di fronte alla decisione definitiva. Orfeo andò a cercare Euridice nell'Ade. Otello per amore uccise. La tragicità di Romeo e Giulietta... oggi non esistono più tragedie. Non ne esiste neanche la possibilità. Abbiamo eliminato l'inferno delle passioni, ma nello stesso momento ci siamo accorti che anche il cielo aveva cessato di esistere. Ora tutto è tiepido, Bregg».| << | < | > | >> |Pagina 119Trascorsi l'intero pomeriggio in libreria. Libri non ce n'erano. Da quasi più di cinquant'anni si era smesso di stamparli. E pensare che ne avevo tanta voglia, dopo tutti i microfilm di cui era composta la biblioteca del Prometeo. Pazienza. Non sarebbe stato più possibile frugare negli scaffali, soppesare i volumi, sentirne quel peso che quasi faceva prevedere la durata della lettura. La libreria ricordava piuttosto un laboratorio elettronico. I libri consistevano in piccoli cristalli a contenuto fisso. Si potevano leggere con l'aiuto di un opton. Era qualcosa di simile a un libro, a parte il fatto che aveva un'unica pagina tra i due cartoni della legatura. Bastava toccarla che subito apparivano, una dietro l'altra, le restanti facciate del testo. Ma gli opton si usavano poco, come mi disse il robot-venditore. Il pubblico preferiva i lekton, che leggevano ad alta voce e potevano esser regolati su qualsiasi tipo di voce, di ritmo e di modulazione. Soltanto le pubblicazioni scientifiche a tiratura molto limitata venivano ancora stampate su un tipo di plastica che ricordava la carta. Fu così che tutti i miei acquisti entrarono in una sola tasca, benché si trattasse di quasi trecento titoli! Un pugno di cristalli e nient'altro, a questo erano ridotti i libri! Scelsi numerose opere storiche e sociologiche, un po' di testi di statistica e di demografia, oltre ai libri di psicologia consigliatimi dalla ragazza dell'Adapt. Presi inoltre alcuni tra i più importanti manuali di matematica. Il robot che mi serviva era lui stesso un'enciclopedia grazie al fatto, come mi disse, di esser direttamente collegato, attraverso i cataloghi elettronici, con i modelli di tutte le possibili opere esistenti sulla Terra. Nella libreria si trovavano, in linea di massima, soltanto singoli «esemplari» dei libri e, quando qualcuno ne aveva bisogno, si faceva fissare in un cristallo il testo dell'opera richiesta. | << | < | > | >> |Pagina 129«E la matematica?».«No. Non subito. Prima mi dedicai alle lingue, e non smisi mai di farlo, finché fui là, nonostante sapessi che non sarebbe servito quasi a nulla e che al ritorno mi sarei trovato a parlare dei dialetti arcaici. Furono Gimma, e soprattutto Thurber, che mi spinsero a studiare la fisica perché, dicevano, avrebbe potuto essermi utile. Mi misi all'opera insieme con Arder e Olaf Staave, solo che noi tre non eravamo scienziati...». «Ma lei aveva pure un titolo scientifico...». «Beh, sì, ero laureato in teoria delle informazioni, in cosmodromia, avevo anche un diploma di ingegnere nucleare, ma erano tutte specializzazioni professionali, non teoriche. Lei sa benissimo come un ingegnere conosca la matematica. Ora era la volta della fisica. Ma volevo avere ancora qualcosa, qualcosa di mio. E fu così la volta della matematica pura. Non avevo mai avuto doti matematiche; era solo l'ostinazione a spingermi». «Sì», disse a mezza voce, «era necessario averne non poca, per essere in grado di volare...». «Se uno voleva prender parte alla spedizione, ce ne voleva molta», aggiunsi correggendolo. «E lo sa perché la matematica faceva quell'effetto? Lo capii quando fui là. Perché è al di sopra di tutto. Le opere di Abel e di Kronecker sono attuali oggi, come quattrocento anni fa, e così sarà sempre. Nasceranno nuovi sistemi, ma quelli antichi continueranno a guidarci, senza invecchiare mai. Là... là c'è l'eternità. Ma la matematica non la teme. Soltanto là mi resi conto di quanto essa sia definitiva. E forte, come nessun'altra cosa prima. Anche il fatto che mi riuscisse così difficile apprenderla fu positivo, per me. Mi ci logoravo sopra e, quando non riuscivo a dormire, ripetevo quello che avevo studiato durante il giorno...». «Interessante», disse. Ma nella sua voce non c'era ombra di curiosità. Non sapevo neanche se mi ascoltasse. In fondo al parco solcavano l'aria colonne di fuoco, incendi rossi e verdi, accompagnati da grida corali di gioia. Là dove eravamo seduti, sotto gli alberi, era buio. Tacqui. Ma quel silenzio era intollerabile. «Per me ciò equivaleva all'istinto di conservazione», dissi. «La teoria delle pluralità... tutto quello che Mirea e Averin avevano ricavato dall'eredità di Cantor, mi capisce? Quell'operare con grandezze superinfinite, extrainfinite, quelle continuità esattamente divisibili, forti... era meraviglioso. Il tempo che ho passato così lo ricordo come se fosse ieri». «Non è tutto inutile come lei pensa», mormorò. Allora mi ascoltava! «Naturalmente non ha sentito parlare dei lavori di Igalla?». «No, di che si tratta?». «Della teoria dell'antipolo discontinuo». «Non ho mai sentito parlare di antipolo. Che cos'è?». «Retronichilizzazione. Da questa è derivata la parastatica». «Non conosco neanche i termini». «Infatti sono teorie che risalgono ad appena sessant'anni fa. Esse costituirono l'inizio della gravitologia». «Vedo che dovrò lavorar sodo», dissi. «La gravitologia, immagino, sarà la teoria della gravitazione?». «Qualcosa di più. È qualcosa che si può esprimere soltanto in termini matematici. Appiano e Froom li conosce?». «Sì». «Allora non dovrebbe avere difficoltà. Si tratta degli sviluppi dei metageni in quantità degenerante di configurazione e dimensione n». «Ma che mi dice? Skrjabin aveva dimostrato che non esistono altri metageni al di fuori di quelli variabili...». «Sì, è una bellissima dimostrazione, ma extracontinua». «Impossibile! Ma ciò... ha dovuto... ha dovuto aprire un intero mondo!». «Infatti è stato così», rispose. «Ricordo un lavoro di Mianikowski...», cominciai. «Oh, è un'opera molto datata. Tutt'al più... si può dire che abbia un orientamento simile». «Mi occorrerà molto per assimilare quanto è stato fatto in tutto questo tempo?», chiesi. | << | < | > | >> |Pagina 178Mi era entrata addosso una smania che mi aveva fatto perdere completamente la pazienza. Io, che Olaf definiva l'ultima incarnazione di Budda! Invece di procedere per ordine, cercai subito il capitolo sulla betrizzazione.La teoria era stata elaborata da tre studiosi: Bennet, Trimaldi e Zacharov. Di lì era derivato il nome. Appresi con meraviglia che erano miei contemporanei; l'avevano resa pubblica un anno dopo la nostra partenza. Naturalmente ci furono forti opposizioni. All'inizio nessuno voleva nemmeno prendere in considerazione il progetto. Poi esso venne portato alle Nazioni Unite. Per un po' di tempo passò da una sottocommissione all'altra; pareva che dovesse naufragare tra interminabili dibattiti. Nel frattempo invece gli esperimenti progredirono notevolmente, furono introdotti perfezionamenti, vennero effettuati esperimenti in massa su animali, poi su uomini: i primi a sottoporsi all'intervento furono i suoi stessi artefici. Trimaldi rimase per un po' paralizzato, perché ancora non si sapeva del pericolo che la betrizzazione può costituire per gli adulti, e quel caso fatale bloccò la questione per altri otto anni. Solo nell'anno 17 dopo zero - era quello il mio calcolo privato del tempo, dove zero indicava la partenza del Prometeo - fu approvata la risoluzione che prevedeva di introdurre la betrizzazione su scala mondiale; ciò fu però solo l'inizio, non la fine della lotta per l'umanizzazione dell'umanità, così era scritto nel manuale. In molti paesi i genitori rifiutarono di sottoporre i loro figli a quell'intervento, e le prime betro-stazioni furono prese d'assalto; alcune decine di esse furono completamente distrutte. Quel periodo di torbidi, di repressioni, di violenze e di contrasti, durò vent'anni. Il manuale scolastico, per ovvi motivi, sorvolava su quel periodo. Mi ripromisi di cercare particolari più precisi in studi scientifici specializzati, senza comunque interrompere le mie letture. La trasformazione cominciò ad esser veramente tale quando la prima generazione di betrizzati iniziò ad aver figli. Il manuale non illustrava l'aspetto biologico della betrizzazione. Profondeva invece lodi a non finire in onore di Bennet, di Trimaldi e di Zacharov. Fu anche proposto di cambiare il calendario, calcolando gli anni a partire dalla Nuova Era, l'Era della betrizzazione. La cosa però non ebbe successo e il calcolo del tempo rimase immutato. Cambiarono invece gli uomini. Il capitolo terminava con frasi patetiche sulla Nuova Epoca dell'Umanesimo. Volli cercare una monografia sulla betrizzazione, scritta da Ullrich. Incontrai di nuovo l'ostacolo della matematica, ma decisi di sfondare comunque. Non era un procedimento che comportasse l'ereditarietà sul plasma, come dentro di me temevo. Del resto, se lo fosse stato, non ci sarebbe neanche stato bisogno di betrizzare ogni successiva generazione. Pensai a ciò con speranza. Restava sempre, almeno teoricamente, la possibilità di un ritorno alle origini. Si agiva sull'encefalo anteriore, nel primissimo periodo di vita, per mezzo di un gruppo di enzimi proteolitici. Gli effetti variavano: la riduzione degli impulsi aggressivi dall'80 all'88% nei confronti dei non betrizzati; eliminazione del manifestarsi di nessi associativi tra gli attacchi di aggressione e la sfera dei sentimenti secondari; riduzione delle possibilità di affrontare un rischio di vita personale, in media dell'87%. Si sottolineava poi in particolare come tali modificazioni non avessero nessun influsso negativo sullo sviluppo dell'intelligenza e sulla formazione della personalità e, cosa ben più importante, che le limitazioni determinatesi non agivano in base a tensioni provocate da paura. In altre parole, non era che l'uomo non uccidesse per paura dell'azione in se stessa. Un effetto del genere comporterebbe la nevrosi, il terrore per contagio di tutta l'umanità. Non lo faceva, perché «non poteva neanche venirgli in mente». Una frase di Ullrich finì con il convincermi; la betrizzazione provoca la scomparsa dell'aggressività attraverso la mancanza dell'ordine, e non attraverso il divieto. Dopo aver riflettuto, dovetti comunque riconoscere che ciò non spiegava la cosa più importante, cioè il corso dei pensieri dell'individuo sottoposto a betrizzazione. Trattandosi di uomini completamente normali, potevano essere in grado di immaginarsi tutto, anche l'assassinio. Cos'era, dunque, che ne rendeva impossibile la realizzazione? [...] Fu un'epoca di grandi tragedie. I giovani betrizzati divenivano estranei ai propri genitori. Non condividevano i loro interessi. Avevano orrore dei loro gusti sanguinari. Nel corso di un quarto di secolo fu necessario introdurre due tipi di riviste, di libri, di testi teatrali, uno per la vecchia generazione, l'altro per la nuova. Ma tutto ciò era accaduto ottant'anni prima. Attualmente nascevano i figli della terza generazione di betrizzati; dei non betrizzati, solo pochissimi erano ancora in vita: erano vecchi di centotrent'anni. Ciò che aveva costituito la sostanza della loro giovinezza, alla nuova generazione pareva altrettanto lontano quanto le tradizioni dell'età della pietra. Nel manuale di storia trovai infine le informazioni sul secondo grande evento del secolo trascorso, cioè il superamento della forza di gravità. Quel secolo era stato anzi definito «il secolo della parastatica». La mia generazione aveva sognato di poter dominare la forza di gravità, nella speranza che ciò avrebbe portato a una completa rivoluzione dell'astronautica. La realtà si è rivelata diversa. La rivoluzione è avvenuta, ma si è estesa soprattutto alla Terra. Il problema della «morte pacifica», provocata dagli incidenti stradali, era divenuto il terrore dei miei tempi. Ricordo come i maggiori cervelli di allora cercassero di far sì che il diradamento del traffico delle strade e delle autostrade, continuamente stipate, facesse diminuire almeno di un po' la statistica delle disgrazie, in continuo aumento; ogni anno centinaia di migliaia di persone perivano in incidenti stradali, il problema pareva irresolubile, come la quadratura del cerchio. Non si potrà più tornare alla sicurezza dei pedoni, si diceva; il più perfetto aeroplano, l'automobile o il treno più potenti possono sempre sfuggire al controllo umano; le macchine automatiche sono più sicure dell'uomo, ma possono anch'esse guastarsi; ogni tecnica, anche la più perfezionata, ha un margine limitato, una percentuale di incertezza. La parastatica, l'ingegneria gravitazionale, portò una soluzione altrettanto inaspettata quanto necessaria, dato che il mondo dei betrizzati era destinato a divenire il mondo della sicurezza assoluta; diversamente la perfezione biologica di quell'intervento sarebbe risultata vana. Roemer aveva ragione. L'essenza di quella scoperta non si poteva esprimere altrimenti che con la matematica, una matematica complicatissima, è il caso di aggiungere. La soluzione più generale possibile, valida «per tutti gli universi possibili», aggiungeva Emil Mitke, figlio di un impiegato postale, uno storpio geniale, che della teoria della relatività aveva fatto ciò che a suo tempo aveva fatto Einstein di quella di Newton. Era una storia lunga, non comune e, come ogni storia autentica, incredibile. Era la storia del confondersi di fatti banali e importanti, dell'umano ridicolo e dell'umana grandezza, che culminò infine quarant'anni dopo, con il sorgere delle «piccole cassette nere». | << | < | > | >> |Pagina 234Cercavo di non mostrarmi meravigliato. A bordo, Olaf era uno di quelli che sapevano dominarsi di più.«Sì, ho fatto la figura del perfetto idiota. È stato il primo giorno. O meglio, la prima notte. Non riuscivo a uscire dall'ufficio postale... là non ci sono porte, solo delle cose girevoli... l'hai visto?». «Una porta girevole?». «Macché! Mi sembra che abbia a che vedere con quella loro gravitazione di servizio, sai. In una parola, io giravo come una trottola, mentre un tizio con una ragazza mi indicava e rideva...». Sentii che la pelle del viso mi si tendeva. «Non importa se è debole come mia nonna», dissi. «Spero che ora non rida più». «No. Ha una clavicola spezzata». «Non ti hanno fatto nulla?». «No. Soltanto quando sono sceso dalla macchina, ma è stato lui a provocarmi, io non l'ho colpito subito. Neanche per sogno! Gli ho chiesto cosa ci fosse da ridere, visto che io ero mancato per tanto tempo, ma lui rise di nuovo e disse, indicando col dito in alto: "Ah, viene da quel circo di scimmie?"». «Circo di scimmie?». «Sì. E allora...». «Sì. Ma perché "circo di scimmie"?». «Non lo so. Forse aveva sentito dire che gli astronauti vengono fatti girare nei cilindri centrifughi. Non lo so, perché non ho più parlato con lui... Pazienza. Mi lasciarono andare, solo che dopo quell'episodio l'Adapt sulla Luna ha l'incarico di preparare meglio quelli che vengono qua». «Deve tornare ancora qualcuno?». «Si. Il gruppo di Simonadi, tra diciotto anni». «Allora abbiamo tempo». «Direi». «Ma sono gentili, ammettilo», dissi. «Gli hai rotto una clavicola e ti hanno lasciato andare, così...». «Ho l'impressione che sia stato a causa di quel "circo"», disse. «Lo sai quali sono i sentimenti che nutrono nei nostri confronti... Non sono mica stupidi. E poi sarebbe uno scandalo. Ma tu, Hal, non sai nulla». «Cioè?». «Lo sai perché non hanno detto niente del nostro arrivo?». «Qualcosa nel reale mi sembra ci sia stato. Non l'ho visto. Ma me l'ha detto qualcuno». «Sì, ma moriresti dal ridere se tu lo vedessi. "Ieri, nelle prime ore del mattino, è rientrata sulla Terra un'équipe di studiosi dello spazio extraplanetario. I suoi membri stanno bene. Si è cominciato a elaborare i risultati scientifici della spedizione". Fine, punto e basta». «Impossibile!». «Parola d'onore. E sai perché lo hanno fatto? Perché hanno paura di noi. Per questo ci hanno disperso su tutta la Terra». «No. Questo non lo capisco. Non sono mica degli idioti. L'hai detto un momento fa. Non possono pensare che siamo dei rapaci, che ci butteremo alla gola della gente». «Se la pensassero così, non ci avrebbero lasciato andare. No, Hal. Non è di noi che si tratta. Si tratta di qualcosa di più. È possibile che tu non capisca?». «Evidentemente sono rincretinito. Parla». «La massa non se ne rende conto...». «Di che cosa?». «Del fatto che muore lo spirito di ricerca. Che non ci sono spedizioni, lo sanno, ma non ci pensano. Pensano solo che non ci siano spedizioni perché non sono necessarie. Ma ci sono anche altri che vedono e sanno benissimo quello che sta accadendo e le conseguenze che ne deriveranno. Senza contare quelle che già ci sono». «Cioè?». «Latte e miele, latte e miele per i secoli dei secoli. Nessuno andrà più sulle stelle. Nessuno sperimenterà più su di sé una medicina nuova. Come, non lo sanno? Lo sanno! E se venisse annunziato chi siamo noi, quello che abbiamo fatto, lo scopo per cui abbiamo volato, quello che è stato, allora mai, capisci, mai si riuscirebbe a nascondere questa tragedia!». «Latte e miele?», chiesi, ripetendo la sua espressione; forse, a chi avesse ascoltato quella conversazione sarebbe parsa ridicola, ma io avevo tutt'altra voglia che di ridere. «Certo. Come, non è una tragedia, a tuo parere?». «Non lo so, Ol, senti. Per noi è e resterà qualcosa di grande. Il fatto di esserci lasciati portar via quegli anni e tutto il resto, quella per noi è la cosa principale. Ma forse non è così. Bisogna essere obiettivi. Di' anche tu: cosa abbiamo fatto, in fin dei conti?...». «Che vuoi dire?». «Insomma, vuota il sacco. Tira fuori tutto quello che hai portato da Fomalhaut». «Sei impazzito?». «Non sono impazzito per niente. Quali sono stati i vantaggi di questa impresa?». «Noi eravamo solo dei piloti, Hal. Chiedilo a Gimma, a Thurber». «Non dir sciocchezze, Ol. Siamo stati là insieme e tu sai benissimo quello che hanno fatto loro, quello che ha fatto Venturi, prima di morire, quello che ha fatto Thurber... Sì, perché mi guardi in quel modo? Cosa abbiamo portato? Quattro mucchi di analisi diverse, spettrali e di vario genere, campioni di minerali, poi c'è quella specie di alimento o metaplasma, come si chiama quella porcheria di Arturo-Beta. Normers ha verificato la sua teoria dei vortici gravimagnetici, si è stabilito che sui pianeti del tipo C Meoli possono esistere non solo triploidi, ma tetraploidi di silicone, e su quella luna, dove per poco non è finito Arder, non c'è nulla, tranne quella lava schifosa e una vescica della grandezza di un grattacielo. E solo per constatare che quella lava si consolida in quelle grandi, maledette vesciche, abbiamo vomitato per dieci anni e siamo tornati qui, per diventare oggetto di ludibrio, mostri da museo delle cere; mi vuoi dire per che diavolo di motivo siamo finiti lassù? A che ci è servito?...». «Piano, piano», disse. Ero furioso. Anche lui lo era. Gli occhi gli si contrassero. Pensai che ci saremmo picchiati ancora; le labbra cominciarono a tremarmi. Improvvisamente si mise a ridere. «Sei un vecchio farabutto», disse. «Sei capace di fare imbestialire la gente, lo sai?». «Vieni al concreto, Olaf». «Concreto! Sei tu che non sei concreto. Forse saresti stato contento se avessimo portato da Fomalhaut un elefante con otto gambe, che sapesse l'algebra? Ma cosa ti aspettavi di trovare su Arturo? Il paradiso? Un arco di trionfo? Cosa vuoi? In dieci anni, non ti ho mai sentito dire tante sciocchezze quante ora in un minuto». Aspirai profondamente l'aria. «Olaf, tu vuoi fare di me un idiota. Tu lo sai quello che intendevo dire. Io volevo soltanto dire che gli uomini possono vivere anche senza i voli spaziali...». «Certo! Ci mancherebbe altro!...». «Aspetta, lasciami finire. Vivere possono, ma se è così come dici tu, che hanno smesso di fare i voli spaziali a causa della betrizzazione, valeva allora la pena, era veramente il caso di pagare un prezzo così alto? Questo è il problema, mio caro». «Perché? Supponi di volerti sposare. Perché mi guardi così? Forse non puoi sposarti? Certo che puoi. Te lo dico io che puoi. E avrai dei bambini. E li porterai a betrizzare col sorriso sulle labbra. Non ho ragione?». «Col sorriso sulle labbra, no. Ma cosa credi che potrei fare? Non posso mica mettermi in guerra col mondo intero...». «Allora che il cielo te la mandi buona», disse. «E ora, se vuoi, possiamo andare in città...». | << | < | > | >> |Pagina 347«Qualcosa però hai fatto», disse con un tono come se fino allora avessimo parlato del tempo. «Hai letto Starck, gli hai creduto, ti consideri ingannato, e ora cerchi i colpevoli. Se proprio la cosa ti interessa tanto, posso accollarmela io quella colpa. Ma non è questa la cosa principale. Starck ti ha convinto... dopo che hai trascorso quei dieci anni là? Bregg, lo sapevo che eri un impulsivo, ma non pensavo che fossi uno stupido». Si interruppe per un momento, e io provai nello stesso tempo, strano a dirsi, come una sensazione di leggerezza, quasi un presentimento di liberazione. Non ebbi tempo di riflettere, perché Thurber riprese subito a parlare.«Il contatto con le civiltà galattiche? Ma chi te ne ha mai parlato? Nessuno di noi e nessuno dei classici, né Marquier, né Simoniadi, né Rag Ngamieli, nessuno, nessuna spedizione ha mai pensato a un contatto del genere, ragione per cui tutta quella chiacchierata sui geologi che viaggiano nello spazio, tutta quella storia della posta galattica eternamente in arretrato, non è altro che un ammucchiare tesi mai prospettate da nessuno. Che cosa si può ricavare dalle stelle? E quali furono i vantaggi della spedizione di Amundsen? E di quella di Andrée? Nessuno. Il solo vantaggio immediato consistette nel fatto che era stata dimostrata una possibilità. Che quella era una cosa fattibile. E, per essere più precisi, che quella era, per quel determinato tempo, l'impresa più difficile che ancora si potesse compiere. Non so neanche se noi abbiamo compiuto un'impresa del genere, Bregg. Proprio non lo so. Ma siamo stati là». Tacqui. Thurber non mi guardava più. Appoggiò i pugni ai bordi dello scrittoio. «Che cosa ti ha dimostrato Starck? L'inutilizzabilità della cosmodromia? Come se non lo avessimo saputo da soli! E i poli? Che cosa c'era ai poli? Coloro che li conquistarono sapevano bene che là non c'era nulla. E la Luna? Che cosa cercava il gruppo di Ross nel cratere di Eratostene? I brillanti? A che scopo Bant ed Egorin attraversarono il centro del disco di Mercurio? Forse per abbronzarsi? Kellen e Offshagg? L'unica cosa che veramente videro, volando dentro la fredda nuvola di Cerbero, fu che si poteva morirci. Ma ti rendi conto di quello che dice veramente Starck? L'uomo deve mangiare, bere e vestirsi; il resto è pazzia. Ognuno ha il suo Starck, Bregg. Ogni epoca l'ha avuto. A che scopo Gimma mandò te e Arder? Perché raccoglieste i campioni col ventilatore aspirante. Chi aveva mandato Gimma? La scienza. Come suona convincente, non è vero? L'esplorazione delle stelle. Pensi forse che non ci saremmo andati, se le stelle non fossero esistite? Io penso che ci saremmo andati ugualmente. Avremmo desiderato di conoscere quel vuoto, non fosse altro che per giustificarlo. Geonides o qualcun altro ci avrebbe detto quali preziose misurazioni e quali ricerche avremmo potuto fare durante il viaggio. Cerca di capirmi. Io non dico che le stelle siano soltanto un pretesto. Neanche il polo lo fu, Nansen e Andrée ne avevano bisogno... L'Everest, per Mallory e Irvine, era più necessario dell'aria. Tu dici che io vi davo ordini... in nome della scienza? Eppure sai benissimo che non è vero. Tu hai messo alla prova la mia memoria. Vuoi che io metta alla prova la tua? Ti ricordi del planetoide di Thomas?». Tremai. «Tu quella volta ci hai ingannati. Sei tornato là, ben sapendo che Thomas era già morto. Non è vero?». Tacqui. «Io me lo immaginai. Non ne parlai con Gimma, ma credo che lo immaginasse anche lui. Che ci sei tornato a fare, Bregg? Ormai non era né Arturo né Kerenea e non c'era più nessuno da salvare. Cosa ci sei andato a fare?». Tacqui. Thurber sorrise calmo. «Lo sai quale fu la nostra sfortuna? Il fatto di esserci riusciti e di essere ora seduti qui. L'uomo ritorna sempre a mani vuote...». Tacque. Il suo sorriso si trasformò in una smorfia, quasi senza senso. Respirò un momento più profondamente, appoggiando ambedue le mani al bordo dello scrittoio. Lo guardai, come se lo vedessi per la prima volta, perché pensai che ormai era vecchio anche lui. Quella scoperta mi impressionò. Non mi era mai venuto in mente quando avevo pensato a lui, proprio come se fosse senza età... «Thurber», dissi sottovoce, «ascoltami... è soltanto un discorso postumo, sulla tomba di quegli... insaziabili. Uomini così non ce ne sono più. Né ce ne saranno mai. E qui Starck ha la meglio...». Mostrò le punte dei suoi piatti e gialli denti, ma non era un sorriso. «Bregg, dammi la tua parola d'onore che non riferirai a nessuno quello che sto per dirti». Esitai. «A nessuno», ripeté con forza. «Va bene». Si alzò, andò nell'angolo, prese il rotolo di carte e tornò alla scrivania. La carta frusciava aprendoglisi tra le mani. Vidi qualcosa di rosso, come un pesce sventrato e disegnato con il sangue. «Thurber!». «Sì», rispose calmo, aprendo il rotolo con ambedue le mani. «Un'altra spedizione?!». «Sì», ripeté. Andò nell'angolo e spiegò il rotolo, appoggiandolo alla parete, come un'arma. «Quando? Dove?». «Non così presto. Al Centro». «La Nuvola del Sagittario...», mormorai.
«Sì. I preparativi dureranno ancora abbastanza a
lungo. Ma grazie all'anabiosi...».
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