Copertina
Autore Stanislaw Lem
Titolo Vuoto assoluto
EdizioneVoland, Roma, 2010, Sírin 42 , pag. 250, cop.fle., dim. 14,4x20,5x1,8 cm , Isbn 978-88-6243-058-6
OriginaleDoskonala próznia [2002]
TraduttoreValentina Parisi
LettoreRenato di Stefano, 2010
Classe narrativa polacca , fantascienza , critica letteraria
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Indice


St. Lem, Vuoto assoluto
(Ed. Il Lettore - Varsavia)                           5

Marcel Coscat, Les Robinsonades
(Ed. du Seuil - Paris)                               11

Patrick Hannahan, Gigamesh
(Transworld Publishers - London)                     31

Simon Merril, Sexeplosion
(Walker and Company - New York)                      46

Alfred Zellermann, Gruppenführer Louis XVI
(Suhrkamp Verlag)                                    54

Solange Marriot, Rien de tout, ou la conséquence
(Ed. du Midi)                                        75

Joachim Fersengeld, Pericalipsis
(Editions de Minuit - Paris)                         87

Gian Carlo Spallanzani, Idiota
(Mondadori Editore)                                  94

Do yourself a book                                  105

Kuno Mlatje, Odysseus of Itaca                      111

Raymond Seurat, Toi
(Ed. Denoël)                                        122

Allstar Waynewright, Being Inc.
(American Library)                                  128

Wilhelm Klopper, La cultura come errore
(Universitas Verlag)                                139

Cezar Kouska, De impossibilitate vitae
De impossibilitate prognoscendi
2 volumi (Statni Nakladatalstvi N. Lit. — Praga)    154

Arthur Dobb, Non serviam
(Pergamon Press)                                    181

Alfred Testa, La nuova cosmogonia                   213


 

 

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Pagina 5

St. Lem

Vuoto assoluto

(Ed. Il Lettore - Varsavia)


L'idea di recensire libri inesistenti non è da ascriversi a Lem; esperimenti simili sono rintracciabili anche in autori contemporanei come J.L. Borges (si pensi al suo Esame dell'opera di Herbert Quain, contenuto nel volume Finzioni ). In realtà, il concetto di recensione fittizia è molto più antico; con tutta probabilità neppure Rabelais fu il primo a utilizzarlo. Ma Vuoto assoluto è un esperimento bizzarro, in quanto vera e propria antologia di critiche siffatte. Un tentativo di conferire sistematicità alla pedanteria, oppure uno scherzo puro e semplice? Il sospetto è che a muovere lo scrittore sia un intento ludico; un'impressione rafforzata anche dalla premessa verbosa e arzigogolata in cui si legge: "Scrivere romanzi significa privarsi della libertà creativa (...) A sua volta, recensire libri è una schiavitù ancor meno invidiabile. Dello scrittore possiamo quantomeno dire che si è autoimprigionato scegliendo l'argomento. Il critico si trova in una situazione ben peggiore, inchiodato al libro da recensire come il galeotto ai ceppi. Lo scrittore smarrisce la libertà nella propria opera, il critico in quella altrui?"

L'enfasi di queste semplificazioni è troppo evidente per prenderle sul serio. Più avanti, nel paragrafo dell'introduzione intitolato Autozoilo, leggiamo: "Finora la letteratura ci ha narrato di personaggi fittizi. Noi ci spingeremo oltre, descrivendo libri fittizi. Questa è l'occasione per recuperare finalmente la nostra libertà creativa e al contempo riappacificare due irriducibili nemici: il letterato e il critico."

Autozoilo - annuncia Lem - sarà un'opera libera 'al quadrato', poiché il recensore, una volta penetrato nel testo, avrà margini di manovra maggiori rispetto a qualunque narratore, non importa se sperimentale o tradizionalista. E su questo non possiamo che essere d'accordo, dal momento che al giorno d'oggi la letteratura tende effettivamente a prendere le distanze dal suo oggetto, come un podista affaticato nel tentativo di riprendere fiato. Il problema è che questa dotta disquisizione sembra protrarsi in eterno. Lem si dilunga sugli aspetti positivi del nulla, sugli enti matematici immaginari, sui nuovi metalivelli del linguaggio. Insomma, per essere uno scherzo la tira un po' troppo per le lunghe. Ma il peggio è che quest'ouverture mette il lettore fuori strada, se non forse addirittura lo stesso Lem. Perché Vuoto assoluto consta di pseudo-recensioni che non sono altro che una serie di trovate fantasiose. A dispetto dell'autore, le suddivideremo in tre gruppi:

1) parodie, pastiche e caricature: vi rientrano Les Robinsonades, Rien du tout, ou la conséquence (entrambi i testi si fanno beffe, ognuno a modo suo, del nouveau roman ) e, ancora, Toi e Gigamesh. A dire il vero, l'esperimento di Toi appare un po' tirato per i capelli, perché immaginare un libro talmente brutto che non si può fare a meno di stroncare è un'operazione alquanto gratuita. Sotto il profilo stilistico, il testo più originale è Rien du tout, ou la conséquence: di certo nessuno sarebbe mai stato in grado di scriverlo. Pertanto l'espediente della pseudo-recensione consente un'autentica acrobazia: criticare un libro che non solo non esiste, ma che nemmeno potrebbe esistere. Tra tutti i testi, Gigamesh è quello che mi ha convinto di meno. Il tema è: la verità viene sempre a galla... come se valesse la pena ideare un capolavoro da banalità simili! Be; d'altra parte, se non si è in grado di scriverlo...

2) schizzi e brogliacci (perché è di questo che si tratta, in fondo) come Gruppenführer Louis IV, Idiota, oppure Questione di ritmo. Ciascuno di questi testi, chissà, potrebbe anche trasformarsi in un buon romanzo. Che però innanzitutto bisognerebbe scrivere. Queste sintesi - redatte a fini critici o no, non importa - sono solo l'assaggio succulento di piatti che nessuno ha mai cucinato. Come mai? Un critico pecca di fair play basandosi su mere insinuazioni; eppure, per una volta, concedetemi una licenza. L'autore ha avuto alcune idee che poi non è riuscito a sviluppare fino in fondo; di scrivere non è capace, ma gli dispiace lasciar perdere. Ecco la genesi di questa sezione di Vuoto assoluto. Tuttavia Lem, che è abbastanza scaltro per prevedere un'accusa simile, ha deciso di scagionarsi con un'introduzione. È per questo che in Autozoilo parla della miseria che regna nell'officina della prosa, di come lo scrittore sia costretto a cesellare, nemmeno fosse un artigiano, frasi insignificanti del tipo: "Era una notte buia e tempestosa." Eppure una buona officina riscuote sempre un certo successo. Lem si è lasciato spaventare dalle difficoltà insite in questi tre testi che ho menzionato a puro titolo d'esempio. Ha preferito non rischiare, fare una finta e battere in ritirata. Affermando che "ogni libro è la tomba degli innumerevoli altri che ha sconfitto e rimpiazzato", ci lascia intendere di avere a disposizione più idee che tempo biologico (ars longa, vita brevis). Peccato però che in Vuoto assoluto di idee così significative e originali non ce ne siano poi tante. Vi figurano quelle levate d'ingegno che ho già menzionato, tutto qui. Ma ho l'impressione che vi sia sotto qualcosa di più grave: un'inquietudine che non si può soddisfare in alcun modo.

Un'implicita conferma a quest'ipotesi è contenuta nelle opere dell'ultima sezione, ovvero De impossibilitate vitae, La cultura come errore e, soprattutto, La nuova cosmogonia.

La cultura come errore capovolge le posizioni esposte più volte da Lem sia nelle sue opere narrative, sia in quelle teoretiche. L' 'eruzione tecnologica', altrove stigmatizzata come tomba della cultura, in queste pagine viene spacciata per redentrice dell'umanità. Lem ripete quest'atto d'apostasia in De impossibilitate vitae. L'esilarante assurdità e gli interminabili nessi causali di questa cronaca familiare non dovranno trarci in inganno; il punto non è la comicità degli aneddoti, bensì l'attacco che Lem sferra al suo sancta sanctorum: la teoria della probabilità, ossia il Caso, quella categoria su cui si fondano le sue ampie costruzioni concettuali. Un'offensiva condotta in forma di pagliacciata - probabilmente per stemperarne l'impeto. Ma se l'autore avesse fatto sul serio anche solo per un istante?

Tutti dubbi che si dileguano di fronte alla Nuova cosmogonia, autentico 'piatto forte' nascosto all'interno del libro come in una specie di cavallo di Troia. Non è una recensione fittizia e nemmeno uno scherzo. Ma allora cos'è? Per essere una facezia mi sembra un po' indigesta, appesantita com'è da poderose argomentazioni scientifiche - è noto che Lem ha divorato enciclopedie su enciclopedie e che basta scuoterlo un po' perché si lasci dietro una scia di formule e logaritmi. La nuova cosmogonia è la prolusione fittizia di uno studioso insignito del Premio Nobel, il quale delinea un'immagine rivoluzionaria dell'universo. Se fosse questo il primo libro di Lem che prendo in mano, potrei credere di trovarmi davanti a un pezzo di bravura riservato a una trentina di spiriti eletti - fisici e colleghi relativisti - sparsi qua e là per il globo. Ma non mi pare così probabile. Come mai? Temo che ancora una volta l'autore sia affascinato e, insieme, terrorizzato dal tema prescelto. Ovviamente non lo ammetterà mai, e né io né altri saremo in grado di dimostrargli che ha preso fin troppo sul serio l'idea del Cosmo come Gioco. Lem potrà sempre appellarsi al contesto scherzoso o al titolo stesso del libro, che ne rivela il legame col nulla. In fondo, la licenza poetica è sempre la scappatoia migliore, la scusa più indicata.

Tuttavia, ho la sensazione che dietro questi testi si celi qualcosa di molto più profondo. Il Cosmo come Gioco? Una Fisica intenzionale? Da adoratore della scienza qual è, costantemente prostrato dinanzi alla sacralità del metodo, Lem non poteva calarsi di certo nel ruolo del suo principale eresiarca e apostata. Né avrebbe potuto rielaborare queste idee in forma discorsiva. Cogliere l'intuizione del "Cosmo come Gioco" e trasformarla nel nucleo di un intreccio fabulare avrebbe infatti significato scrivere l'ennesimo, 'banale' romanzo di fantascienza.

Dunque che cosa gli rimaneva da fare? Secondo il buon senso, solo una cosa: tacere. Ma questi libri che gli scrittori non scrivono e non scriverebbero in ogni caso - libri che possono essere attribuiti ad autori fittizi proprio perché assolutamente inesistenti - non assomigliano forse a un assordante silenzio? Chi potrebbe escogitare un sistema più astuto per prendere le distanze da un'idea peregrina? Parlare di quei volumi come se fossero usciti dalla penna altrui è quasi come parlare tacendo. Specialmente se il tutto si svolge in uno scenario farsesco.

L'astinenza protrattasi per anni da un realismo sano e nutriente, pensieri troppo distanti dalle proprie opinioni per esprimerli su due piedi, sogni assurdi e irrealizzabili: Vuoto assoluto nasce da tutto questo. E l'introduzione che parrebbe fondare un nuovo genere letterario, in realtà non è che una manovra diversiva, il gesto enfatico con cui il prestigiatore distoglie il nostro sguardo da ciò che sta facendo veramente. Perché dobbiamo credere di essere di fronte a un gioco d'abilità, quando invece si tratta di tutt'altro. Non è il trucco della pseudorecensione a dar vita a quei testi; ma sono proprio loro, chiedendo (invano) di essere scritti, a sfruttare quel genere come scusa e pretesto. Senza l'espediente della recensione fittizia tutto resterebbe nella sfera del non detto. Si tratta dunque di un tradimento commesso ai danni della fantasia e a favore di un saggio realismo, di una defezione empirica, di un'eresia scientifica. Lem sperava davvero che la sua macchinazione non fosse scoperta? Eppure è tanto semplice: gridare ridendo quel che in tono serio non si oserebbe nemmeno sussurrare. Inoltre, malgrado quanto sostiene l'introduzione, il critico non è affatto "inchiodato al libro come il galeotto ai ceppi". La sua libertà non consiste nell'esaltare o stroncare un libro, bensì nell'utilizzarlo come microscopio per osservarne l'autore. Sotto quest'angolatura Vuoto assoluto diventa il racconto di quel che si desidera, ma che non si possiede. Un libro di sogni mai realizzati. E l'ultima finta cui potrebbe ricorrere Lem per sbalordirci sarebbe il contrattacco: affermare, ad esempio, che l'autore di questa recensione non sono io, bensì lui stesso, trasformandola così nell'ennesimo tassello di Vuoto assoluto.

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Pagina 11

Marcel Coscat

Les Robinsonades

(Ed. du Seuil - Paris)


Al romanzo di Defoe ha fatto seguito una riduzione svizzera per l'infanzia, cui ben presto si sono accodate innumerevoli varianti sempre più puerili della vita solitaria dell'eroe. Un paio d'anni fa la casa editrice parigina Olympia, in omaggio allo spirito dei tempi, ha pubblicato una Vita sessuale di Robinson Crusoe, testo assolutamente triviale di cui non menzioneremo nemmeno l'autore (il quale peraltro si cela dietro uno di quegli pseudonimi che diventano proprietà degli editori stessi, quando ingaggiano simili mestieranti della penna per i loro ben noti fini). Tutt'altro discorso per le Robinsonate di Marcel Coscat: in questo caso valeva davvero la pena di aspettare. Da queste pagine emerge la vita sociale di Robinson Crusoe, le sue attività assistenziali e caritative, la sua esistenza difficile, estenuante e caotica. Insomma, il testo di Coscat è una sorta di sociologia dell'isolamento o di saggio sulla cultura di massa di un'isola deserta che verso la fine si fa decisamente affollata.

Il lettore noterà subito come questo libro non sia né un tentativo di plagio, né un'opera commerciale. All'autore non interessa lo scandalo né la pornografia tutta particolare delle vite solitarie. Di conseguenza, non indirizza la concupiscenza del naufrago verso gli alberi di cocco con i loro frutti pelosi, oppure verso pesci, capre e asce - per non parlare poi delle mazze dei funghi o degli insaccati scampati alla furia delle onde! All'opposto dell'edizione Olympia, Robinson non è un bruto assatanato, un unicorno fallico che, calpestando arbusti, bambù e canne da zucchero, turba la pace di lidi sabbiosi e vette montane, baie e lagune, mette in fuga striduli gabbiani o le ombre sussiegose degli albatri o gli squali cacciati a riva dalla tempesta. Chi brama scene simili in questo libro non troverà nutrimento per la sua sfrenata fantasia. Il Robinson di Marcel Coscat è un logico allo stato puro, un convenzionalista radicale, un filosofo che ha condotto la propria dottrina alle estreme conseguenze. Ai suoi occhi il naufragio della nave - il tre alberi Patricia - non è che lo spalancarsi improvviso di una porta, lo spezzarsi di una corda tesa, la verifica degli strumenti di laboratorio alla vigilia di un esperimento. In breve, un evento che gli ha permesso di raggiungere l'essenza sterile del proprio io, non contaminata dalla presenza altrui.

Una volta fatto il punto della situazione, il protagonista Serge N. non acconsente per inerzia a trasformarsi in un autentico Robinson, ma ne assume volontariamente il nome - atto perfettamente razionale, dal momento che la sua vita precedente non gli servirà più a nulla.

Funestato com'è da disagi quotidiani, il destino del naufrago è già abbastanza triste per aggiungervi anche gli sforzi vani della memoria, la nostalgia per le cose perdute. Occorre imporre un ordine a quel mondo che è toccato in sorte e così l'ex Serge N. decide di ripartire da zero, sia con l'isola, sia con sé stesso. Il nuovo Robinson del signor Coscat non si fa illusioni; sa bene che l'eroe di Defoe è solo un'invenzione, mentre il marinaio Selkirk, suo prototipo reale, quando un vascello lo recuperò per caso anni e anni dopo il naufragio, era talmente abbrutito da aver perso il dono della parola. A salvare il Robinson di Defoe, non fu Venerdì (sopraggiunto troppo tardi), bensì la sua coscienza, la quale poteva contare su una compagnia certamente severa, ma in ogni caso perfetta per un puritano: il Signor Iddio in persona. Un compagno di disgrazie che gli impose rigore nei costumi, tenace alacrità, scrupoli continui e, soprattutto, quell'assoluta continenza che tanto ha inferocito l'autore dell'Olympia parigina, sì da spingerlo a sacrificarla sull'altare della propria dissolutezza.

Pur avvertendo in sé qualche indizio di tensione creativa, Serge N. - ovvero il Nuovo Robinson - è consapevole fin dall'inizio di non potersi sostituire al Creatore. È un razionalista e come tale si mette all'opera. Vuole soppesare ogni cosa e comincia col chiedersi se, per esempio, non sia più opportuno non fare nulla. Certo, un passo del genere lo condurrebbe alla follia, ma chissà, forse è proprio questa la condizione più vantaggiosa. E se si potesse scegliere il tipo di follia a noi più congeniale abbinandola come una cravatta alla camicia, allora Robinson con la sua eterna allegria si inietterebbe volentieri un'euforia ipomaniacale. Ma chi gli può assicurare che non cadrebbe poi in preda alla depressione, tentando di suicidarsi? Questa prospettiva lo indigna, soprattutto sotto il profilo estetico. E poi la passività non rientra nel suo carattere. Per annegarsi o impiccarsi avrà sempre tempo, e così Serge N. accantona anche questa alternativa. "Il mondo dei sogni" dice a sé stesso in una delle prime pagine del romanzo "è quel luogo-che-non-c'è che si avvicina di più alla perfezione, quell'utopia dall'evidenza annacquata perché dispiegata in modo insoddisfacente, sprofondata nel lavorio notturno del cervello, il quale, in quel momento, non è più all'altezza dei compiti che la realtà diurna gli impartisce." "In sogno," riflette Robinson "mi fanno visita le persone più bizzarre e mi pongono domande di cui non conosco la risposta, finché le loro stesse labbra non me la rivelano. Significa forse che queste persone sono solo ramificazioni del mio essere, una sorta di prolungamento ombelicale? Eppure si tratterebbe di un errore madornale. Così come spostando una pietra piatta con l'alluce del piede nudo ignoro se sotto troverò quei vermi bianchi e grassottelli che ormai mi sembrano perfino appetitosi, allo stesso modo non so che cosa si celi nell'animo di quelle persone che mi visitano in sogno, estranee al mio Io tanto quanto i vermi. Il problema non è cancellare la differenza tra sogno e realtà - pura follia! - bensì creare un ordine nuovo, migliore. Quel che in sogno si verifica solo di tanto in tanto, in maniera approssimativa e fortuita, deve essere raddrizzato, affinato, riconnesso e puntellato. Il sogno ricondotto e ancorato sistematicamente alla realtà, il sogno messo al servizio di quest'ultima cesserà di essere tale, popolandola e colmandola delle merci più pregiate. Nel contempo la realtà, pur riformulata in un senso completamente nuovo, ritroverà grazie a tale cura le sembianze limpide di un tempo. Dal momento che sono solo non devo più fare i conti con nessuno; ma visto che una simile consapevolezza avvelena la mia esistenza, devo smettere di essere solo. Di certo non posso permettermi Dio, ma questo non significa che io non possa permettermi nessuno!"

Il nostro Robinson con la mania del ragionamento logico prosegue: "Senza i suoi simili l'uomo è un pesce fuor d'acqua, ma come la maggior parte delle acque è torbida e inquinata, così era pure l'ambiente in cui vivevo: una latrina. Familiari, genitori, superiori, insegnanti non me li ero scelti io e lo stesso vale addirittura per le mie amanti che si succedevano come capitava; ammesso che si potesse parlare di scelta, era assolutamente casuale. E visto che, come qualunque mortale, ero condannato alle circostanze fortuite legate alla mia nascita e appartenenza socio-familiare, non ho nulla da rimpiangere. Ergo, che risuoni pure l'inizio della Genesi: Basta con questo ciarpame!"

E Robinson, si badi bene, pronuncia queste parole con solennità, quasi imitando il Creatore: "Sia la luce!" In effetti, anche lui si costruisce un mondo da zero. E questa creazione prende le mosse non dalla catastrofe accidentale che lo ha privato del contatto con i suoi simili, bensì da una decisione ponderata. Così l'eroe perfettamente logico di Marcel Coscat delinea un programma che finirà col rivoltarglisi contro e distruggerlo, ma in fondo non è forse quel che ha fatto anche l'universo umano col suo Creatore?

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Pagina 75

Solange Marriot

Rien de tout, ou la conséquence

(Ed. du Midi)


Niente, o la conseguenza non è soltanto l'opera prima della signora Solange Marriot, ma anche il primo romanzo a esaurire le possibilità della scrittura. E non perché sia un capolavoro artistico; piuttosto lo definirei un capolavoro di onestà. D'altronde è proprio l'esigenza di onestà il tarlo che al giorno d'oggi rode tutta la letteratura. Il letterato si affligge per il fatto di non poter essere contemporaneamente scrittore e uomo in senso completo, ossia serio e onesto. L'iniziazione all'essenza della letteratura si accompagna infatti a un disagio che per molti versi è simile a quello provato dai ragazzini più sensibili quando scoprono la verità sul sesso. Il trauma del bambino è una forma di ribellione interiore alla biologia genitale dei nostri corpi che gli appare contraria al buon gusto. Il senso di vergogna, lo shock sperimentato dallo scrittore deriva invece dalla consapevolezza di come sia inevitabile produrre falsità scrivendo. Ci sono bugie necessarie, che paiono giustificate da un punto di vista morale (ad esempio la menzogna di un medico a un malato incurabile), ma quelle letterarie non rientrano certo in questa categoria. Qualcuno deve pur fare il medico; di conseguenza costui sarà costretto a mentire in quanto medico. Ma nessuno è costretto ad accostare la penna al foglio intonso. In passato lo scrittore ignorava tali imbarazzi perché non era libero. Quando la religione dettava ancora legge, la letteratura non mentiva ma si limitava a servire. La sua emancipazione da questa schiavitù ha dato inizio a una crisi che oggi ha assunto tratti pietosi, se non addirittura osceni.

Pietosi perché un romanzo che descriva la sua stessa origine è metà confessione e metà inganno. Vi rimane sempre un che di menzognero (talora nemmeno poco) senza che esista la possibilità di eliminarlo. Consci del problema, gli scrittori hanno sprecato pagine su pagine per spiegare come si scrive, a detrimento della fabula scritta. Scivolando lungo questo piano inclinato si è giunti alla creazione di opere che non sono altro che una smisurata ammissione d'impotenza. Come se il romanzo di punto in bianco ci facesse entrare nel suo spogliatoio. Ma questi inviti non sono privi di una certa ambiguità: se non si arriva alla corruzione di innocenti, si tratta quantomeno di civetteria. E mettersi ad ammiccare, invece che mentire, significa cadere dalla padella alla brace.

L'antiromanzo aspira a una posizione più radicale, sottolineando la propria scelta di non essere illusione di nulla. L'autoromanzo era un prestigiatore disposto a rivelare al pubblico i suoi trucchi, mentre l'antiromanzo non vuole simulare un bel niente, tantomeno un illusionista che si smaschera da sé. E allora? Promette di non comunicare, di non narrare, di non significare niente, ma solo di essere, esattamente come le nuvole, un tavolo o un albero. Bello, in teoria. Ma è stato un fallimento, perché il primo che passa per la strada non può creare mondi autonomi alla stregua del Signore Iddio - e comunque il letterato non è in grado di farlo. Decisiva in tal senso è stata la questione del contesto: da esso, ossia da ciò che viene taciuto dipende il significato di quel che diciamo. Al contrario il mondo creato da Dio non conosce contesti; di conseguenza solo un mondo altrettanto autosufficiente può rimpiazzarlo. Ma anche se tentaste l'impossibile, non riuscireste a crearlo comunque - perlomeno con il linguaggio.

Cosa restava dunque alla letteratura dopo la fatale rivelazione della propria inadeguatezza? L'autoromanzo è una specie di strip-tease parziale, mentre l'antiromanzo rappresenta purtroppo una forma di autocastrazione. Come gli skopcy si sottoponevano a terribili amputazioni, perché offesi dalla natura genitale dell'uomo, così l'antiromanzo mutila il povero corpo della letteratura tradizionale. Che cosa rimaneva ancora da fare? Niente, se non un romanzo fatto di niente. Chi infatti mente a proposito di niente (e sappiamo bene che lo scrittore è costretto a mentire), cessa immediatamente di essere un mentitore.

Si poneva pertanto la necessità - e in questo consiste la perfetta coerenza - di scrivere il niente. Ma ha senso un compito simile? Scrivere il niente è un po' come non scrivere niente. Qual è il passo successivo?

Roland Barthes, in un saggio non esattamente attuale intitolato Il grado zero della scrittura, non sospetta nulla di tutto ciò (la sua immaginazione doveva essere un po' limitata, malgrado la leggendaria fulmineità). Non aveva capito che la letteratura è sempre una forma di parassitismo ai danni dell'intelligenza del lettore. L'amore, un albero, un parco, un sospiro, l'otite risultano comprensibili a chi legge, perché ne ha già fatto esperienza. Un libro può arredare la testa del lettore solo se al suo interno c'è già qualche mobile.

Ogni forma di parassitismo è esclusa dall'attività di chi opera realmente: tecnici, medici, costruttori, sarti, lavapiatti. Ma rispetto a loro che cosa produce lo scrittore? Apparenze. E sarebbe un'occupazione seria? L'antiromanzo avrebbe voluto modellarsi sull'esempio della matematica che, per l'appunto, non crea nulla di reale. Certo, ma la matematica non mente, perché adempie al proprio dovere, agendo sotto la spinta di una necessità che non è stata inventata sul momento. Stante l'esistenza di un metodo cui attenersi, le scoperte dei matematici sono autentiche, così come lo è il loro spavento se il metodo li induce in contraddizione. Lo scrittore invece - che non opera sotto la pressione di alcuna necessità ed è spaventosamente libero - si limita a contrarre col lettore un tacito accordo: vorrebbe convincere il lettore a supporre, a credere, a fidarsi delle sue parole... Ma è pur sempre un gioco e non quella meravigliosa schiavitù che consente alla matematica di progredire. La libertà assoluta è l'assoluta paralisi della letteratura.

Ma di che cosa stavamo parlando? Ah, del romanzo della signora Solange!

[...]

L'ultima parte dà la sensazione che il libro non possa continuare così per molto: è già un'eternità che si parla di niente! Un ulteriore avvicinamento al centro del non-essere parrebbe impossibile. E invece ecco l'ennesimo tranello, una nuova esplosione (o meglio implosione), il definitivo sprofondamento nel nulla! Come sappiamo, il narratore non esiste: a sostituirlo è il linguaggio, ciò che parla di sé in forma impersonale (quell'essere fittizio che, ad esempio, 'piove' o 'tuona'). Nel penultimo capitolo ci rendiamo conto con un senso di vertigine di aver raggiunto il vuoto assoluto. La storia della mancata apparizione di un uomo che sarebbe dovuto arrivare a bordo di un certo treno, l'assenza di stagioni, indicazioni climatiche, pareti domestiche, case, visi, occhi, aria, corpi - tutto questo ormai è dietro di noi, in superficie. Una superficie che, ormai corrosa dallo sviluppo della trama, dalla vorace cancrena del Nulla, ha cessato di esistere anche come negazione. Ci rendiamo conto di come siamo stati ingenui, sciocchi, ridicoli a credere che ci avrebbero raccontato una storia, che sarebbe successo qualcosa!

Si tratta dunque di una riduzione che si ferma dapprima allo zero per poi scendere sempre più in profondità e toccare perfino gli enti trascendentali, vanificando ogni metafisica. Malgrado ciò, il centro del non essere balugina ancora in lontananza. Il vuoto accerchia la narrazione da tutte le parti e azzarda le prime incursioni e intrusioni nel linguaggio stesso. La voce narrante comincia a dubitare di sé - no, non mi sono espresso bene: 'ciò che si narra da sé' scompare e resta fuori campo, ormai consapevole di non esistere più. Se esistesse ancora, sarebbe un'ombra, pura assenza di luce, così come queste frasi sono assenza d'essere. Non è la mancanza di acqua nel deserto o della fanciulla amata per l'innamorato: è la mancanza di sé. E se questo fosse un romanzo scritto in modo classico, tradizionale, non avremmo difficoltà a spiegare che cosa succede: il protagonista è un tale che inizia a nutrire il sospetto di non vedersi personalmente in sogno o da sveglio, ma di essere visto da sveglio e sognato da qualcuno, mediante segreti atti intenzionali. Cosicché egli sarebbe soltanto il sogno di qualcun altro e dovrebbe la sua provvisoria esistenza solo alla visione di quest'ultimo. Di conseguenza, rabbrividisce per il terrore che questi atti intenzionali possano cessare da un momento all'altro, condannandolo al non essere.

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Pagina 94

Gian Carlo Spallanzani

Idiota

(Mondadori Editore)


Finalmente gli italiani possono fregiarsi di un giovane scrittore che non ha paura della propria ombra. Temevo che tutti gli esordienti ormai si fossero lasciati contagiare dal criptonichilismo dei critici, secondo cui tutto è già stato scritto e agli scrittori non resta che raccogliere le briciole dai tavoli dove banchettavano gli antichi maestri - briciole che vanno sotto il nome di 'miti' o 'archetipi'. E quel che è peggio è che questi profeti dall'immaginazione inaridita (niente di nuovo sotto il sole) non enunciano le loro teorie in tono rassegnato, macché: la prospettiva del vuoto che attende nei secoli l'arte sembra riempirli di una soddisfazione malvagia. Se la prendono col mondo contemporaneo, o meglio col progresso tecnologico, e attendono l'inevitabile catastrofe come certe vecchie zitelle che ripongono tutte le loro speranze nel naufragio di un matrimonio contratto per amore, senza starci troppo a pensare. Di conseguenza, ci ritroviamo di fronte a raffinati cesellatori (Italo Calvino discende da Benvenuto Cellini, non certo da Michelangelo), oppure a naturalisti cui il naturalismo è venuto a noia e che fanno finta di aver scritto qualcosa di diverso (Alberto Moravia). Gli insolenti invece scarseggiano. Difficile trovarne là dove chiunque può spacciarsi per eroe, perché sul mento gli cresce una bella barbetta combattiva.

E invece questo giovane narratore, Gian Carlo Spallanzani, è insolente fino all'impudenza. In apparenza prende per oro colato l'opinione dei critici, salvo poi fare assolutamente di testa sua. Il suo cor Idiota si riallaccia al romanzo di Dostoevskij non solo nel titolo, va ben oltre. Non so per gli altri, ma per me è molto più facile recensire un libro se conosco la faccia del suo autore. Spallanzani in fotografia non è particolarmente simpatico: un giovinastro dalla fronte bassa e le occhiaie, una luce malvagia negli occhietti scuri e un mento delicato che ispira inquietudine. Un enfant terrible, un individuo astuto, spietato e meschino o uno sfrontato travestito da agnellino? Non è facile trovare definizioni calzanti, pertanto mi atterrò alla prima sensazione avuta mentre leggevo Idiota: la perfidia di Spallanzani fa categoria a sé. Che si sia nascosto dietro uno pseudonimo? Infatti il suo celebre omonimo e predecessore si occupava di vivisezione - e questo trentenne sembra fare lo stesso. Difficile credere alla casualità di una simile coincidenza onomastica. Ma il giovane autore è anche un impertinente: il suo Idiota è accompagnato da un'introduzione in cui spiega, con tono falsamente sincero, come mai abbia abbandonato l'idea originaria di riscrivere Delitto e castigo trasformandolo in Sonja, ossia lasciando che fosse la figlia di Marmeladov a narrare in prima persona la propria storia.

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Pagina 111

Kuno Mlatje

Odysseus of Itaca


L'autore è statunitense e il nome completo del suo protagonista è Homer Maria Odysseus. L'Itaca che ha visto i suoi natali è una località di quattromila abitanti dello Stato del Massachussets. Quindi non sarà fuori luogo affermare che il romanzo narra le vicissitudini di Odisseo da Itaca e, dal momento che nell'opera di Mlatje i significati profondi non mancano, si può dire che conservi un legame col suo illustre prototipo. A essere onesti, l'incipit non lo farebbe proprio pensare. H.M. Odysseus è di fronte a un tribunale, accusato di aver dato alle fiamme l'auto di proprietà del professor E.G. Hutchinson, che insegna alla Fondazione Rockefeller. Odisseo si dichiara disposto a rivelare le ragioni del suo gesto a una sola condizione, e cioè se anche il professore si presenterà davanti alla corte. Non appena Hutchinson entra in aula, Odisseo gli si avvicina col pretesto di comunicargli qualcosa di molto importante e gli morde a sangue un orecchio. Scoppia un putiferio: il difensore d'ufficio chiede la perizia psichiatrica, il giudice esita a concederla e Odisseo balza in piedi sul banco degli imputati, dando inizio alla sua arringa. Spiega di essersi ispirato per il rogo a Erostato, poiché le automobili sono i santuari del nostro tempo, e di aver morsicato l'orecchio del professore per imitare Stavrogin e guadagnarsi così fama imperitura. Anche Odisseo vuole diventare celebre, soprattutto per il denaro che si accompagna alla notorietà: infatti ha bisogno di soldi per finanziare un progetto destinato al bene dell'umanità.

Ma a questo punto il giudice interrompe la sua orazione. Homer M. Odysseus viene condannato a due mesi di carcere per aver distrutto l'auto e ad altri due mesi per oltraggio alla corte. Come se non bastasse, se la dovrà vedere con la causa civile intentata da Hutchinson, al quale ha rovinato un orecchio. Tuttavia Odisseo fa in tempo a distribuire ai giornalisti presenti un opuscolo. Si può dire che abbia raggiunto il suo scopo: la stampa parlerà di lui.

Le idee riassunte da Homer M. Odysseus nel suo libello intitolato Alla ricerca del vello d'oro spirituale sono piuttosto elementari. L'umanità deve i suoi progressi agli individui geniali. Per progresso si intende innanzitutto quello intellettuale, perché un gruppo può scoprire casualmente come sgrossare una selce, ma non certo ideare lo zero. Il primo genio della storia era stato proprio colui che l'aveva escogitato: "Vi pare possibile che a inventare lo zero si siano messi in quattro, magari un quarto per ciascuno?" chiede Homer M. Odysseus col suo tipico sarcasmo. Ma l'umanità non ha l'abitudine di trattare bene i geni. To be a genius is a very baci business indeed dichiara nel suo inglese raccapricciante. Ai geni le cose vanno sempre male. Non a tutti nello stesso modo, certo, ed è per questo che non sono uguali fra loro. Odisseo propone di classificarli nel modo seguente: per primi vengono i geni mediocri di terza categoria, incapaci di elevarsi intellettualmente sopra l'orizzonte del proprio tempo. Sono quelli che corrono relativamente meno rischi, spesso ottengono riconoscimenti e talvolta diventano perfino ricchi e famosi. I geni di seconda categoria invece sono ossi duri per i loro contemporanei e spesso ne scontano le conseguenze. Nell'antichità era normale che finissero lapidati, nel Medioevo bruciati sul rogo, in seguito, man mano che i costumi diventavano più umani, fu concessa loro la morte naturale per fame - quando addirittura non stavano sul gobbo della collettività, rinchiusi nei manicomi. Ad alcuni le autorità cittadine somministrarono la cicuta, molti furono mandati in esilio. Il potere laico e quello ecclesiastico si contendevano la palma del 'geniocidio' (così Odisseo definisce le fantasiose pratiche per sbarazzarsi dei geni). Eppure, prima o poi anche ai geni di seconda categoria toccano i loro riconoscimenti come una specie di trionfo postumo. A titolo di compensazione si dedicano loro biblioteche e pubbliche piazze, si erigono monumenti e fontane, mentre gli storici versano qualche lacrimuccia sugli inspiegabili lapsus del passato. Infine - afferma Odisseo - esiste, e non può non esistere, una categoria superiore di geni. Quelli appartenenti alla classe intermedia vengono recuperati per lo più dalla generazione successiva, o da quelle più tarde; i geni di prima categoria invece non vengono mai riconosciuti, né in vita, né dopo la morte. Le loro scoperte sono talmente inaudite, i loro progetti così rivoluzionari che nessuno ha il coraggio di prenderli in considerazione. L'incomprensione eterna è il destino comune che li attende.

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Pagina 122

Raymond Seurat

Toi

(Ed. Denoël)


Il romanzo tende a regredire verso l'autore, ossia dalla finzione intesa come unica realtà esistente arretra verso l' origine della finzione stessa. O perlomeno è quanto avviene nella prosa europea d'avanguardia. Al giorno d'oggi la finzione suscita soltanto repulsione, gli scrittori hanno perso la fede nella sua necessità e ostentano incredulità nei confronti della propria onnipotenza, di cui sono arcistufi. Non pensano più che basti scrivere "Sia fatta la luce!" perché il lettore sia abbagliato da un fulgore accecante (e tuttavia il fatto che lo scrivano e che possano scriverlo non è certo una finzione). Il romanzo che descrive la propria apparizione è solo il primo passo all'indietro: oggi non si costruiscono più testi che illustrano la propria nascita, ormai anche i verbali dell'attività creativa concreta sembrano troppo limitati. Adesso si scrive di ciò che si sarebbe potuto scrivere... delle mille possibilità che frullano nella mente. Lo scrittore afferra al volo immagini sfocate per poi lasciarsi andare alla deriva con quei pochi frammenti che non diventeranno mai testi 'normali'. Questa è la strategia difensiva attuale. Che non sarà l'ultima - abbiamo ragione di temere - perché tra i letterati si va diffondendo la sensazione che questa regressione graduale abbia un limite e che, un passo dopo l'altro, il percorso a ritroso che hanno intrapreso li porterà là dove attende, misterioso e recondito, 'l'embrione assoluto' della creazione e di tutte le creazioni, il nucleo da cui potrebbero scaturire miriadi di opere che nessuno scrive. Ma l'immagine dell'embrione è una mera illusione, perché non c'è genesi senza creato, né creazione letteraria senza letteratura. Le fonti originarie sono talmente inaccessibili da non esistere neppure: cercare di risalire ad esse significa perdersi nel regressus ad infinitum: si può sempre scrivere un libro sul tentativo di scrivere un libro su ciò su cui avremmo voluto scrivere un libro e così via, senza fine.

Tu di Raymond Seurat cerca di uscire dall' impasse prendendo una direzione diversa. Non l'ennesima ritirata, bensì un balzo in avanti. L'autore finora si è sempre rivolto al lettore, mai però per parlargli di lui. Seurat ha deciso di provarvi. Un romanzo sul lettore? Sì, sul lettore, ma non più un romanzo. Per lo scrittore rivolgersi al proprio destinatario ha sempre significato dire, raccontare qualcosa, magari a proposito del nulla, come avviene nell'antiromanzo, ma pur sempre per il lettore. In un certo senso, una specie di schiavitù. Seurat dichiara di averne abbastanza e decide di ribellarsi.

Un'idea ambiziosa, non c'è che dire. Un testo che si oppone al rapporto aedo-ascoltatore, narratore-lettore. Insurrezione? Sfida? Sì, ma in nome di che cosa? L'operazione si rivela subito un controsenso: se tu, scrittore, ti sei stancato di omaggiare il lettore coi tuoi racconti, allora taci e smetti di fare lo scrittore. Tertium non datur. Che quadratura del cerchio è mai l'opera di Raymond Seurat?!

Ho l'impressione che l'autore si sia ispirato nientemeno che a de Sade. Il divino marchese creava universi chiusi, coi loro castelli, palazzi e conventi, suddividendo poi gli sciagurati che aveva rinchiuso nelle loro stanze in vittime e carnefici. Dopo aver eliminato la prima categoria, infliggendole quelle sofferenze che procuravano loro tanto piacere, gli aguzzini si ritrovavano a tu per tu e, per tirare avanti, erano costretti a sbranarsi tra di loro, finché il più tenace - colui che aveva divorato e ingoiato tutti i colleghi - non fosse rimasto in splendida solitudine, rivelando così di non essere solo il porte parole dell'autore, bensì l'autore stesso, il marchese Donatien-Alphonse-François de Sade, rinchiuso nella Bastiglia. Lui sopravvive perché è l'unico a non essere un personaggio fittizio. Ed è proprio questo il rapporto che Seurat ha rovesciato: oltre all'autore, c'è e dev'esserci per forza un'altra figura reale rispetto all'opera, e cioè il lettore. Seurat non ha fatto che prenderlo e renderlo protagonista. Tuttavia non è il lettore a parlare in prima persona, perché qualunque discorso da parte sua sarebbe una mistificazione. E quindi è sempre l'autore a parlare del lettore, malgrado gli stia rifiutando i suoi servigi.

Insomma, Seurat mette la letteratura alla stregua di un esercizio di prostituzione spirituale, e questo solo perché scrivendo si è costretti a piegarsi ai capricci del lettore. Bisogna piacere, civettare, mettersi in mostra, sottolineare le proprie 'forme' stilistiche, confessarsi, eleggere il lettore a proprio confidente, offrire il meglio di sé, destare il suo interesse, monopolizzarne l'attenzione - in breve: adescarlo, entrare nelle sue grazie, fare anticamera e poi vendersi... che schifo! Ammettendo che l'editore sia il magnaccia, lo scrittore la prostituta e il lettore il cliente del bordello culturale e prendendo coscienza di questo stato di cose, è normale lasciarsi sopraffare dal disgusto.

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Pagina 181

Arthur Dobb

Non serviam

(Pergamon Press)


Il libro del professor Dobb è dedicato alla personetica, definita dal filosofo finlandese Eino Kaikki come la più crudele tra le scienze ideate dall'uomo. Dobb, uno dei più autorevoli personetici in circolazione, condivide quest'opinione. Non si può fare a meno di concludere - ammette - che la prassi personetica sia immorale; tuttavia, benché contraria ai dettati etici, riveste per noi un'importanza vitale. Nel campo della ricerca è impossibile sottrarsi a una certa dose di ferocia o di violenza perpetrata ai danni degli istinti naturali, malgrado i tentativi di alimentare il mito della perfetta innocenza dello scienziato come indagatore di fatti. Ci riferiamo a una disciplina che, non senza enfasi, è stata ribattezzata 'teogonia sperimentale'. Chi scrive ricorda bene che, quando nove anni fa la stampa diede ampia risonanza ai progressi della personetica, l'opinione pubblica rimase scioccata. Eppure eravamo convinti che non ci saremmo più stupiti di nulla. L'impresa di Colombo riecheggiò per secoli; la conquista della Luna invece è stata metabolizzata dalla coscienza collettiva nel giro di una settimana, quasi fosse la cosa più banale del mondo. Al contrario la nascita della personetica fu un autentico trauma.

Il suo nome deriva da due parole latine: persona e genetica, quest'ultima intesa come creazione, produzione. Tale disciplina costituisce una ramificazione recente della cibernetica e della psiconica degli anni '80, opportunamente contaminate con la pratica dell'intelettronica. Oggi ormai tutti sono al corrente della personetica. Se interrogassimo sul suo significato il primo che passa per la strada, probabilmente ci spiegherebbe che si tratta della produzione artificiale di esseri intelligenti. Risposta corretta che tuttavia non coglie il nocciolo della questione. Attualmente i programmi personetici di cui disponiamo sono quasi un centinaio. A nove anni fa risalgono le prime personalità schematiche, cellule assai primitive di tipo lineare. Ma la generazione dei computer di allora (che oggi ha valore meramente museale) non era ancora in grado di fornire le basi per la creazione vera e propria di personoidi.

A intuire questa possibilità teorica fu Norbert Wiener - come testimoniano alcuni capitoli del suo ultimo lavoro, Il Creatore e i robot. Anche se nelle sue memorie prevale l'ironia, dietro l'approccio scherzoso si intravedono premonizioni alquanto cupe. Wiener non poteva certo prevedere la svolta avvenuta da lì a vent'anni. Ma il peggio sarebbe arrivato - afferma sir Donald Acker - "quando al Massachusetts Institute of Technology (MIT) input e output entrarono in corto circuito".

Oggi è possibile confezionare un 'mondo' abitato nel giro di un paio d'ore - il tempo necessario per inserire nel computer i dati di uno dei programmi-base come BAAL 66, CREAN IV o JAHVE 09. Dobb ricostruisce alquanto sommariamente gli albori della personetica, rinviando il lettore alle fonti storiche. Da empirista pratico qual è preferisce innanzitutto esporre il suo metodo di lavoro, aspetto fondamentale, dal momento che tra la scuola inglese rappresentata da Dobb e il gruppo americano del MIT corrono differenze significative in termini di metodo e di obiettivi perseguiti. Dobb descrive la procedura "6 giorni in 120 minuti" come segue. Il primo passo è fornire alla memoria del computer una quantità minima di dati, ossia - tanto per esprimersi in un linguaggio comprensibile ai profani - caricare quella memoria con elementi matematici che rappresentano la materia prima dell' 'universo esistenziale' destinato ai personoidi non ancora nati. Alle creature che popoleranno questo mondo virtuale senza poterlo mai abbandonare verrà messo a disposizione un ambiente dalle caratteristiche indeterminate. Di conseguenza, non si sentiranno imprigionati in senso fisico, perché dal loro punto di vista questo universo non avrà limiti. Il mondo personetico ha in comune col nostro una sola dimensione: quella temporale (durata). Tuttavia questo tempo non è identico al nostro, perché il suo ritmo è soggetto a un controllo discrezionale da parte dello scienziato. In genere è estremamente condensato nella fase preliminare (il cosiddetto 'riscaldamento creazionale'), cosicché i nostri minuti corrispondono a interi eoni nel corso dei quali si assiste a una serie di riorganizzazioni e cristallizzazioni del cosmo sintetico. Quello personetico è un universo non-spaziale, perché le dimensioni in cui è strutturato hanno carattere puramente matematico e quindi, sotto il profilo oggettivo, 'immaginario', essendo semplicemente la conseguenza dei principi assiomatici stabiliti dal programmatore. È da lui infatti che dipende il loro numero. Se la sua scelta dovesse cadere ad esempio su un modello decadimensionale, la struttura assumerà caratteristiche completamente diverse rispetto a quelle di un sistema a sei dimensioni. Occorre sottolineare ancora una volta che non stiamo parlando di dimensioni in senso fisico, ma di costrutti astratti dal valore puramente logico, utilizzati dalla creazione matematica di sistemi.

[...]


Assolutamente centrale - per mettere a fuoco la stessa possibilità di creare personoidi - è il capitolo undicesimo, che in un linguaggio tutto sommato accessibile riassume le basi della cosiddetta 'teoria della coscienza'. Dal punto di vista fisico la coscienza (non solo quella personoide, ma qualunque altra, anche quella umana) è un'onda immobile di informazioni, un elemento dinamico ma costante immerso in un flusso continuo di mutamenti, una sorta di 'compromesso' e nel contempo di risultante matematica che, evidentemente, l'evoluzione non aveva contemplato. Al contrario, essa aveva posto fin da subito innumerevoli ostacoli sulla via dell'armonizzazione del lavoro dei vari cervelli sopra un certo livello di complessità. Beninteso, non essendo un demiurgo personale, la creazione di questi intoppi da parte dell'evoluzione non era certo premeditata. È successo semplicemente che alcune vecchie soluzioni evolutive ai problemi di regolazione del sistema nervoso si sono conservate fino a quando ha avuto inizio l'antropogenesi. Sotto il profilo economico e progettuale sarebbe stato necessario rimuoverle per lasciare spazio a qualcosa di completamente nuovo - ad esempio, il cervello di un essere puramente razionale.

Ma l'evoluzione non poteva comportarsi così, dato che tra le sue facoltà non rientra quella di sbarazzarsi di retaggi arcaici, talvolta antichi di milioni di anni. Al contrario, essa procede un passo alla volta, per piccoli adattamenti, preferendo trascinarsi stancamente piuttosto che spiccare un salto nel vuoto. L'evoluzione è una rete a strascico che si tira dietro innumerevoli arcaismi, "rifiuti di ogni genere" - questa la definizione lapidaria di Tammer e Bovine, che sono stati tra i primi a creare modelli informatici ricalcati sulla mente umana anticipando così la personetica moderna. La nostra coscienza è il risultato di un compromesso particolare, di un patchwork. Oppure, come ha affermato Gebhardt, è la perfetta applicazione del noto adagio tedesco: Aus einer Not eine Tugend machen (fare di necessità virtù). Il computer non è in grado di dotarsi di una coscienza per il semplice motivo che le sue azioni non possono entrare in conflitto gerarchico tra di loro. Al massimo può essere percorso da un 'brivido logico' nel caso che al suo interno le antinomie si moltiplichino, ma niente di più. Nel corso di centinaia di migliaia d'anni le contraddizioni che brulicano nell'intelletto umano sono diventate gradualmente oggetto di 'procedure di arbitraggio'. Sono sorti livelli inferiori e superiori che sovrintendono ai riflessi istintivi e alle reazioni meditate, agli stimoli e alle difese, alla modellizzazione dell'ambiente elementare ('via zoologica') e di quello concettuale ('via linguistica'). E tutti questi livelli non si lasciano ricomporre in un'unità, perché non possono e non vogliono.

Ma che cos'è allora la coscienza? Un espediente, una scappatoia, un'apparente istanza assoluta, un'ipotetica corte d'appello (ma solo ipotetica!). Oppure, per utilizzare il linguaggio fisico-informatico, un'attività che una volta aperta non potrà mai considerarsi chiusa, ossia definitivamente terminata. Essa infatti è solo il progetto di una simile conclusione, di una soluzione finale delle contraddizioni ostinate che lacerano la mente umana. Si potrebbe paragonarla a uno specchio incaricato di riflettere altri specchi che a loro volta ne riflettono altri e così via, all'infinito. Ma da un punto di vista meramente fisico tale rispecchiamento non è possibile. Proprio per questo il regressus ad infinitum rappresenta una sorta di trabocchetto su cui si libra in volo la coscienza umana. Nel subconscio, ovvero al di sotto della nostra coscienza, si svolge senza interruzioni la lotta per rappresentare appieno ciò che non può entrare interamente nel conscio - e non per mancanza di spazio ma semplicemente perché se si volessero offrire le stesse possibilità a tutte le tendenze contraddittorie che si azzuffano per monopolizzare la nostra attenzione, allora sì che sarebbe necessaria una capienza illimitata. Intorno a noi si svolge dunque un incessante pigia pigia, una ressa continua e la coscienza non è affatto un imperturbabile nocchiero in grado di governare tutti i fenomeni intellettuali; al contrario assomiglia a un guscio di noce in balia dei flutti. Galleggia ma ciò non significa che sia padrona della situazione.

Purtroppo è impossibile rendere con parole semplici la teoria contemporanea della coscienza e il suo vocabolario, cosicché siamo costretti a utilizzare, almeno in questa fase preliminare, una serie di metafore e di esempi figurati. In ogni caso ora sappiamo che la coscienza è una sorta di 'stratagemma', una scappatoia cui è ricorsa l'evoluzione comportandosi con l'opportunismo che le è proprio e rivelandosi per l'ennesima volta pronta a inventarsi chissà che, pur di togliersi d'impiccio. Se l'essere razionale fosse stato creato in base a principi logici e rispettando criteri di funzionalità tecnica, allora non avrebbe mai ricevuto in dono la coscienza. Pertanto si comporterebbe immancabilmente in modo ragionevole, coerente e calibrato. All'osservatore esterno una simile creatura parrebbe dotata di geniali capacità creative e decisionali ma di certo non gli ricorderebbe l'uomo, essendo del tutto priva della sua enigmatica profondità, dei suoi conflitti interiori, della sua natura labirintica...

[...]


Attualmente il MIT lavora alla progettazione di alcuni programmi (AFRON II e EROT) che offrirebbero ai personoidi (finora asessuati) la possibilità di rapporti erotici con tanto di concepimento e di riproduzione sessuata. Ma Dobb non fa mistero del suo scarso interesse per questi esperimenti statunitensi. Il suo lavoro, ampiamente illustrato in Non serviam, va in tutt'altra direzione. Non a caso la scuola anglosassone è stata ribattezzata "poligono filosofico" e "laboratorio di teodicee". Definizioni che ci conducono all'ultima e forse più rilevante sezione del libro, quella che ai lettori parrà senz'altro la più affascinante e che spiega e giustifica il titolo apparentemente oscuro dell'opera.

Dobb vi illustra un suo esperimento che dura ormai ininterrottamente da otto anni, soffermandosi sulla sua fase preliminare che, in realtà, salvo alcune modifiche irrilevanti, ripropone gli schemi del programma JAHVE VI. L'autore presenta in sintesi i risultati delle rilevazioni effettuate nell'universo che ha creato e di cui segue tuttora l'evoluzione. Va detto che Dobb scorge in tutto ciò una pratica moralmente discutibile e a tratti - questa la sua ammissione - perfino riprovevole. Ciononostante lo scienziato prosegue il proprio lavoro, sostenendo la necessità di condurre esperimenti incompatibili con le posizioni dell'etica e che non presentano altre giustificazioni se non quelle strettamente scientifiche. Lo stato delle ricerche - afferma - è talmente avanzato che ormai le vecchie scusanti accampate dagli studiosi non valgono più nulla. Non si può ostentare la propria neutralità e sbarazzarsi degli scrupoli di coscienza, ricorrendo magari ai pretesti utilizzati a loro tempo dai vivisezionisti, i quali sostenevano di infliggere sofferenze (o semplici fastidi) a esseri privi di una coscienza sviluppata. No, in questo caso siamo responsabili due volte, prima creiamo nuovi esseri e poi li incateniamo agli schemi dei nostri procedimenti sperimentali. Possiamo rigirare la questione come preferiamo ma ci ritroveremo sempre con le spalle al muro.

Anni e anni di esperimenti hanno portato Dobb e i suoi collaboratori di Oldport alla realizzazione di un universo a otto dimensioni abitato da alcuni personoidi, i cui nomi sono ADAN, ADNA, ANAD, DANA, DAAN e NAAD. I primi personoidi hanno sviluppato il rudimentale linguaggio ricevuto in origine, dopodiché si sono riprodotti 'per scissione'. Come scrive Dobb, imitando lo stile dei versetti biblici: "E fu così che ADAN generò ADNA, ADNA generò DAAN, e DAAN generò EDAN, il quale a sua volta generò EDNA...", e così via, finché le generazioni successive non divennero trecento. Dal momento che il computer utilizzato per l'esperimento disponeva di una capacità inferiore a 100 individui personoidi, gli scienziati provvedevano periodicamente a contenere l'eccesso demografico. Nella generazione numero trecento riappaiono gli stessi ADAN, ADNA, DANA, DAAN e NAAD, seppur contrassegnati da cifre aggiuntive che ne indicano l'appartenenza generazionale e che noi ometteremo in questa trattazione per amore di semplicità. Dobb specifica che il tempo dalla creazione del mondo nell'universo personoide equivale più o meno - se confrontato a grandi linee col nostro - a 2500 anni. Nel frattempo la popolazione personoide ha interpretato variamente il proprio destino, elaborando visioni differenti di "tutto ciò che esiste". In altri termini, i personoidi hanno ideato una serie di filosofie, ontologie e epistemologie, accompagnandole con un gran numero di "esperimenti metafisici".

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Pagina 213

Alfred Testa

La nuova cosmogonia


(Prolusione tenuta dal professor Alfred Testa in occasione della cerimonia di conferimento del Premio Nobel, contenuta nel volume in suo onore From the Einsteinian to the Testian Universe e qui riprodotta per gentile concessione dell'editore J. Wiley & Sons.)


Sua Altezza Reale. Signore e signori. Vorrei approfittare della rilevanza del luogo in cui mi trovo per esporvi le circostanze che mi hanno spinto a elaborare una visione nuova dell'Universo, ridisegnando radicalmente la collocazione dell'essere umano nello spazio cosmico. Il tono altisonante di queste parole non si riferisce affatto al mio lavoro, bensì alla memoria di un uomo che non è più tra noi e al quale dobbiamo tale rivoluzione. Vi parlerò di lui perché quel che meno avrei desiderato è accaduto: la mia opera ha finito per offuscare - almeno nell'opinione dei contemporanei - quella di Aristides Acheropoulos. Al punto che, di recente, uno storico della scienza, il professor Bernard Weydenthal, insigne specialista la cui competenza parrebbe fuor di discussione, ha scritto nel suo libro Die Welt als Spiel und Verschwörung che il testo fondamentale di Acheropoulos, A New Cosmogony, non forniva ipotesi scientifiche, limitandosi in realtà a fantasticherie letterarie della cui verosimiglianza il primo a dubitare era l'autore. Analogamente, il professor Harlan Stymington, in The New Universe of the Games Theory, sostiene che senza il lavoro di Alfred Testa l'idea di Acheropoulos sarebbe rimasta un vano concetto filosofico come l'armonia prestabilita di Leibniz, ossia un modello teorico cui le scienze esatte non hanno mai prestato credito.

Così, a detta di alcuni, avrei preso sul serio un'idea cui nemmeno l'autore credeva davvero; secondo altri invece avrei introdotto nelle limpide acque delle scienze naturali un pensiero minato da speculazioni filosofiche antiscientifiche. Giudizi tanto erronei esigono un chiarimento, nella misura in cui ne sono capace. È vero che Acheropoulos era un filosofo della natura e non un fisico o un cosmologo, e che ha sviluppato le sue idee senza ricorrere alla matematica. Ed è indubbio che tra il quadro intuitivo della sua cosmogonia e la mia teoria formalizzata ci sia un abisso. Ma è altrettanto indiscutibile che Acheropoulos avrebbe potuto cavarsela anche senza Testa, mentre Testa deve tutto ad Acheropoulos. E questa non è una differenza da poco. Ma per illustrarla devo pregarvi di concedermi un briciolo di pazienza e di attenzione.

Quando verso la metà del XX secolo un pugno di astronomi sollevò il problema delle cosiddette civiltà cosmiche, l'astronomia li ignorò totalmente. La comunità scientifica vide nelle loro indagini il passatempo di poche decine di originali, quegli stravaganti che non mancano mai, nemmeno nella scienza. Gli studiosi non condannarono apertamente la ricerca di messaggi provenienti da altre civiltà, tuttavia negarono la possibilità che la loro esistenza potesse influenzare il Cosmo oggetto delle nostre osservazioni. Se dunque un astrofisico si azzardava a sostenere che lo spettro delle emissioni pulsar o l'energetica dei quasar o altri fenomeni visibili nei nuclei galattici fosse da ricondursi all'attività razionale di ignoti abitanti dell'Universo, nessuno vedeva nelle sue affermazioni ipotesi scientifiche degne di essere approfondite. L'astrofisica e la cosmologia rimasero sorde a queste problematiche, per non parlare poi della Fisica teorica che ostentava la più totale indifferenza. All'epoca le scienze si attenevano più o meno a questo schema: nel caso del funzionamento di un orologio, la presenza di batteri tra le molle e gli ingranaggi non ha la minima importanza né per la sua struttura, né per la sua cinematica. I batteri non possono certo influire sul funzionamento dell'orologio! O almeno così si pensava allora: esseri dotati di intelligenza non sono in grado di interferire nell'andamento dell'orologio cosmico, pertanto siamo autorizzati a studiare tale meccanismo ignorando bellamente la loro eventuale presenza.

Se qualcuno dei luminari di allora avesse insistito sulla prospettiva di una rivoluzione in campo fisico e cosmologico - rivoluzione connessa all'esistenza nell'Universo di esseri razionali - lo avrebbe fatto a una sola condizione: se fossero state scoperte civiltà cosmiche e se i segnali inviati da esse ci avessero permesso di approfondire la nostra conoscenza delle leggi naturali, allora sì, seguendo questa strada - ma soltanto questa! - la scienza terrestre avrebbe potuto intraprendere una svolta epocale. Che una rivoluzione astrofisica potesse avvenire in assenza di contatti; di più: che una mancanza totale di contatti, segnali, manifestazioni della cosiddetta 'astroingegneria' potesse innescare un sovvertimento generale della Fisica, mutando radicalmente la nostra visione del Cosmo, questo agli studiosi del tempo non sarebbe mai passato per la mente.

[...]

Temo che, in quest'epoca in cui tutti hanno fretta e le mode durano un giorno solo, nessuno sarebbe disposto a prendere in mano La nuova cosmogonia - a eccezione forse di uno storico della scienza o di un bibliofilo. Al lettore colto il suo titolo dice vagamente qualcosa perché ha sentito parlare del suo autore, ma la cosa finisce qui. Eppure, rinunciando a leggerne il testo, ci si priva di un'esperienza straordinaria. A ventuno anni di distanza mi è rimasto scolpito nella memoria non solo il contenuto della Nuova cosmogonia, ma anche le impressioni che ne accompagnarono la lettura. Nell'istante in cui si comprende la vastità della visione di Acheropoulos, non appena nella nostra mente prende forma l'idea del palinsesto Cosmo-Gioco, coi suoi Giocatori invisibili ed eternamente estranei gli uni agli altri, non si può non avere l'impressione di trovarsi davanti a qualcosa di sconvolgente, di sorprendentemente nuovo - e, allo stesso tempo, a un plagio, a una riedizione (tradotta nel linguaggio delle scienze naturali) di miti antichissimi, la cui origine affonda nella notte dei tempi. Credo che questa sensazione spiacevole, quasi irritante, derivi dal fatto che per il nostro intelletto il tentativo di coniugare Fisica e volontà è inammissibile, se non addirittura indecente. Perché i miti non sono infatti che proiezioni della volontà, esattamente come le antiche narrazioni cosmogoniche che ci raccontano - con la compunta serietà e l'innocenza bonaria tipiche del paradiso perduto dell'umanità - come l'Essere scaturisca dal conflitto fra gli elementi demiurgici, cui le leggende attribuiscono forme e incarnazioni sempre nuove. Il mondo nasce dalla miscela di odio e amore che unisce dèi-animali, dèi-spiriti e dèi-uomini - e sorge spontaneo il sospetto che, per scrivere la Nuova cosmogonia l'autore si sia ispirato proprio a questo conflitto (che è l'incursione antropomorfica più audace negli spazi del mistero cosmico), nonché alla riduzione della Fisica al Desiderio.

[...]

Ammetto che non sia facile condividere la mia diagnosi. Il testo si trasforma in continuazione sotto gli occhi del lettore: non è difficile notare che la matrice di quegli incontri-scontri, cioè del Gioco, è costituita dallo scheletro formale di ogni fede religiosa che non si sia ancora sbarazzata dei suoi elementi manichei. Ma dove sono queste credenze di cui non si conserva traccia? Per inclinazione e per formazione, io sono un matematico, se mi sono dato alla Fisica è stato solo grazie ad Acheropoulos. Sono sicuro che i miei rapporti con questa disciplina sarebbero rimasti vaghi e casuali, se non fosse stato per lui. Acheropoulos mi ha convertito: potrei perfino indicarvi il passo della Nuova cosmogonia in cui è avvenuta la mia rigenerazione. Si tratta del sedicesimo paragrafo del sesto capitolo, là dove si parla dello stupore di Newton, Einstein, Jeans, Eddington di fronte alla possibilità di cogliere matematicamente le leggi della Natura, ossia al fatto che la matematica, frutto del puro lavoro logico dello spirito, possa elevarsi all'altezza del Cosmo. Alcuni tra quei giganti - Eddington ad esempio, ma anche Jeans - credevano che il Creatore stesso fosse un matematico e riconoscevano gli indizi di questa Sua attitudine nella creazione. Acheropoulos dimostra come la Fisica teorica si sia ormai lasciata alle spalle tale fascinazione, perché ha compreso che i formalismi matematici ci dicono del mondo a un tempo troppo e troppo poco. In altre parole la matematica è un'approssimazione della struttura dell'Universo che in realtà non centra mai il bersaglio perché mira sempre un po' troppo a lato. Alcuni pensano che si tratti di una fase transitoria e lo stesso Acheropoulos dichiara: i fisici non sono ancora riusciti a costruire una teoria generale dei campi né a riconnettere i fenomeni del microcosmo con quelli del macrocosmo ma prima o poi ce la faranno. Arriverà sicuramente il momento in cui mondo e matematica finiranno per coincidere ma ciò non avverrà in seguito a una revisione dell'apparato matematico, no, nient'affatto. A una simile convergenza si giungerà quando l'opera della Creazione toccherà l'apice: ma questo processo è ancora in corso. Le leggi naturali non sono ancora quelle che 'devono' essere e lo diverranno non in virtù di un perfezionamento della matematica, bensì della trasformazione stessa dell'Universo.

Signore e Signori, fu così che mi lasciai conquistare da quest'eresia, la più audace che avessi mai incontrato! Perché cos'è che Acheropoulos scrive poco più in là, nello stesso capitolo? Né più né meno che la Fisica dell'universo è il risultato della sua sociologia! Ma per comprendere la portata di una mostruosità simile dobbiamo fare un passo indietro e soffermarci su alcuni elementi basilari.

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Ma concentrandoci sull'universo attuale intravediamo comunque nella sua struttura i principi fondamentali della strategia adottata dai Giocatori. Il Cosmo è in espansione permanente e ha una velocità-limite che è quella della luce. Le leggi che ne regolano l'ordine sono effettivamente simmetriche ma non si tratta di una simmetria perfetta. Il Cosmo è fondato su raggruppamenti e gerarchie, essendo composto di stelle raccolte in ammassi e di ammassi raccolti in galassie, e di galassie raccolte in supergalassie. Inoltre è dominato da una totale asimmetria temporale. Sono questi i suoi tratti essenziali e ciascuno di essi viene spiegato in modo approfondito nella struttura del Gioco cosmogonico, la quale ci permette di comprendere perché uno dei suoi principi sia il rispetto del Silentium Universi. Ma come mai il Cosmo è ordinato proprio così? I Giocatori sanno che nel corso dell'evoluzione siderale sorgono nuovi pianeti e civiltà, perciò fanno in modo che le giovani civiltà candidate al Gioco non siano in grado di comprometterne l'equilibrio. Ecco perché l'universo si espande: solo in un Cosmo in continua espansione la distanza che separa le nuove civiltà dalle altre rimane costante.

Tuttavia, anche in un universo in espansione costante avverrebbero contatti finalizzati alla stipula di alleanze e alla nascita di coalizioni locali tra i nuovi Giocatori, se il Cosmo in questione fosse privo di una velocità-limite. Immaginiamo un universo le cui leggi fisiche consentano, alla velocità con cui le azioni si propagano, di crescere in proporzione all'energia investita. Chi disponesse di riserve energetiche cinque volte maggiori a quelle altrui potrebbe acquisire informazioni sulle condizioni dei concorrenti a una velocità cinque volte superiore e sfruttando questo vantaggio infliggere loro un colpo mortale. In un Cosmo simile esisterebbe la possibilità di monopolizzare il controllo sulla Fisica e sugli stessi partecipanti al Gioco, cosicché l'emulazione, l'agonismo e la sete di potere sarebbero incentivati. Invece nel Cosmo reale per superare la velocità della luce ci vorrebbe un'energia infinitamente grande; in altri termini, quest'ultima è una barriera che non si può abbattere in alcun modo.

Di conseguenza nel nostro Cosmo l'accrescimento della singola potenza energetica non paga. Ragioni simili sono alla base dell'asimmetria temporale. Se il tempo fosse reversibile e se adeguati investimenti ci permettessero di invertirne il corso, anche in questo caso il dominio sugli altri sarebbe assicurato: basterebbe infatti annullarne le azioni. Ecco dimostrato come un universo non in espansione, senza limiti di velocità o, ancora, dal tempo reversibile, non consentirebbe la piena stabilizzazione del Gioco. E invece il problema è proprio questo: stabilizzarlo in via definitiva. È a questo che tendono le mosse dei Giocatori, incarnate nella struttura stessa della materia. Non c'è dubbio infatti che la rimozione di interferenze e scontri grazie a una Fisica normativa sarebbe molto più affidabile e radicale di altri stratagemmi preventivi - mi riferisco a leggi codificate, inasprimento della sorveglianza, minacce, coercizione o condanne.

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Il dilemma più arduo per Acheropoulos fu certamente quello del Silentium Universi. Le sue due leggi sono note a tutti. La prima afferma che nessuna civiltà di livello inferiore può individuare la presenza dei Giocatori, perché costoro non solo tacciono, ma con il loro comportamento non si distaccano neppure dallo sfondo cosmico, in quanto sono quello sfondo.

La seconda legge di Acheropoulos sostiene che i Giocatori non inviano alle civiltà più recenti messaggi di tutela o di aiuto perché non sono in grado di farlo concretamente e non vogliono spedirli senza un destinatario preciso. Per mandare comunicazioni mirate bisognerebbe innanzitutto conoscere le condizioni in cui si trova colui al quale sono indirizzati ma a impedirlo è la prima legge del Gioco che stabilisce i limiti dell'attività spazio-temporale. Come sappiamo, ogni informazione riguardante lo stato di un'altra civiltà sarebbe un anacronismo già al momento della ricezione. Fissate tali barriere, i Giocatori si sono vietati reciprocamente ogni ulteriore accertamento dello stato in cui versano le singole civiltà. L'invio di informazioni prive di destinatario si rivelerebbe dunque più dannoso che altro. Acheropoulos lo dimostra descrivendo un suo esperimento.

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Le cosiddette costanti universali non sono affatto così costanti. In particolare, non lo è quella di Boltzmann. Ciò significa che, benché il disordine rappresenti l'esito ultimo di ogni ordine primigenio, i Giocatori possono comunque intervenire sul suo ritmo di crescita. Si direbbe (ma questa è una semplice congettura e non una deduzione teorica) che i Giocatori abbiano introdotto l'asimmetria temporale con una certa brutalità, come se avessero fretta (beninteso su scala cosmica). Lo testimonia l'adozione di un gradiente di crescita entropica così alto. I Giocatori devono aver sfruttato questa forte tendenza all'aumento del disordine per imporre un ordine unitario nel Cosmo. E nonostante da allora tutto abbia cominciato a procedere dall'ordine verso il disordine, perlomeno il quadro complessivo del Cosmo è diventato uniforme, soggetto a un unico principio e pertanto molto più coeso.

Al contrario, che i processi del microcosmo fossero reversibili lo si sapeva già da tempo. Dalla teoria emerge un dato insolito: se l'energia utilizzata dalla scienza terrestre per studiare le particelle elementari fosse maggiore di 10^19 volte, le nostre indagini non consisterebbero più nel disvelamento di uno stato fisico bensì in una sua alterazione. Invece di conoscere le leggi della natura inizieremmo a modificarle.

Ed è proprio questo il punto debole, il tallone d'Achille della teoria fisica dell'universo attuale.

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