Copertina
Autore Antonio Leotti
Titolo Il giorno del settimo cielo
EdizioneFandango, Roma, 2007 , pag. 312, cop.fle., dim. 15x21x1,7 cm , Isbn 978-88-6044-028-0
LettoreGiovanna Bacci, 2007
Classe narrativa italiana
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Che succederà ora? Ho chiuso gli occhi e li tengo chiusi, ecco, sto cominciando a sudare. Che succederà ora, che succederà? sempre questa la domanda. Mi metterò a urlare? Gli altri lo sentono il ruggito nella mia testa? Finirà questo viaggio che non è nemmeno cominciato? Non ce la faccio più, riapro gli occhi, li ficco negli spazi vuoti. Le mie gambe, i piedi nei mocassini, nerissimi sulla lurida moquette, più in alto, tra me e il finestrino, aria, spazio disabitato, se potessi mi metterei sotto al sedile, invisibile.

Attento, passi nel corridoio. Solo ora mi rendo conto di quanto siano ovattati i treni quando sono fermi, voci e respiri galleggiano in un orizzonte sonoro che non è di questo mondo, come venissero da sottoterra. Purtroppo qualcuno sta arrivando e non sarà così irreale come il suono dei suoi passi. Avrà corpo, sangue e voce. Chiudo gli occhi. Fare finta di dormire, subito. Resistere alla sirena della timidezza, la mia famosa timidezza di cui tutti si preoccupano, babbo, mamma, soprattutto il babbo.

Quando non ce la faccio più, riapro gli occhi: non sono più solo, nello scompartimento ora siamo in tre. Prima o poi, sirena o non sirena, il contatto ci sarà. Uno dei due ci vorrà parlare con me, o perché sono il più giovane dello scompartimento, o per qualsiasi altro motivo. Lo so. Lo fanno sempre. Sono sicuro. Sempre a farsi i cazzi degli altri. Più ci penso, più il vuoto aumenta nella pancia.

Il treno parte e io continuo a pensare al vuoto, che sarà anche vuoto, ma è come una cosa solida che comprime, schiaccia. Una cosa che riempie e che c'è, dunque. È la paura, questa. Devo calmarmi. Prepararmi all'urto, rendermi presentabile. Invece continuo ad aver paura. Sono rigido. Cerco di mascherare il respiro che vorrebbe ansimare, i polmoni che vorrebbero dilatarsi come dopo un'immersione, così inspiro l'aria più lentamente, solo dal naso. Gli occhi intanto stanno fuori dal finestrino, incollati alla macchia di colore della velocità, ci stanno finché un impercettibile lampo chiaro balena accanto ai miei piedi. E l'istinto che mi frega. Io vorrei che loro, gli occhi, continuassero a fare il loro dovere che è quello di ignorare tutto e tutti. Invece no. Se ne vanno subito in direzione di quella piccola perturbazione luminosa che peraltro già non c'è più, già appartiene al passato, cosa correte a fare dietro a queste illusioni? Ecco, che vi avevo detto, non c'è niente di che laggiù, solo le gambe, un po' tozze, ma belle, di una donna che dev'essere alta, inguainate in calze color carne, a loro si deve il lampo dorato, che vi avevo detto? Solo le gambe di questa donna che è seduta davanti a me, niente di più. Ora tornate al paesaggio fuori dal finestrino, per favore. Ma loro niente, si avvitano con una carezzevole veronica intorno alle caviglie, salgono su per il polpaccio, ginocchio, cosce, sotto la gonna, no, oh! sotto la gonna no! Poi la vita, su, ancora più su, tette, né grandi né piccole, fermatevi, per carità, più su ci sono gli occhi, almeno dovrebbero, difficile che la signora sia cieca... ecco, è fatta, i miei occhi guardano i suoi che guardano i miei, cioè, mi guarda, sta guardando proprio me. E questo non è niente: mi sorride, è un sorriso appena accennato, d'accordo, ma sorride proprio a me, un sorriso buono che mi fa paura, il classico sorriso che nasconde qualcosa, amabile, materno, non abbagliante come quello del babbo, no, quello è un sole, questo è il sorriso di chi, prima o poi, vorrà qualcosa da me. Vaffanculo, ti odio. Che hai da guardare? Con quella espressione da madonna che i miei occhi non vogliono lasciare, fissi nei tuoi. Indovino l'immobile rigidità della mia faccia di cazzo, invece, spero almeno di evitare il disastro del rossore.

Riesplode la sirena. Paura. Paura e sirena nella testa, sirena a tutta forza. C'è da dire che anche la sirena, proprio come la paura, tende a diventare una cosa solida, ma di forma diversa: allungata, liscia, un ramo levigato e uniforme, con nodi appena accennati, un ramo a cui potrei anche appendermi e dondolare allegro e senza pensieri, solo, beato, invece di impiccarmici come sto facendo. Soffoco. L'urlo aumenta, ecco, tra poco, due, tre secondi al massimo, non sentirò e non vedrò più niente e nessuno.

La signora distoglie lo sguardo. Finalmente i miei occhi sfiniti tornano all'oasi del paesaggio fuori dal finestrino. Sospiro, ma è un sollievo provvisorio, lo so. Prima o poi, lei (o questo signore coi baffi), parlerà. Con me, intendo. È troppo strano che uno di tredici o quattordici anni viaggi da solo verso il nord con una borsa da cui spunta il manico di una racchetta da tennis.

Il treno intanto è lentissimo. Ora siamo addirittura fermi. Di là dal finestrino c'è una spiaggia nera con i cavalloni e l'acqua ha un bel colore verde.

"Scusi, ha da accendere?" Sul vetro del finestrino, sovrapponendosi al verde-blu del mare e del cielo, compare l'immagine di lei, proprio come certe figure sul manuale di dottrina, dove dio compariva sempre in cielo, sovrapponendosi alle nuvole. La signora si sporge verso il signore, una sigaretta di quelle lunghe tra le dita (unghie curate, smaltate di rosso chiaro), sorrisi di cortesia, la fiamma di un accendino d'oro tra di loro. Lei (quanti anni avrà, trenta, quaranta?) soffia via il fumo mettendo le labbra a tromboncino, sporgendole in avanti come fanno quelli che non sanno fumare. Vedo che gira la testa verso di me, forse si è accorta che la sto spiando sul vetro? Faccio immediatamente atterrare lo sguardo sulla spiaggia. Il treno si muove lentissimo, fa qualche metro e si ferma di nuovo. Da qui si vede che la spiaggia finisce contro le rocce di una piccola insenatura, sulle rocce c'è una casa, una sola, una villa fatta come un castello piccolo, cioè coi merli e le finestre grandi ma piccolo come una casa normale, con una palma davanti, mi piace, mi piacerebbe che fosse casa mia e starci da oggi in poi, da solo. Anzi no: io ci vado oggi, e la signora qui davanti a me ci viene stasera per il fine settimana. D'inverno. Freddo, piove, stiamo in casa a guardare il mare mosso. Poi lei mi porta al ristorante, in macchina, ha una macchina molto carina, una A112, o un R5 col motore milletré, guida veloce mentre ascolta la musica a tutto volume. Ascolta Mina. A me non piace. Dico, ma non lo conosci James Taylor? Lei allora mette James Taylor, I don't have much to say... mi sorride. Al ristorante mangiamo il pesce, le triglie. Poi torniamo che ancora piove. Stavolta sentiamo parole parole di Mina e Alberto Lupo (mi piace abbastanza). Arriviamo nella nostra casa sul mare. Lei mi porta a letto. Mi lascio fare tutto quello che vuole, baci, carezze, mi spoglia, io la spoglio anche, la posso toccare, anche le tette, e poi... poi... poi non lo so... so solo che ci svegliamo la mattina dopo e ricominciamo da capo, guardiamo il mare e la pioggia e così via. Che bella vita sarebbe: io innamorato di lei. Sento una specie di calore, tra me e lei, una cosa che appena mi allontano, o peggio, si allontana lei, sento il vuoto allo stomaco, come se mi avessero rubato qualcosa, una grande ingiustizia insomma. Magari lei è andata solo a fare la spesa, ma io ci sto male, giro per la nostra casa vuota, guardo il mare dalle finestre, ma non mi avvicino, ho paura che un'onda sfondi il vetro, riempia la casa e mi affoghi, solo, da solo, senza lei. Che scemo che sono.

La spiaggia si allontana, il suo riflesso sul vetro del finestrino sparisce nel buio di una galleria. Niente più mare, né cielo, né lei. Il treno si muove piano. Nel buio lei sospira, lui pure. Sento che si guardano. "Sono diventati una cosa bestiale...", lui ha un accento piemontese, una bella voce calda, "...i treni, dico...", sì, proprio una voce da buongustaio, cioè come se non rinunciasse ad assaporare qualcosa, a inseguire e trattenere un aroma anche mentre parla. Qualche brivido mi va giù per la schiena, evoca fame di cose buone, fettinapanataepatatinefritte, spaghettiallevongole, millefogliebignèmontebianco, ecc.

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Una scopa in culo.

Ecco come mi sento, come se mi avessero ficcato una scopa in culo. Giulia stringe il nodo della cravatta, lo fa con delicatezza, sono il suo Aldino, no? mi chiede se mi fa male, ti fa male la cravatta? io faccio segno di no, che mi frega della cravatta se ho una scopa in culo? ma non glielo dico, è la mia Giulietta, lo penso e basta, mica sono scemo a dire una cosa del genere alla mia Giulietta, o forse sì, visto come mi sento, non oggi, o meglio, non solo oggi, come mi sento da mesi, voglio dire, forse sono davvero scemo, o pazzo, è la stessa cosa. Tutto è cominciato due settimane fa. Sono stati convocati dottori, professori e specialisti, tutti lì per me, per vedere se riuscivano a mettermi in piedi, a rendermi presentabile per oggi, sì perché oggi è un giorno speciale, il babbo diventa presidente dell'Associazione Nazionale, e dopo la cerimonia ci sarà una grande festa in un albergo a Trinità dei Monti offerta da lui, e la mamma non sta nella pelle, e le mie sorelle sorridono da un mese, e non si parla d'altro, la mamma non fa che dire che questo è solo l'inizio, l'inizio di una nuova era, così, tanto per sdrammatizzare, un'era, un epoca, per lei è roba da libri di storia, insomma (ne avesse mai tenuto in mano uno! non dico aperto, è troppo per lei, tenerlo in mano, così, giusto per vedere se qualcosa, che ne so, un fluido di saggezza, un antidoto alla sua stupidità, potesse filtrare, attraverso la pelle, nel sangue e poi su fino al cervello...). Sono tutti in fibrillazione. Meno lui. Lui continua ad accavallare la gamba e a sorridere. La sua faccia è un inalterabile manifesto a colori della serenità, anzi, dell'ottimismo, una maschera di papale bontà, una dichiarazione spontanea della sua incommensurabile e congenita genialità (un dono del signore, direbbe lui di se stesso). Sì perché il babbo è uno di quelli che la sa sempre più lunga, ne sa una più del diavolo, dice Giulia, tuo padre sa sempre cosa fare, dice la mamma, che uomo di buon senso, dicono i parenti, un uomo che non perde mai la bussola, dicono i colleghi, uno con i piedi per terra, assicurano i suoi assistenti, un genio, secondo i suoi studenti dell'università, affascinante, giurano le allieve, una vecchia volpe, ammettono gli avversari, un uomo buono, attesta il vescovo, un uomo devoto, rincara il parroco, uno stratega, proclamano i suoi amici politici che da anni lo corteggiano invano, generoso, sarebbero disposti a cantare in coro i camerieri dei ristoranti che frequenta (sempre gli stessi, da anni), un uomo che l'eleganza ce l'ha nel sangue, questo è il sarto, gioca a golf come pochi, spiritoso, anzi, spiritosissimo, affermano i compagni di circolo, ma che dico compagni, gli amici del circolo, e come si porta bene gli anni, sussurrano le amiche della mamma, un signore, un vero signore, testimoniano le colf tutte insieme, e le macchine? solo inglesi, che classe! asserisce il vecchio benzinaio che lo serve da vent'anni, buongiorno eccellenza, lo saluta il portiere del nostro palazzo dove si trova il nostro appartamento di quattrocento metri quadri nel cuore di Roma, che capelli! mai visto dei capelli così sottili alla sua età nemmeno uno bianco! e non importa se Beppe il barbiere ha una parola di servile elogio per ciascuno dei suoi clienti, e le mani? hai visto che mani? poteva fare il pianista, sempre la mamma questa, è ricco, non c'è niente da fare, molto più ricco di te, di nuovo i suoi amici del circolo, che denti perfetti! si entusiasma il dentista, un uomo di una volta, pensano i vecchi incartapecoriti negli studi notarili, un uomo del futuro, filosofeggiano i soci dello studio, un conservatore illuminato, gridano ai quattro venti i cattolici che lo vorrebbero nel loro partito, un progressista illuminato, gridano agli stessi quattro venti i comunisti e i socialisti che lo vorrebbero ognuno nel proprio partito, non lo conosco ma si vede che è un brav'uomo, direbbe, se interpellato, l'uomo della strada, un padre di famiglia esemplare, ricordano i professori e gli insegnanti dei suoi meravigliosi figli, un uomo pio, attesta il vescovo in attesa che si pronunci il papa, un uomo pio e devoto, rincara il parroco, un uomo tutto d'un pezzo, commentano puntualmente soddisfatti i suoi illustri clienti, un artista del compromesso, l'ha definito Andreotti, perché non fa il sindaco? si chiedono i suoi concittadini, è romanista ma è simpatico, dicono i laziali, è laziale ma è simpatico, dicono i romanisti, com'è fotogenico, si sorprendono i registi della televisione, come parla bene, riconoscono i giornalisti, e come sorride bene, aggiungo io, come accavalla bene la gamba, che gesto di rassicurante eleganza, un dono per tutta l'umanità, insomma, sì, lo devo ammettere, mio padre è un genio e io ho il dovere di amarlo, no? Quindi niente capricci, fatti fare la cravatta da Giulia, prendi le medicine, quelle nuove, non ti scordare, casomai chiedi a Giulia, sorridi e sentiti bene, mi raccomando, così ha detto la mamma "sentiti bene", fallo per il babbo, e io ho sorriso, ho detto che già mi sentivo bene, che le medicine nuove funzionano alla grande, e Giulia, quando ha visto che sorridevo, si è quasi commossa, quant'è che non ti vedevo sorridere, dicevano i suoi occhi lucidi, e intanto dentro di me parlava un'altra voce, anzi, si alzava un'altra voce, incazzata nera, guarda tua madre, diceva, stronza, stupida, troia, stupida, stupida, stupida, perché hai una mamma così stupida? Mi raccomando, sentiti bene, ma come si fa?! Stupida, idiota, la tua idiozia è titanica, per questo so che non ce la posso fare con te, perché niente ti turba, niente può scalfire la corazza dell'ottusità, niente ti muove, a parte i successi del tuo adorato marito, tutto ti commuove, a parte le imbarazzanti condizioni in cui versa tuo figlio, l'unico maschio, mannaggia. Ecco, tutto questo sto pensando mentre la mamma è già sparita, si sarà andata ad agghindare e intanto Giulia mi porge un bicchier d'acqua con la pillola, una delle tante che mi deve rendere non solo presentabile, ma possibilmente anche affabile e brillante con tutti gli invitati. Se ti chiedono, mi ha detto ieri la mamma, tu dì che fai l'università, non ti buttare giù davanti agli altri, non c'è bisogno, in fondo sei iscritto, non è una bugia, no? E poi, ora che stai meglio, ricomincerai a studiare. Già, il mio destino è lo studio del babbo, uno dei più importanti d'Italia, un fatturato da far girare la testa a un industriale, infatti siamo ricchi a miliardi, si capisce anche dalla mercedes con l'autista che ci sta portando nell'albergo romano per la cerimonia e la festa. È enorme, nera, una specie di limousine, ci stiamo tutti comodi, anche le femmine. Dovreste vederle, abiti di taffettà con maniche a sbuffo dalle tinte tenui (si dice pastello?) e pettinature da vecchie, non fanno altro che stirar le gonne e controllarsi reciprocamente le pieghe, stai benissimo, ripetono di continuo, la mamma (che ha un cappello con ampie falde) guarda le figlie, dice seria siete bellissime, e il babbo, che siede davanti, accanto all'autista (ve l'avevo già detto che era un sincero democratico, mi pare), si gira verso la Sua Famiglia, se la guarda con gli occhi che brillano e dichiara che la prossima volta che saliranno su un'automobile del genere, sarà per un matrimonio, almeno così vuole sperare, e tutti ridono, soprattutto la mamma che sgonfia l'aria con i suoi perforanti singulti da gallina, e anche a me mi tocca ridere sennò poi si preoccupano e io non voglio essere proprio quello che rovina la festa... non voglio ma vorrei, forse, ma anche se volessi non saprei proprio come fare, potrei fare una piazzata, urlare che il figlio del genio è un povero psicopatico e la persona che lo cura, che, sia detto per inciso, sicuramente sarà stato invitato alla festa, è più pazzo del suo paziente ed è convinto di curarlo con l'ipnosi e non si rende conto che quello sul lettino fa finta.

Invece no. Se facessi una piazzata del genere, mi porterebbero via con l'ambulanza, i miei farebbero un salto all'ospedale e, una volta consegnato il figlio disgraziato ai medici, tornerebbero sorridenti e un po' imbarazzati (ma solo un po') ai loro invitati sostenendo che è un periodo difficile per me, ma è la crescita, niente di grave, tutto abbastanza normale, anzi, decisamente normale, è la fine dell'adolescenza, un'età ingrata, tutto qua.

Per tutti questi motivi io sto ridendo insieme alla mia famiglia. Non solo. Sto ridendo nello stesso modo, ah-ah-ah, facciamo tutti in coro, che spasso, che formidabile rifugio la famiglia, che calore ineguagliabile, eh?

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Sono venuto apposta qui. Ho attraversato la camera da letto in punta di piedi, nessuno mi doveva vedere, ho aperto piano piano non si sa mai, sono entrato ho dato due mandate di chiave e mi sono fermato. Adesso me ne sto qua con le spalle appoggiate alla porta, respiro piano, affondo nell'aria ovattata, ascolto il silenzio, guardo le mie scarpe lucide perse nella foresta della britannica moquette vinaccia, un tappeto a pelo lungo morbido e caldo, e non mi sembra vero. Questo è il bagno del babbo. La mamma ne ha uno suo dall'altra parte della camera da letto. Ma questo è il suo bagno, ed è come lui, anzi, è lui. Le piastrelle sono lucide, blu scuro, con la moquette creano un'atmosfera accidentalmente funebre, sembra la camera mortuaria di una piramide, un tempio etrusco, non lo so, ma c'è un'aria di morte, un gelo imbalsamato, armeggio con l'interruttore, ha cinque o sei tasti, li provo tutti, e a ogni tocco, si accendono nuove luci che isolano le varie zone con un effetto plateale e scenografico, cazzo, questo cesso è un palcoscenico! ecco perché lui, con la scusa di adeguarlo alle novità tecnologiche, lo fa ristrutturare ogni cinque o sei anni: cambia i fondali, li adegua allo spettacolo del momento. Alla mia destra c'è una nicchia, una luce fioca piove dall'alto e sembra davvero che venga da lontano, una luce cosmica, o l'occhio di dio, illumina un lavandino, una vasca antica di travertino levigato, un pezzo di antiquariato nemmeno tanto pregiato se non fosse per lo strato di muschio, muschio vero, niente di sintetico, per carità, vellutato e sensuale, che ne ricopre l'interno, una fissazione del mio geniale genitore. Non entravo in questo bagno dal giorno dell'inaugurazione del lavandino, saranno sei o sette anni, allora era tutto beige, il pavimento di marmo, l'unica cosa che è sopravvissuta alla ristrutturazione è appunto il lavandino. Però allora non c'era, o forse non l'avevo notato, il piccolo ritratto a olio appeso proprio sopra l'inimitabile lavabo. Ci batte sopra appena un filo di quella luce divina che piove dall'alto, mi avvicino perché mi sembra di riconoscere qualcuno, e infatti non mi sbaglio, dalla mistica penombra, emergono i contorni della sua faccia, sorride, e sai che novità, ha qualche anno di meno, una decina direi, e guarda con impareggiabile bonomia l'utente del lavandino (il ritrattista si è premurato di cancellare ogni traccia dell'atteggiamento scimmiesco della mascella e degli occhi, buoni come quelli di uno scimpanzé), cioè, ricapitolando, ho scoperto un Suo Ritratto proprio sopra al Suo Lavandino Muschiato, cioè proprio nel posto in cui le persone normali mettono lo specchio, se consideriamo poi che l'unico fruitore del lavabo è lui, e solo lui, il gioco è fatto. Si lava le mani e si vede giovane e bello. Geniale, no? Ma attenzione, il meglio deve ancora venire, il capolavoro del suo egotico amore, il pezzo forte di questa scenografia è nascosto da un'altra nicchia, una sorta di cabina, attenti, c'è uno scalino, poi un altro, ecco, ora alzate lo sguardo: visto? No, non è un trono, è stato messo in alto come un trono, ma non è un trono, sì lo so, è di legno istoriato a motivi floreali, ha uno schienale altissimo anch'esso scolpito, ma non vi fidate delle apparenze, avvicinatevi, non abbiate paura, il re è di là a intrattenere la corte, non lo verrà mai a sapere, ecco, avete capito, si tratta di un cesso, il Suo Cesso. Dopo anni di ricerche presso tutti gli antiquari d'Europa, alla fine il babbo ha scovato questa preziosissima sedia cacatoria del seicento (vedeste la sua faccia quando pronuncia la parola "cacatoria", fa un sorriso birichino e riesce sempre ad arrossire un po', mai capito come fa), un pezzo unico proveniente da una residenza nobiliare veneziana, cerco di immaginarlo coi pantaloni alle caviglie, le gambe pelosissime, la faccia contratta mentre spinge emettendo qualche verso poco british e qualche flatulenza, questa invece molto british, o, visto che caca seduto su un trono, si darà un contegno anche lì? Niente versi strani, la filodiffusione trasmette Mozart, lui eretto sul trono, il gomito appoggiato al ginocchio e il mento sulla mano, assorto nei pensieri, un San Gerolamo sul cesso, elegante impeccabile anche nella defecazione. Salgo verso il trono, in fin dei conti sono qui per pisciare, alzo la tavola (non tavoletta, tavola, di noce antico), guardo la tazza che è stata montata all'interno del catafalco e che mette in comunicazione l'eldorado paterno con le prosaiche fogne di Roma (ma sono sicuro che lui rimpiange i tempi del pitale, i tempi delle fantesche, all'occorrenza giovani e bellocce, che svuotavano il tuo pitale facendo il loro fatale, ancorché involontario, ingresso nella tua intimità, consegnandosi per sempre a te, signore e padrone), la tazza è dello stesso colore della moquette, vinaccia, la marca è David&Sons, made in United Kingdom, e, una volta preso atto che mi trovo in un cesso abbastanza inglese, non mi resta che pisciare. Mentre la mia vescica si svuota, mi dico che il bagno è l'unico posto al mondo dove gli esseri umani non mentono, una volta chiusa la porta e rimasti soli davanti ai sanitari, tutti capiscono l'inutilità della menzogna, chiunque smette di recitare mentre si abbassa le mutande e si siede sul cesso, nessuno si cura più di controllare i muscoli facciali, a chi importa che faccia avrò mentre caco? È una condizione di metafisica nudità, di poetica solitudine, di intima meditazione. Insomma, il bagno è il posto in cui tutti siamo più veri. Lui no. Lui ha portato il teatro anche al cesso, evidentemente il suo intestino recita, il suo culo canta, e sicuramente, come sempre, ci sarà qualcuno che applaude e che commenta, che intestino! Un orologio! Tutto sa digerire! Mai un bruciorino di stomaco, mai un'emorroide, certe volgarità non lo sfiorano neppure, figuriamoci, un signore come lui! Poi scenderà dal trono con la stessa faccia che avrà tra poco di là in soggiorno, quando avrà finito il discorso in cui io sarò santificato, quando l'applauso scroscerà spontaneo dal Suo Pubblico adorante e lui indosserà la maschera della modestia e, anche se in salotto non ci sono gradini da scendere, darà comunque l'impressione di scendere dall'alto, forse dal cielo, per concedersi ancora una volta, nel giorno dell'apoteosi del figlio a maggior gloria del padre, ai fedeli.

Ci metto cinque minuti buoni a trovare lo sciacquone, che, come dice la parola, è cosa triviale e perciò va nascosta, e qui è stata nascosta talmente bene che proprio non capisco dove l'abbiano potuto ficcare il... cosa sarà? Un Pulsante? Una Catena? Insomma, l'innominabile sciacquone. Alla fine lo trovo: è un tasto ricavato nella modanatura laterale dello schienale, perfettamente invisibile, la mia mano ha registrato solo un soffice cedimento, ho guardato e ho capito, ho pigiato (dio, che morbidezza di tocco! questo pezzettino di legno capitola con l'arrendevolezza di una innamorata!), dico la verità, mi aspettavo che da qualche parte si aprisse un passaggio segreto, invece niente, nella tazza si è scatenato un vortice d'acqua tempestoso e prolungato che ha restituito la ceramica color vinaccia al suo equilibrio asettico. Poi scendo dal trono e vado a sciacquarmi le mani, non al lavandino muschiato, però, no, quello non me lo merito, vado ai due grandi lavandini (indovinate di che colore?) appaiati davanti a uno specchio enorme. Apro il rubinetto, alzo distrattamente gli occhi, mi fermo, mi guardo. Sorrido. Mi sorrido. Torno serio. Tiro su un sopracciglio, lo tiro giù, torno a sorridere. Cazzo, come gli assomiglio! Sono decisamente più bello, questo è un dato di fatto, io ho preso dalla famiglia della mamma, lui è tarchiato e massiccio, io alto e slanciato, la mia faccia non ha niente di scimmiesco, non ho gli occhi in fuori e il naso schiacciato da pugile, non sono peloso come lui, ma ho lo stesso sorriso! Identico. Anch'io emano bontà! Quindi anch'io susciterò l'entusiasmo delle folle un giorno!

Cazzo! Figata!

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