|
|
| << | < | > | >> |IndicePresentazione dell'edizione italiana di Giovanni Ziccardi ix Prefazione 1 Introduzione 5 "Pirateria" 17 Capitolo 1 — Creatori 21 Capitolo 2 — "Semplici imitatori" 31 Capitolo 3 — Cataloghi 47 Capitolo 4 — "Pirati" 53 Cinema 53 Registrazioni musicali 54 La radio 58 La TV via cavo 59 Capitolo 5 — "Pirateria" 61 Pirateria I 61 Pirateria II 65 "Proprietà" 79 Capitolo 6 — Fondatori 81 Capitolo 7 — Autori che registrano pezzi altrui 91 Capitolo 8 — Autori che trasformano 95 Capitolo 9 — Collezionisti 103 Capitolo 10 — "Proprietà" 111 Perché Hollywood ha ragione 118 Gli inizi 124 Legge: la durata 126 Legge: il raggio di azione 128 Legge e architettura: il raggio d'azione 132 Architettura e legge: la forza 139 Mercato: la concentrazione 152 Insieme 158 Enigmi 163 Capitolo 11 — Chimera 165 Capitolo 12 — Danni 171 Vincolare gli autori 172 Vincolare gli innovatori 175 Corrompere i cittadini 186 Equilibri 195 Capitolo 13 — Eldred 197 Capitolo 14 — Eldred II 229 Conclusione 237 Postfazione 251 Noi, ora 253 Ricostruire le libertà che in passato davamo per scontate: esempi 254 Ricostruire la cultura libera: un'idea 258 Loro, presto 263 1. Più formalità 263 Registrazione e rinnovo 264 Contrassegno 265 2. Termini più brevi 267 3. Uso libero contro uso legittimo 269 4. Liberate la musica — ancora una volta 271 5. Licenziamo gli avvocati 278 Note 281 [...] Ringraziamenti 301 L'autore 303 |
| << | < | > | >> |Pagina ixPresentazione dell'edizione italiana
di Giovanni Ziccardi
Sono trascorsi quasi dieci anni, ormai, da quando, nel 1996, un giovane professore di diritto costituzionale dell'Università di Chicago, Lawrence Lessig, pubblicò, sul terzo numero della rivista giuridica Emory Law Journal, un articolo che poneva interessanti e innovative problematiche correlate al cosiddetto "ciberspazio" e, più in generale, ai principi fondamentali e ai diritti di libertà applicabili al mondo elettronico. Nel Vecchio Continente — dove lo stato dell'evoluzione e della diffusione delle tecnologie correlate a Internet, in quegli anni, ancora ci faceva guardare agli Stati Uniti d'America come una terra dei "miracoli tecnologici" — la voce del giovane giurista arrivò forte e chiara: il mondo elettronico stava sollevando problematiche giuridiche, e di libertà, che presto sarebbero esplose anche da noi, e che prendevano il nome, e la forma, del diritto all'anonimato, della regolamentazione — da parte del Governo e dell'industria — dell'architettura tecnologica alla base del mondo elettronico, della diffusione libera della cultura, del "governo" del ciberspazio e dei sempre più numerosi fenomeni di violazione del copyright. Nel 2005, dopo tre volumi di successo mondiale (Code and Others Laws of Cyberspace, The Future of Ideas: The Fate of the Commons in a Connected World e il presente Free Culture: How Big Media Uses Technology and the Law to Lock Down Culture and Control Creativity), decine di articoli e incarichi giuridici di grande importanza, Lawrence Lessig viene, giustamente, considerato come uno dei più grandi studiosi di queste tematiche; le sue teorie hanno ben presto varcato i confini statunitensi e hanno destato grande attenzione in tutto il mondo. Lo stile di Lessig, capace di unire una grande precisione e un estremo rigore giuridico a una scrittura ricca di esempi, e soprattutto idoneo a fare interessare a queste tematiche anche il "non giurista", è stato mantenuto integralmente nell'ottima traduzione in italiano di Free Culture, che è certamente l'opera di più ampio respiro delle tre sinora pubblicate dallo studioso statunitense. La tempestività della traduzione italiana è a dir poco esemplare: il 16 dicembre 2004 a Torino, in presenza dello stesso Lessig, vi è stato il "lancio" ufficiale di Creative Commons Italy, progetto portato avanti da diversi enti e volontari, tutti dediti a cercare di attuare e raggiungere, in Italia, gli obiettivi che Creative Commons – l'idea più importante nata dalla fervida mente di Lessig – si propone. Il volume, come si è in parte anticipato, è sì un testo scritto da un eminente giurista, ma è pensato, anche e soprattutto, per diffondere il più possibile, anche presso i non giuristi, le idee che stanno alla base delle teorie di Lessig. I numerosissimi esempi ed episodi riportati (normativi, giurisprudenziali ma, soprattutto, collegati alla storia costituzionale statunitense), contribuiscono, inoltre, a riferire immediatamente le nozioni teoriche a fatti realmente accaduti che spaziano, da un punto di vista temporale, dalla preistoria sino ai giorni nostri. | << | < | > | >> |Pagina 10Man mano che Internet si è integrata nella vita quotidiana, ha prodotto alcuni cambiamenti. Alcuni tecnici – Internet ha reso più veloce la comunicazione, ha ridotto i costi della raccolta dei dati, e così via. Tali cambiamenti tecnici restano al di fuori dello scopo di quest'opera. Sono importanti. Non vengono compresi appieno. Ma appartengono a quel tipo di cose che finiscono semplicemente con lo scomparire non appena ci scolleghiamo da Internet. Non hanno effetto su coloro che non usano Internet, o almeno non in maniera diretta. Andrebbero affrontati in un apposito volume dedicato a questo argomento. Ma questo libro non lo è.Esso affronta invece un effetto provocato da Internet al di là della stessa Internet: l'effetto sul modo in cui si costruisce la cultura. Secondo la mia tesi, nel corso di questo processo Internet ha indotto un cambiamento importante e poco riconosciuto, che trasformerà in maniera radicale una tradizione che risale agli albori stessi della Repubblica. Se fosse in grado di riconoscere questo mutamento, la maggior parte delle persone finirebbe per rifiutarlo. Tuttavia, in genere non riesce neppure a notare il cambiamento che la Rete ha innescato. Possiamo intuire il senso del cambiamento distinguendo tra cultura commerciale e non-commerciale e seguendo la mappa delle regolamentazioni legislative di entrambe. Per "cultura commerciale" intendo quella parte della nostra cultura che viene prodotta e posta in vendita oppure prodotta con l'intento di essere venduta. Per "cultura non-commerciale" intendo tutto il resto. Quando gli uomini anziani si sedevano sulle panchine nei parchi oppure agli angoli delle strade e raccontavano delle storie per i ragazzi e altri ascoltatori, quella era cultura non-commerciale. Quando Noah Webster pubblicò il prototipo dell'omonimo dizionario, o Joel Barlow le sue poesie, quella era cultura commerciale. All'inizio della nostra epoca storica, e per l'intero corso della nostra tradizione, sostanzialmente la cultura non-commerciale non era soggetta a regole. Ovviamente, nel caso di storie lascive, o di canzoni che disturbassero la quiete, interveniva la legge. Ma essa non riguardava mai direttamente la creazione o la diffusione di questa forma di cultura, che veniva lasciata "libera". Le normali modalità con cui la gente comune condivideva e trasformava la propria cultura – raccontando storie, riproponendo scene di lavori teatrali o televisivi, partecipando a club di appassionati, condividendo musica, registrando nastri – erano ignorate dalla legge. La legislazione si concentrava sulla creatività commerciale. All'inizio in modo blando, poi sempre più esteso, la legge tutelava gli incentivi dei creatori riconoscendo loro i diritti esclusivi sulle proprie opere, così che potessero vendere tali diritti nel mercato. Naturalmente, ciò rappresenta una parte importante della creatività e della cultura, ed è divenuto un elemento sempre piu importante in America. Ma in nessun senso era qualcosa di dominante nella nostra tradizione. Ne costituiva piuttosto soltanto una parte, una parte sotto controllo, equilibrata da quella libera. Oggi questa grossolana divisione tra cultura libera e cultura controllata è stata cancellata. Internet ha impostato lo scenario per questa cancellazione e, sotto la spinta dei grandi media, ora rientra sotto la tutela della legge. Per la prima volta nel corso della nostra tradizione, le modalità correnti con cui gli individui creano e condividono cultura ricadono all'interno della regolamentazione giuridica, che è stata estesa fino a portare sotto il proprio controllo una quantità di cultura e creatività mai raggiunta prima. La tecnologia che aveva mantenuto l'equilibrio della nostra storia – tra gli usi della cultura ritenuti liberi e quelli possibili soltanto dietro permesso – è stata eliminata. La conseguenza è che siamo sempre meno una cultura libera, e sempre più una cultura del permesso. Questo cambiamento viene giustificato come elemento necessario a tutela della creatività commerciale. E, infatti, il protezionismo ne rappresenta la motivazione precisa. Ma quel protezionismo a giustificazione dei cambiamenti, che descriverò più avanti, non è del tipo limitato ed equilibrato che ha definito la legge in passato. Non è un protezionismo che tutela gli artisti. È invece un protezionismo che tutela certe forme di attività commerciali. Le grandi aziende, minacciate dalla potenzialità di Internet di cambiare il modo in cui vengono realizzate e condivise sia la cultura commerciale sia quella non-commerciale, si sono alleate nell'indurre i legislatori a usare la legge per proteggerle. | << | < | > | >> |Pagina 15[...] Sono sempre più meravigliato dalla forza di questo concetto di proprietà intellettuale e, ancora più importante, dalla sua capacità di annullare il pensiero critico nei politici e nei cittadini. Non è mai esistito un periodo della storia in cui gran parte della "cultura" fosse "di proprietà" com'è oggi. Eppure non è mai esistita un'epoca in cui la concentrazione del potere nel controllare gli utilizzi della cultura venisse così supinamente accettata com'è ora.La domanda è: "Perché?" Perché siamo arrivati a comprendere la verità del valore e dell'importanza della proprietà assoluta sulle idee e sulla cultura? È stato forse perché abbiamo scoperto quanto fosse sbagliata la tradizione di rifiutare una simile motivazione assoluta? [...]
Non voglio fare il misterioso. Le mie opinioni sono chiare. Credo fosse
giusto per il senso comune rivoltarsi contro l'estremismo dei Causby. Credo che
sarebbe giusto per il senso comune ribellarsi contro le ragioni estreme
sostenute oggi a favore della "proprietà intellettuale". Quel che la legge
chiede oggi è sempre più stupido, tanto quanto uno sceriffo che arresti un
aeroplano per violazione di proprietà. Ma le conseguenze di questa stupidità
saranno molto più profonde.
Il conflitto che sta emergendo ora è centrato su due concetti: "pirateria" e "proprietà". Il mio obiettivo, nelle successive due parti del volume, è quello di esplorare questi due concetti. Il mio metodo non è quello comunemente seguito da un accademico. Non voglio far naufragare il lettore in un'argomentazione complicata, sostenuta da riferimenti a oscuri teorici francesi – per quanto ciò possa apparire naturale a quella strana specie di accademici in cui ci siamo trasformati. Inizio invece ciascuna parte descrivendo una serie di eventi che disegnano il contesto all'interno del quale questi concetti apparentemente semplici possano essere compresi nel modo migliore. Le due sezioni servono a impostare la tesi centrale del libro: che mentre Internet ha effettivamente prodotto qualcosa di fantastico e di nuovo, le istituzioni governative, sotto la spinta dei grandi media, nel rispondere a questo "qualcosa di nuovo" stanno distruggendo qualcosa di molto antico. Anziché comprendere i cambiamenti che Internet può consentire, e anziché guadagnare tempo in modo da lasciar decidere al "senso comune" la risposta migliore, stiamo permettendo a coloro che si sentono più minacciati dai cambiamenti di usare la loro forza per modificare la legge – e, fatto più importante, di usare la forza per cambiare qualcosa di fondamentale che riguarda ciò che siamo sempre stati. Lo permettiamo, credo, non perché sia giusto, e non perché la maggior parte di noi creda veramente in questi cambiamenti. Lo permettiamo perché gli interessi maggiormente minacciati appartengono a chi gioca un ruolo estremamente potente nel processo di costruzione delle leggi, un processo compromesso in maniera deprimente. Questo libro è la storia di un'ulteriore conseguenza di questa forma di corruzione – una conseguenza che la maggior parte di noi ignora. | << | < | > | >> |Pagina 27Viviamo in un mondo che onora la "proprietà". Io appartengo a questo mondo. Credo nel valore della proprietà in generale, e credo anche nel valore di quella strana forma di proprietà che gli avvocati definiscono "proprietà intellettuale." Una società vasta e diversificata non può sopravvivere senza la nozione di proprietà; una società vasta, diversificata e moderna non può prosperare senza la nozione di proprietà intellettuale.Ma basta riflettere un momento per rendersi conto di come là fuori esista un'estesa quantità di valore che la "proprietà" non riesce a catturare. Non intendo qualcosa del tipo "il denaro non può comprarti l'amore", ma piuttosto quel valore che è chiaramente parte del processo di produzione, commerciale o non-commerciale che sia. Se gli animatori di Disney avessero rubato una scatola di matite per disegnare Steamboat Willie, non avremmo esitazioni nel condannare tale azione — per quanto insignificante. Eppure non c'era nulla di sbagliato, almeno per la legge di allora, se Disney aveva attinto da Buster Keaton o dai fratelli Grimm. Non c'era nulla di illegale nei confronti di Keaton perché l'uso di Disney era considerato "legittimo". Nulla di illegale nel caso dei fratelli Grimm, perché il loro lavoro era di pubblico dominio. Perciò, anche se quello di cui Disney si appropriò - o più in generale, ciò di cui si appropria chiunque eserciti la creatività alla Walt Disney – ha un certo valore, la nostra tradizione non considera illegale tale appropriazione. Alcune cose restano libere perché vi si possa attingere nell'ambito di una cultura libera, e questa libertà è positiva. Lo stesso avviene nella cultura doujinshi. Se un artista doujinshi fa irruzione nella sede di un editore e fugge via, senza pagare, con un migliaio di copie dell'ultima produzione – o anche con una sola copia – non abbiamo esitazione nel sostenere che l'artista ha violato la legge. Oltre alla violazione di proprietà, ha rubato qualcosa che ha un valore. La legge vieta il furto in qualsiasi forma, piccolo o grande. Tuttavia esiste un'evidente riluttanza, anche tra gli avvocati giapponesi, nel sostenere che gli artisti che copiano i fumetti stiano "rubando". Questa forma di creatività alla Walt Disney viene considerata parimenti giusta e legittima, pur se nel caso specifico gli avvocati trovano difficile spiegarne il perché. Lo stesso vale per migliaia di esempi che compaiono ovunque, non appena ci guardiamo attorno. Gli scienziati costruiscono sul lavoro di altri scienziati senza chiedere permessi o pagare per questo privilegio. ("Mi scusi, professor Einstein, potrei avere il permesso di usare la sua teoria della relatività per dimostrare che lei aveva torto sulla fisica dei quanti?") Le compagnie teatrali mettono in scena adattamenti delle opere di Shakespeare senza chiedere il permesso a nessuno. (Qualcuno crede forse che Shakespeare sarebbe maggiormente diffuso nella nostra cultura, se ci fosse un archivio centrale per i relativi diritti a cui debbano prima rivolgersi tutti coloro che ne mettono in scena le opere?) E Hollywood presenta ciclicamente certi tipi di film: cinque film sugli asteroidi sul finire degli anni 1990; due film su disastri causati dai vulcani nel 1997. Qui e ovunque gli autori costruiscono sempre e comunque sulla creatività che li ha preceduti e che li circonda. Questo processo di costruzione viene sempre e comunque attuato, almeno parzialmente, senza permesso e senza ricompensare l'autore originale. Nessuna società, libera o controllata, ha mai richiesto che si paghi per ogni utilizzo o che si debba sempre domandare il permesso per la creatività alla Walt Disney. Al contrario, ogni società ha lasciato libera una parte della cultura perché venga rielaborata - le società libere con un'adesione più piena delle altre, forse, ma tutte lo hanno fatto entro certi limiti. La domanda cruciale non è perciò se una cultura sia libera o meno. Tutte le culture lo sono fino a un certo punto. Ma è invece: "Quanto è libera questa cultura?" Fino a che punto, e con quale ampiezza, la cultura è lasciata libera perché altri possano appropriarsene e costruirvi sopra? Questa libertà è limitata agli iscritti al partito? Ai membri della famiglia reale? Alle dieci maggiori corporation della borsa di New York? Oppure tale libertà è diffusa ad ampio raggio? Agli artisti in generale, che siano associati o meno con il Metropolitan Museum? Ai musicisti in genere, che siano o non siano bianchi? A chiunque voglia girare un film, che sia associato o meno con uno studio di produzione? Le culture libere sono quelle che lasciano aperta quanta più creatività possibile affinché altri possano costruire su di essa; le culture non libere, o quelle del permesso, ne lasciano disponibile una quantità assai minore. La nostra era una cultura libera. Lo sta diventando sempre meno. | << | < | > | >> |Pagina 53CAPITOLO 4
"Pirati"
Se "pirateria" significa usare la proprietà creativa di altri senza
il loro permesso — tenendo valida la teoria del "se c'è un valore, allora c'è un
diritto" — la storia dell'industria produttrice di contenuti è una storia di
pirateria. Ogni settore importante dei "grandi media" odierni — cinematografico,
discografico, radiofonico e della TV via cavo — è nato da un qualche tipo di
cosiddetta pirateria. La storia è coerente sul modo in cui i pirati dell'ultima
generazione sono entrati a far parte del club della generazione corrente —
almeno finora.
Cinema L'industria cinematografica di Hollywood fu costruita da pirati in fuga. All'inizio del XX secolo, autori e registi emigrarono dalla costa orientale in California, anche per sfuggire al controllo che i brevetti avevano garantito all'inventore della cinematografia, Thomas Edison. [...] Registrazioni musicali L'industria discografica nacque da un altro tipo di pirateria, anche se, per capire come, occorre esaminare alcuni dettagli sulle norme che regolamentavano la musica. [...] La radio Anche la radio nacque dalla pirateria. [...] La TV via cavo Anche la TV via cavo è nata da un tipo di pirateria. [...] Queste storie diverse hanno un tema comune. Se "pirateria" significa usare il valore della proprietà creativa altrui senza il permesso dell'autore – come la si definisce oggi sempre più spesso – allora ogni industria odierna che abbia a che fare con il copyright è in un certo senso il prodotto e la beneficiaria della pirateria. L'industria cinematografica, discografica, radiofonica, della TV via cavo... L'elenco è lungo e potrebbe tranquillamente allungarsi ancora. Ogni generazione dà il benvenuto ai pirati di quella precedente. Ogni generazione – finora. | << | < | > | >> |Pagina 61CAPITOLO 5
"Pirateria"
La pirateria di materiale coperto da copyright esiste. E non è poca. La più significativa è quella commerciale, l'appropriazione non autorizzata di contenuti altrui in un contesto commerciale. Nonostante le numerose giustificazioni addotte a sua difesa, questa appropriazione è illegale. Non si dovrebbe scusarla, e la legge deve bloccarla. Ma, oltre alla pirateria da copisteria, esiste un altro tipo di "appropriazione" che riguarda più direttamente Internet. Anche quest'appropriazione appare illecita a molta gente, e molto spesso lo è. Prima di definire "pirateria" una simile appropriazione, tuttavia, dovremmo comprenderne un po' meglio la natura. Perché il danno prodotto da quest'appropriazione è significativamente più ambiguo dell'atto esplicito di copiare, e la legge dovrebbe dar conto di una simile ambiguità, come ha fatto spesso in passato. [...] Si tratta di pirateria pura e semplice. Nessun argomento di questo volume, né la posizione sostenuta dalla maggior parte di quanti seguono le tematiche affrontate nel libro, mette in dubbio questo semplice punto: quella pirateria è illecita. Ciò non vuol dire che non sia possibile addurre scuse e giustificazioni a sua difesa. Potremmo, per esempio, rammentarci che per i primi cent'anni della nostra Repubblica, l'America non rispettò i copyright stranieri. In tal senso, siamo nati come nazione pirata. Potrebbe perciò apparire ipocrita la forte pressione su altre nazioni in via di sviluppo affinché considerino ingiusto quel che noi, nei primi cent'anni di vita, abbiamo ritenuto giusto. Ma non è poi una scusa così solida. Tecnicamente, la nostra legislazione non vieta l'appropriazione di opere straniere. Si limita in maniera esplicita a considerare i lavori statunitensi. Così gli editori americani che hanno pubblicato opere straniere senza il permesso dei relativi autori non hanno violato alcuna legge. Le copisterie dell'Asia, al contrario, stanno violando le norme asiatiche; poiché esse tutelano il copyright straniero, il comportamento di tali copisterie contravviene a quelle norme. Perciò l'aspetto negativo della pirateria che esse praticano non è ingiusto soltanto sul piano morale ma anche su quello legale, e non è ingiusto solamente rispetto alle legislazioni internazionali, ma anche a quelle locali. Certo, queste norme locali sono state in realtà imposte a quei paesi. Nessuna nazione può far parte dell'economia mondiale senza tutelare il diritto d'autore in ambito internazionale. Possiamo essere nati come nazione pirata, ma non permetteremo ad alcun paese di vivere un'infanzia come la nostra. | << | < | > | >> |Pagina 64Ma, come suggeriscono gli esempi illustrati nei quattro capitoli introduttivi del libro, anche se un certo tipo di pirateria è assolutamente ingiusto, non è così per tutta la "pirateria". O almeno, non tutta la "pirateria" e sbagliata se ci si riferisce a tale termine nelle accezioni oggi usate con sempre maggior frequenza. Molti tipi di "pirateria" sono utili e produttivi, per dare vita sia a nuovi contenuti sia a nuove modalità imprenditoriali. Né la nostra tradizione né quella altrui hanno mai vietato tutta la "pirateria" in tal senso.Questo non vuol dire che un recente tipo di pirateria, ovvero la condivisione di file tramite accesso peer-to-peer (p2p), non sollevi problemi. Significa però che dobbiamo comprendere un po' meglio i danni procurati dalla condivisione peer-to-peer prima di condannarla al patibolo con l'accusa di pirateria. Perché (1), come è avvenuto alla nascita di Hollywood, la condivisione p2p vuole sfuggire al controllo eccessivo dell'industria; e (2), come è accaduto alle origini dell'industria discografica, sfrutta semplicemente una nuova modalità di distribuzione dei contenuti; ma (3), contrariamente alla TV via cavo, nessuno rivende il materiale condiviso tramite i servizi p2p. Sono queste le differenze che distinguono la condivisione p2p dalla pirateria vera e propria. Esse dovrebbero spingerci a trovare un modo per tutelare gli artisti consentendo al contempo la sopravvivenza di tale condivisione. | << | < | > | >> |Pagina 88Ma non esiste alcun dubbio sul voto della Camera dei Lord nel suo complesso. Con una maggioranza di due a uno (22 contro 11) respinse l'idea del copyright perpetuo. Qualunque fosse l'interpretazione del diritto consuetudinario, da quel momento al copyright era stato assegnato un periodo di tempo determinato, scaduto il quale l'opera tutelata dal copyright diveniva di pubblico dominio."Il pubblico dominio." Prima del caso Donaldson v. Beckett, in Inghilterra non esisteva un'idea precisa di che cosa fosse. Prima del 1774, esisteva la radicata convinzione che il copyright stabilito dal diritto consuetudinario fosse perpetuo. Dopo il 1774, nacque il pubblico dominio. Per la prima volta nella storia anglo-americana, il controllo legale sui lavori creativi era decaduto, e le opere più importanti della storia inglese – comprese quelle di Shakespeare, Bacon, Milton, Johnson e Bunyan – potevano considerarsi libere da vincoli giuridici. È difficile per noi immaginarlo, ma questa decisione della Camera dei Lord alimentò una straordinaria reazione a livello popolare e politico. In Scozia, dove operava la maggior parte degli "editori pirata", la gente scese per le strade a celebrare la sentenza. Come riportava l' Edinburgh Advertiser, "nessuna causa privata ha monopolizzato tanto l'attenzione del pubblico, e per nessun caso, fra quelli vagliati dalla Camera del Lurd, la decisione ha interessato tante persone". "Grande esultanza a Edinburgo per la vittoria sulla proprietà letteraria: luminarie e falò." A Londra, tuttavia, almeno tra gli editori, la reazione fu ugualmente forte nella direzione opposta. Così scriveva il Morning Chronicle: Grazie alla suddetta decisione ... quasi 200.000 sterline di beni onestamente acquistati nelle vendite pubbliche, e che fino a ieri erano ritenuti una proprietà, vengono ora ridotti a nulla. I venditori di libri di Londra e Westminster, parecchi dei quali avevano venduto possedimenti e proprietà immobiliari per acquistare il copy-right, sono praticamente rovinati, e quelli che dopo molti anni di lavoro nel settore ritenevano di aver acquisito una competenza con cui mantenere le proprie famiglie, ora si ritrovano senza un scellino da lasciare agli eredi. "Rovinati" è un po' esagerato. Ma non è esagerato dire che il cambiamento fu profondo. La sentenza della Camera dei Lord significò che i bookseller non potevano più controllare il modo in cui la cultura sarebbe cresciuta e si sarebbe sviluppata in Inghilterra. Da allora, in Inghilterra, la cultura fu libera. Ciò non significava che non c'era più un copyright da rispettare, perché ovviamente, per un periodo di tempo limitato dopo l'uscita di un'opera, gli editori mantenevano il diritto esclusivo a controllarne la pubblicazione. Ciò non significava neanche che fosse concesso rubare i libri, perché, anche dopo la scadenza del copyright, bisognava pur sempre acquistarli da qualcuno. Ma libera nel senso che la cultura, e il suo sviluppo, non sarebbero più stati controllati da un piccolo gruppo di editori. Come ogni mercato libero, anche quello della cultura libera sarebbe cresciuto secondo le scelte dei consumatori e dei produttori. La cultura inglese si sarebbe sviluppata in base alle scelte dei lettori inglesi – grazie ai libri che avrebbero acquistato e scritto; tramite i memi che avrebbero replicato e sostenuto. Scelte operate all'interno di un contesto competitivo, non di un contesto le cui scelte sul tipo di cultura messa a disposizione del pubblico e sulle modalità d'accesso vengono fatte da pochi senza tenere conto dei desideri di molti. Almeno, questa fu la sentenza di un mondo dove il Parlamento è anti-monopolistico, contrario alle richieste protezionistiche degli editori. In un mondo dove il Parlamento fosse più arrendevole, la cultura libera sarebbe meno tutelata. | << | < | > | >> |Pagina 159All'inizio del libro, ho fatto una distinzione fra cultura commerciale e cultura non commerciale. Nel corso di questo capitolo, ho fatto una distinzione fra la copia e la trasformazione di un'opera. Adesso dobbiamo integrare queste due distinzioni e tracciare la mappa precisa dei mutamenti subiti dalla legislazione sul copyright.
Nel 1790, la legge appariva così:
Pubblicazione Trasformazione Commerciale © Libera Non commerciale Libera Libera La pubblicazione di mappe, grafici e libri era regolata dalla legge sul copyright. Nient'altro lo era. Le trasformazioni erano libere. E il copyright esisteva unicamente dietro registrazione, e soltanto coloro che intendevano beneficiarne commercialmente registravano un'opera; la copia, tramite la pubblicazione di opere non commerciali, era ugualmente libera.
Al termine del XIX secolo, la legge era cambiata nel modo seguente:
Pubblicazione Trasformazione Commerciale © © Non commerciale Libera Libera Le opere derivate venivano regolate dalle norme sul diritto d'autore – se pubblicate, il che, come ho già spiegato, considerate le condizioni economiche dell'editoria dell'epoca, significa che lo erano se erano rese disponibili sul mercato. Ma la pubblicazione a fini non commerciali e la trasformazione rimanevano sostanzialmente libere.
Nel 1909 la legge mutò per regolare le copie, non la pubblicazione, e in
seguito a questa modifica la portata della normativa fu collegata alla
tecnologia. Con la diffuzione della tecnologia della copia, si estese la portata
della legge. Così, nel 1975, con la diffusione sempre maggiore delle macchine
fotocopiatrici, possiamo dire che la legge iniziò a trasformarsi come segue:
Pubblicazione Trasformazione Commerciale © © Non commerciale © / Libera Libera
La legge venne interpretata in modo da raggiungere la copia non commerciale
tramite, diciamo, le fotocopiatrici, ma buona parte delle copie al di fuori del
mercato commerciale rimaneva comunque libera. Tuttavia, l'emergere delle
tecnologie digitali, soprattutto nel contesto delle reti digitali, comporta il
seguente cambiamento legislativo:
Pubblicazione Trasformazione Commerciale © © Non commerciale © © Ogni settore è governato dalla legge sul copyright, laddove prima, per la creatività, non era così. Ora la legge regola l'intero ambito creativo – commerciale o meno, di trasformazione o meno – con le stesse regole previste per regolamentare l'editoria commerciale. Ovviamente il nemico non è la legge sul copyright. Il nemico è una regolamentazione che non produce effetti positivi. Quindi la domanda che dovremmo porci ora è se l'estensione delle regolamentazioni della legge in ciascuno di questi domini produca effettivamente qualche beneficio. Non ho alcun dubbio che ne produca nel regolamentare la copia a fini commerciali. Ma non ho ugualmente dubbi sul fatto che faccia più male che bene nel regolamentare (come accade ora) la copia non commerciale e soprattutto la trasformazione non commerciale. E sempre più, per le ragioni accennate in particolare nei capitoli 7 e 8, ci si potrebbe chiedere se non produca più danni che vantaggi alla trasformazione commerciale. Se i diritti derivati fossero delineati con maggiore accuratezza, si realizzerebbe un numero molto maggiore di opere commerciali di trasformazione. La questione perciò non è semplicemente se il copyright sia o non sia una proprietà. Ovviamente è un tipo di "proprietà" e, naturalmente, come avviene per ogni proprietà, lo stato deve tutelarlo. Ma, nonostante le prime impressioni, storicamente questo diritto di proprietà (come tutti i diritti di proprietà) è stato organizzato allo scopo di stabilire un equilibrio fra l'importante necessità di offrire incentivi ad autori e artisti e il bisogno, parimenti importante, di assicurare l'accesso alle opere creative. Questo equilibrio è stato sempre raggiunto alla luce delle nuove tecnologie. E, per quasi metà della nostra tradizione, il "copyright" non controllava affatto la libertà di trasformare un lavoro creativo o di costruire su di esso. La cultura americana è nata libera, e per quasi 180 anni il nostro paese ha tutelato con coerenza una cultura libera ricca e vitale. Abbiamo ottenuto tale libertà di cultura perché la legge rispettava importanti limitazioni sulla portata degli interessi tutelati dalla "proprietà". Fu la stessa nascita del "copyright" come diritto legale a riconoscere tali limitazioni, garantendo ai titolari dello stesso la tutela per un periodo di tempo limitato (come illustrato del capitolo 6). La tradizione del "fair use" è animata dall'analoga preoccupazione che esso sia sempre più a rischio, man mano che si fanno inevitabilmente alte le spese per esercitare qualsiasi uso legittimo (la storia del capitolo 7). L'aggiunta di diritti imposti dalla legge laddove i mercati possono bloccare l'innovazione è un'altra nota limitazione al diritto di proprietà rappresentato dal copyright (capitolo 8). E garantire agli archivi e alle biblioteche l'ampia libertà di raccogliere materiale, nonostante le rivendicazioni di proprietà, è un elemento fondamentale nel garantire l'anima della cultura (capitolo 9). Le culture libere, come i liberi mercati, si costruiscono grazie alla proprietà. Ma la natura della proprietà che dà vita alla cultura libera è assai diversa dalla visione estremista che domina il dibattito odierno. Sempre più spesso, la cultura libera è la vittima di questa guerra alla pirateria. In risposta a una minaccia reale, seppur non ancora quantificata, che le tecnologie di Internet rappresentano per i modelli imprenditoriali del XX secolo nella produzione e nella distribuzione della cultura, la legge e la tecnologia subiscono trasformazioni che mineranno alla base la nostra tradizione di cultura libera. Quel diritto di proprietà che è il copyright non è più il diritto equilibrato che era una volta, o che si intendeva dovesse essere. È diventato squilibrato, sbilanciato tutto da una parte. L'opportunità di creare e di trasformare risulta indebolita in un mondo dove ogni creazione deve chiedere il permesso e dove la creatività ha bisogno di consultare un avvocato. | << | < | > | >> |Pagina 240Una politica sensata potrebbe appoggiare e sostenere il sistema dei brevetti senza comportarsi esattamente allo stesso modo con chiunque in qualsiasi paese. Come una politica sensata potrebbe appoggiare e sostenere il sistema del copyright senza regolamentare la circolazione della cultura in modo definitivo e per sempre, così una politica sensata sui brevetti potrebbe appoggiare e sostenere il relativo sistema senza bloccare la diffusione di farmaci in un paese che non è abbastanza ricco da potersi permettere i prezzi imposti dal mercato. Un'azione politica sensata, in altri termini, dovrebbe essere anche equilibrata. E in gran parte della nostra storia sia la politica sul copyright sia quella sui brevetti sono state equilibrate.
Ma la nostra cultura ha perso questo equilibrio. Abbiamo smarrito il senso
critico che ci aiuta a vedere la differenza tra verità ed estremismo. Oggi nella
nostra cultura regna una concezione fondamentalista della proprietà, che non ha
legami con la tradizione - qualcosa di anomalo, che avrà conseguenze più gravi,
rispetto alla circolazione delle idee e della cultura, di qualsiasi altra
decisione che prenderà la nostra democrazia.
È un'idea semplice quella che ci acceca, e nel buio avvengono cose che la maggior parte di noi rifiuterebbe se riuscisse a vederle. Accettiamo in maniera così acritica il concetto di proprietà delle idee, che non ci rendiamo neppure conto di quanto sia mostruoso negare le idee a un popolo che senza di esse sta morendo. Accogliamo in maniera così acritica il concetto di proprietà della cultura che non facciamo obiezioni quando il controllo di tale proprietà elimina la nostra capacità, come popolo, di sviluppare democraticamente la cultura. La cecità sostituisce il senso comune. E la sfida per chiunque voglia reclamare il diritto di coltivare la cultura è trovare il modo di aprire gli occhi a questo senso comune.
Per ora il senso comune dorme. Non si ribella. Non riesce ancora a vedere a
che cosa ci si dovrebbe ribellare. L'estremismo che oggi domina questo dibattito
si adegua a idee che sembrano naturali, e questo adeguamento viene rafforzato
dalle RCA dei nostri giorni. Le quali si lanciano in una frenetica guerra per
combattere la "pirateria" e devastare la cultura della creatività. Difendono il
concetto di "proprietà creativa", mentre trasformano i veri creatori in
mezzadri dell'era moderna. Si ritengono insultate dall'idea che i diritti
debbano essere equilibrati, anche se ognuno dei protagonisti di questa guerra
sui contenuti ha tratto benefici da un ideale più equilibrato. L'ipocrisia
puzza. Eppure in una città come Washington, l'ipocrisia non viene neppure
notata. Lobby potenti, questioni complesse e un livello d'attenzione simile a
quello di MTV producono una "tempesta perfetta" per la cultura libera.
|