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| << | < | > | >> |Pagina 9Madre e figlia lavoravano insieme per vestire i due bambini, infilandoli dentro le mute. I piccoli gli sgusciavano fra le mani, eccitati, impazienti, gli occhi che fuggivano a destra e a sinistra. A tratti quasi mugolavano di piacere. Stavano andando in spiaggia tutti e quattro e i loro corpi dovevano essere perfettamente protetti dal sole. I bambini non c'erano mai stati. La ragazza sì, una volta sola. Se ne ricordava appena. La ragazza si chiamava Pella Marsh. La famiglia stava per andarsene lontano, in un posto impossibile. Era la distanza stessa a inquietarli, quella distanza che dovevano ancora percorrere. Era come un contagio, che aveva invaso lo spazio della loro famiglia. Quindi la gita alla spiaggia era un pretesto, una piccola spedizione per evitare di parlare di quell'altra spedizione più grande. «Non costruiscono più né archi né niente» disse Caitlin Marsh parlando di quel luogo remoto, la frontiera. «Pella, aiuta David a cercare le scarpe per favore.» «E allora perché li chiamano archisti?» chiese Raymond, il maggiore dei due bambini. Era seduto sul letto accanto al fratello. Aveva già le scarpe. La domanda del bambino era inquieta, si sforzava di raggiungere con la fantasia il posto dove stava per andare la sua famiglia. Si sforzava di eguagliare la velocità dell'imminente cambiamento. In attesa della risposta, strofinava le scarpe una contro l'altra. «Non è che li chiamano archisti» disse Caitlin Marsh. «Sono loro che si definiscono archisti. O almeno quei pochi che sono rimasti. La maggior parte se ne sono andati.» Parlando del pianeta su cui la famiglia era in procinto di trasferirsi, delle creature che ci vivevano, la madre lo faceva vivere davanti ai loro occhi avidi. Rivolgendosi ai figli con voce lirica e persuasiva, faceva sì che il viaggio sembrasse un gioco. «Andati dove?» chiese Raymond. «Un momento, Ray» disse Caitlin Marsh. «David deve mettersi le scarpe.» Ma la ragazza sapeva che le parole erano rivolte a lei quanto ai fratelli, e ascoltava cercando di cogliervi un errore o un fraintendimento, una nota stonata nella canzone che stava cantando la madre. Qualcosa a cui aggrapparsi per azzerare tutto, in modo che la famiglia fosse costretta a restare. «Una ce l'ho» disse David indicando la scarpa alla madre con un sorrisetto. I bambini erano intimiditi e obbedienti, incantati, percepivano la stranezza della madre. «E l'altra dov'è?» disse stancamente Caitlin. «Pella, aiutalo.» Mentre Caitlin si voltava dal cassettone dei bambini all'armadio a muro, i lunghi capelli neri le ricaddero sul volto. Era affannata, quasi frenetica. La bambina voleva rimetterle a posto i capelli, spostarli indietro.
Spostare indietro tutto, potendo. Indietro di qualche mese, prima che suo
padre avesse perso le elezioni, prima che i genitori avessero pensato di
partire. Spostare indietro se stessa, prima che le fosse venuto il ciclo. Prima
del sangue, prima della sconfitta, prima degli archisti.
«Dove se ne sono andati?» ripeté Raymond. «Nello spazio, lontano lontano» rispose Caitlin. «Ma dove?» disse Raymond. «Nessuno lo sa. Noi conosceremo quelli che sono rimasti. Non tantissimi. Però sono davvero particolari nelle loro scelte linguistiche. Si considerano archisti, per quanto non costruiscano archi.» «Un po' una sciocchezza» disse Raymond pensieroso. «Hanno famiglie?» chiese David. «Vivono molto a lungo» rispose Caitlin. «Quindi fanno pochi figli. E fra gli archisti non ci sono uomini e donne. Un genere solo. Si chiamano ermafroditi.» Li stava confondendo, riempiendoli di nozioni assurde. L'unico filo che legava tutta quell'assurdità era l'insistenza di Caitlin, la sua fretta. Le sue cure materne. «Che significa?» chiese Raymond. «Si dice così quando un essere è uomo e donna allo stesso tempo.» «Dillo ancora.» Caitlin ripeté la parola e Raymond e David la provarono, ridacchiando. «Ecco» disse Pella, frugando sotto il letto in cerca della scarpa di David. Era avvolta in una specie di ragnatela di polvere, come se avessero già abbandonato la casa e fossero tornati centinaia di anni dopo a cercare quella scarpa. Pella la tirò fuori e la spolverò. «Aiutalo tu» disse Caitlin da dentro il guardaroba. Preparò le cose per la spiaggia: la coperta, i giochi per la sabbia, i coni per il sole. «Rimboccagli i pantaloni in modo che non ci sia pelle scoperta. Hai capito come.» Pella sospirò, ma sollevò il piede di David e lo infilò nella scarpa. Pella toccava sempre i fratelli con tenerezza, anche quando era furibonda. E David, sotto le sue mani, era passivo, come un gattino preso per la collottola. «Grazie, Pella» disse Caitlin, ricacciando una scatola di vecchie coperte nel marasma del guardaroba dei bambini, fra vestiti ormai piccoli, giochi da tavolo, cose dimenticate che presto sarebbero state abbandonate. «Dove vivono se non costruiscono niente?» chiese Raymond. Pella si fermò vicino alla finestra. Posò le dita sulle lastre di vetro sigillate, oscurate per attenuare il sole. Fuori c'era il fiume, il ponte. Le gallerie e le torri di Manhattan. Il mondo. Non portatemi via dal mondo vero, pensò. «Vivono all'aperto, dove capita» disse Caitlin. «Adesso non ce ne sono molti. Solo qualcuno.» «Come bestie?» disse Raymond. «Hanno modificato il clima» disse Caitlin. «Così fuori si sta sempre bene. Tanto tempo fa gli archisti erano eccellenti scienziati. Ai tempi in cui costruivano gli archi. Andiamo, ve lo spiego in spiaggia.» Caitlin li guidò verso il seminterrato. David teneva in mano i coni parasole appiattiti, ma la loro circonferenza era superiore alla sua altezza così dovette sollevarli perché non strisciassero sulle scale. Caitlin e Raymond risero, lei apertamente, con allegria, improvvisamente sollevata dai suoi pensieri. Poi chiese a Pella di fare cambio. Lei avrebbe portato i coni, David la coperta. Quel giorno Pella aveva deciso di non ridere. La loro auto sotterranea se ne stava silenziosa e pronta al suo ormeggio, il guscio brunito luccicante nella penombra. Raymond e David erano sgattaiolati giù a giocare nell'abitacolo illuminato della vettura nel seminterrato buio, e Pella era sicura che dentro avrebbero trovato sparsi ovunque i pupazzi di Raymond, l'eroe papera e i cattivi papere, il quartier generale di plastica e l'elicottero, le rocce e gli alberi finti. Quando li vide, Caitlin sospirò in modo esagerato. Poi sorrise di nuovo impassibile. Sgomberò i giocattoli e caricò le cose da spiaggia. Salirono, le ginocchia rannicchiate in mezzo alla vettura, i coni in piedi contro il sedile di fronte. Caitlin digitò la richiesta. Ci vollero cinque minuti perché la rete rispondesse e i neri bracci d'acciaio li portassero fuori dal seminterrato e li agganciassero al treno in corsa. «Un tempo questa era una linea del metrò» disse Caitlin. «La F. Una di quelle prima della rete, quando c'erano solo pochi treni, veri treni su cui tutti viaggiavano insieme. La prendevo anch'io con vostra nonna per andare alla spiaggia, camminavamo sul lungomare e andavamo da Nathan a mangiarci un hot dog, e sapete che altro vendevano?» «Zampe di rana, Caitlin, questa storia ce l'hai già raccontata» disse Raymond. «Puah» disse David. «Stai zitto» disse Raymond. «Che schifo» disse David. «Braccia di rana, teste di rana, orecchie di rana, piselli di rana» sibilò Raymond nell'orecchio di David. «Piantala!» Pella si fece largo tra i fratelli e si sedette in mezzo a loro, anticipando l'inevitabile richiesta della madre. Schiacciata fra i due, pensò alla sera della dichiarazione di Clement dopo la sconfitta, loro tre seduti in quel salone, in attesa, mentre Raymond e David si tiravano calci sotto la sua sedia agitando i palloncini sparsi ovunque con sopra il nome di Clement. Pella aveva preso uno dei palloncini e l'aveva strizzato fino a farlo gemere e poi scoppiare. Agganciati al treno, rombavano nella galleria nera, le insegne pubblicitarie colorate che nel buio si accendevano e spegnevano come luci stroboscopiche illuminavano i loro volti a sprazzi, tatuaggi sulla retina che duravano un batter di ciglia. Il grottesco sferragliamento della metropolitana confortava Pella. Le sembrava di sentire l'odore del metallo surriscaldato. Era nel posto che più le apparteneva, sotto la città di New York, una famiglia nella sua auto privata come un'unità distinta in un alveare brulicante, sepolta lontano dal cielo. Lasciò che le parole della madre venissero sommerse dal ritmo dei binari. «Gli archisti avevano una strana scienza. Usavano i virus per trasformare le cose. Usavano i virus per costruire archi e un mucchio di altra roba, poi modificarono il clima in modo che facesse sempre caldo e ci fosse cibo in abbondanza. E con il cambiamento climatico cambiarono anche gli archisti. Smisero di costruire archi.» «Perché?» chiese Raymond. «Il clima mutò il loro temperamento» rispose Caitlin. «Le loro priorità diventarono altre. Alcuni se ne andarono nello spazio. E quelli che restarono dimenticarono molto di ciò che un tempo conoscevano.» «Vivremo all'esterno?» chiese David. Caitlin rise. Pella lasciava che a fare domande fossero i fratelli. Ascoltava il tono delle risposte di Caitlin, insistente e accattivante. Sentiva la madre rivestire di realtà l'idea del trasferimento della famiglia sul Pianeta degli Archisti, dilatandola per riempire la voragine che si era spalancata quando Clement aveva perso le elezioni. Avvicinandosi alla stazione sulla spiaggia il treno rallentò e la vettura venne sganciata e incanalata nel grande parcheggio sotto la stazione. Caitlin li portò all'ascensore. Al loro passaggio, mentre risalivano dal sottosuolo, si animavano i cartelli che avvisavano ATTENZIONE SUPERFICIE. | << | < | > | >> |Pagina 64Quando arrivarono Clement era fuori. Bruce frugò negli armadietti della cucina della casa nuova finché non trovò una grossa brocca di vetro. Pella, Raymond e David lo guardavano, estranei a quella casa non meno degli altri bambini. La patata pesce era sul tavolo della cucina, e sussultava quando qualcuno camminava nelle vicinanze.Bruce riempì la brocca per due terzi con l'acqua di rubinetto, la posò sulla tavola, e praticò un piccolo foro nella patata con il coltello. Chiudendo il buchino con le dita, rovesciò la patata poi aprì le dita e ne spremette il contenuto nell'acqua come se stesse decorando un dolce con una tasca da pasticciere. Sette corpicini si riversarono nella brocca. Sardine con le zampe. Scivolarono verso il fondo, ma ancor prima di toccarlo presero a contorcersi e dimenarsi. In meno di un minuto si liberarono e iniziarono a nuotare in tondo con frenetici movimenti a scatti, mentre la sostanza amniotica staccatasi dai loro corpi si dissolveva nell'acqua colorandola di grigio. Bruce portò la brocca al lavandino e, coprendo l'imboccatura con la mano, versò buona parte del sedimento in sospensione, dopo di che riempì nuovamente la brocca dal rubinetto con acqua fresca. «Ecco fatto.» Persino Martha, che chiaramente aveva già assistito al procedimento altre volte e aveva chiesto quella dimostrazione per gli altri, si avvicinò per vedere. E Morris rinunciò alla sua distanza per dare un'occhiata. Tutti osservavano i nuotatori. Le zampe dei pesci spingevano indietro e verso il basso come qualcuno che cercasse il fondo in una piscina, e nonostante gli occhietti minuscoli coperti di vescicole fossero chiusi, riuscivano a evitare collisioni fra loro e con le pareti della brocca. «Puoi dargli da mangiare qualsiasi cosa» disse Bruce. «Non crescono e non li puoi ammaestrare. Alla fine muoiono.» «E quel tipo ci fa una zuppa?» disse Raymond incredulo. «A me viene da vomitare.» «La zuppa fa abbastanza schifo» convenne Bruce. «E come animaletti sono piuttosto brutti. Efram dice che non sono veri animali, ma una roba da mangiare assurda degli archisti. Tutte le patate sono solo cose che gli archisti volevano avere in abbondanza come cibo.» «Ma allora perché sono vivi?» chiese Raymond, la fronte aggrottata. Era una buona domanda. «Forse il fatto che se li metti in acqua si risvegliano dipende da qualche strano errore.» «Gli archisti se li mangiano» azzardò Pella. Capiva l'obiezione di Raymond. Anche lei voleva trovare un posto preciso nell'ordine delle cose dove mettere quel pesce sconcertante e orribile. «No» disse Bruce «Gli archisti li ignorano. Quando li trovano nella terra li buttano via e li lasciano marcire al sole. Per questo Efram dice che dev'essere un errore.» «Soltanto E.G. Wa li mangia» disse Martha, storcendo il naso e la bocca. «Nella minestra.» «Qualche volta papà mangia la minestra» disse Bruce. «E anche Ben Barth, quando Efram non c'è. E.G. Wa te la offre sempre quando vai da lui... probabilmente tutti gli adulti la mangiano qualche volta.» L'affermazione rimase senza risposta. «A proposito di non mangiare» disse Morris Grant a Pella «Martha mi ha detto che voi non prendete le pastiglie.» Per quanto le parole fossero neutre, verso la fine la voce prese un tono sarcastico. «Pensa ai fatti tuoi» disse Bruce. «Me l'ha detto Martha.» «Allora è Martha che dovrebbe pensare ai fatti suoi.» «Efram non ne sarà contento» disse Morris. «Efram non è il loro papà.» Pella capì che doveva intervenire, invece di lasciare la cosa a Bruce, ma non sapeva bene che cosa si sarebbe trovata a difendere, che significato aveva per la gente del posto il fatto che la sua famiglia non prendesse le piccole pastiglie blu. Era una sua battaglia, ereditata da Caitlin, che però lei non capiva. Seduto con il mento appoggiato alle braccia incrociate, il naso incollato alla brocca, David fissava quelle creaturine che nuotavano. Morris si avviò verso la porta. «Lo dirò a Efram.» «Efram non c'è nemmeno» disse Bruce. «Puoi andare a dirlo a chi vuoi. Dillo a qualche archista. Fuori di qua.» Si mosse svelto verso Morris, pestando i piedi minacciosamente. Morris infilò la porta e se la svignò nel portico. «Fila, dài» disse Bruce. Morris sbirciò dalla porta ancora una volta, poi corse giù dal portico e si dileguò nei sentieri della valle. Raymond uscì dalla cucina ed entrò nella sua nuova stanza. David rimase seduto ipnotizzato dalle creature nella brocca. «Ma che cosa succede?» chiese Martha a Pella. «Quando?» «Se non prendi le pastiglie.» «Non lo so» rispose Pella. | << | < | > | >> |Pagina 69«Intensità malriposta» disse Genuflessione Sfuggente. Genuflessione Sfuggente era il primo archista che la bambina vedeva in carne e ossa... carne e ossa e pelo e guscio e fronde. In realtà di carne se ne vedeva poca, a parte la pelle nera delle orecchie e delle palpebre. Il pelo invece, anche quello nero, liscio e lungo, forse leggermente muschiato, era ovunque, nascosto dai vestiti cartacei. Al di sotto, qua e là riluceva il guscio, una levigata corazza naturale; le guance, i polsi, quelli che potevano essere dei pettorali. Le fronde degli archisti, più che corna, peli o arti, sembravano fiori, un mazzo di calle sopra la testa degli archisti, attorcigliate, che ricadevano elegantemente di lato e si ripiegavano dietro le grandi orecchie da clown. Le fronde erano una sorta di pendant ammonitore alle torri cadenti che costellavano il pianeta: piegati, dicevano, e magari non crollerai. La ragazza e il fratello erano seduti sotto il portico a guardare gli archi lontani, quando un furgone arrivò rombando dalla piana, guidato dall'uomo che si chiamava Ben Barth. In cabina c'era il padre. Genuflessione Sfuggente stava invece di dietro, nel cassone, insieme alle provviste. Quando il furgone si fermò, l'archista saltò giù con un movimento agile, elastico, braccia e gambe che ricadevano in una morbida ondulazione di ginocchia disarticolate, doppi gomiti.
La bambina si sentì percorrere dallo sguardo dell'archista come da qualcosa
di fisico. Si aggrappò al portico, senza guardare il fratello. Il suo corpo
lentamente si abituò alla presenza dell'archista, al fatto che camminasse e
parlasse, razzolando nella polvere, che sembrasse fatto di pezzi di risulta, di
oggetti di scena, e tuttavia fosse vivo, la testa piegata in quel modo curioso
come un cane attento, che girasse attorno al furgone vicino agli uomini
indifferenti. Lo fissò, perfettamente immobile, lottando contro la tentazione di
scappare via. In quel senso l'archista non era niente, soltanto uno scherzo, un
brandello troppo assurdo per meritare una seconda occhiata. Sembrava patetico
che quando erano ancora a Brooklyn avessero potuto dedicare discorsi
interminabili a quella cosa. Che Caitlin avesse sprecato il suo fiato. Allo
stesso tempo, l'archista era un buco nel mondo, lo modificava radicalmente.
Rendeva visibili le torri lontane, più vicino l'orizzonte abbagliante. Quel
posto non era soltanto un cumulo di macerie. Da qualche parte c'erano altri
archisti. Le macerie e ciò che vi cresceva sopra apparteneva a loro. La ragazza
sentì che il suo corpo lo capiva.
L'alieno si appoggiò al furgone di Ben Barth, incrociò quelle sue bizzarre gambe snodate. osservò Clement e Ben Barth che sollevavano un pallet di provviste dal pianale del furgone al portico. Il pallet arrivava da Southport, la città più vecchia, più grande, dove c'erano medici, negozi e ristoranti e gente che andava e veniva. Quello che aveva sentito, a Pella bastava già per farle desiderare di vivere lì invece che dov'erano loro, in quel nuovo insediamento che non aveva neanche un nome, un posto ai margini del nulla. Ben Barth sembrava un punto interrogativo, e Clement lo superava in altezza di tutta la testa. Però sembrava fatto apposta per scaricare provviste dai furgoni, mentre Clement aveva l'aria spaesata. «Prego?» disse Clement a Genuflessione Sfuggente. «Intensità malriposta» ripeté l'archista. «E questo che vorrebbe dire?» chiese Ben Barth, vagamente infastidito. Con Clement, aveva appoggiato un lato del pallet sul portico e lo stava spingendo da dietro. Pella sentì che il portico, o il pallet, si stava spaccando. «Avrebbero potuto disgregare la merce altrove» disse Genuflessione Sfuggente «e trasportarla miniaturizzata. Meglio che questa gara di goffaggine.» «Lo sarebbe molto meno se invece di startene a guardare ci dessi una mano» disse Ben Barth. Fece una risata acida e disse a Clement: «Già, un archista avrebbe fatto proprio così. Avrebbe aperto una cassa in mezzo alla vallata e portato gli oggetti uno a uno. Salvo poi rimanere incantato dal primo, dimenticando gli altri e lasciandoli dove si trovavano». Clement e Ben Barth riuscirono a issare il pallet sul portico. Clement fece un passo indietro e si asciugò la fronte con la manica. Ben Barth esaminò l'angolo scheggiato del portico. «Mi dispiace» disse. «È un legno di merda.» «Superfici scempiate» disse Genuflessione Sfuggente. «Sì, maledette superfici scempiate» disse Ben Barth. «Se proprio vogliamo dare un nome a ogni maledetta cosa.» «Superfici scempiate non è un nome, Ben» disse l'archista con aria innocente. «Nemmeno Genuflessione Sfuggente» ribatté Ben Barth. Si grattò la barba brizzolata. «E invece mi sembra di conoscere qualcuno, o qualcosa, che si fa chiamare così. E allora perché non Superfici Scempiate?» Pella riuscì finalmente a distogliere gli occhi dall'archista. Rimase immobile con lo sguardo fisso oltre la casa, lontano, dove le forme si fondevano con il cielo e pensò: tutto questo pianeta dovrebbe chiamarsi Superfici Scempiate. «Entrate a bere qualcosa? Ben? Genuflessione Sfuggente?» Ben Barth annuì e guardò l'archista. «Va bene» disse Ben Barth. «Come mai ti chiami Genuflessione Sfuggente?» chiese Raymond, seguendoli. Rientrò anche Pella, che si sentiva protettiva. Un conto era incontrare un archista fuori, un altro averlo dentro casa. I quattro locali erano stati suddivisi: una camera per i bambini, una per Pella, una per Clement che fungeva anche da ufficio, anche se non si capiva perché dovesse esserci un ufficio, e la cucina, dove mangiavano. E dove ospitavano gli archisti, a quanto pareva. Clement aprì il frigo e versò da bere. Ben Barth rispose. «Sono talmente innamorati dell'inglese, che hanno voluto darsi nomi nuovi di quel tipo. Verità Nota, Roccia Amica, Cioccolatino Solitario, Genuflessione Sfuggente. Conoscerai tutta la combriccola, e i nomi sono uno più stupido dell'altro.» «Più stupido e più carnevalesco» disse Genuflessione Sfuggente, che sembrava averlo preso per un complimento. «Eh sì, la vita è tutta un carnevale sul Pianeta degli Archisti» disse Ben Barth. «Oh, grazie, signor Marsh.» Prese il bicchiere di succo liofilizzato. «Mi chiami Clement. E loro sono Pella e Raymond.» «Un nome evocativo» disse Genuflessione Sfuggente, girandosi verso Pella. «Pella Marsh.»
«Evocativo di cosa?» chiese Pella. «Comunque non l'ho scelto io.» Si
distrasse, notando un cervo domestico che correva da un angolo all'altro della
stanza, in cerca di postazioni strategiche. Piccole giraffe spie, ovunque.
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