Copertina
Autore Stefano Levi Della Torre
Titolo Mosaico
Sottotitoloattualità e inattualità degli ebrei
EdizioneRosenberg & Sellier, Torino, 1994 , pag. 178, cop.fle., dim. 150x210x12 mm , Isbn 978-88-7011-570-3
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe storia sociale , storia contemporanea , religione , shoah , paesi: Israele
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Indice


  7 Prefazione
 11 Glossario
 13 Tribù, 1982
 17 Riflessi ebraici nella cultura europea
 51 Oblio e memoria dello sterminio
 79 Ricorsi dell'antisemitismo
 95 Giudeofobia e misoginia
105 Il delitto eucaristico
135 Il Dio degli eserciti e il Dio della pace
149 Israeliani e Palestinesi: due nazioni si riconoscono
159 Il centro e il vuoto
164 Il sabato e il vuoto


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE


Nel 1982 protestai insieme con altri contro l'attacco israeliano in Libano. Per la prima volta Israele lanciava una guerra puramente offensiva, e un confronto molto duro si era aperto con gli ebrei e tra gli ebrei. Ma avendo preso posizione su un punto così pieno di implicazioni, mi sono subito trovato a dover dipanare una matassa senza fine e un groviglio di domande: perché un italiano avrebbe, in quanto ebreo, la responsabilità particolare di pronunciarsi sulla politica del governo israeliano? Che cosa è un ebreo? Che cosa c'è da dire, in quanto ebrei, non solo sulla memoria, ma anche sull'attualità delle discriminazioni e degli stermini? O sui rapporti tra maggioranza e minoranze in una società multiculturale e multietnica? O sui rapporti tra diverse religioni, o tra religione e laicità? Gli stereotipi inerenti agli ebrei, tanto quelli positivi quanto quelli negativi, tornavano a essere in discussione in Europa, e ciò era un indice e insieme una chiave di lettura di un profondo mutamento del corso della storia e delle mentalità.

Negli anni ottanta e nei primi anni novanta ho avuto occasione di tenere numerose conferenze e discussioni su questi argomenti e sui loro intrecci. I saggi qui raccolti derivano da questa attività di chiarimento in pubblico: come avessi da render conto di qualcosa ogni volta, a me stesso in primo luogo, nel susseguirsi di eventi traumatici.

Alle domande che si ponevano (che cosa ha da dire un ebreo?...) non avevo risposte già pronte né per me né per gli altri. Per me come per molti della mia generazione diffusamente secolarizzata, nata fortunosamente durante lo sterminio nazista o subito dopo, l'ascendenza ebraica era rimasta sullo sfondo, un blasone di scampato martirio e un insieme di sintomi, di storie e di lessici familiari, un retaggio delegato alla generazione dei padri e delle madri. Ma la loro morte ci ha posto di fronte alla scelta di assumere o no quell'eredità tramandata appena per cenni: ho dovuto mettermi a studiare, partendo da una fondamentale ignoranza. Ma non era solo questione di un'eredità peculiare; si entrava in un clima in cui ci si sentiva orfani delle ideologie e degli schieramenti politici che avevano orientato le identità personali e collettive per quasi un secolo, e il loro collasso spingeva alla ricerca di altri ancoraggi, di paradigmi più duraturi; l'ebraismo rappresentava una strategia culturale della durata.

Trovandomi a render conto a me stesso e a un pubblico di volta in volta differenziato per età, condizione, religione e cultura, non potevo non chiedermi quanto l'ebraismo costituisca una realtà a sé, o quanto sia una peculiarità capace di parlare universalmente. E ho usato spesso criteri comparativi, per scoprire sia ciò che nella civiltà e nell'esperienza ebraica è specifico e divergente rispetto ad altre civiltà ed esperienze, sia ciò che è convergente e generalizzabile.

Vorrei essere riuscito in queste pagine a rappresentare un movimento che è personale, ma è anche tipico di quest'epoca investita dai problemi dell'identità: il volgersi di un ebreo verso l'ebraismo, e dall'ebraismo verso il mondo.

Questi scritti, in parte già pubblicati separatamente in libri collettivi e riviste, contengono riferimenti d'occasione, che ho preferito lasciare come registrazione del loro sviluppo nel tempo. Vi ho apportato però diversi ritocchi ed aggiunte. Il titolo, Mosaico, mi è stato suggerito da una frase scritta nel 1638 da Simone Luzzatto, rabbino a Venezia: «un ebreo è un mosaico di elementi diversi»: mosaico per il carattere composito di ogni identità e cultura; mosaico, come aggettivo riferito a Mosè; e in fine mosaico perché il libro è composto di «tessere» di diverso argomento.

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Pagina 13

TRIBÙ, 1982
[1983]



Incontro P. M. ad una manifestazione contro la guerra in Libano: «sono qui perché c'è un'amica a Beirut», mi spiega, aggressiva, come a volersi scrollare di dosso il sospetto di un'intenzione politica che non abbia un immediato motivo personale.

Dissociazione tra intelletto ed affetto: ogni volta dobbiamo constatare la nostra difficoltà ad assimilare la tragedia. Siamo più intimamente coinvolti dalla sofferenza di un singolo che abbia un volto per noi, che da un disastro o una strage. L'intelletto concepisce anche milioni di morti, ma il sentimento comprende quasi solo i fatti personali, perché l'affetto e l'emozione sono rimasti alle dimensioni primitive del clan familiare e del villaggio. Non tanto la ragione, quanto una potente fantasia può estendere le dimensioni ridotte delle nostre emozioni, può allargare i confini del «nostro prossimo» fino a cercare di comprendere, o meglio di sentire, qualcosa di universalmente umano.

Forse si può dire che tra l'individuo e l'universo, tra l'universo e il vissuto limitato ed incerto del singolo, c'è una dimensione intermedia e variabile, il luogo di una socialità essenziale, fisica e diretta con altri esseri umani, dove conoscere e riconoscersi e dove il senso delle cose è per gran parte consenso, sentire insieme, senso comune, e quindi reciproca conferma e capacità di comunicare, linguaggio: quella dimensione né troppo piccola né troppo grande, senza la quale il singolo non impara né osa generalizzare, e neppure ha esperienza sufficiente del «tu» per potersi definire come «io». Non basta la mamma, ci vuole «tribù», comunità, il senso comune, il senso fisico ed emotivo di una appartenenza sociale affinché il singolo si faccia persona – l'«io» e il «tu», in un'unica persona – e riproduca se stesso come persona. Una comunità né così piccola e chiusa da essere incapace di confermare il senso di una cosa come senso (forse) universale; né così grande ed aperta da essere indeterminata, priva di identità, e troppo al di là dall'essere compresa come esperienza tattile e come presenza.

Si può dire che il carattere umano – impasto di affetto ed intelletto – della «coscienza di classe» (vissuta, non ideologica), sta nel fatto che su una comunanza di interessi materiali si svolga una identità collettiva, un senso di appartenenza a una comunità fisica fatta di rapporti interpersonali, contro il rapporto impersonale con il capitale: sta nel senso tribale della classe, di «fratellanza» come immaginaria parentela, che ha una sua dimensione non indefinita. L'internazionalismo (proletari di tutto il mondo...) rimane così un concetto, difficilmente si fa sentimento: solo in qualche caso non è al di là della portata emotiva: solo di rado è assunto in proprio e non delegato all'esterno, al partito e alla sua capacità di astrazione.

Che cosa è quella felicità, ossia quel senso di pienezza e di ricomposizione interiore che, almeno per un tempo breve, sperimenta chiunque si faccia prendere da un movimento collettivo? È la rivelazione di una appartenenza tribale, di una forma di parentela, la cui fisicità sta nella presenza (i «compagni», le «donne»): quell'essere «noi» non in astratto, ma in tempi e luoghi determinati e reali. E se l'infelicità sociale sta anche nella normale dissociazione tra dimensione intellettuale e dimensione emotiva, tra il comprendere e l'essere coinvolti, la condizione del movimento, come forma caduca e intensa del «bisogno di tribù», si presenta come felice ricomposizione momentanea: attraverso la fisicità collettiva, attraverso il senso comune, e il movimento dentro uno spazio reale, intelletto ed affetto trovano, per una volta, una misura comune. È un sogno in comune, in uno spazio reale, come il teatro.

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Pagina 51

OBLIO E MEMORIA DELLO STERMINIO
[1988]



Gli «ultra» allo stadio, che con striscioni e slogans evocano le camere a gas e i forni crematori, contro gli avversari «ebrei», sognano una vittoria assoluta della loro squadra e un annientamento dell'altra. Dal loro punto di vista, la partita è un gioco «a somma zero»: vittoria più sconfitta = zero.

La partita è allora un simbolo di tutti i «giochi a somma zero», di tutti gli antagonismi totali, che sono quelli più tragici ma anche intellettualmente ed emotivamente più elementari. Corrispondono allo schema binario «sì, no».

L'esaltazione di Auschwitz allo stadio ha lo stesso senso: anche i nazisti sostenevano di aver ingaggiato con gli ebrei un «gioco a somma zero»: o noi annientiamo loro o loro annienteranno noi. Così, la competizione sportiva è vista come antagonismo assoluto, come «soluzione finale», Auschwitz ne è il paradigma e l'ideale. La partita, invece di disinnescare il conflitto giocandolo, lo amplifica e lo proclama come intenzione politica.

Domanda: è l'odio contro gli ebrei a ispirare un antagonismo assoluto, o è il bisogno di un antagonismo assoluto, elementare e risolutivo, ad affermare lo sterminio nazista come bandiera?

È più la seconda cosa che non la prima: ma ciò non tranquillizza, perché anche l'antisemitismo strettamente inteso è ispirato dagli stessi meccanismi «astratti», dai principi economici dell'odio che governano i nostri comportamenti sociali non meno di quelli dell'amore e della solidarietà; odio e amore come istanze «a priori», che solo dopo trovano il loro oggetto, magari già codificato dalla tradizione.

Chi esalta Auschwitz allo stadio non lo fa, come qualcuno ha sostenuto, per ignoranza. Al contrario, lo fa proprio perché di Auschwitz sa quanto meno l'essenziale: che vi furono sterminate milioni di vittime, vagheggiate come nemici mortali.

Per lungo tempo ho creduto, come molti, che la conoscenza dei campi di sterminio fosse il principale antidoto contro ideologie naziste o di «pulizia etnica». Ora le cose mi sembrano più complicate. Le conseguenze del sapere mi sembrano meno univoche. Da un lato, è vero, il sapere educa i molti, ma per altri può essere assuefazione o persino istigazione.

È successo, dunque può succedere di nuovo, ha detto Primo Levi. (Ad esempio succede in Bosnia). Ha anche detto: chi nega che sia successo quel che è successo è proprio quello che è pronto a rifarlo. Ma forse è pronto a rifarlo o ad accettarlo, anche chi non nega affatto quanto è successo. In altri termini, mi sembra semplicistico pensare che la battaglia su questo fronte sia quella del sapere contro l'ignoranza. È una battaglia di principi, di valori e di coscienza, e il «sapere» non è ancora tutto questo, come il nazismo, che non era fatto di incolti, ha dimostrato. È anzi proprio questo rapporto tra sapere e barbarie uno dei problemi centrali che il nazismo ci ha lasciato in eredità.

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Pagina 135

IL DIO DEGLI ESERCITI E IL DIO DELLA PACE
[1994]



Mentre crollano o si logorano potenti «regni mondani», una nuova effervescenza religiosa segna questo fine millennio. Essa sembra rispondere alla caducità delle certezze antropocentriche di due secoli di secolarizzazione. È una rivalsa dell'illusione sulle delusioni della storia, una critica alla «modernità», alla ragione strumentale dei liberalismi e dei marxismi, di cui vuole rappresentare un'alternativa e uno sbocco. Solo in apparenza è «un balzo di tigre nel passato», nella tradizione: ha in sé qualcosa di vitale come lo ha ogni ripresa dell'illusione, dato che – spiegava Leopardi – l'illusione è la molla del futuro. Ma di un futuro non necessariamente migliore. Che siano islamici o cristiani, ebraici o induisti, gli integralismi religiosi, in espansione dagli anni settanta, si intrecciano con l'eterofobia e la xenofobia, e fomentano intolleranza e conflitti. Ma, dall'altra parte, sull'altro versante dello stesso impulso religioso, c'è una ricerca di fondamenti etici e un respiro intellettuale ampio che favoriscono i riconoscimenti reciproci e la pace.

Le religioni attraversano i confini statali e linguistici, sono più estese o più ridotte delle entità politiche e nazionali. Rivolgendosi alla spiritualità individuale e alle appartenenze comunitarie, le identità religiose delineano una dimensione spostata rispetto a quella di cittadinanza. In altre parole, l'accento sull'appartenenza religiosa è uno degli indici che dall'alto e dal basso, da una dimensione sovranazionale o subnazionale, rivelano una situazione critica degli stati/nazione. E poiché la democrazia come controllo popolare della delega politica è una possibilità verificata solo su determinate estensioni territoriali e demografiche, e assai meno sulle nuove dimensioni transnazionali, o continentali, o di «governo mondiale» (di più difficile percezione e controllo), l'elemento religioso indica anche i limiti attuali dell'esercizio della democrazia e li rimette in discussione.

Il nazionalismo ottocentesco, che ha dato forma statuale alle nazioni moderne, tendeva a fare della nazione una superetnia: una stessa lingua, stessi miti e tradizioni, una stessa cultura, possibilmente una stessa religione. Oggi assistiamo a tendenze inverse: ad etnie che pretendono di farsi nazione e stato, come nella ex Jugoslavia o nel Caucaso; a correnti religiose che pretendono di farsi super-nazioni e stati-guida, come l'Iran.

La critica religiosa alla «modernità» non va nel senso di negarla, ma nel senso di sussumerla. Come osserva Gilles Kepel (La revanche de Dieu, Paris, Seuil, 1991), se fino agli anni settanta il problema sembrava quello di modernizzare il cristianesimo o l'islamismo o l'ebraismo, ora, all'inverso, si pone nel senso di come cristianizzare, islamizzare o ebraizzare la «modernità».


Secolarizzazione reversibile

Ma ciò che con termine rozzamente riassuntivo definiamo «modernità» ha sviluppato criteri alternativi alla religione spesso più apparenti che reali. Usciamo da due secoli di secolarizzazione imperfetta, poiché molte delle figurazioni proprie del religioso non sono state realmente superate, ma piuttosto riciclate in nuove incarnazioni. Le facciate ufficiali della secolarizzazione sono state trionfalistiche (la tecnica, il progresso...), come trionfalistica è l'ufficialità religiosa. La sostituzione della «dea ragione» alla divinità tradizionale durante la rivoluzione francese, non era una battuta polemica, ma piuttosto un lapsus, la sincera riedizione di un culto, di caste sacerdotali trasferite dal terreno della teologia a quello della ideologia, dall'appartenenza confessionale all'appartenenza politica e ideologica.

Così, se Durkheim insegnava che nei culti religiosi le società venerano la propria immagine camuffata, noi abbiamo visto come nei culti politici le collettività venerino antichi idoli camuffati da istituzioni civili. Hans Kelsen (L'anima e il diritto, E. L., 1989) sostiene che «il problema fondamentale della teologia, il rapporto tra Dio e il mondo, corrisponde perfettamente al problema centrale della dottrina dello Stato, il problema del rapporto tra Stato e diritto: nel senso della trascendenza dello Stato rispetto alla società e al diritto». J. L. Talmon (Destin d'Israël, Paris, Calmann-Lévy, 1967) osserva come «non si potrebbe trovare nella storia dell'umanità una rivoluzione di più vasta portata della perdita della fede in una provvidenza che veglia sugli esseri umani e sulla società, e che li guida verso qualche soluzione razionale e salvifica».

Tuttavia, questa rivoluzione non è avvenuta che in alcuni spiriti tragici ed eletti (in Leopardi, in Nietzsche, in Kafka, critici radicali della provvidenza secolarizzata), non già nelle vicende maggioritarie della secolarizzazione. La divina provvidenza cacciata dalla porta è rientrata travestita dalla finestra. Prima nell'idea borghese di progresso, della «mano invisibile» del mercato e dell'interesse privato, provvidenzialmente volti verso il bene comune. Poi, la tragedia reale del progresso tecnico, con le sue trasformazioni accelerate e dissolutrici, ha suscitato due nuove incarnazioni «mutanti» della provvidenza, l'una di destra, l'altra di sinistra. L'una, da destra, reagiva all'angoscia del mutamento e delle mescolanze promettendo l'affermazione dell'immutabile: indossava, nel fascismo e nel nazismo, le vesti della Natura e dello Spirito, annunciando l'ordine gerarchico e provvidenziale del «superiore» sull'«inferiore». L'altra, da sinistra, reagiva alla tragedia del mutamento indossando le vesti della storia, provvidenzialmente orientata verso un futuro di uguaglianza e giustizia, un futuro fraterno ma soprattutto sotto controllo. Così ideologie liberali, fasciste o socialiste, pur differenti di carattere e valore, hanno ciascuna per il suo verso ricalcato le strade della teologia.

Se qualcosa di vero c'è in queste considerazioni sommarie, potremmo allora osservare che, come le ideologie sono state almeno in parte un viraggio secolaristico delle rappresentazioni teologiche del mondo, così oggi la ripresa delle religioni rappresenta in parte un viraggio teologico dei problemi della secolarizzazione. In parte, l'alternativa tra religione e secolarizzazione è apparenza. L'alternarsi dell'una e dell'altra è, in parte, un falso movimento, poiché sembra ruotare su alcune categorie comuni ad entrambe.

Si può forse ancora osservare: un tempo i credenti pensavano vero ciò che credevano e da ciò traevano la loro identità. Oggi pensano vera l'identità e da ciò traggono il loro credere.


Rotazioni

Ora, se la religione si proponesse di far credere ciò che è credibile, non assolverebbe nessuna funzione sua propria. La fede è tale solo se si apre sull'incredibile e sull'inaudito, e questo vale non solo per la fede religiosa, ma per qualunque atto creativo e innovativo. Ma quando questa sublime contraddizione, di credere nell'incredibile, cade in basso, si degrada in una incoerenza, qual è quella di uccidere in nome di un dio che vieta di uccidere; di non perdonare in nome del dio del perdono; di fare la guerra in nome del dio della pace. Di per sé le religioni non dànno alcun affidamento. Ruotano, come tutte le cose umane, tra il bene e il male. Sicché anche il nostro titolo: «Il Dio degli eserciti» e il «Dio della pace» non lo terremo fermo ma lo faremo ruotare.

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Pagina 149

ISRAELIANI E PALESTINESI: DUE NAZIONI SI RICONOSCONO
[1993]



[...]


Israele è nata dall'immigrazione, ma ora è in maggioranza di nativi; i palestinesi erano nativi ma hanno acquistato il senso di sé come «nazione» soprattutto a contatto e in contrasto con la formazione di Israele. Come «nazioni», israeliani e palestinesi sono giovani, pressoché coetanei. Ossessionati dal problema di esistere come nazioni, misurano il loro grado di esistenza sul possesso dello stesso territorio. Per ciascuno riconoscere l'altro significava infirmare la propria stessa esistenza. Come appariva l'altro? Non come un popolo, una società impegnata in primo luogo a esistere, ma come agente di un progetto politico ostile, e come tale neutralizzabile e da neutralizzare: i palestinesi riassunti come «terrorismo»; gli israeliani riassunti come «imperialismo». Ma l'antisemitismo ha offerto un esempio estremo di questo riassumere la ragion d'essere di un gruppo umano in una sua presunta funzione politica: per l'antisemita, la ragion d'essere dell'ebreo non è che politica, il «progetto politico di un dominio sul mondo». Questo, al limite. Concretamente, negli stereotipi di parte araba e palestinese, la ragion d'essere principale di Israele non era quella di vivere, ma quella di funzionare come agenzia dell'imperialismo: negli stereotipi israeliani ed ebraici, la ragion d'essere dei palestinesi non era tanto in sé, nel fatto di essere lì come popolazione nativa fattasi nazione, ma quella di agenzia politica del terrorismo. Ci potevano essere elementi di verità, ma stravolti nella loro importanza. Questi stereotipi reciproci infatti sopravvalutavano le «funzioni politiche» e sottovalutavano la tenacia inesorabile di chi lotta soprattutto per esistere e per garantirsi un futuro.

Nel quadro di questi stereotipi, ogni concessione fatta alle ragioni vitali dell'altro risultava un autolesionismo e un tradimento. I filoisraeliani a oltranza e gli antisionisti a oltranza hanno contribuito a inchiodare gli uni e gli altri a una logica senza sbocco, riducibile a questo: contrapporre tutte le ragioni degli uni contro tutti i torti degli altri. Una logica che non poteva portare che a uno stallo, a un «gioco a somma zero». Ma poiché nessuna delle parti poteva permettersi di perdere l'essenziale, compromettendo la propria sopravvivenza nazionale, che è un argomento duro, molto più solido di quella mera «funzione politica» che la propaganda dell'uno attribuiva alla ragion d'essere dell'altro, lo stallo è durato decenni.

Il nocciolo della questione era un altro: là non si fronteggiavano delle ragioni contro dei torti, ma due ragioni, due stati di necessità prodotti dalla storia, due diritti irrinunciabili a esistere sulla stessa terra. E questo dato di fatto doveva portare a un gioco «a somma diversa da zero», in cui ogni parte, guadagnando qualcosa, avrebbe perduto qualcosa, attraverso la trattativa e la spartizione.


Shamir diceva: «Arafat è come Hitler», e ora Rabin gli stringe la mano. Che sia dettata dalla convenienza o dalla convinzione, la scena è tutt'altro che formale. I capi fanno un gesto fino a un giorno prima bollato come tradimento dalle rispettive dottrine ufficiali, trasgrediscono per televisione un tabù, una fissazione delle rispettive mitologie nazionali. Passare da un «gioco a somma zero» a uno a «somma diversa da zero» non solo cambia la politica, ma rimette in discussione il come ciascuno si è raccontata la storia, va fino a toccare i paradigmi dell'identità. Tra gli ebrei la questione coinvolge i rapporti con Israele in quanto polo di identità, e il cambiamento di prospettiva non è affatto pacifico: molti «elaborano un lutto». Anche in campo palestinese avviene un rimescolamento. Mille nuove tensioni sono indotte dalla svolta. Non che la cosa nasca ora: dall'inizio, ma segnatamente dalla guerra del Libano del 1982, un lavoro politico e dottrinario, filosofico e morale ha fatto crescere, specie nel mondo ebraico, un vasto movimento per la pace e ha preparato l'avvenimento nella mentalità e nei linguaggi. Ma ai molti (tra cui ho l'onore di annoverarmi) che hanno per anni nuotato contro corrente, la stretta di mano tra Rabin e Arafat dà comunque la sensazione di un salto.

Il rimescolamento mentale andrà in diverse direzioni; è difficile calcolarne la portata. Come per esempio riaffileranno i loro argomenti (di destra e di sinistra) i demonizzatori del sionismo, più «palestinesi» dell'Olp? Quali nuove razionalizzazioni troveranno quei portatori sani di antisemitismo, laici o religiosi, che cercavano nella protervia del governo israeliano la conferma di quanto già «sapevano» dell'«essenza ebraica»?

Questa svolta è di altro ordine che non quella di Camp David, che portò alla pace tra Israele ed Egitto nel 1979. Là i palestinesi venivano lasciati fuori, e il nocciolo simbolico e politico della questione veniva aggirato. Qui, l'incontro è tra i due protagonisti. Il fatto che la tornata di trattative arabo-israeliane, aperta dopo la guerra del Golfo, abbia i suoi primi risultati a partire dai palestinesi, significa che la questione è stata presa non per la coda ma per le corna. Questo dà all'intero processo di pace un punto di partenza forte: già se ne vedono gli effetti a catena (con la Giordania, il Marocco, l'Indonesia, il Vaticano). E se la Siria, scavalcata, va organizzando una rivolta di gruppi palestinesi contro l'Olp e contro l'accordo, credo lo faccia per guadagnare terreno nelle trattative; non per uscirne.

Gli israeliani hanno vantato a ragione la loro anomalia, d'essere l'unica democrazia nella regione. I palestinesi hanno lottato anche in nome degli stessi princìpi a cui si richiamano gli israeliani: diritto alla terra, diritti umani, diritto a uno Stato, democrazia, giustizia, autodeterminazione. Ciò ha indotto negli stessi palestinesi un'anomalia rispetto agli altri popoli arabi. Lottando corpo a corpo, israeliani e palestinesi si sono consolidati come due anomalie nella regione. Anche per questo le divergenze si stanno ribaltando in convergenze: nel contesto in cui si trovano, avranno da difendere in comune le loro rispettive anomalie, le conquiste che si sono reciprocamente strappate. Le simmetrie che li opponevano, ora sembrano diventare argomento di riconoscimento reciproco, elementi comuni di linguaggio, malgrado l'odio che rimarrà.

L'accordo dice: «A cominciare da Gerico e Gaza». È chiaro, non è che l'inizio. Ci saranno ostacoli, cadute, atti di terrorismo da entrambe le parti. Ci si scontrerà sui problemi di Gerusalemme, della distribuzione delle acque, dei rapporti economici in una situazione di sviluppo ineguale, sui problemi dei coloni e della sicurezza, di un nuovo Stato o di una federazione con la Giordania.

Per cominciare, questo accordo deve essere nutrito con idee e denaro, dall'appoggio internazionale: come il Sudafrica, è un fatto di controtendenza in un quadro di montate razziste e conflitti etnici. E se oggi va di moda dire che è difficile vivere quando si perde un nemico, almeno su questo possiamo andare tranquilli: questa intesa ha molti nemici.


Post scriptum:

«Halwaj she-ja'amod» disse il Signore, guardando il creato ai suoi primi passi: «Speriamo che stia in piedi».

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