Copertina
Autore Daniel J. Levitin
Titolo Fatti di musica
SottotitoloLa scienza di un'ossessione umana
EdizioneCodice, Torino, 2008 , pag. 276, ill., cop.fle., dim. 14x21,5x1,8 cm , Isbn 978-88-7578-098-2
OriginaleThis Is Yout Brain on Music. The Science of a Human Obsession [2006]
PrefazioneWu Ming 2
TraduttoreSusanna Bourlot
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe musica , sensi , scienze cognitive , mente-corpo
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Indice


    Introduzione

vii Amo la musica e amo la scienza:
    perché mai dovrei mischiarle?

    Prefazione all'edizione italiana
xix di Wu Ming 2

    Capitolo 1
  3 Cos'è la musica?
    Dal pitch al timbro

    Capitolo 2
 43 Battere il piede
    Distinguere ritmo, intensità e armonia

    Capitolo 3
 69 Dietro le quinte
    La musica e la macchina della mente

    Capitolo 4
 95 L'anticipazione
    Cosa ci aspettiamo da Liszt (e da Ludacris)

    Capitolo 5
113 You Know My Name (Look Up the Number)
    Come categorizziamo la musica

    Capitolo 6
157 «Dopo il dessert, Crick sedeva ancora a quattro posti da me»
    La musica, l'emozione e il "cervello rettile"

    Capitolo 7
171 Cosa contraddistingue un musicista?
    Dissezione dell'expertise

    Capitolo 8
197 My Favorite Things
    Perché ci piace una certa musica?

    Capitolo 9
219 L'istinto musicale
    L'hit n. 1 dell'evoluzione


    Appendice A
239 La musica nella testa

    Appendice B
243 Accordi e armonia

247 Bibliografia

267 Ringraziamenti

269 Indice dei nomi e delle opere


 

 

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Pagina xii

Un paio di generazioni fa, prima della televisione, molte famiglie s'intrattenevano cantando e suonando. Oggi si dà grande importanza alla tecnica e all'abilità, e al fatto che un musicista sia "bravo abbastanza" da suonare per gli altri. Nella nostra cultura fare musica è diventato una specie di attività riservata, e il resto di noi ascolta. Negli Stati Uniti, quella musicale è una delle maggiori industrie e dà lavoro a centinaia di migliaia di persone. Le vendite discografiche, da sole, fruttano 30 miliardi di dollari l'anno e questa cifra non tiene neppure conto dei biglietti venduti per i concerti, delle migliaia di band che suonano il venerdì sera nei locali di tutto il Nord America, o dei 30 miliardi di canzoni scaricate nel 2005 attraverso il file-sharing. Gli americani spendono più soldi per la musica che per il sesso o le medicine. A giudicare da questo consumo vorace, direi che la maggioranza degli americani merita la qualifica di "ascoltatore esperto". Possediamo la capacità cognitiva d'individuare le note sbagliate, di trovare la musica che ci piace, di ricordare centinaia di melodie e di battere il piede a tempo con la musica, un'attività che implica un processo di estrazione metrica talmente complicato che la maggior parte dei computer non riesce a svolgerlo. Perché ascoltiamo musica e perché siamo disposti a spendere così tanto denaro per ascoltarla? Due biglietti per un concerto possono tranquillamente costare quanto la spesa alimentare per un weekend di una famiglia di quattro persone, e un CD costa circa quanto un camiciotto, svariati chili di pane o un mese di abbonamento telefonico base. Capire perché ci piace la musica e cosa ci attragga in essa può aprirci una finestra sull'essenza della natura umana.


Porre domande su un'abilità umana onnipresente e fondamentale significa implicitamente porre domande sull'evoluzione. Gli animali hanno sviluppato certe forme fisiche in risposta all'ambiente, e le caratteristiche che favoriscono l'accoppiamento si sono trasmesse alla generazione seguente attraverso i geni.

Un concetto importante della teoria darwiniana è che gli organismi viventi - che siano piante, virus, insetti o animali - si sono coevoluti con il mondo fisico. In altre parole, se tutte le cose viventi cambiano in risposta al mondo, anch'esso cambia in risposta a loro. Se una specie sviluppa un meccanismo per tenere alla larga un certo predatore, la specie di quel predatore subisce una pressione evolutiva a sviluppare un mezzo per vincere quella difesa o a trovare un'altra fonte di cibo. La selezione naturale è una corsa agli armamenti delle morfologie fisiche, che mutano per mettersi in pari l'una con l'altra. Un ambito scientifico relativamente nuovo, la psicologia evolutiva, estende la nozione di "evoluzione" dal regno fisico a quello mentale. Il mio mentore alla Stanford University, lo psicologo cognitivista Roger Shepard, spiega che non solo i nostri corpi, ma anche le nostre menti, sono il prodotto di milioni di anni di evoluzione. I nostri schemi mentali, la nostra predisposizione a risolvere i problemi in certi modi, i nostri sistemi sensoriali - come la capacità di vedere a colori (e i particolari colori che vediamo) - sono tutti un prodotto dell'evoluzione. Shepard si spinge oltre: le nostre menti si sono coevolute con il mondo fisico, cambiando in risposta a condizioni in perenne mutamento. Tre allievi di Shepard - Leda Cosmides e John Tooby all'Università della California (Santa Barbara) e Geoffrey Miller dell'Università del Nuovo Messico - sono tra i rappresentanti più all'avanguardia in questo campo. Che funzione assolveva la musica per l'umanità, mentre ci evolvevamo e sviluppavamo? Di certo la musica di 50000 o 100000 anni fa è molto diversa da Beethoven, dai Van Halen o da Eminem. Come si sono evoluti i nostri cervelli, così si evoluta la musica che facciamo con essi e quella che vogliamo sentire. Nei nostri cervelli si sono evolute delle regioni o delle vie neurali appositamente per la creazione e l'ascolto della musica?

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Pagina 3

Capitolo 1

Cos'è la musica?

Dal pitch al timbro


Cos'è la musica? Per molti "musica" può significare soltanto i grandi maestri: Beethoven, Debussy e Mozart. Per altri è Busta Rhymes, Dr. Dre e Moby. Per uno dei miei insegnanti di sassofono al Berklee College of Music — e per schiere di appassionati di "jazz tradizionale" — tutto quel che è anteriore al 1940 o posteriore al 1960 non è vera musica. Quand'ero ragazzino, negli anni Sessanta, avevo degli amici che venivano a trovarmi per ascoltare i Monkees, perché a casa loro era permessa solo la musica classica e, a qualcuno, solo i canti religiosi: il rock'n'roll e i suoi "ritmi pericolosi" facevano paura. Quando, nel 1965, Bob Dylan osò suonare una chitarra elettrica al Newport Folk Festival, parte del pubblico se ne andò e chi rimase lo sommerse di fischi. La Chiesa cattolica bandì la musica che conteneva polifonia (due o più linee melodiche suonate insieme), temendo che potesse indurre i fedeli a dubitare dell'unità divina. La Chiesa bandì anche l'intervallo di quarta eccedente, cioè la distanza tra il Do e il Fa diesis, detto anche "tritono" (l'intervallo in West Side Story di Leonard Bernstein quando Tony canta il nome "Maria"). Quest'intervallo era considerato talmente dissonante che doveva essere per forza opera di Lucifero e così la Chiesa lo definì Diabolus in musica. Fu il pitch a far insorgere la Chiesa medievale. E fu il timbro a far fischiare Dylan. Furono i ritmi africani latenti nel rock a spaventare i genitori della provincia americana, forse preoccupati all'idea che potessero indurre una trance permanente nei loro innocenti pargoli. Cosa sono ritmo, pitch e timbro? Solo un modo di descrivere gli aspetti meccanici di una canzone, oppure hanno un fondamento più profondo, neurologico? Sono tutti elementi necessari?

L'opera di compositori dell'avanguardia come Francis Dhomont, Robert Normandaeu o Pierre Schaeffer allarga i confini di quel che la maggior parte di noi pensa sia la musica. Lasciandosi alle spalle l'uso della melodia e dell'armonia, e persino degli strumenti, questi compositori usano le registrazioni di oggetti qualsiasi, come martelli pneumatici, treni e cascate. Montano le registrazioni, giocano con i loro pitch e infine le combinano in un collage organizzato di suoni che ha lo stesso tipo di traiettoria emotiva - tensione e rilassamento - della musica tradizionale. I compositori di questa tradizione sono come i pittori che oltrepassarono i confini dell'arte rappresentativa: cubisti, dadaisti, molti pittori moderni da Picasso a Kandinsky e Mondrian.

Cos'ha in comune la musica di Bach, dei Depeche Mode e di John Cage? A livello più elementare, cosa differenzia What's It Gonna Be?! di Busta Rhymes o la Patetica di Beethoven, ad esempio, dall'insieme di suoni che potreste sentire stando al centro di Times Square o nel cuore di una foresta pluviale? Come recita la famosa definizione del compositore Edgard Varèse: «La musica è suono organizzato».

Questo libro intende analizzare l'effetto della musica sul nostro cervello, sulla nostra mente, sui nostri pensieri e sul nostro umore da una prospettiva neuropsicologica. Prima, però, è utile esaminare le componenti elementari della musica. Quali sono? E, quando organizzate, come danno origine alla musica? Gli elementi fondamentali di ogni suono sono: intensità, pitch, profilo melodico, durata (o ritmo), tempo, timbro, posizione spaziale e riverbero. I nostri cervelli organizzano questi attributi percettivi fondamentali in concetti di livello superiore - proprio come un pittore organizza le righe in forme - che includono metro, armonia e melodia. Quando ascoltiamo della musica, stiamo in realtà percependo più attributi o "dimensioni".

Prima di passare alla base cerebrale di tutto ciò, vorrei usare questo capitolo per definire i termini musicali e rivedere velocemente alcune idee portanti della teoria musicale, illustrandole con degli esempi (i musicisti forse vorranno saltare o scorrere rapidamente questo capitolo).

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Pagina 9

Cos'è il pitch e da dove proviene? Questa semplice domanda ha generato centinaia di articoli scientifici e migliaia di esperimenti. Quasi tutti noi, anche senza aver studiato musica, possiamo dire se una cantante ha preso una stecca; magari non sappiamo dire se è diesis o bemolle o di quanto ha stonato, ma dopo i cinque anni la maggior parte degli esseri umani ha una raffinata capacità sia di individuare i toni stonati che di discernere una domanda da un'accusa (in inglese, un pitch ascendente indica una domanda, mentre un pitch stabile o leggermente discendente indica un'accusa). Ciò è dovuto a un'interazione tra la nostra esposizione alla musica e la fisica del suono. Quel che chiamiamo "pitch" è correlato alla frequenza o velocità di vibrazione di una corda, di una colonna d'aria o di altre sorgenti fisiche. Se una corda vibrando si muove avanti e indietro 60 volte in un secondo, diciamo che ha una frequenza di 60 cicli al secondo. L'unità di misura — cicli per secondo — spesso viene detta "Hertz" (abbreviata Hz) in onore di Heinrich Hertz, il fisico teorico tedesco che trasmise per primo le onde radio (secondo la leggenda, quando gli fu chiesto che uso pratico potessero avere le onde radio, da irriducibile teorico qual era rispose: «Nessuno»). Se cercaste di imitare il suono di una sirena dei pompieri, la vostra voce passerebbe attraverso diversi pitch o frequenze (mano a mano che cambia la tensione nelle vostre pliche vocali), alcune "basse" e altre "alte".

Sul pianoforte, i tasti sulla sinistra colpiscono corde più lunghe e spesse che vibrano a una velocità relativamente lenta. I tasti sulla destra colpiscono corde più corte e sottili che vibrano a maggior velocità. La vibrazione delle corde sposta le molecole d'aria e le fa vibrare alla medesima velocità, cioè con la stessa frequenza della corda. Sono queste molecole d'aria in vibrazione a raggiungere il nostro timpano e a farlo muovere avanti e indietro con la stessa frequenza. L'unica informazione che il nostro cervello riceve sul pitch o sul suono deriva da quell'"andirivieni" del timpano. Il nostro orecchio interno e il nostro cervello devono analizzare il movimento del timpano per capire quali vibrazioni, nel mondo esterno, l'abbiano fatto agitare in quel modo. Anche altre molecole possono vibrare, non solo quelle dell'aria: possiamo sentire la musica sott'acqua o in altri fluidi se le molecole d'acqua (o dell'altro fluido) vengono fatte vibrare. Ma nel vuoto, che non ha molecole da far vibrare, non c'è suono (la prossima volta che guardate Star Trek e sentite il rumore dei motori nello spazio, avrete il vostro Trekkie Trivia da segnalare agli appassionati).

Per convenzione, quando premiamo i tasti sulla sinistra della tastiera, diciamo che sono suoni con "basso" pitch, e quelli sulla destra con "alto" pitch. In altre parole, i "bassi" sono i suoni che vibrano lentamente e si avvicinano (quanto a frequenza di vibrazione) al suono di un grosso cane che abbaia. Gli "alti" sono i suoni che vibrano rapidamente e si avvicinano al piccolo "cai-cai" di un cagnetto. Ma anche i termini "alto" e "basso" sono culturalmente relativi: i Greci parlavano dei suoni nel modo opposto, perché i loro strumenti a corda erano di solito orientati verticalmente. L'estremità superiore delle corde più corte o delle canne d'organo erano rivolte verso terra, e quindi si parlava di note "basse" (cioè "in basso verso terra"), mentre le corde più lunghe e le canne - rivolte al cielo, verso Zeus e Apollo - erano dette note "alte". "Alto" e "basso" - proprio come "destra" e "sinistra" - sono in realtà dei termini arbitrari che in definitiva vanno imparati a memoria. Secondo certi autori "alto" e "basso" sarebbero etichette intuitive, perché quelli che chiamiamo "suoni acuti" derivano dagli uccelli (che stanno sugli alberi o nel cielo) e quelli che chiamiamo "suoni gravi" spesso provengono da grossi mammiferi terrestri, come gli orsi, o dai suoni bassi di un terremoto. Ma la teoria non convince, visto che i suoni bassi possono anche arrivare dall'alto (pensate al tuono) e i suoni alti dal basso (grilli e scoiattoli, il fogliame calpestato).

Diamo una prima definizione di pitch: la qualità che fondamentalmente distingue il suono associato a un certo tasto del pianoforte rispetto a un altro.

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Pagina 43

Capitolo 2

Battere il piede

Distinguere ritmo, intensità e armonia


Nel 1977, a Berkeley, ho assistito a un concerto di Sonny Rollins; è uno dei sassofonisti più melodici del nostro tempo. Eppure, a distanza di trent'anni, sebbene non riesca a rammentare un solo pitch da lui suonato, ricordo chiaramente alcuni dei ritmi. A un certo punto Rollins improvvisò per tre minuti e mezzo suonando e risuonando lo stesso tono con ritmi diversi e sottili modifiche di metro. Quanta potenza in una sola nota! Non fu l'innovazione melodica a esaltare il pubblico, fu il ritmo. Praticamente per tutte le culture e civiltà il movimento è parte integrante della musica, suonata e ascoltata. È in base al ritmo che balliamo, che ondeggiamo il nostro corpo e che battiamo il piede. In tantissimi concerti jazz la parte che esalta maggiormente il pubblico è l'assolo di batteria. Non è un caso che fare musica richieda l'uso coordinato, ritmico dei nostri corpi e che l'energia venga trasmessa dai movimenti corporei allo strumento musicale. A livello neurale, suonare uno strumento esige l'orchestrazione di aree nel nostro archipallio (o "cervello rettile") — che comprende cervelletto e tronco encefalico — oltre che di sistemi cognitivi superiori come la corteccia motoria (nel lobo parietale) e le aree pianificatrici dei nostri lobi frontali, la regione più avanzata del nostro cervello.

Ritmo, metro e tempo sono concetti correlati che spesso vengono confusi tra loro. In sintesi, il ritmo si riferisce alla lunghezza delle note, il tempo all'"andamento" di un pezzo musicale (la velocità con cui battereste il piede) e il metro a quando battete il piede forte e piano e come questi battiti forti e leggeri si riuniscano a formare unità più grandi.

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Pagina 69

Capitolo 3

Dietro le quinte

La musica e la macchina della mente


Per gli scienziati cognitivisti, la parola "mente" si riferisce alla parte di noi che incarna pensieri, speranze, desideri, ricordi, convinzioni ed esperienze. Il cervello, invece, è un organo del corpo, un assortimento di cellule, acqua, sostanze chimiche e vasi sanguigni che risiede nel cranio. L'attività del cervello dà origine ai contenuti della mente. Gli scienziati cognitivisti a volte usano un'analogia e paragonano il cervello all'hardware di un computer e la mente ai programmi che ci girano sopra, cioè il software (magari fosse vero e potessimo andare a comprarci delle schede di memoria). Programmi diversi possono girare su quello che è essenzialmente lo stesso hardware: da cervelli molto simili possono svilupparsi menti differenti.

La cultura occidentale ha ereditato una tradizione dualistica da Cartesio, per il quale mente e cervello erano due entità del tutto separate. I dualisti affermano che la mente è preesistente alla nostra nascita, mentre il cervello non è la sede del pensiero, bensì uno strumento della mente che contribuisce ad attuarne la volontà, a muovere i muscoli e a mantenere l'omeostasi nel corpo. Alla maggior parte di noi la mente sembra qualcosa di unico e distintivo, ben diversa da un mero cumulo di processi neurochimici: ho la sensazione di come sono io, come sono io che leggo un libro e di cosa sia pensare cosa sono io. Il mio essere me come può ridursi tanto banalmente ad assoni, dendriti e canali ionici? Sembra esserci qualcosa di più.

Ma questa sensazione potrebbe essere illusoria, proprio come ci sembra che la terra sia immobile e non ruoti sul suo asse a l000 miglia all'ora. La maggioranza degli scienziati e dei filosofi contemporanei ritiene che il cervello e la mente siano due parti di una stessa cosa, e alcuni credono che la distinzione stessa sia viziata. L'opinione oggi dominante è che la somma totale dei nostri pensieri, convinzioni ed esperienze sia rappresentata in pattern di scariche - attività elettrochimica - nel cervello. Se quest'ultimo cessa di funzionare, la mente è finita, ma il cervello può ancora esistere, privo di pensiero, in un barottolo di qualche laboratorio.

Le prove derivano dalle scoperte fatte in neuropsicologia sulla specificità regionale nella distribuzione delle funzioni. A volte, in seguito a ictus (l'ostruzione di vasi sanguigni nel cervello che porta a morte cellulare), tumore, trauma cranico o altre lesioni, un'area del cervello resta danneggiata. In molti casi, il danno a una specifica regione conduce alla perdita di una particolare funzione mentale o fisica. Quando decine o centinaia di casi mostrano la perdita di una specifica funzione associata a una particolare regione cerebrale, inferiamo che essa è in qualche modo coinvolta in (o responsabile di) quella funzione.

Cent'anni abbondanti di indagine neuropsicologica ci hanno permesso di tracciare una mappa delle aree cerebrali e delle loro funzioni, e di localizzare particolari operazioni cognitive. L'opinione più diffusa vede il cervello come un sistema computazionale, e ci immaginiamo il cervello come una specie di computer. Reti di neuroni interconnessi svolgono computazioni sulle informazioni, e le combinano così da portare a pensieri, decisioni, percezioni e infine alla coscienza. Sottosistemi diversi sono responsabili di aspetti differenti della cognizione. Un danno all'area del cervello situata subito sopra e dietro l'orecchio sinistro - l'area di Wernicke - provoca delle difficoltà nella comprensione del linguaggio orale; quello a una regione proprio in cima alla testa - la corteccia motoria - vi rende difficile muovere le dita; il danno a un'area al centro del cervello - il complesso ippocampale - può bloccare la capacità di creare nuovi ricordi, lasciando però intatti quelli vecchi. Un danno all'area subito sotto la fronte può provocare dei radicali cambiamenti di personalità. Questa localizzazione della funzione mentale è una forte argomentazione a favore del coinvolgimento del cervello nel pensiero, e della tesi che i pensieri derivino dal cervello.

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Pagina 86

Il timpano è semplicemente una membrana tesa tra tessuto e osso. È la porta d'ingresso dell'udito. Di fatto tutte le nostre impressioni sul mondo sonoro derivano dal modo in cui il timpano vibra avanti e indietro in risposta alle molecole che lo colpiscono (entro certi limiti, anche i padiglioni auricolari - la parte carnosa del nostro orecchio - sono coinvolti nella percezione uditiva, così come le ossa del cranio; ma per lo più è il timpano la fonte principale delle nostre informazioni sul mondo sonoro esterno). Consideriamo una tipica scena uditiva: una persona che legge un libro in salotto. Supponiamo che in questo ambiente ci siano sei sorgenti sonore che il soggetto può prontamente identificare: il sibilo dell'impianto di riscaldamento (la ventola che muove l'aria attraverso le condutture), il ronzio del frigorifero in cucina, il traffico in strada (che a sua volta potrebbe esser costituito da dozzine di suoni diversi, tra cui i vari motori, lo stridio di freni, i clacson, ecc.), il fruscio delle foglie mosse dal vento, un gatto che fa le fusa nella poltrona accanto e la registrazione dei preludi di Debussy. Ognuno di questi rumori può essere considerato un oggetto uditivo o una sorgente sonora, e siamo capaci di identificarli perché ciascuno ha un suo suono caratteristico.

Il suono viene trasmesso attraverso l'aria dalle molecole che vibrano a certe frequenze. Queste molecole bombardano il timpano, facendolo muovere avanti e indietro a seconda della forza con cui lo colpiscono (in base al volume o all'ampiezza del suono) e alla velocità con cui vibrano (in base al pitch). Ma nelle molecole non c'è nulla che dica al timpano da dove esse arrivino o a quali oggetti siano associate. Le molecole messe in moto dal gatto che fa le fusa non trasportano alcun dato identificativo che dica "gatto", e possono arrivare al timpano nello stesso tempo e nella stessa regione timpanica dei rumori del frigorifero, del riscaldamento, di Debussy e di tutto il resto.

Immaginate di tendere una federa sull'imboccatura di un secchio, e che varie persone lancino palline da ping-pong da diverse distanze; ognuna può tirare tutte le palline e tutte le volte che vuole. Il vostro compito è di capire, solo guardando come si muove la federa, quante persone ci sono, chi sono e se si stiano avvicinando, allontanando o se siano ferme. Questo vi dà un'idea di quel con cui deve combattere il sistema uditivo per identificare gli oggetti sonori nel mondo, usando come guida solo il movimento del timpano. Come fa il cervello a capire, da questo disorganizzato miscuglio di molecole che sbattono contro una membrana, cosa c'è là fuori? In particolare, come ci riesce nel caso della musica?

Ce la fa grazie a un processo di "estrazione delle caratteristiche", seguito da uno di integrazione delle stesse. Il cervello estrae dalla musica le caratteristiche essenziali, usando delle reti neurali specializzate che scompongono il segnale in informazioni su pitch, timbro, posizione spaziale, intensità, ambiente riverberante, durata dei toni e tempi di attacco delle diverse note (e delle diverse componenti dei toni). Queste operazioni sono svolte in parallelo da circuiti neurali che computano questi valori e che possono operare con una certa indipendenza l'uno dall'altro: in altre parole, per fare i suoi calcoli il circuito del pitch non deve attendere che quello della durata sia completo. Questo tipo di elaborazione - in cui solo le informazioni contenute nello stimolo vengono prese in considerazione dai circuiti neurali - è detta "elaborazione bottom-up". Nel mondo e nel cervello questi attributi della musica sono separabili. Possiamo cambiarne uno senza modificare gli altri, proprio come possiamo mutare la forma degli oggetti visivi senza alterarne il colore.

L'elaborazione bottom-up inferiore degli elementi basilari avviene nelle parti periferiche e filogeneticamente più antiche del nostro cervello; il termine "inferiore" indica la percezione di attributi elementari o primari di uno stimolo sensoriale. L'elaborazione superiore avviene in parti più sofisticate del cervello che ricevono le proiezioni neurali dai recettori sensoriali e da una serie di unità elaborative inferiori; si riferisce alla combinazione di elementi inferiori in una rappresentazione integrata. È nell'elaborazione superiore che tutto si riunisce e che le nostre menti arrivano alla comprensione di forma e contenuto. Quella inferiore vi permette di vedere le chiazze d'inchiostro su questa pagina, e forse anche di riunirle e riconoscere una forma essenziale nel vostro vocabolario visivo, come la lettera "a". Ma è l'elaborazione superiore che riunisce le quattro lettere, facendovi leggere la parola "arte" e generare un'immagine mentale del significato di quella parola.

Nel frattempo, mentre avviene l'estrazione delle caratteristiche nella chiocciola, nella corteccia uditiva, nel tronco encefalico e nel cervelletto, i centri superiori del nostro cervello ricevono un flusso costante di informazioni su quel che è stato estratto fino a quel momento; queste informazioni vengono aggiornate di continuo, e riscrivono quelle precedenti. Mentre i nostri centri di pensiero superiore - per lo più nella corteccia frontale - ricevono questi aggiornamenti, lavorano sodo per predire cosa verrà dopo nella musica, basandosi su vari fattori:

- ciò che è venuto prima nel brano musicale che stiamo ascoltando;

- cosa ricordiamo verrà dopo se il brano ci è familiare;

- cosa ci aspettiamo verrà in seguito se conosciamo il genere o lo stile, in base alla precedente esposizione a questo stile musicale;

- qualsiasi informazione aggiuntiva che ci sia stata data, ad esempio ciò che abbiamo letto su quella musica, un movimento improvviso del musicista durante il concerto, o una gomitata da chi ci siede accanto.


I calcoli del lobo frontale sono detti "elaborazione top-down" e possono influire sui moduli inferiori che stanno svolgendo il loro compito bottom-up. Resettando alcuni circuiti nei processori bottom-up, le aspettative top-down possono indurci a percepire erroneamente le cose. Ciò è in parte la base neurale per il completamento percettivo e altre illusioni.

I processi top-down e bottom-up comunicano continuamente tra loro. Mentre le caratteristiche vengono analizzate una per una, le parti del cervello che stanno più in alto - cioè filogeneticamente più avanzate e collegate alle regioni cerebrali inferiori - lavorano per integrare questi attributi in un insieme percettivo. Il cervello elabora una rappresentazione della realtà basata su queste caratteristiche, proprio come un bambino costruisce un castello con i mattoncini del Lego. Nel processo, il cervello opera una serie di inferenze, per via delle informazioni incomplete o ambigue. Talvolta queste inferenze si dimostrano erronee e abbiamo le illusioni visive e uditive: è la dimostrazione che il nostro sistema percettivo ha formulato un'ipotesi sbagliata su quel che è là fuori nel mondo.

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Il contributo di Noam Chomsky alla linguistica e alla psicologia moderna è stato di proporre che tutti nasciamo con un'innata capacità di comprendere qualsiasi lingua del mondo, e che l'esperienza con una in particolare formi, costruisca e infine sfrondi una complicata e interconnessa rete di circuiti neurali. Prima di nascere, il cervello non sa a che linguaggio saremo esposti, ma i nostri cervelli e i linguaggi naturali si sono coevoluti così che tutte le lingue del mondo condividono certi principi fondamentali, e i cervelli sono in grado di incorporare qualsiasi lingua, quasi senza sforzo, tramite la mera esposizione durante una fase cruciale dello sviluppo neurale.

Analogamente, penso che tutti noi abbiamo un'innata capacità d'imparare qualsiasi musica del mondo, sebbene anch'esse differiscano tra loro in modo sostanziale. Dopo la nascita il cervello attraversa un periodo di rapido sviluppo neurale, che prosegue per i primi anni di vita. In questa fase, le nuove connessioni neurali si formano più rapidamente che in qualsiasi altro periodo della nostra vita e, nell'infanzia, il cervello comincia a sfoltire queste connessioni, trattenendo solo le più importanti e le più usate. È la base della nostra comprensione della musica e in definitiva il fondamento di ciò che ci piace e ci commuove in essa. Non che da adulti non possiamo imparare ad apprezzare nuova musica, ma gli elementi strutturali si "fissano" nei nostri cervelli quando la ascoltiamo nei primi anni di vita.

La musica, allora, può essere vista come un'illusione percettiva in cui il nostro cervello impone una struttura e un ordine a una sequenza di suoni. Come questa struttura ci porti a sperimentare delle reazioni emotive fa parte del mistero della musica. In fin dei conti non ci salgono le lacrime agli occhi quando sperimentiamo altri tipi di strutture, come un bilancio in pareggio o l'ordinata sistemazione dei prodotti in un emporio (beh, almeno non alla maggior parte di noi). Cos'ha di speciale l'ordine che c'è nella musica per toccarci così profondamente? La struttura delle scale e degli accordi ha un suo ruolo al riguardo, così come quella dei nostri cervelli. Nel cervello, i rilevatori di caratteristiche lavorano per estrarre informazioni dallo stream di suoni che colpisce le nostre orecchie. Il sistema computazionale del cervello combina queste informazioni in un insieme coerente, basato in parte su quel che esso pensa dovremmo sentire e in parte sulle aspettative. Proprio l'origine di quelle aspettative è una delle chiavi per capire perché una musica ci tocchi - quando lo fa - e perché un'altra ci faccia invece venir voglia di spegnere la radio o il lettore CD. Il tema delle aspettative musicali è forse l'area, all'interno della neuroscienza cognitiva della musica, che unisce con maggior armonia teoria musicale e neurale, musicisti e scienziati, e per comprendere appieno quest'argomento dobbiamo studiare in che modo particolari pattern musicali ne generino di analoghi per l'attivazione neurale nel cervello.

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La creazione - e la successiva manipolazione - delle aspettative è il cuore della musica, ed è ottenuta in un'infinità di modi. Gli Steely Dan, ad esempio, suonano canzoni essenzialmente blues (con struttura e progressione degli accordi tipici di questa musica), però aggiungono agli accordi delle armonie insolite, tanto da non farli sembrare poi così blues - ad esempio nel loro pezzo Chain Lightning. Miles Davis e John Coltrane costruirono una carriera riarmonizzando progressioni blues per dar loro un nuovo sound in parte familiare e in parte esotico. Nel suo album da solista Karnakiriad, Donald Fagen (degli Steely Dan) esegue una canzone con ritmi blues/funk tali che ci aspettiamo una progressione di accordi da standard blues, e invece il primo minuto e mezzo del brano è suonato su un solo accordo, senza spostarsi mai da quella posizione armonica (Chain of Fools di Aretha Franklin è tutta un unico accordo).

In Yesterday, la frase melodica principale è lunga sette battute; i Beatles ci sorprendono perché violano uno degli assunti fondamentali della musica pop, l'unità di frase a otto battute (quasi tutte le canzoni rock/pop hanno idee musicali organizzate in frasi di quella lunghezza). In I Want You (She's So Heavy), i Beatles violano le nostre aspettative con un finale ripetitivo, ipnotico che sembra dover andar avanti all'infinito; in base alla nostra esperienza dei finali della musica rock, pensiamo che la canzone sfumerà lentamente di volume, il classico fade-out. Invece termina all'improvviso e neppure alla fine di una frase, ma nel bel mezzo di una nota!

I Carpenters usano il timbro per spiazzare le aspettative sul genere; probabilmente era l'ultima band da cui ci saremmo aspettati un uso della chitarra elettrica distorta, invece se ne avvalsero in Please Mr. Postman e alcuni altri pezzi. Al contrario, i Rolling Stones - ai tempi una delle più dure rock band del mondo - qualche anno prima avevano usato i violini (come ad esempio in As Tears Go By). Quando i Van Halen erano il gruppo più nuovo in circolazione, stupirono i fan lanciandosi in una versione havy metal di una vecchia canzone dei Kinks, You Really Got me.

Le aspettative sul ritmo sono violate altrettanto spesso. Nel blues elettrico, un classico trucco è che la band acquisti slancio e poi smetta di suonare mentre il cantante o la chitarra solista continua, come in Pride and Joy di Steve Ray Vaughan, in Hound Dog di Elvis Presley o in One Way Out degli Allman Brothers. Il tipico finale di un classico pezzo electric blues è un altro esempio. La canzone si carica per due o tre minuti con battito regolare e - sbam! - appena gli accordi suggeriscono che il finale è imminente, invece di darci dentro a tutta velocità, la band all'improvviso comincia a suonare a metà tempo.

Con nostra duplice sfortuna, i Creedence Clearwater Revival eliminano il finale rallentato di Lookin' Out My Back Door - ormai un cliché - e violano le aspettative di quella fine ritornando al finale vero della canzone, col tempo pieno.

I Police si sono costruiti una carriera violando le aspettative sul ritmo. Nel rock la tradizionale convenzione ritmica prevede un accento sull'1 e sul 3 (indicato dalla grancassa) con un backbeat di rullante sul 2 e sul 4. La musica reggae (Bob Marley ne è il rappresentante più noto) sembra andare a velocità dimezzata rispetto al rock perché, in una data frase musicale, i battiti di grancassa e rullante sono la metà. Il suo battito fondamentale è caratterizzato da una chitarra che suona in levare; in altre parole, la chitarra suona a metà strada tra i battiti principali che contate: 1 ta-ta 2 ta 3 ta-ta 4 ta. Questa sensazione da "metà tempo", conferisce al reggae un che di pigro, mentre le note in levare le infondono un senso di movimento, che spinge sempre avanti. I Police combinarono il reggae con il rock per creare un nuovo sound che allo stesso tempo soddisfacesse e violasse le aspettative sul ritmo. Sting spesso suonava parti di basso del tutto inedite, evitando i cliché rock di suonare in battere o di suonare in sincrono con la grancassa. Come mi disse Randy Jackson, celebrità di American Idol e ottimo bassista (quando condividevamo l'ufficio in uno studio di registrazione negli anni Ottanta), le linee di basso di Sting sono diverse da quelle di chiunque altro, e non calzerebbero in canzoni altrui. Spirits in the Material World (dall'album Ghost in the Machine) porta questo gioco ritmico a un tale estremo che risulta difficile persino dire dove sia l'accento in battere.

I compositori moderni come Schönberg eliminarono l'idea stessa di aspettativa. Le scale da loro usate ci privano dell'idea di risoluzione, di ancoraggio alla scala o a una "casa" musicale a cui tornare, creando quindi una sensazione di spaesamento, di deriva, riflettendo forse l'esistenzialismo del XX secolo (o magari volevano solo andare controcorrente).

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Abbiamo categorie per cose d'ogni tipo, viventi e inanimate. Secondo Aristotele, quando ci viene mostrato qualcosa di nuovo — un nuovo triangolo, un cane che non avevamo mai visto prima — lo assegniamo subito a una categoria in base a un'analisi delle sue proprietà e un confronto con la definizione della categoria. A partire da Aristostele, passando per Locke e arrivando a oggi, si è sempre pensato che le categorie fossero una questione di logica e che gli oggetti vi stessero dentro o fuori.

Dopo 2300 anni di riflessioni poco rilevanti in materia, Ludwig Wittgenstein pose una semplice domanda: cos'è un gioco? Fu la rinascita del lavoro empirico sulla formazione delle categorie. Eleanor Rosch fece la sua tesi di filosofia su Wittgenstein, al Reed College di Portland, Oregon. Per anni la Rosch aveva pensato di fare un dottorato in filosofia, ma disse che un anno passato a studiare Wittgenstein l'«aveva guarita» completamente da quella materia. Convinta che la filosofia contemporanea fosse giunta a un binario morto, la Rosch si chiese come studiare le idee filosofiche in modo empirico, come scoprire nuovi fatti filosofici. Mentre insegnavo a Berkeley, in California, dove la Rosch ha una cattedra, mi disse che secondo lei la filosofia aveva fatto tutto quel che era in suo potere riguardo ai problemi del cervello e della mente e che, se si voleva fare un passo avanti, occorreva sperimentare. Oggi, seguendo la Rosch, molti psicologi cognitivisti definiscono il nostro campo "filosofia empirica", cioè approcci sperimentali a questioni e problematiche che tradizionalmente ricadevano sotto il dominio dei filosofi: qual è la natura della mente? Da dove vengono i pensieri? La Rosch finì ad Harvard, dove prese il suo Ph.D. in psicologia cognitiva. La sua tesi di dottorato cambiò il nostro modo di pensare le categorie.

Wittgenstein assestò il primo colpo ad Aristotele, facendo mancare il terreno sotto i piedi alla definizione di "categoria". Usando la categoria "giochi" come esempio, Wittgenstein sostenne che non esiste definizione (o serie di definizioni) che possa comprendere tutti i giochi. Ad esempio, possiamo dire che un gioco (a) è fatto per divertimento o svago, (b) è un'attività del tempo libero, (c) è un'attività spesso rintracciabile tra i bambini, (d) ha certe regole, (e) è in qualche modo competitiva, (f) coinvolge due o più persone. Eppure possiamo generare dei contro-esempi per ciascuna di queste definizioni, facendole crollare: (a) nei Giochi Olimpici, gli atleti si divertono? (b) Il calcio professionista è un'attività da tempo libero? (c) Il poker è un gioco, come la pelota, ma non è molto in voga tra i bambini. (d) Un bambino che tira una palla contro il muro si diverte, ma quali sono le regole? (e) Il "girotondo" non è competitivo. (f) Il solitario non coinvolge due o più persone. Come possiamo liberarci da questa fede nelle definizioni? Esiste un'alternativa?

Wittgenstein propose che l'appartenenza a una categoria fosse determinata non da una definizione ma da «somiglianze di famiglia» Diciamo che qualcosa è un gioco se assomiglia ad altre cose che abbiamo chiamato "gioco" in precedenza. Se andassimo a una riunione della famiglia Wittgenstein, potremmo scoprire che certi tratti sono condivisi dai vari membri, ma che non esiste un singolo tratto fisico che uno deve assolutamente possedere per far parte di quella famiglia. Un cugino potrebbe avere gli occhi di zia Tessie, un altro il mento di Wittgenstein. Certi membri avranno la fronte del nonno, altri i capelli rossi della nonna. Invece di usare una statica lista di definizioni, la somiglianza di famiglia si basa su una lista di caratteristiche che possono essere presenti o assenti. La lista può essere dinamica: se a un certo punto i capelli rossi scompaiono dall'albero genealogico, ci basta eliminare questo tratto dalla nostra lista. Se risalta fuori a distanza di alcune generazioni, possiamo reintrodurlo nel nostro sistema concettuale. Quest'idea previdente è la base della teoria più avvincente nell'attuale ricerca sulla memoria: i modelli a traccia-multipla elaborati da Douglas Hintzman e recentemente raccolti da un brillante psicologo cognitivista, Stephen Goldinger, dell'Arizona.

Possiamo dire cos'è la musica in base alle definizioni? E i tipi di musica, come l'heavy metal, la classica o il country? Sarebbe un fallimento, come nel caso dei giochi. Ad esempio, potremmo dire che l'heavy metal è un genere musicale dotato di: (a) chitarre elettriche distorte; (b) una batteria pesante e potente; (c) tricordi o power chords (bicordi); (d) cantante sexy, solitamente a torso nudo, che gocciola sudore e trascina l'asta del microfono per tutto il palco come fosse un pezzo di corda; (e) dieresi sul nome del gruppo. Ma è facile confutare questa rigida lista di definizioni. La maggior parte dei pezzi heavy metal avrà anche chitarre elettriche distorte, ma ce l'ha pure Beat It di Michael Jackson - non a caso, l'assolo di chitarra di questa canzone lo suona Eddie Van Halen (il "dio" dell'heavv metal). Persino i Carpenters hanno un brano con chitarra distorta, ma nessuno li definirebbe mai un gruppo heavy metal. I Led Zeppelin - la band heavy metal per eccellenza e forse il gruppo che ha dato vita al genere - hanno diverse canzoni senza chitarre distorte (Bron-Yr-Aur Stomp, Down by the Seaside, Goin' to California, The Baule of Evermore). Stairway to Heaven è un inno dell'heavy metal, eppure per il 90% del brano non c'è batteria pesante e potente (né chitarre distorte), né il pezzo ha solo tricordi. Molte canzoni con tricordi e power chords non sono heavy metal, tra cui la maggior parte dei pezzi di Raffi. I Metallica sono senza dubbio una band heavy metal, eppure non ho mai sentito dire che il loro cantante sia sexy, e sebbene i Mötley Crue, i Blue Öyster Cult, i Motörhead, gli Spi[n]al Tap e i Queensr[y]che abbiano delle dieresi ingiustificate, molti gruppi heavy metal ne sono del tutto privi: Led Zeppelin, Metallica, Black Sabbath, Def Leppard, Ozzy Osbourne, Triumph, ecc. Le definizioni dei generi musicali non sono molto utili; diciamo che qualcosa è heavy metal se assomiglia all'heavy metal: una somiglianza di famiglia.

Armata della sua competenza su Wittgenstein, la Rosch stabilì che qualcosa può essere più o meno membro di una categoria; invece di essere bianco o nero come riteneva Aristotele, ci sono delle tonalità di appartenenza, delle sfumature di inclusione in una categoria e sottili ombreggiature. Un pettirosso è un uccello? La maggior parte della gente risponderebbe di sì. Un pollo è un uccello? E un pinguino? Molti direbbero di sì dopo una breve esitazione, ma poi aggiungerebbero che polli e pinguini non sono un buon esempio di uccelli, che non sono caratteristici della categoria. Questo si riflette nei discorsi di tutti i giorni, quando usiamo "protezioni" linguistiche come: "Un pollo è tecnicamente un uccello" o "Sì, un pinguino è un uccello, ma non vola". La Rosch, seguendo Wittgenstein, sottolineò che le categorie non sempre hanno dei contorni netti; al contrario, li hanno sfumati. Le questioni di appartenenza sono un argomento discusso e non mancano le divergenze d'opinione - il bianco è un colore? L'hip-hop è davvero musica? Se i membri superstiti dei Queen si esibiscono senza Freddie Mercury, quel che vedo sono sempre i Queen (e vale i 150 dollari di biglietto)? La Rosch mostrò che la gente può non concordare sulle categorizzazioni (il cetriolo è un frutto o una verdura?), e la medesima persona può persino essere in disaccordo con se stessa riguardo a una categoria, a seconda dei momenti (Tizio è un mio amico?).

La seconda intuizione della Rosch fu che tutti gli esperimenti sulle categorie condotti in precedenza usavano concetti e stimoli artificiali che avevano poco a che vedere con il mondo reale. E questi esperimenti controllati in laboratorio venivano inavvertitamente costruiti in modo tale da concludersi a favore delle teorie degli sperimentatori! Ciò evidenzia un problema che affligge tutta la scienza empirica: la tensione tra un rigoroso controllo sperimentale e le situazioni reali.

Per ottenere il primo, devi scendere a compromessi con le seconde. Il metodo scientifico richiede che controlliamo tutte le possibili variabili così da poter giungere a conclusioni sicure sul fenomeno studiato. Eppure questo controllo spesso crea stimoli o condizioni che non incontreremmo mai nel mondo reale, situazioni talmente lontane dalla realtà da non essere valide. Il filosofo britannico Alan Watts, autore di La saggezza del dubbio, la mette in questo modo: se volete studiare un fiume, non prelevate un secchio d'acqua e poi restate a osservarlo sulla riva. Un fiume non è la sua acqua, e prelevandola tralasciate la qualità sostanziale del fiume, cioè il suo moto, la sua attività, la sua corrente. La Rosch pensò che gli scienziati avevano interrotto la corrente delle categorie studiandole in modo artificioso. Questo, tra l'altro, è lo stesso problema che affligge molta della ricerca in neuroscienze della musica condotta lo scorso decennio. Troppi scienziati studiano melodie artificiali usando suoni sintetici: cose talmente distanti dalla musica che non è chiaro cosa stiamo apprendendo.

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Menon aveva appena letto alcuni articoli di Karl Friston e colleghi su una nuova tecnica matematica - chiamata "analisi della connettività funzionale ed effettiva" - che ci poteva aiutare a capire il modo in cui regioni diverse interagiscono tra loro durante i processi cognitivi. Diversamente dalle tecniche tradizionali, questa nuova analisi della connettività ci avrebbe consentito di rintracciare le associazioni che si creano tra le regioni neurali durante l'elaborazione della musica. Misurando l'interazione di una regione cerebrale con un'altra - in base alla nostra conoscenza delle connessioni anatomiche - questa tecnica ci avrebbe permesso di effettuare un esame momento per momento delle reti neurali indotte dalla musica. E sicuramente quel che Crick avrebbe voluto vedere. Non fu un'impresa facile: gli esperimenti di scan cerebrale producono milioni e milioni di dati, e una sola sessione può riempire un intero disco rigido di un normale computer. Analizzare i dati nel modo standard - solo per vedere quali aree siano attive, non il nuovo tipo di analisi che stavamo proponendo - richiede mesi. E non era disponibile nessun programma di statistica che facesse questo lavoro al posto nostro. Menon passò due mesi a lavorare con le equazioni necessarie a queste analisi e, quando ebbe finito, rianalizzammo i dati da noi raccolti su soggetti che ascoltavano musica classica.

Trovammo esattamente quel che avevamo sperato: ascoltare musica faceva sì che le regioni cerebrali venissero attivate in un particolare ordine. In primo luogo la corteccia uditiva per l'elaborazione iniziale delle componenti del suono. Poi le regioni frontali come BA44 e BA47, che già da prima sapevamo implicate nell'elaborazione della struttura musicale e delle aspettative. Infine, una rete di regioni - il sistema mesolimbico - coinvolte nell'eccitazione, nel piacere, nella trasmissione di oppioidi e nella produzione di dopamina, che culminavano con l'attivazione del nucleus accumbens. Il cervelletto e i gangli della base erano stati attivi per tutto il tempo, presumibilmente a sostenere l'elaborazione di ritmo e metro. Dunque, gli aspetti di gratificazione e rinforzo dell'ascolto musicale sembrano essere mediati da un incremento dei livelli di dopamina nel nucleus accumbens e dal contributo del cervelletto a regolare l'emozione tramite le sue connessioni con il lobo frontale e il sistema limbico. Le attuali teorie di neuropsicologia associano l'umore e l'affetto positivo a maggiori livelli di dopamina, uno dei motivi per cui molti dei più recenti antidepressivi agiscono sul sistema dopaminergico. La musica è chiaramente un mezzo per migliorare l'umore delle persone, e adesso crediamo di sapere perché.

La musica sembra imitare certe caratteristiche del linguaggio per trasmettere alcune delle stesse emozioni della comunicazione verbale, ma in modo non-referenziale e non-specifico. Invoca anche alcune delle stesse regioni neurali chiamate in causa dal linguaggio, ma, molto più quest'ultimo, la musica s'infiltra in strutture cerebrali primitive coinvolte con la motivazione, la gratificazione e l'emozione. Che siano i primi colpi di campanaccio di Honky Tonk Women o le prime note di Sheherazade, i sistemi computazionali nel cervello sincronizzano gli oscillatori neurali con il battito della musica, e cominciano a predire quando ci sarà il prossimo battito forte. Via via che la musica continua, il cervello aggiorna costantemente la sua stima circa il prossimo battito e prova soddisfazione quando la sua previsione è corretta e piacere quando un musicista esperto viola in modo interessante quell'aspettativa: una specie di gioco musicale a cui partecipiamo tutti. La musica respira, accelera e rallenta proprio come il mondo reale, e il nostro cervelletto prova piacere nel modularsi per restare sincronizzato.

La musica efficace - il groove - implica delle sottili violazioni di timing. Proprio come il ratto ha una risposta emozionale di fronte a una violazione del ritmo del ramo che gli batte sul tetto, noi ce l'abbiamo rispetto alle violazione di timing nella musica, cioè il groove. Il ratto, mancandogli un contesto per la violazione di timing, la sperimenta come paura. Grazie alla cultura e all'esperienza, noi sappiamo che la musica non è minacciosa e il nostro sistema cognitivo interpreta queste violazioni come una fonte di piacere e divertimento. Questa risposta emozionale al groove avviene tramite il circuito orecchio/cervelletto/nucleus accumbens/sistema limbico, invece che tramite quello orecchio/corteccia uditiva. La nostra risposta al groove è largamente preconscia o inconscia, perché passa dal cervelletto invece che dai lobi frontali. La cosa notevole è che tutte queste diverse vie s'integrano nella nostra esperienza di una singola canzone.

La storia del nostro cervello "sotto effetto della musica" è la storia di una fine orchestrazione di regioni cerebrali, che coinvolge parti antiche e recenti del cervello umano, e regioni tra loro lontanissime, come il cervelletto nel retro del cranio e i lobi frontali subito dietro agli occhi. Si avvale di una precisa coreografia di rilascio e captazione di neurotrasmettitori tra i sistemi di predizione logica e quelli di gratificazione emotiva. Quando ci piace un brano musicale, ci ricorda altra musica che abbiamo sentito e attiva delle tracce mnestiche di momenti emotivi della nostra vita. Il vostro cervello sotto effetto della musica non è altro che - come ripeté Francis Crick uscendo dalla sala da pranzo - connessioni.

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