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| << | < | > | >> |IndiceCOME È CAMBIATA L'ESPLORAZIONE 12 Sir Ranulph Fiennes LA FOTOGRAFIA DI UN TEMPO 18 Huw Lewis-Jones RITRATTI 44 Huw Lewis-Jones LA FOTOGRAFIA OGGI 248 Dialogo tra Huw Lewis-Jones e Martin Hartley I CONFINI DELLA LUCE 272 Hugh Brody LETTURE CONSIGLIATE 282 INDICE DEI RITRATTI 285 |
| << | < | > | >> |Pagina 21L'equipaggiamento di un esploratore deve comprendere: - macchina fotografica con uno o due obiettivi - per le spedizioni più lunghe, obiettivi di riserva per maggior sicurezza - almeno quattro otturatori scuri (controllare che si adattino bene alla macchina, e tenerli il più possibile al riparo dal sole perché non si deformino; è consigliabile tenerli avvolti in teli neri o gialli o in seta oleata) - una cassetta piccola per quanto sopra - cassette più grandi secondo necessità - cavalletto a seconda delle circostanze - due o tre morsetti per fissare la macchina al cavalletto - lastra per immagini stereoscopiche, se la macchina consente la ripresa di immagini di questo tipo - velluto o stoffa nera ed elastici in abbondanza per tenere fermo il telo sopra la macchina HINTS TO TRAVELLERS, 1878 LA FOTOGRAFIA DI UN TEMPO
HUW LEWIS-JONES
Il primo fu sir John Franklin. Il sole è alto nel cielo. Si sistema il copricapo orlato di seta nera e prende in mano il cannocchiale. I bottoni della sua uniforme di comandante sembrano pronti a saltar via sotto la pressione del suo generoso addome. Non appare a proprio agio, cambia posizione sulla sedia piazzata sul ponte della massiccia nave Erebus ormeggiata nei docks di Londra. Siamo nel 1845. Il fotografo Richard Beard lo esorta a stare fermo ancora per un momento. Toglie il tappo dell'obiettivo, attende un minuto, poi con mossa decisa lo rimette a posto: è la prima fotografia polare. Quel giorno altri ufficiali delle navi Erebus e Terror si fecero fotografare, sottoponendosi con fiducia all'obiettivo di Beard. Oggi appaiono come congelati nel tempo. Quegli stessi uomini, di lì a poco, seguirono il loro comandante sir John Franklin in cerca di un passaggio navigabile a nordovest, nel labirinto di isole e stretti dell'Artide canadese. Su richiesta di Franklin, Beard fornì alla spedizione un'apparecchiatura fotografica completa, che fu messa al sicuro nella ben fornita stiva insieme ad altre meraviglie tecnologiche, come organetti portatili, carne e minestre in scatola, un canotto di gomma gonfiabile, strumenti scientifici, due motori da venti cavalli concessi in prestito dalle ferrovie di Greenwich e una biblioteca di oltre milleduecento volumi. La macchina fotografica era ormai entrata a far parte del bagaglio considerato indispensabile per spingersi fino ai limiti del mondo conosciuto. La spedizione, stracarica di materiali ma sostenuta dalle ali di un'incrollabile fiducia vittoriana, salpò dal Tamigi il 9 maggio. Le navi furono viste per l'ultima volta nella Baia di Baffin dirette a nord, prima di scomparire per sempre. Con queste prime fotografie comincia il nostro viaggio. Esse segnano l'inizio di una transizione dalle belle arti di stampo classico alla produzione su grande scala di una cultura basata sulle immagini che ha mostrato agli occhi del pubblico le meraviglie del mondo — e i volti di coloro che hanno viaggiato fino ai suoi confini — come non era mai accaduto prima. L'importanza di quel momento può essere difficile da comprendere per chi come noi è abituato a vivere in un mondo saturo di immagini. Eppure in quella limpida mattina del 1845 inizia a imporsi una nuova tecnologia che presto conquisterà il mondo intero. Poco più di cent'anni dopo verranno scattate le prime fotografie dallo spazio, e qualche anno dopo ancora una nuova generazione di esploratori restituirà le immagini della superficie lunare. Le foto hanno certamente una vita propria, e possono compiere (e far compiere) viaggi straordinari, durante i quali assumono significati diversi. Di volta in volta vengono usate così come sono, a volte ritoccate, oppure presentate sotto nuova luce e continuamente reinterpretate. Spesso non basta semplicemente guardarle, ma occorre leggerle, proprio come si fa con le pagine di un libro. E la lettura (come ogni lettura) innesca meccanismi particolari nel rapporto tra lettore e immagine. Anche immagini apparentemente semplici come i ritratti si prestano infatti a molteplici interpretazioni. Lo stesso discorso vale per questo libro, che rappresenta una sorta di grande album fotografico polare. Ogni foto è stata scelta soprattutto perché è stata considerata una grande foto: ma cos'è che la rende grande? La selezione qui effettuata rispecchia la mia percezione di ciò che voglio vedere in un ritratto polare, o forse il modo in cui immagino gli esploratori e le persone che vivono e lavorano ai poli. Ma questa scelta è per definizione una prospettiva limitata, incompleta, soggettiva. Come si fa a scegliere cinquanta ritratti in una collezione che ne potrebbe fornire molti di più? O meglio, da dove si comincia? E allo stesso modo, come scegliere cinquanta ritratti tenendo anche conto delle persone oggi dimenticate o quasi, ma le cui vite e imprese meriterebbero la nostra attenzione? Il fotografo di spedizioni Martin Hartley ha accettato la sfida, e per completare la raccolta gli sono stati commissionati anche nuovi ritratti. Entrambi però ci rendiamo conto che questo è solo l'inizio, il primo passo di una cronaca per immagini di uomini e donne che hanno vissuto buona parte della loro vita in mezzo ai ghiacci. A che cosa dobbiamo guardare, esattamente? Perché un esploratore sia considerato eroico deve per forza apparire mezzo congelato e temerario? E abbiamo proprio bisogno di volti come questi per immaginare le loro imprese? Naturalmente le foto ispirano nostalgia, ma è sempre chiaro fino a che punto l'idealismo interferisca con la realtà di un'immagine? Non sempre il romanticismo va d'accordo con la franchezza. Dov'è che finisce il realismo e inizia l'interpretazione, e soprattutto, è davvero importante saperlo? Il fatto stesso di fotografare ed essere fotografati genera un artificio, anche se ci sforziamo di immaginare che rispecchi qualcosa di veramente accaduto. Potremmo chiederci perché una persona voglia posare in quel modo per presentarsi al mondo. Potremmo voler sapere perché, e forse anche esattamente come, il fotografo abbia ottenuto questi risultati. Che cosa vediamo veramente quando ci troviamo faccia a faccia con gli esploratori ritratti in questo modo? E ciò può cambiare il nostro modo di concepire la storia dell'esplorazione? Certamente le fotografie sono documenti storici: presentano fatti, riportano in vita eventi e persone. Sono pezzetti di storia, brevi apparizioni dal passato. Quando però ci troviamo faccia a faccia con queste vecchie foto l'immagine acquista un nuovo significato. Siamo in grado di giudicare, di rivalutare, in una parola: possiamo godercele. Perché un ritratto si possa definire polare è proprio necessario che mostri l'esploratore nell'atto di lottare contro gli elementi o precariamente appollaiato su un lastrone di ghiaccio galleggiante? Alcune di queste foto, come quella di Franklin, furono realizzate prima della partenza di una spedizione, ma molte di più furono riprese al ritorno, all'apice della fama, oppure dell'ignominia, dopo un grande successo o un miserevole fallimento. Alcune presentano addirittura l'esploratore, l'eroe dei grandi spazi, chiuso tra le quattro mura di casa. Con questa galleria di volti speriamo di iniziare a dare una risposta ad alcune di queste domande, senza però dimenticare che lo scopo di questo libro è innanzitutto quello di presentare straordinari ritratti. Potrebbe essere meglio lasciare tutto il resto all'immaginazione. Tornando al 1845, di quelle foto pionieristiche furono prodotte due serie: una fu donata per ricordo alla moglie di Franklin, lady Jane, subito prima della partenza della nave, e l'altra fu conservata da Beard che, intuendo che le foto polari potevano rappresentare una fonte di guadagno, voleva pubblicarle sui giornali. Quando negli anni seguenti le ricerche degli equipaggi scomparsi (in tutto centoventinove uomini) raggiunsero il culmine, queste immagini finirono nelle case e nei cuori di molte persone che, su entrambe le sponde dell'Atlantico, seguivano con ansia la vicenda sui giornali, in conferenze illustrate e sui libri. II ritratto polare dimostrò così la sua duplice valenza, sia venale sia emotiva. Negli anni successivi furono inviate in cerca dei dispersi più di trenta spedizioni. «Gli sforzi costanti e ostinati di lady Franklin per tentare di inviare soccorsi al marito lontano», scriveva il periodico Gleason's Pictorial Drawing-Room Companion, «hanno avvolto l'intera vicenda in un'aura romantica». La spedizione di soccorso di Francis McClintock a bordo del vapore Fox, finanziata in gran parte da lady Jane, trovò resti umani e manoscritti che confermarono definitivamente la sorte di Franklin e dei suoi. Il capitolo però era tutt'altro che chiuso, e la storia e le relative foto conservano ancora il loro fascino. Il ritratto di Franklin, cristallizzato nel tempo, ci incoraggia a tenere gli occhi aperti e a continuare la ricerca. | << | < | > | >> |Pagina 23UN'ARTE NUOVA E DI MODAUno sconosciuto che si era fermato un momento a farsi lucidare le scarpe in un viale di Parigi fu il primo uomo al mondo a essere fotografato. Siamo alla fine del 1838, o forse all'inizio dell'anno successivo. Appostato sui tetti, Louis Jacques-Mandé Daguerre punta verso il basso la sua macchina per una decina di minuti. Sul Boulevard du Temple i pedoni frettolosi e le carrozze sono troppo veloci per essere fissati sulla lastra, appaiono come strisce confuse, la strada sembra deserta. Ai nostri occhi moderni la foto appare sgranata, mossa e, come forse le scarpe di quel signore, un poco insudiciata. Anche per l'arte fotografica si prospettava un futuro di maquillage e superfici lucide. Con il progredire della tecnica i pionieri della fotografia divennero personaggi celebri e ricchi. In una società che diventava sempre più dipendente dalle immagini le foto erano ovunque: affascinanti, sensazionali, un vero passatempo nazionale. Da mezzo di comunicazione la fotografia si stava trasformando in arte, e nel giro di un secolo avrebbe conquistato il mondo. Il primo anno importante fu il 1839. Due procedimenti per fissare l'immagine di ciò che si vede usando sistemi ottici e reagenti chimici — annunciati simultaneamente in Gran Bretagna e in Francia — suscitarono un'ondata di entusiasmo, e la notizia si sparse rapidamente nel resto del mondo occidentale. Dopo molti anni di esperimenti Daguerre dichiarò di aver perfezionato un processo per fissare immagini su una lastra di rame rivestita d'argento. Dall'altra parte della Manica un gentiluomo inglese di nome William Henry Fox Talbot annunciò una tecnica del negativo-positivo su carta destinata a diventare il fondamento della fotografia moderna. I due erano accomunati dalla fede in un'idea al passo con i tempi che cambiavano: ottenere riproduzioni precise, tangibili, che tutti potessero possedere e apprezzare, e tramandabili ai posteri. Dopo un autunno trascorso a Parigi a ricevere istruzioni da Daguerre in persona, Antoine Claudet presentò alla regina Vittoria e al principe Alberto i primi esemplari della nuova arte mai visti in Gran Bretagna, e nel 1840 espose il resto delle sue opere nel corso di serate organizzate presso la Royal Society. Era un modo nuovo non solo di documentare, ma anche di vedere le cose. Con l'aumentare della domanda da parte del pubblico, la fotografia, inizialmente riservata a pochi facoltosi dilettanti, si trasformò rapidamente in una professione redditizia. | << | < | > | >> |Pagina 47La fotografia ha dato, e continuerà a dare, in molti modi diversi il suo contributo alla conoscenza e alla felicità del genere umano. Grazie a essa gli aspetti del nostro globo dai tropici ai poli, i suoi abitanti dai neri Nubiani ai pallidi Eschimesi, i suoi prodotti sia animali sia vegetali, l'aspetto delle sue città e il profilo delle sue montagne ci sono stati resi familiari... Coloro che hanno avuto l'ardire di penetrare le tremende solitudini racchiuse tra le barriere di ghiaccio poste a guardia dei reconditi misteri dei poli hanno fatto uso della fotografia per immortalarne l'immagine.
MANUAL OF PHOTOGRAPHIC MANIPULATION, 1868
Se potessi raccontare con le parole non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica. LEWIS HINE,1932 RITRATTI
HUW LEWIS-JONES
Le collezioni dell'Istituto Scott di Ricerche Polari dell'Università di Cambridge sono tra le più ricche del mondo, un patrimonio indispensabile per lo studio degli ambienti polari. Il progetto Freeze Frame, lanciato nel 2007, ha lo scopo di archiviare e conservare la sua raccolta di immagini storiche in forma digitale. Il progetto si propone di digitalizzare più di ventimila negativi fotografici a partire dal 1845, quando furono riprese alcune delle primissime immagini, fino agli anni Ottanta del Novecento: verrano così catalogati alcuni tra i documenti più importanti dell'esplorazione polare britannica e internazionale. L'archivio comprende dagherrotipi, trasparenti per lanterna magica, negativi su lastra e moderne foto su pellicola. Molte di queste immagini sono inedite, recuperate da album privati e da collezioni personali. La maggior parte di esse non è mai stata esposta al pubblico. Questo libro, dedicato ai ritratti, vuole richiamare l'attenzione su alcune di queste immagini storiche ritrovate, e allo stesso tempo guardare al mondo polare di oggi. Nel progetto è stato coinvolto anche il fotografo Martin Hartley, un noto specialista di spedizioni, allo scopo di integrare la raccolta con un certo numero di immagini recenti di uomini e donne di molte nazioni che oggi lavorano e vivono nelle regioni polari. In questa galleria appaiono cento persone speciali: è un album fotografico sui viaggi e sulla vita ai confini del mondo, e non ha la pretesa di essere né completo né definitivo. Incontrando faccia a faccia queste persone ci proponiamo di recuperare e riconoscere i loro contributi al panorama polare contemporaneo, e di riflettere sulle memorie e sul patrimonio che ci è stato tramandato sull'esplorazione e sulla sopravvivenza in questi luoghi. Cambridge, 2008 | << | < | > | >> |Pagina 275Riprendere una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutevolezza di un'altra persona.
Ed è proprio isolando e congelando un singolo
momento che tutti i fotografi contribuiscono
all'inarrestabile dissoluzione del tempo.
I CONFINI DELLA LUCE
HUGH BRODY
Le avventure polari sono tra le esperienze più ardue che un uomo possa affrontare: si deve abbandonare tutto ciò che è familiare — il focolare domestico, la propria abitazione, la tranquillità e le certezze della vita di ogni giorno — per immergersi nel cuore di un mondo gelido e inospitale. Si lascia una vita comoda e sicura per una disagevole e selvaggia, un ambiente permeato di affetti e stimoli culturali per una gelida solitudine che rievoca la Natura primigenia, le abitudini stanziali per il nomadismo. L'esaltazione e il senso di sfida impliciti nel superamento di questa frontiera hanno molteplici valenze ed esercitano forti richiami che toccano l'immaginario personale e stimolano lo spirito d'avventura innato in ogni uomo. Non c'è quindi da meravigliarsi se le immagini delle esplorazioni polari hanno un'attrattiva straordinaria: quando ci troviamo sul confine, sapendo che siamo costretti a compiere un passo al di là di ciò che conosciamo, verso l'ignoto, è più che naturale provare un forte impulso a immortalare quel momento. Due sono le direzioni in cui guardare, due i tipi di impressioni da ricordare. Prima ci voltiamo indietro verso coloro che ci salutano e vediamo i paesaggi che ci sono familiari offrire un'ultima istantanea di sicurezza, volti che stiamo abbandonando ma che al tempo stesso desideriamo portare con noi: conserveremo nel portafoglio una foto dei nostri cari che un giorno mostreremo ai compagni di viaggio o alle popolazioni che incontreremo. Quelle immagini, di noi stessi e dei nostri ricordi, nei momenti duri potranno esserci di conforto più di tante parole. Grazie a loro potremo ritrovare la nostra identità o scoprire chi vorremmo essere, nonché mostrare agli altri che la nostra vita non è limitata alla nostra apparenza di quel momento. Quelle immagini ci ricorderanno che non siamo del tutto soli nell'avventura: la persona amata che tiene in braccio nostro figlio, la nave appoggio che trasporta i kayak o la muta di cani che ci accompagna nel nostro viaggio saranno tutte istantanee in grado di offrire un po'di calore e di conforto. [...] Agli albori della fotografia i due tipi di immagine, giocati sui confini tra Cultura e Natura, tra ambiente domestico ed esplorazione, presentavano meno differenze, poiché dipendevano da una tecnologia rudimentale che necessitava di lunghi preparativi. I soggetti dovevano essere messi in posa e rimanere fermi alcuni minuti di fronte al fotografo, e il paesaggio stesso finiva col diventare una sorta di studio fotografico. Man mano che le macchine si sono fatte più piccole, più semplici, più affidabili e meno costose, con tempi di otturazione più brevi e aperture del diaframma più ampie, regolabili e infine automatizzate, è venuta meno la necessità che il soggetto si metta in posa. Oggi non solo si può fotografare l'azione, ma la si può fotografare da tutte le angolazioni possibili, e l'abbondanza di immagini fa sì che il momento "creativo" della fotografia non sia tanto la ripresa quanto la scelta degli scatti migliori. E così, anche in questo libro, Huw Lewis-Jones, che ha dovuto ricercare, selezionare e ordinare una collezione di immagini spulciando molteplici archivi, ha avuto il compito più difficile. Le difficoltà del progetto non sono state solo di ordine intellettuale, ma anche creativo: questo libro nasce con l'intento di offrire sì immagini da guardare, ma anche di dirigere gli sguardi. Di farci vedere, ma anche pensare. Realizzare questo libro ha significato effettuare un viaggio nella storia della fotografia, nel significato delle immagini e nella vita — oltre che, entro certi limiti, nella mente — delle persone fotografate. È stato un lavoro enorme e ben meditato, magnificamente svolto, che ci ha regalato splendide immagini e il piacere di sapere che qualcuno le ha raccolte e selezionate per noi. In quest'epoca, che vede macchine fotografiche efficienti e sofisticate, le riprese sia dell'estremo Nord sia dell'estremo Sud abbondano, e proprio quest'abbondanza potrebbe sminuire il valore delle imprese degli esploratori, suggerire che quelle lande desolate siano in qualche modo a misura d'uomo. La fotografia polare è oggi appannaggio dei fotografi più che degli esploratori, anche se in genere i fotografi (e il bravo Martin Hartley è tra questi) devono viaggiare al seguito delle spedizioni per poter catturare le immagini tanto desiderate. Oltretutto, penetrare l'anima dei luoghi e assorbire lo spirito delle popolazioni locali richiede tempo, a volte molto; ma questa immedesimazione è indispensabile perché le fotografie risultino significative, efficaci e, in una parola, eloquenti. La maggior parte dei fotografi che hanno viaggiato nel Grande Nord ha avuto occasione di riprendere le popolazioni locali, e le loro vivide immagini sono emblematiche nel loro ambiente fatto di neve, ghiaccio, distese infinite, lande desolate senza l'ombra di un albero e condizioni climatiche estreme: tutti elementi che per gli esploratori costituiscono proprio le attrattive delle regioni polari. Come giustamente afferma Ranulph Fiennes nella prefazione di questo libro, per chi viaggia in quelle regioni «già rimanere vivi è un'impresa». Coloro che ammirano le immagini di questo libro (e, acquistandolo, hanno contribuito a finanziare le future spedizioni) ricercano proprio il "freddo", il fascino dell'estremo e l'eterno conflitto tra l'uomo e la natura insito nel concetto stesso di esplorazione polare. Eppure l'immagine che ci creiamo di questo ambiente è in qualche modo in contrasto con la realtà dei popoli per i quali il Nord non è nulla più che la terra natia. Molte delle prime fotografie raffigurano guide e indigeni che hanno collaborato con le spedizioni, uomini e donne a cui gli esploratori europei devono in gran parte il successo delle loro imprese più audaci e famose, svoltesi per lo più in relativa sicurezza grazie alle conoscenze di questi popoli, che vedono le loro terre "inospitali" né più né meno come noi vediamo l'orto di casa. Nelle intense immagini di Robert Flaherty, pur meno note del suo film Nanuk l'eschimese, i popoli dell'Artide appaiono sorridenti, innocenti e fieri. Per Flaherty gli Inuit sono un esempio di come l'animo umano sia fatto grande e felice dal confronto con un mondo feroce e crudele. Il suo lavoro è del tutto coerente con quello che potremmo chiamare "l'eroismo delle spedizioni": egli è convinto che gli Inuit del suo film — così come i contadini irlandesi dell'altro suo capolavoro, L'uomo di Aran — siano eroi che trionfano su tutto e tutti. Una visione dell'uomo (considerato in relazione al suo ambiente naturale) che si sposa con quella che abbiamo comunemente dell'esploratore: per entrambi il successo dipende dalla lotta contro la natura e dal superamento delle avversità. Oggi il punto di vista è cambiato: come l'antropologia suggerisce un approccio alle minoranze etniche più autentico e rispettoso, così i fotografi si adoperano per rappresentare le genti del Nord a loro agio nell'ambiente in cui vivono, né più né meno di ogni altra popolazione, anche se questo potrebbe indurre a minimizzare le difficoltà incontrate dagli esploratori. Per ragioni geografiche e climatiche l'Artide presenta paesaggi e condizioni di luce unici, che ogni fotografo vorrebbe riprendere e che emanano un fascino irresistibile. Ma i grandi spazi non sono tutto: le intime foto in bianco e nero di Ulli Steltzer degli anni Settanta, buona parte dei lavori di Bryan e Cherry Alexander realizzati nel Nord negli ultimi trent'anni, o ancora l'immersione nella vita degli Inuit da parte di fotografi come Robert Semeniuk e Paul Nicklen, sono esempi altrettanto rappresentativi di una terra certo inospitale, ma in cui è possibile vivere. Più che mostrare la Natura, le loro immagini mostrano la Cultura del Nord. Diversa, ovviamente, è la situazione per l'Antartide, dove non è mai esistita una popolazione indigena. Là gli esploratori devono sopravvivere senza l'aiuto e i preziosi consigli degli autoctoni, e per questo sono ancora più eroici, la loro lotta più strenua e i loro successi più autentici. Per questo le immagini delle esplorazioni antartiche grondano eroismo e situazioni estreme più di quanto non facciano le immagini dei fotografi artici. Perfino i pinguini sembrano partecipare alla gloriosa epopea di chi è chiamato a sopravvivere in questi ambienti off limits: le femmine paiono fiere dei loro maschi impegnati nella cova, stretti l'un l'altro per fronteggiare le inclemenze del clima. Gli scatti che ritraggono queste terre appaiono come un curioso mix di detto e non detto: una sintesi della realtà oggettiva del luogo e dei sottili messaggi che la accompagnano, vuoi palesi, vuoi subliminali. Gli esploratori, peraltro, non sono sempre affannati a combattere per la sopravvivenza, e non è detto che la lotta sia necessaria a tutti i costi; si potrebbe dire, anzi, che il maggior successo di un viaggio consiste nel non dover lottare che il minimo indispensabile. Però qualcosa che va storto c'è sempre, e molti viaggi vengono intrapresi proprio perché avventurosi e irti di difficoltà. In ogni caso, il considerare stoica ed eroica l'esplorazione polare è per certi versi necessario: fa bene all'immaginazione di chi rimane a casa pensare che questi viaggi siano combattuti, temerari, appannaggio di pochi ardimentosi, e che si risolvano in gloriose conquiste o in altrettanto epici insuccessi. Osservando i ritratti di celebri protagonisti di viaggi polari viene da chiedersi quali grandi verità suggeriscano quelle immagini, quali segreti si celino dietro i loro sguardi, i loro atteggiamenti, i loro stessi abiti, quale significato conservi il preciso momento in cui sono stati ripresi, momento che rappresenta necessariamente solo un frammento, una "versione" della realtà, o forse anche il suo contrario. [...] Le foto di Peter Pitseolak costituiscono la collezione di immagini artiche più ampia e completa che sia mai stata realizzata da un uomo del Nord. Pitseolak, che era nato nella zona di Cape Dorset e vi aveva trascorso tutta la vita, incontrò Robert Flaherty nel 1912, quando questi stava iniziando le riprese di Nanuk l'eschimese. Grazie a quell'incontro scoprì le potenzialità creative della fotografia e apprese che tutto l'iter di realizzazione delle immagini poteva essere effettuato sul posto. Infatti Flaherty era solito sviluppare subito le sue pellicole per mostrare a collaboratori e amici le foto che aveva ripreso. A partire dal 1940, quando acquistò la prima macchina fotografica, fino al 1973, anno della sua morte, Pitseolak scattò centinaia di fotografie e realizzò numerosi disegni e dipinti. Le sue immagini, molte delle quali sviluppate in un igloo appositamente costruito, documentano la vita in un insediamento inuit. I soggetti sono abitanti, cani e altri animali dell'accampamento, a cui vanno aggiunte le prime testimonianze dei cambiamenti in atto: una nave giunta da sud per recuperare i malati di tubercolosi, i primi aeroplani, un elicottero. È opinione diffusa che Pitseolak abbia scelto di documentare, e in qualche modo fissare nel tempo, la società inuit tradizionale nella quale era nato, spinto dalla sensazione che il suo mondo stesse scomparendo. Mi chiedo però se sia vero: le sue immagini sembrano quelle di un fotografo che si divertiva a scattare e ha voluto mettere insieme una sorta di grande album di famiglia. Pitseolak non è l'unico abitante del Nord ad aver realizzato questo genere di fotografie. Quando negli anni Settanta visitai alcuni vecchi accampamenti parzialmente abbandonati nell'alta Artide ed entrai nelle case che le famiglie avevano lasciato per seguire i figli, obbligati ad andare a scuola nei nuovi insediamenti, notai spesso foto di famigliari appese alle pareti oppure ammucchiate su scaffali o in scatole di cartone, scattate per il puro piacere di ritrarre le persone care. Istantanee di famiglia: l'opposto delle foto scattate da esploratori e spedizioni. Non c'è nulla di strano, ovviamente, in tutto questo: stare da una parte o dall'altra dell'obiettivo fa la differenza, e cambia l'occhio con cui si guarda il soggetto da ritrarre. Come fa differenza che quei luoghi siano per alcuni una terra di frontiera e per altri il Paese natio. Le fotografie, s'intende, non riproducono pedissequamente la "realtà" come tale: anche la posa e una sorta di messa in scena hanno il loro peso, e contribuiscono sensibilmente al fascino delle immagini. Nelle regioni polari non mancano la luce, lo splendore di una natura incontaminata, i grandi orizzonti: l'Artide e l'Antartide, confini del mondo per definizione, sono davvero i luoghi degli eroi, ma il Nord è anche la terra d'origine di uomini che vi hanno creato un loro mondo antieroico, permeato di cultura e tradizione. Grazie a questo libro è possibile conoscere entrambe le realtà: quella di chi con temerarietà si avventura alla scoperta dell'inesplorato e quella di chi in questi luoghi è nato e sa convivere senza drammi con l'inclemenza della natura. Londra, 2008 | << | < | |