Autore Li Kunwu
CoautoreP. Ôtié
Titolo Una vita cinese
Sottotitolo1. Il tempo del padre
Edizioneadd, Torino, 2017 , pag. 256, ill., cop.fle., dim. 17x24x1,8 cm , Isbn 978-88-6783-135-7
OriginaleUne vie chinoise 1 [2009]
PrefazionePierre Haski
TraduttoreGiovanni Zucca
LettoreCristina Lupo, 2019
Classe paesi: Cina , biografie , fumetti












 

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Pagina 7

PREFAZIONE DI
PIERRE HASKI



La storia antica della Cina si misura in dinastie, alcune delle quali sono durate parecchi secoli. La storia recente si valuta in generazioni, a un ritmo che tende ad accelerare.

Lo stesso avviene con i dirigenti politici da Mao Zedong in poi, il "Grande timoniere" salito al potere nel 1949, che segna la prima generazione della "dinastia" comunista. Deng Xiaoping, principale leader a partire dal 1977, nonché iniziatore della prima fase delle riforme economiche, viene considerato il rappresentante della seconda generazione, mentre l'attuale numero uno cinese, Xi Jinping, incarna la quinta generazione.

Per fare un altro esempio, i cineasti cinesi sono arrivati alla sesta o addirittura alla settima generazione. Ognuna di esse rappresenta un periodo politico e un genere cinematografico ben preciso, dal cinema muto alle pellicole underground, passando per il realismo socialista.

Nella società cinese contemporanea la data di nascita condiziona l'istruzione, il percorso di vita e in larga parte anche lo sguardo sul mondo. Per un uomo nato all'inizio degli anni Cinquanta, come il protagonista della straordinaria vicenda cui stiamo per assistere, la vita si dipana come un libro di storia, fondendosi con l'epopea maoista che ha dominato la vita della Cina fino alla scomparsa del leader supremo nel 1976 e con le grandi trasformazioni degli ultimi trent'anni.

Questa generazione ha vissuto tutto, i grandi slanci idealisti e i disastri, le gioie collettive e le delusioni individuali, l'entusiasmo e la disperazione. E ha conosciuto le trasformazioni dell'era post-maoista, quando Deng Xiaoping, voltando simbolicamente la pagina del volontarismo ideologico, proclamò: «Non importa che il gatto sia nero o bianco, l'importante è che riesca a catturare il topo»: slogan alla base di un approccio pragmatico allo sviluppo economico.

È evidente che chi è cresciuto prima del 1976 avrà un'esperienza di vita diversa da chi è cresciuto dopo. E tale è stato il ritmo dei mutamenti della società cinese che le generazioni si succedono a un ritmo sfrenato, procedendo per decenni quando altrove è necessario almeno un quarto di secolo. Nella società attuale è facile distinguere i cinesi nati negli anni Settanta, Ottanta e Novanta e a volte sembra che non siano cresciuti nello stesso Paese.

La generazione del nostro protagonista è quella oggi al potere in Cina, plasmata dal peso della storia e da un desiderio fortissimo di non ripetere gli errori del passato. Una generazione che ha sete di successo e di riconoscimento e vuole lasciare un'eredità positiva a quelle che verranno. Questa generazione dei "figli di Mao" si inserisce inoltre in una lunga storia, quella della Cina alla ricerca della modernità, il fondale di tutto ciò che accade nel paese. Da centocinquant'anni la Cina viveva indebolita, in difficoltà, spesso umiliata, superata nella competizione internazionale non solo dall'Occidente, ma anche dal suo grande rivale asiatico, il Giappone, che non aveva perso il treno dell'industrializzazione alla fine del XIX secolo. Non si diceva forse, all'epoca, che la Cina era "il malato dell'Asia"?

In questi centocinquant'anni l'impero di Mezzo, che si credeva invincibile, visse lo choc dell'incontro con un'Europa forte e desiderosa di conquiste, che inflisse alla Cina dei Qing i colpi di maglio che fecero crollare un sistema politico millenario. Le celebri "guerre dell'oppio", che nel 1842 permisero agli inglesi di impadronirsi di Hong Kong; il saccheggio del Palazzo d'Estate da parte delle truppe francesi e britanniche nel 1860; la guerra contro il Giappone, protrattasi per la prima metà del XX secolo, sono altrettanti traumi storici con cui i cinesi hanno dovuto fare i conti. Traumi mai rimossi dalla storiografia ufficiale e mai superati dal sentire collettivo.

La vittoria di Mao Zedong nel 1949, al termine di una lunga guerra civile, ha indubbiamente posto fine a un'era di instabilità e divisioni, permettendo alla Cina di risollevarsi. Ma il prezzo che la popolazione ha dovuto pagare è stato pesante. Come racconta il protagonista di questa storia, ci sono state catastrofi come il Grande balzo in avanti, che a causa della carestia provocò milioni di morti, e la Grande rivoluzione culturale proletaria, che rischiò di precipitare il paese nel caos sulla scia delle lotte di potere tra fazioni rivali a Pechino.

Per questa generazione che ci ha creduto ben più di quanto fosse ragionevole, che ha visto Mao come un semidio, che ha sfilato declamando il libretto rosso e andando all'assalto delle "anticaglie" che pure costituivano il nucleo della sua cultura, la delusione è stata grande. Tutti i cinesi di una certa età ricordano, come Xiao Li, cosa facevano il giorno della morte di Mao e la sensazione che fosse la fine del mondo. Di certo era la fine di un mondo, ma anche, senza che ne avessero consapevolezza, l'inizio di un altro.

Hanno conosciuto gli eccessi dell'ideologia, l'arbitrio e gli abusi come quelli che subisce in questa vicenda il padre del protagonista, che pure è un quadro comunista fedele al partito; hanno conosciuto l'esilio nelle campagne, le privazioni e le prove di resistenza. E per quelli che sono sopravvissuti, la fine della dottrina maoista ha segnato l'inizio della rivincita, su loro stessi e sulla Storia.

La grande capacità di Deng Xiaoping, detto "il Piccolo Timoniere" per via della sua bassa statura, più volte epurato e sempre tornato a galla, a costo di sofferenze personali e familiari (durante la Rivoluzione culturale suo figlio maggiore Deng Pufang fu gettato da una finestra dell'università dalle Guardie Rosse e rimase paralizzato) è stata quella di dare sfogo all'enorme serbatoio di energie dei cinesi.

Trent'anni di "riforme e apertura", secondo la definizione ufficiale, hanno trasformato e trasfigurato la Cina al di là dell'immaginabile, anche per coloro che, come diceva Napoleone, attendono il momento in cui "si sveglierà".

Le città cinesi, fatte di stradine strette e di negozietti di quartiere, si sono trasformate in megalopoli verticali e inquinate, solcate da grandi viali intasati di traffico e piene di centri commerciali. Le biciclette che in passato davano il ritmo alle città hanno dovuto via via cedere il posto a un numero crescente di auto, al punto che a Shanghai si è giunti a vietarne l'uso su alcune grandi strade.

Il paese si è tramutato in un immenso cantiere, in un'enorme zona industriale, a partire dagli esperimenti capitalisti, seppur mai definiti tali, a Shenzhen, umile villaggio vicino alla frontiera con Hong Kong, diventato in trent'anni una città con parecchi milioni di abitanti, culla della modernità industriale post-maoista, luogo di richiamo per i contadini di tutta la Cina in cerca di un lavoro.

Avendo condiviso per cinque anni, tra il 2000 e il 2010, la vita di un quartiere storico di hutong - le stradine tipicamente pechinesi di case grigie - ho assistito a questa trasformazione imposta dall'alto, dalle modalità a volte autoritarie, di un sistema di vivere ancestrale eroso dalle esigenze di una modernità non sempre ben compresa. Per tre volte ho dovuto cedere il posto ai bulldozer dello sviluppo urbano su scala gigante, condividendo da lontano la sorte dei miei vicini, costretti a riorganizzare le loro vite nel giro di qualche giorno prima di finire dispersi nel vortice della modernizzazione.

Alla fine degli anni Settanta nessuno poteva immaginare, neanche lo stesso Deng Xiaoping, che in un trentennio la Cina sarebbe (ri)diventata una delle principali potenze economiche del globo, con aziende in grado di lanciarsi alla conquista dei mercati internazionali, e invitata alla tavola di chi fino a ieri aveva dominato il mondo.

I cinesi hanno accolto l'apertura con entusiasmo, dal momento che era accompagnata dalla promessa di una vita migliore e più sicura. Ma hanno dovuto imparare a gestire le differenze sociali cancellate nel periodo maoista, con l'emergere di una classe media urbana e di un ceto di nuovi ricchi che si sono lasciati alle spalle la massa di quei contadini che, storicamente, avevano spianato la strada alla rivoluzione. Hanno anche dovuto imparare a cavarsela da soli, dal momento che la "botte di ferro" della rivoluzione, che si faceva carico di loro dalla nascita fino alla morte, è stata smantellata in nome di un crescente individualismo e di un progressivo disimpegno dello Stato rispetto alla vita delle persone.

Alcuni dei quadri più ardenti dell'epoca rivoluzionaria si sono "buttati in mare", come si dice in Cina quando ci si lancia nell'universo del mercato, di un capitalismo non dichiarato. Sono diventati capitani d'industria dopo aver sventolato sopra le teste il libretto rosso del Grande timoniere, speculando alla borsa di Shanghai con lo stesso impegno profuso in passato nell'organizzare il lavoro delle masse popolari.

La velocità del cambiamento lascia sbigottita una parte della popolazione. C'è anche chi comincia a guardare nel retrovisore con un pizzico di nostalgia, ricordando un'epoca più idealista, più ugualitaria e anche, paradossalmente, più fraterna e solidale, nonostante certe sbandate talora mortali. Ed è così che capita di incontrare, nei parchi di Pechino o nei circoli di quartiere, gruppi di anziani che si riuniscono per cantare le canzoni della Rivoluzione culturale, l'epoca della loro giovinezza... O tassisti che hanno in macchina il ritratto di Mao Zedong o del suo primo ministro, Zhou Enlai, simboli di un'epoca decisamente fuori corso.

I cinesi hanno con quel periodo un rapporto paradossale. Il presidente Mao rimane il punto di riferimento assoluto: il suo volto appare su tutte le banconote e troneggia ancora sopra l'ingresso della porta della Pace celeste, ovvero piazza Tienanmen, passaggio obbligato per chiunque dalle provincie venga nella capitale, la cui visita ha inizio dal mausoleo del Grande timoniere. Ma allo stesso tempo le loro vite, la società, l'economia e il paese si organizzano e si muovono seguendo precetti che non hanno più nulla a che vedere con il "pensiero alla Mao Zedong" e il marxismo-leninismo, senza che i cinesi trovino in ciò alcuna particolare contraddizione. Il fondatore della Repubblica popolare è diventato addirittura oggetto di derisione da parte di artisti contemporanei che, sull'esempio di Andy Warhol, stravolgono il personaggio storico dandogli tonalità kitsch che sarebbero state impensabili quando era in vita, a meno di non voler essere incriminati come controrivoluzionari.

Un'ambiguità alimentata dai lontani discendenti di Mao Zedong, che da questa continuità storica ancora oggi traggono la loro legittimazione e non vogliono né interrompere una discendenza che si perpetua e dà loro il potere, né seguire la dottrina contestata punto per punto da quegli stessi che la rivendicano ancora. La storia ufficiale è quindi strettamente controllata, tant'è che rimane vietato discutere alcune delle grandi scelte del Grande timoniere, la partecipazione della Cina alla guerra di Corea, il Grande balzo in avanti con i suoi milioni di morti e la Rivoluzione culturale e le sue disastrose conseguenze. Secondo la dottrina ufficiale, Mao è "70 per cento di buono e 30 di cattivo", con qualche "errore" come appunto la Rivoluzione culturale, ma più in là di questo non si va.

Vero è che l'uomo della strada, in Cina, non si pone affatto tutte queste domande. Ha imparato a essere fiero di una Cina che in passato non gliene ha fornito molte occasioni, una fierezza che tra i più giovani prende accenti nazionalisti - quegli stessi giovani cresciuti nella Cina post-maoista che non sanno nulla, a volte, degli eccessi del passato. Il lancio di un cinese nello spazio e le Olimpiadi del 2008 a Pechino fanno parte di questi momenti di fierezza collettiva, che compensano le sconfitte di ieri.

Il gap generazionale tra i "vecchi" che hanno conosciuto la rivoluzione maoista e i giovani della rivoluzione Internet è comunque enorme, sicuramente più vasto che nella maggior parte degli altri paesi.

I primi sono consci dei pericoli dei grandi movimenti collettivi e hanno pagato per imparare a immettere una buona dose di pragmatismo nella loro visione del mondo. I secondi non hanno paura di niente e hanno una fede assoluta nella loro capacità individuale e collettiva di fare della Cina il paese "di Mezzo" che già fu in passato, tanto da essere talora intransigenti.

In questa trasformazione di un'ampiezza pressoché ineguagliata, numerose sono le domande ancora senza risposta, a cominciare evidentemente da quelle sulle libertà civili e sul sistema politico, un tabù tanto più forte se si pensa all' "incidente" di piazza Tienanmen, la repressione della "Primavera di Pechino" nel giugno 1989, che ha rinviato il problema della democratizzazione a data da destinarsi, per privilegiare le riforme economiche che sono andate avanti a un ritmo rapidissimo.

Le sfide del futuro restano gigantesche per il paese più popoloso del globo, siano esse politiche, ecologiche, economiche o sociali. Ma alla generazione che ha visto la luce imparando a dire "Viva il presidente Mao!" possono venire le vertigini nel constatare la strada percorsa da un paese giunto più volte sull'orlo del baratro, ma che ha trovato in sé la forza e l'energia per risollevarsi. Il racconto che segue lo dimostra a meraviglia.

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