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| << | < | > | >> |IndiceAVVERTENZA 7 1. IL CALCIO CHE VORREMMO Il calcio italiano nel Novecento 9 Profili del neocalcio 15 La via italiana al neocalcio 20 Il contropotere targato Stream 24 Il progetto Sensi 29 Scenari possibili 31 2. DAL CALCIO AL NEOCALCIO Il neocalcio prossimo venturo 39 Una rivoluzione (tv) è alle porte 41 Uno spot per il calcio 43 La legge dello sponsor 46 I bagarini e la Borsa 48 I tre scudetti di Sensi 49 Il derby infinito 52 Piattaforme (tv) a confronto 56 Scenari di campionato 60 Sensi o Tanzi: schieramenti o contenuti? 63 Il caso Nesta e il ritorno del Mi-To 66 Il neocalcio che avanza, tra vizi e virtù 72 Ma il «calcio antico» sa di oligarchia 75 La «banda Mancini» e la «nave fantasma» di Cragnotti 79 Cragnotti, finale di partita 82 I riformisti del pallone 85 Se fossimo l'Nba faremmo così... 89 Nella rete dei padroni 93 Chi ha paura della Superlega? 97 Un passato che non passa 101 3. IL CALCIO DEGLI ULTRAS Calcio, ultrà e politica 105 Le sottoculture giovanili negli stadi d'Europa 122 Prigionieri di una fede 125 Curve pericolose 127 Wall Street contro gli ultrà 131 Fascisti da stadio della Capitale 135 Un mito per la curva 139 Una radio per gli ultras 144 Lettera aperta agli Irriducibili 153 Movimento Ultras d'Italia 157 Curva Nord, un anno dopo 160 Cosa vogliono gli ultras 171 Miliardi e plexiglass 173 |
| << | < | > | >> |Pagina 9IL CALCIO ITALIANO NEL NOVECENTO Dal punto di vista del gioco, il calcio che vorremmo non è affatto diverso dal calcio così com'è. Anzi, le piccole modifiche regolamentari che si sono succedute negli ultimi anni - l'impossibilità di perdere tempo con il retropassaggio al portiere, le tre sostituzioni, l'espulsione per il fallo da ultimo uomo, e così via - sono riuscite a renderlo persino più snello e godibile di quanto già non fosse. Probabilmente non si può dire lo stesso a proposito delle evoluzioni tattiche. L'intensificazione dei ritmi di gioco infatti, l'esaltazione del pressing, il ricorso estremo al fuorigioco, ecc., rischiano di svuotare di significato il ricorso al gesto tecnico individuale. Saremmo curiosi di vedere come riuscirebbero oggi tanti tecnici nostrani a inserire un Garrincha o un George Best nelle loro geometrie a spazi fissi. Tuttavia, tra ciò che il gioco ha ricevuto e ciò che gli è stato tolto, l'estetica del calcio conserva intero il suo fascino. La capacità poi di scatenare la passione tra coloro che lo amano, questa il calcio non l'ha mai persa; perché in fondo l'entusiasmo e la sofferenza dei tifosi sono assai poco legati alla bellezza della partita che si sta giocando. Quello che conta è la rabbia messa in campo, la voglia di vincere, il risultato, la determinazione mostrata nell'affrontare l'avversario. Dilettanti o professionisti, serie A o serie C conta poco: palla al centro e via, tutto può accadere, nella testa e nel cuore di chi gioca e di chi guarda. Ciò che non ci piace di questo calcio ha a che fare con la storia del football nel nostro Paese, con la configurazione che hanno assunto le strutture che lo governano e le leggi che lo regolano, con le consuetudini che fanno da inerzia ad ogni sostanziale innovazione. Il calcio in Italia nel ventesimo secolo è stato uno strumento importante di formazione culturale e di orientamento del consenso; la sua evoluzione quindi diventa non intellegibile se letta separatamente dalle trasformazioni del costume, dell'economia, finanche della politica del secolo passato. Senza coscienza della complessità non si comprende la storia reale del nostro calcio. Ma senza tale coscienza, ancora più incomprensibile diventa la rappresentazione che di tale storia si è data e tuttora si continua a dare. Realtà e rappresentazione che non sempre coincidono, ma che insieme - e forse più la seconda della prima - hanno contribuito a delineare l'immagine, e l'immaginario, dell'evento popolare più amato dagli italiani. Lo schema di lettura della storia del calcio italiano che noi vogliamo proporre prevede la suddivisione del secolo passato in cinque periodi. La prima fase comprende circa trenta anni, dal 1898, anno del primo campionato nazionale, con il titolo assegnato al Genoa, al 1929, con lo scudetto assegnato al Bologna. Trent'anni fondamentali, perché segnano la comparsa e l'affermazione del calcio nel nostro Paese; un periodo di grande interesse perché è il più lontano (nel tempo) e il più diverso da ciò che il calcio italiano diventerà nel corso del Novecento. Nove scudetti vanno al Genoa, sette alla Pro Vercelli, uno addirittura al Casale (Monferrato). Le grandi del futuro sono ancora ben lontane dal dominare la scena: il Milan vince tre scudetti, due la Juventus, l'Inter(nazionale) e il Bologna; chiude il conto uno scudetto vinto dal Torino. Alle spalle del Genoa, il cui ultimo titolo è del 1924, e della Pro Vercelli (primo scudetto nel 1908, ultimo nel 1922), dunque, c'è un sostanziale equilibrio, nel quale emergono ora le squadre di Milano, ora quelle di Torino e Bologna. Tutte squadre del Nord Italia, come si vede. In effetti i club del Centro-sud che riuscivano a conquistare la finale nazionale - il campionato era articolato in due gironi - erano destinati inevitabilmente a soccombere di fronte alle squadre settentrionali. Troppe le differenze, anche calcistiche, tra le due Italie di allora, per sperare in esiti diversi. Questo dato suggerisce due considerazioni. Anzitutto, il dominio del Nord è l'elemento che più degli altri accomuna il calcio degli inizi a quello che verrà nei decenni successivi: saranno soltanto otto, infatti, in oltre un secolo di storia, gli scudetti vinti a sud di Bologna. La seconda considerazione riguarda le ragioni di questa differenza. Non ci convincono, non ci hanno mai convinto, le spiegazioni (anche se ben argomentate) che si rifanno al clima o addirittura alle varietà etnoantropologiche. Le cause vanno cercate piuttosto nell'economia italiana e nella natura del calcio; uno sport che nasce, lo ricordiamo, nella seconda metà dell'Ottocento in Inghilterra come fenomeno essenzialmente legato all'industrializzazione. Il calcio è figlio della distinzione, nella vita del proletariato, tra tempo di lavoro e tempo libero. È figlio in sostanza della cultura del lavoro, che è capacità organizzativa e senso dell'appartenenza, che è anche disciplina e rispetto delle regole. Senza trascurare poi la consapevolezza che il grande capitale industriale ha presto acquisito dell'importanza del calcio nella formazione dell'immaginario popolare. Poter manovrare uno strumento di controllo tanto importante meritava ampiamente i milioni (poi miliardi) spesi per far funzionare il meccanismo. La seconda fase del calcio italiano va dal campionato 1929-30, il primo a girone unico, a quello del 1948-49, con il disastro di Superga che chiude simbolicamente e tragicamente mezzo secolo di storia del nostro calcio. Questo periodo dunque segna la nascita del Campionato italiano di calcio a girone unico, prodotto (fortunato) dei processi di ristrutturazione avviati dal fascismo anche nei campi dell'industria culturale (negli stessi anni nasce Cinecittà) e dello sport. Il rinnovamento cancella (almeno dal giro che conta) nomi prestigiosi - nel 1934 il vecchio Genoa (o meglio Genova 1893, come piaceva al regime) conosce la sua prima retrocessione, la Pro Vercelli esce definitivamente di scena nel 1935; altri conquisteranno la prima fila: nasce la Juventus dei cinque scudetti consecutivi, trionfa il Bologna, «lo squadrone che tremare il mondo fa», vincitore di quattro titoli, inizia l'epopea del Grande Torino, campione d'Italia ininterrottamente dal 1943 al 1949 (dal '44 al '46 non si gioca). Ci sono poi i tre scudetti dell'Ambrosiana Inter (Internazionale suonava male...) e quello del 1942 - primo scudetto a uscire, sia pure in piena guerra, dal Settentrione - vinto dalla AS Roma, la squadra che dal 1927 divideva con la Lazio il ruolo di rappresentante del calcio capitolino. La Nazionale intanto vince due campionati del mondo, il calcio accresce sempre più la propria popolarità, la radio amplifica le gesta dei campioni in pantaloncini, si diffonde la stampa sportiva specializzata. Il calcio italiano dunque, in questa prima metà del Novecento, nasce sotto il segno del grifone e si chiude sotto quello del toro. In realtà è mancata una leadership costante e indiscussa del movimento calcistico: ora uno ora l'altro club ha messo in mostra il gioco più brillante e produttivo, ha proposto i campioni più prestigiosi, ha raccolto successi e conquistato masse di tifosi. Il legame tra la famiglia Agnelli e la Juventus, suggellato dai cinque scudetti dei primi anni trenta, tuttavia ha posto le basi per quello che sarà il calcio italiano nella seconda metà del secolo passato. Che farà appunto della squadra bianconera la «fidanzata d'Italia», la regina indiscussa del nostro football, amatissima da milioni di tifosi da nord a sud della Penisola, riferimento obbligato per qualsiasi tipo di riflessione sul nostro calcio. La terza fase che prendiamo in esame - dal 1950 al 1968 - è un momento fondamentale di questo processo. È questo il periodo che porterà alla consacrazione del Mi-To, che vedrà cioè la Juventus (sei titoli), il Milan (anch'esso sei scudetti, dopo l'ultimo vinto nel 1907) e l'Inter (che vince «solo» cinque volte) conquistare l'egemonia sul calcio italiano. Solamente Fulvio Bernardini, prima con la Fiorentina, poi con il Bologna, saprà spezzare i tentacoli di un dominio ferreo. Siamo negli anni del boom economico, della trasformazione industriale del Paese, i flussi migratori spostano milioni di famiglie dal sud al nord, dalle campagne alle città. Trionfa il modello di società industriale e urbanizzata. Le gesta di Omar Sivori, Sandro Mazzola e Gianni Rivera diventano punto di riferimento culturale per le generazioni protagoniste (per quanto inconsapevoli) della trasformazione più radicale che ha caratterizzato l'Italia moderna. Inutile soffermarsi sul ruolo che la Fiat ha avuto nella realtà e nell'immaginario di quel ventennio; o su come, negli stessi anni, Milano abbia saputo proporsi come «capitale morale» del Paese, metropoli efficiente e laboriosa, meta ambita per chiunque volesse tentare di riscrivere la propria esistenza. Le vittorie sul campo delle squadre milanesi e torinesi (manca il Torino, in realtà, ma il peso di Superga è troppo grande e del resto nella capitale sabauda c'era posto ormai per un solo re) rappresentano con tutta evidenza la traduzione nello sport del ruolo egemone esercitato dalla grande borghesia imprenditoriale piemontese e lombarda. L'altra grande città protagonista del cambiamento, Roma capitale d'Italia, affiderà ad altre immagini - il bagno di «Anitona» nella Fontana di Trevi, ad esempio, o i sabato sera in diretta da via Teulada - la propria capacità di fascinazione. Le due squadre della città resteranno a lungo irretite nella disputa di un derby interminabile e (auto)fagocitante. A ben vedere, comunque, sul piano internazionale questi sono complessivamente anni insignificanti per il calcio nazionale, culminanti nella mortificazione coreana di Middlesburough. Il cosiddetto «calcio all'italiana» (sommariamente, difesa e contropiede), trionfante nel nostro campionato e autentica griffe d'autore della nostra critica sportiva, che ne fa addirittura il tratto distintivo della tradizione culturale e del segmento razziale degli italiani, al di là dei confini si rivela ben poca cosa. I successi europei e mondiali delle milanesi si spiegano con l'innervamento potente di campioni stranieri (Altafini e Suarez, soprattutto), non solo con le alchimie tattiche di due «maestri» come Rocco e Herrera. Perché parliamo del '68 come inizio di quella quarta fase che arriverà fino alle soglie degli anni novanta? Rispondiamo sollevando una questione: è possibile che i rivolgimenti sociali e culturali che hanno appunto nel «sessantotto» il loro zenit abbiano in qualche modo contribuito a ridefinire gerarchie e modelli ormai consolidati del calcio italiano? Una domanda questa che, è ovvio, prevede tante risposte, e ognuno può trovare argomenti più che legittimi per sostenere le proprie convinzioni. Noi ci limitiamo ad avanzare alcune ipotesi. Nel periodo che va dal '68 all'inizio degli anni novanta, alcuni elementi suggeriscono di azzardare qualche accostamento. Sul piano internazionale, gli anni settanta impongono il calcio olandese - prima l'Ajax, poi la Nazionale arancione - che almeno nell'organizzazione e nel linguaggio richiama apertamente alcuni modelli concettuali propri degli anni della contestazione giovanile. In uno sport che pure è sempre stato di squadra, si impongono concetti come collettivo, zona e interscambiabilità dei ruoli. Modelli cari a quanti propongono la più ampia mobilità sociale (tra fabbrica e università, ad esempio) e criticano l'organizzazione tayloristica del lavoro. Sul piano del costume, poi, i giocatori olandesi, che già nel look (capelli lunghi e jeans a zampa d'elefante) richiamano i loro coetanei che popolano le capitali europee, in un ambiente tradizionalmente sessofobico come quello calcistico, vivono serenamente i pre-partita con mogli e compagne al seguito. Per quanto riguarda il campionato italiano, mentre sul piano tattico innovazione e tradizione si confrontano in un processo di sostanziale continuità con la scuola italiana - Bearzot e Trapattoni sono i nomi che meglio fotografano questa tendenza, più tardi verranno Sacchi e il «sacchismo» - la lettura dei risultati suggerisce novità sorprendenti. Cinque nuove società (il Napoli due volte, il Cagliari, la Lazio, il Verona e la Sampdoria) riescono finalmente a vincere il tricolore, si ripete la Fiorentina e dopo decenni tornano alla vittoria il Torino e la Roma. Una redistribuzione «democratica» dei successi, dunque; che avviene però tutta a scapito del polo milanese del Mi-To. Inter (tre scudetti) e Milan (solo due), infatti, vengono riportate a dimensioni più o meno normali, mentre la Juventus vede rafforzare il suo profilo di regina assoluta del nostro calcio. Arrivano ben nove scudetti ad arricchire l'albo d'oro bianconero. Quella di Gianni Agnelli, Boniperti (e Trapattoni) appare però una monarchia illuminata, capace di dividere con altre società i privilegi e il gusto della vittoria. Per entrare nel merito della quinta fase, dagli anni novanta ai giorni nostri, non sembri azzardato prendere spunto da una vicenda parallela accaduta in Italia grosso modo nello stesso periodo. Alle televisioni private, nate a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, poteva capitare, ora all'una ora all'altra, di oscurare per una serata o anche due i bagliori della Rai. Il potere della televisione di Stato tuttavia non era minimamente in discussione, anzi il luccichio altalenante di qualche satellite riusciva a rendere ancora più evidente la sua potenza. Sappiamo poi come è andata a finire con l'arrivo della Fininvest e di Mediaset. Una situazione di potenziale allargamento della democrazia televisiva si è risolta nell'affermazione di un duopolio/monopolio praticamente inespugnabile.
Ora, se
sostituiamo la Rai con la Juventus, Mediaset con il Milan e le altre squadre con
le varie televisioni private, vi è una grande differenza tra le dinamiche
osservabili nei due settori? All'inizio del decennio passato Milan e Juventus
stabiliscono un patto commerciale che possiamo riassume in questo modo: i
rossoneri offrono l'apparato della comunicazione, i bianconeri la loro platea
sconfinata. Tutto questo nel tempo in cui la televisione smette di raccontare,
semplicemente, il calcio per diventare una delle componenti che ne governa il
funzionamento, finendo inevitabilmente per spostare i rapporti di forza interni
al campionato. Di fatto, se si esclude il biennio «capitolino» 2000-2001,
Juventus e Milan si sono spartiti equamente,
cinque
a testa, tutti i titoli
rimanenti. Con 1'avvento di Berlusconi, con il passaggio della Juve da Giovanni
a Umberto Agnelli, e con la promozione sul campo dei due luogotenenti Galliani e
Giraudo, il calcio italiano diventa definitivamente un'altra cosa da quello che
era stato nei decenni precedenti.
PROFILI DEL NEOCALCIO Parliamo di «neocalcio» proprio per sottolineare questo passaggio - che si è compiuto o si sta compiendo sotto i nostri occhi - così come in passato si è parlato di «neocapitalismo» o di «neo-tv» (la «tv del telecomando») per significare un mutamento di fase, pur nel permanere dello stesso sistema economico o mediatico. Gli ultras, che ne sono gli oppositori più risoluti, preferiscono invece l'espressione calcio moderno. A noi sembra più appropriata la prima espressione, in primo luogo perché la fase attuale si configura per taluni aspetti piuttosto come post-moderna: «moderno», infatti, indica un periodo storico iniziato alcuni secoli fa e per taluni ormai superato, specie nei campi della cultura, dell'arte, ecc. Soprattutto però il prefisso neo suggerisce di concentrare l'attenzione sulle novità del fenomeno in questione. Calcio moderno indica una scansione temporale (peraltro errata), neocalcio sottolinea invece i cambiamenti intervenuti nell'universo calcistico. Vi è tuttavia una certa intercambiabilità tra le due espressioni (in Inghilterra si parla di «new football»), e occorre tenerne conto.
Ma quando comincia questa mutazione e quali sono le variazioni che stanno
riscrivendo l'identità dello sport più seguito e più amato nel mondo? Il
passaggio dal calcio al neocalcio è un processo, tuttora in corso, fatto di
trasformazioni molecolari, nessuna delle quali di per sé determinante ma la cui
somma ha finito per sconvolgere il vecchio sistema. Fissare una data d'inizio
rischia quindi di essere un'operazione comunque arbitraria. Pur consapevoli di
questo rischio, noi riteniamo che in Italia il fenomeno sia databile nel
passaggio tra anni Settanta e Ottanta, in concomitanza con due avvenimenti
capaci di innestare trasformazioni che si riveleranno irreversibili: la
diffusione delle televisioni private e la comparsa sulle magliette dei loghi
degli sponsor. Le televisioni trasformeranno i tifosi in audience, gli sponsor
li ridurranno a meri clienti. Da allora niente è stato più come prima.
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