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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 9 Parte prima Gastronomia di città 13 Il primato della pasta 25 Il vino: come e dove 35 L'olio, un tiranno 45 Il lusso degli aromi 51 Un mistero: i pesci 59 Parte seconda A tavola (e sulla tavola): tra Medioevo e Rinascimento 73 Il "Settecento riformatore" 87 La cucina degli Spinola 95 La saga dei Romanengo 109 Parte terza La codificazione (e la disputa) intorno alle due "Cuciniere" 131 Ricettario comparato 141 Antipasti 143 Primi piatti 151 Secondi piatti 179 Dolci 207 Congedo 217 Bibliografia 219 Indice delle ricette 221 |
| << | < | > | >> |Pagina 15Genova nasce città non tanto per un fenomeno di agglomerazione di realtà feudali e di contado dall'"esterno". Si realizza invece città, avvolgendosi su se stessa, come fa il baco da seta nel bozzolo. Le risorse non vengono alla nuova realtà politica dalla campagna o dai monti: sono conquistate, apprese e modificate dopo che sono state individuate in altre terre, al di là del mare. I Genovesi hanno scarsi, inconsistenti ricordi e fragili radici che li legano al loro contado. Genova ha subito, automaticamente, una cultura urbana. I suoi cittadini non hanno il tempo di seminare e raccogliere, modificando una terra già di per sé arida e avara.Alla vigilia delle Crociate, quando Genova è lo sbocco commerciale e strategico al mare della Padania e di Milano, quando l'abitato va verso i trentamila abitanti, è fin troppo ovvio che gli orti del Bisagno e del Polcevera non bastano a sfamare la popolazione. Il piccolo Stato ha comunque una sua struttura annonaria. Ci sono i singoli mercanti-pirati, prossimi a diventare banchieri, che commerciano in proprio. E c'è il magistrato dell'annona che si preoccupa dei magazzini, dei granai, delle riserve, dell'approvvigionamento. Le strade dell'entroterra sono impervie, sono carovaniere infestate da briganti, sovente d'inverno impraticabili per il fango e la neve. La litoranea non esiste. Chi vuol viaggiare a piedi o con il mulo si deve arrampicare lungo le franose corniches. Le Riviere, primi possedimenti del nuovo Stato marinaro, sono più facilmente raggiungibili via mare. Dal mare possono arrivare massicce partite di derrate, assai meno costose e in tempi stretti, uragani e pirati permettendo. Ecco quindi come si dipana anche una storia gastronomica basata sulle tecniche conserviere, sul monopolio abilmente acquisito del frumento, sullo sfruttamento autarchico dell'olio e degli agrumi (prodotti "nobili" della terra e ottime merci di scambio), nonché sul più fantasioso e spregiudicato import-export, legato ai terminal commerciali d'Oriente e d'Occidente. Sì, perché anche questo va detto: mentre Venezia concentrava i suoi interessi solo sull'Oriente, Genova non trascurava i rapporti con il mondo del Mediterraneo Occidentale: i regni spagnoli d'Aragona, di Castiglia, degli Arabi di Granada; frequentava le carovaniere della Tunisia, dell'Algeria, del Marocco; arrivava sino a Lisbona. Questa politica della porta aperta a Occidente avrebbe salvato Genova dalla grande crisi della caduta di Costantinopoli e avrebbe, indirettamente, aperto la strada all'impresa di Cristoforo Colombo. Su questa dimensione civica e politica (ma soprattutto economico-commerciale in progress e in evoluzione dinamica) si modella perciò anche il costume alimentare. L'elemento autoctono-agrario, limitato a poche voci (prodotti d'orto, fichi - freschi, seccati e ridotti a farina -, castagne - fresche, seccate, ridotte a farina -, olio, pesci ma in modesta misura e solo salati), viene perciò esaltato dall'arrivo di alimenti d'importazione. Questi ultimi sono perciò costosi, difficili da reperire e fatti giungere in condizioni di rischio, con la precisa esigenza organizzativa della conservazione per usi interni, quando d'inverno le galee sono in secca e l'approvvigionamento pressoché impossibile, nonché per i più importanti "usi esterni", cioè l'ammasso nei magazzini, antenati dei moderni docks, al fine di giocare sui mercati internazionali, specie del Centro e Nord Europa, in funzione delle variazioni dei prezzi e delle carestie che implacabilmente e ciclicamente si manifestavano. Questa seconda strategia era la più delicata, perché, se giocata con la mente lucida e il cuore freddo, portava a Genova il denaro, cioè l'oro. L'abbondante disponibilità di liquidità di cassa consentiva allora successivi acquisti, ancora più "intelligenti" dei precedenti, spuntando condizioni di favore. In pratica i Genovesi non persero tempo, come oggi certi popoli particolarmente "ricchi" (la Svizzera, l'Olanda, il Belgio, gli Stati Scandinavi), a procacciarsi i beni di consumo di "base", dall'alimentazione all'abbigliamento, sino all'artigianato. Fare il mercante (e poi il banchiere, l'assicuratore, il broker) era assai più redditizio che fare il contadino, l'allevatore, l'artigiano, per non parlare del pescatore. Così Genova, tra le Crociate e il suo "secolo d'oro", il Duecento, può permettersi lussi concreti e consumi superiori. La sua cucina, quindi, è necessariamente un "sistema" più complesso, che implica articolati e sofisticati procedimenti di modificazione della materia prima. Mentre nel Centro Europa e nelle campagne dominate dai castelli si è ancora fermi, come tetto del lusso e dell'ostentazione del potere, alla carne abbrustolita, sia di animali da cortile, sia di selvaggina, i Genovesi conoscono già le arti della pasta, del ripieno, del dosaggio sapiente degli intingoli, delle salse, delle erbe e delle spezie. Soprattutto le donne genovesi imparano a confezionare i loro piatti, impiegando "un po' di tutto". Perché a Genova c'è "di tutto" davvero, ma certe materie prime, come la carne e le uova per esempio, scarseggiano, e debbono essere consumate con giudizio. Per questo la confezione del "ripieno" (sia di paste avvolte, sia di verdure, sia di altre pietanze) resta la quintessenza culturale d'una civiltà della tavola. Questa cultura si può riscontrare ancor oggi, se si pensa a piatti come la "cima", alla diffusione dei ripieni di verdure, alla fortuna di ravioli e "pansotti" e al classico "pesto", frutto di una lenta sovrapposizione e aggiunta successiva di elementi sino alla sua "sezione aurea". C'è, tra le tante caratteristiche che val la pena di segnalare a volo d'uccello, l'impiego del formaggio fresco (che viene dalla Sardegna e dalla Corsica, le "giuncate" che venivano offerte, unico dono materiale ammesso, anche ai Dogi) nei ripieni, accanto a uova, verdura, erbe, semi oleosi (noci o pinoli o mandorle: altra tecnica appresa in Oriente e sul Mar Nero) e poca carne o pesce, sia freschi sia conservati. C'è il consumo, affrettato, per via della rapida decomposizione, delle parti meno nobili e meno nutritive della bestia: interiora, trippe, frattaglie. D'altro canto, non va sottovalutata la considerazione relativa al clima, sempre dolce e mite, e all'attività lavorativa. A Genova non fa troppo freddo, quindi sono meno impellenti e urgenti le esigenze alimentari di grassi, di calorie, di proteine animali. Inoltre, prendendo come modello sociale superiore (da cui discendono le forme imitative più "povere") la figura del mercante e del benestante, constatiamo che si tratta d'una attività che non implica sforzi fisici né grosse fatiche. La mensa del mercante, che deve avere le membra agili e il cervello libero, è dunque leggera, frugale. È l'antenata, usando un'espressione giornalistica forse abusata, della "dieta mediterranea". La ricchezza, il benessere, la possibilità di disporre di abbondanti riserve ne alimentano la curiosità alimentare e rendono questo patrizio-mercante semmai più esigente sul piano della qualità, che affamato di pane e carne. Di qui, un'ulteriore dimostrazione della funzione della fantasia e dell'invenzione, anche gratuita, anche fine a se stessa, nella cucina genovese, dove per prima compaiono dolci, canditi, confetti, profumate cotognate e persino caviale e storione, preferiti al plebeo pesce azzurro. Il fenomeno dell'eclettismo in cucina è parallelo, del resto, ad altri aspetti dell'antropologia e della civiltà, quali la moda e il costume. Se si vuol fare un paragone più vicino ai nostri tempi, è successo lo stesso per i grandi Stati coloniali: l'Inghilterra, la Spagna, il Portogallo, l'Olanda. Per questo motivo i Genovesi "assimilano" da tutto il Mediterraneo (e oltre) stoffe, fogge di abbigliamento, ornamenti, persino colori e accostamenti di tonalità e sfumatura, gioielli, suppellettili. | << | < | > | >> |Pagina 22Per esempio, il pomodoro entra nella cucina genovese solo nei primi anni del XIX secolo. Ha meno fortuna in Liguria rispetto ad altre regioni, come la Toscana o la Campania, o lo stesso Lazio. In Liguria, per via del sole e della condizione del terreno, il pomodoro s'insedia negli orti suburbani, chiusi dai muri a secco, soprattutto nella versione "da insalata". Si diffonderà nell'estremo Ponente (da Imperia a Ventimiglia, come pasto dei contadini, accompagnato con il pane e con l'olio). È sempre nell'Ottocento che il pomodoro (del tipo da salsa) compare, timidamente, sempre in Ponente sulle "sardenaire" sanremasche o sulle "piscialandrea" di Dolceacqua o di Bordighera, sino a quel momento condite solo con olive o cipolle o erbaggi. A Genova la sua penetrazione è ancora più prudente. Per i Genovesi il sugo per condire la pasta è sempre in "bianco". Gli spezzatini sono "in bianco", giocati sull'olio, sul vino e sugli umori della carne che cuoce lentamente. Le "fracassate" di agnello o di vitello, con carciofi e altre verdure, sono rigorosamente in bianco e pure in bianco è il condimento dei ravioli, perché il sapore del ripieno, dosato sino a raggiungere un equilibrio perfetto tra carne, aromi e verdura, non deve essere aggredito e sopraffatto.Lo stesso discorso vale per i pesci: quando non sono cotti alla griglia o al forno o fritti, vanno confezionati in "bagnette" senza pomodoro, semmai con un sugo "tirato" al vino o con un "fondo" realizzato da altri pesci di minor pregio, "passati" al setaccio. Il sapore è rinforzato dalle erbe, dall'aglio o perfino dallo zafferano. La ricetta storica dello stoccafisso "accomodato" (leggi in umido, cotto al tegame) prevede l'olio in abbondanza, i pinoli, l'uvetta, ma non il pomodoro. È prevedibile l'obiezione: oggi, anche nei ristoranti più esclusivi di Genova o delle Riviere, e anche nelle case private, il pomodoro è presente in molte pietanze ad accompagnare carni e pesci. È però un uso novecentesco, legato al fenomeno in atto di omogeneizzazione del gusto e del palato, cioè a una sorta di livellamento del costume, oltre che all'aggressione commerciale, in crescendo da mezzo secolo, dei pomodori conservati. Ancora una volta l'industria e la distribuzione hanno imposto le loro leggi alla tavola. Ma, per il genovese tradizionale, la resistenza al pomodoro è stata tenace, perché, soprattutto cotto e accompagnato al pesce, il frutto rosso-dorato è accusato d'essere "acido" e di alterare i sapori naturali. | << | < | > | >> |Pagina 24[...] Tra il 1820 e il 1830 l'escalation della patata è definitiva mente compiuta. Ancora una volta, un cibo s'impone dalla città alla campagna secondo una consolidata tradizione. I Genovesi, dunque, prendono l'abitudine di chiamare "tartuffoli" (è un soprannome da tubero, vedi la "trifola", il tartufo piemontese) e anche "truffe" le patate. Mescolate alla farina di frumento o a quella di castagne, le patate figliano gli gnocchi che ancor oggi, anche se confezionati di solo grano duro, a Genova vengono chiamati "troffie" o "troffiette". Ma le patate entrano di prepotenza in molti piatti di tradizione consolidata. Soppiantano la "fava greca" (secca e spezzettata) di remota presenza medievale nel nuovo ruolo di partner dello stoccafisso accomodato o bollito. Non più "stocche e bacilli" bensì stoccafisso e patate. Nella pasta al pesto, accanto alle verdure di stagione (fagiolini o zucchini: un uso invalso soprattutto nel Tigullio), entra la patata a fette, lessata insieme alle trenette o alle lasagne. E così pure negli spezzatini, negli arrosti e nella confezione dei ripieni, sovente a sostituire la mollica bagnata nel latte, sino al classico e profumato polpettone primaverile, morbido all'interno e ben crostato all'esterno, è la patata la grande mediatrice.Sono piatti, quelli sopra citati, che Genova ancor oggi consacra nella sua più vera tradizione, ma non hanno secoli e secoli alle spalle come la farinata millenaria, bensì solo centocinquant'anni intensi da quando il mondo s'è fatto più piccolo e s'è messo a correre. | << | < | > | >> |Pagina 217CongedoNon è facile, soprattutto per un genovese, vedersela con la cucina del suo territorio. La materia sfugge, i dati sono contraddittori, persistono, soprattutto nel collo di bottiglia che sta tra la fine del secolo scorso e l'inizio dell'attuale, informazioni false, interpretazioni inesatte e soprattutto una grande confusione che porta a mescolare il "vecchio" (la memoria dei genitori e dei nonni) con l'"antico". Proprio per sfatare tanti piccoli e fastidiosi errori largamente diffusi e riproposti anche da chi, magari in buona fede, crede di saperla lunga, mi sono dilettato - con l'atteggiamento del "gentiluomo in cucina" - a mettere in bella copia il frutto di vent'anni di discussioni, articoli, conferenze e di esperienze personali (gran parte delle ricette, a eccezione dei dolci, sono state da me eseguite più volte). Il lavoro è risultato più difficile e arduo del previsto e ne sa qualche cosa l'Editore che è stato costretto bon gré, mal gré a rimandare la pubblicazione d'un anno. Sia chiaro: non credo di aver esaurito l'argomento, perché non è umanamente possibile. Questi benedetti Genovesi hanno avuto sempre una maledetta abitudine: scrivere il meno possibile. Un po' per pigrizia, un po' per non lasciare tracce del proprio operato, un po' per non far sapere all'eventuale "concorrente" (il mondo per essi è costituito soltanto di "concorrenti" in affari) i fatti loro. È impresa improba per gli storici di professione ricostruire la loro singolare vicenda. Ma quando ci riescono scaturiscono piccole meraviglie, fatti incredibili, personaggi fuori del comune. In particolare, viene fuori una civiltà superiore, frutto d'una complessa e articolata costruzione intellettuale e culturale. Si tratta d una civiltà "moderna", certamente basata sull'assioma oggi diffuso "più mercato e meno Stato" che poggia sul ruolo preminente dell'individuo (ovviamente un soggetto dalla borsa ben fornita: "homo sine pecunia, quasi imago moris" un motto da non dimenticare mai), artefice della propria fortuna e della fortuna della propria famiglia.
Ecco il sancta sanctorum dei Genovesi: la famiglia, il clan, l'azienda che
riassume tutti questi fondamentali istituti, sempre strettamente connessi tra
loro. Qui valgono le scelte di "politica estera", le alleanze, i trapassi, le
eredità, le fortune che debbono resistere, consolidarsi e tramandarsi.
All'interno della famiglia-clan, perciò, se gli storici "veri" mi perdoneranno
l'ardito salto concettuale, non poteva che nascere ed evolversi una gastronomia
elaborata, fantasiosa, eclettica, molto meno "povera" di quanto comunemente si
creda. Altro che "dieta mediterranea", povero slogan inventato dai pubblicitari
per la gioia dei fabbricanti di pasta, degli inscatolatori di pelati, degli
oleari e dei rotocalchi femminili!
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