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| << | < | > | >> |Indice9 Prefazione Assessore 11 Introduzione Anna Montrosset 13 La Maison des anciens remèdes Un centro d'interpretazione sulle piante officinali e gli antichi rimedi 15 La Valle d'Aosta e le sue piante officinali, antica e nuova realtà per la cura del corpo e dell'anima e come promettente fonte di reddito Ugo Lini 25 La raccolta delle piante medicinali Marilisa Letey e Viviane Vicquéry 115 Le rappresentazioni della medicina e del corpo Christiane Dunoyer 125 Il secret in Valle d'Aosta Stefania Massai 134 Il rabeilleur e il corpo ripristinato Elisabetta Dall'Ò 145 A mali estremi, estremi rimedi Alexis Bétemps 197 Glossario dei termini botanici 200 Glossario delle preparazioni 202 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 15In questo mondo frenetico, basato più sul virtuale che sul reale, le persone, oramai stanche di passare la propria vita a rincorrere un qualcosa di non ben definito, ritornano alla terra e ai suoi ritmi, congeniali per il benessere psico-fisico di ogni individuo. Questo interesse crescente è dovuto ad un «ritorno alla terra» dettato da più motivazioni: la volontà di uno stile di vita diverso dall'attuale, più tranquillo e legato al normale e lento ritmo della natura. Non è un caso che la cura della terra, obbligandoci a rallentare, in alcuni casi è diventata una vera e propria terapia. Avere cura del proprio territorio, rispettarlo, è un po' come ritornare a casa dopo un lungo pellegrinare verso mete mai raggiunte, e ritrovare qualcuno che ci vuole bene e ci accoglie a braccia aperte. Il desiderio, sempre più diffuso, di ritornare ai rimedi «naturali» spinge un numero crescente di persone a riscoprire antichi rimedi della tradizione popolare. Oggi godiamo del vantaggio di disporre del grande patrimonio di conoscenze erboristiche accumulato nel corso dei secoli. Nella natura che ci circonda e, soprattutto, nelle nostre belle vallate, allo stato spontaneo oppure in vere e proprie coltivazioni, troviamo un gran numero di specie di piante che, una volta raccolte e sapientemente lavorate, danno vita a prodotti con positivi e garantiti effetti per il nostro corpo, che aiutano a mantenere, al meglio, le funzioni del nostro organismo. La Valle d'Aosta gode di un'eccellente tradizione nel settore dei rimedi tradizionali e erboristici. Tradizione che si è mantenuta non solo per via orale ma che ci è giunta, fortunatamente, anche attraverso opere scritte. Le erbe officinali hanno da sempre avuto un loro spazio negli orti famigliari, dove erano coltivate per il loro utilizzo terapeutico. Dopo gli anni Cinquanta l'avvento della medicina moderna ha eclissato per lungo tempo la pratica della medicina popolare basata essenzialmente sull'uso delle erbe. Nella nostra regione questa tradizione è sempre rimasta viva, pur restando per un discreto periodo di tempo nell'ombra, in silenzio. Il forte radicamento al territorio e alle tradizioni da parte delle popolazioni alpine, ha permesso che tutto questo sapere non sia andato perso, anzi, in questi ultimi tempi sta riconquistando i propri spazi. L'agricoltura di montagna è fortemente condizionata dalle difficoltà dell'ambiente e produrre costa enormemente di più rispetto alla pianura, ove buona parte delle operazioni sono meccanizzabili. La differenza nei costi si attenua, però, per le colture che richiedono molte ore di lavoro manuale. Per il mercato attuale non è sufficiente produrre bene, ma si deve anche saper presentare e valorizzare al meglio i propri prodotti. Per chi decide di puntare sull'elevata qualità dei prodotti offerti ci sono buone chance di non essere sopraffatti dalla concorrenza dei produttori di altri Paesi. Sono molti gli esperti del settore concordi nel ritenere che la scelta migliore per un piccolo produttore di piante officinali sia quella di dedicarsi alla coltivazione biologica, sempre più richiesta. Infatti, è la manodopera ad incidere più pesantemente di qualsiasi altra voce sui costi finali di produzione delle officinali; in casi simili, è bene fare della qualità il valore aggiunto della produzione. Vi sono anche delle ragioni intrinseche, cioè legate alle qualità fitochimiche delle piante coltivate in montagna. Le condizioni climatiche rudi stimolano, infatti, la pianta a produrre quantità sensibilmente superiori di composti d'interesse farmacologico. | << | < | > | >> |Pagina 25Verdi e ombrosi boschi, freschi sentieri che corrono lungo ruscelli, colorati pascoli d'altura non sono solo luoghi ideali per trascorrere lieti momenti di svago, ma possono rivelarsi preziosi scrigni dove trovare piante utili per l'uomo e per la sua salute. La natura fornisce ciò di cui l'uomo necessita: bene lo sapevano i nostri antenati che sapientemente raccoglievano e utilizzavano, prima a scopo alimentare e successivamente medicinale, foglie, fiori, frutti e radici. Tuttavia, se una volta sin da piccoli si imparava a riconoscere le piante utili, si apprendeva ad aspettare il momento opportuno per raccoglierle e sotto lo sguardo e la premura di mani più esperte si preparavano antichi rimedi, oggi questo bagaglio culturale è andato pressoché smarrito. Il rinnovato interesse per un mondo antico, per una cura di sé diversa, spinge l'uomo a ritornare sui propri passi e imparare ad osservare e pazientare. Non ci si può improvvisare raccoglitori di erbe: non è sufficiente leggere un libro, sfogliare fotografie della pianta che si sta cercando, per essere sicuri che proprio di quella si tratti. È bene, in particolare nei primi sopralluoghi, essere accompagnati da persone esperte: botanici, erboristi, accompagnatori della natura che assieme alle caratteristiche della pianta insegneranno a guardare l'ambiente circostante e comprenderne le dinamiche e gli equilibri. Sebbene molte piante appaiano di semplice riconoscimento è sempre bene confrontarsi ed utilizzare manuali botanici per una certa determinazione, al fine di non incorrere in pericolosi errori. Molte piante hanno caratteristiche morfologiche simili e si differenziano per pochi elementi, talvolta poco evidenti, che rappresentano l'unica differenza tra una pianta medicinale utile ed una pianta che invece può essere tossica per l'organismo: è il caso della genziana maggiore (Gentiana lutea L.) e del veratro (Ueratrum album L.) che, in assenza di fiori, si differenziano essenzialmente per la disposizione delle foglie lungo il fusto. Il raccoglitore di erbe deve sapere che esiste un tempo di raccolta, un momento in cui la pianta è maggiormente ricca di principi attivi e pertanto ne è auspicata la raccolta: tale momento è altresì definito tempo balsamico e varia a seconda della parte della pianta che si desidera utilizzare. [...] L'essiccazione e la conservazione Dopo la raccolta la parte di pianta che verrà utilizzata, altresì definita droga, deve essere essiccata nel più breve tempo possibile, a meno di non essere utilizzata fresca per tutti gli usi consentiti. L'essiccazione è un processo molto importante perché serve ad arrestare i processi fermentativi che si sviluppano naturalmente a causa del contenuto d'acqua. [...] Coltivare il proprio giardino di piante medicinali Gli orti dei monasteri hanno ospitato nel passato collezioni di piante medicinali provenienti da tutto il mondo: i giardini dei semplici sono stati vere e proprie farmacie a cielo aperto dove medici e speziali di epoche antiche imparavano dai monaci a curare con le piante disponibili. Anche ai giorni nostri è possibile costituire un piccolo personale giardino dei semplici, gioia per l'anima oltre che passatempo appassionante: la coltivazione consente di avere sempre a disposizione piante per prendersi cura di sé, senza paura di incorrere in errori di riconoscimento e determinazione. Le piante medicinali bene si adattano a formare bordure miste, colorare aiuole, riempire vasi e occupare parti dell'orto altrimenti inutilizzate. È buona norma osservare l'habitat naturale dove crescono le piante e successivamente riprodurlo nel proprio giardino: così il timo serpillo (Thymus serpyllum aggr.) sarà collocato in pieno sole, mentre l'imperatoria (Peucedanum ostruthium L. Koch) troverà posto in un luogo umido e in penombra. [...] | << | < | > | >> |Pagina 31ARNICANOME ITALIANO Arnica NOME LATINO Arnica montana L. FAMIGLIA Asteraceæ NOME FRANCESE Arnica des montagnes NOME INGLESE Arnica NOME PATOIS Arnica, tabac de montagne ETIMOLOGIA
L'epiteto generico
Arnica
deriva dal greco
ptarmikòs,
che significa «fa starnutire» ed è riconducibile alle proprietà aromatiche dei fiori e delle radici della
pianta. In particolare, nel passato le foglie erano essiccate, quindi sminuzzate
e utilizzate come polvere starnutatoria. L'epiteto specifico montana deriva dal latino
montanus,
ovvero dei monti, e specifica l'ambiente in cui la pianta cresce.
BOTANICA Pianta erbacea perenne Altezza pianta: fino a 50 cm L'arnica è una pianta con rizoma cilindrico, obliquo, di colore rosso-bruno scuro. Lo stelo è eretto, semplice o, più raramente, con 1-2 coppie di rami opposti nella parte apicale, interamente coperto da una fine peluria. Le foglie basali sono riunite in una caratteristica rosetta, hanno forma ovale o ellittico-allungata con margine talora dentato. La pagina superiore è più scura pubescente, mentre la pagina inferiore, più chiara, è pressoché glabra. Lungo lo stelo sono presenti 1-2 coppie di foglie più piccole, di forma lanceolata, opposte e sessili. I fiori di colore giallo-arancio sono riuniti in un unico grande capolino, oppure, molto raramente, possono trovarsi all'apice di ciascun ramo. La fioritura ha inizio nel mese di maggio ed è osservabile sino al mese di agosto alle quote più elevate. I frutti sono acheni bruno nerastri, rugosi, con pappo giallastro che ne favorisce la disseminazione. Habitat
Frequente nei pascoli magri, in particolare nei nardeti, nelle brughiere a
rododendri, nei prati magri o nei boschi di pino silvestre, da 1000 sino ad oltre
2600 m.
PARTI UTILIZZATE
[...]
RACCOLTA Infiorescenza: periodo estivo. Rizoma: periodo autunnale o periodo primaverile prima della ripresa vegetativa.
Attenzione: raccolta regolamentata, consentiti 200 g infiorescenze
ATTIVITÀ PRINCIPALI Uso esterno L'arnica possiede proprietà antiecchimotica, antinfiammatoria, cicatrizzante, revulsiva, risolvente nelle affezioni reumatiche. È utilizzata per ematomi, distorsioni, dolori muscolari e articolari (reumatismi); flogosi delle mucose orali e faringee; foruncolosi, punture di insetti.
Utile nel combattere la forfora con frizioni sul cuoio capelluto.
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI Utilizzare solo su cute integra e mai vicino agli occhi, alla bocca e ai genitali, su pelli delicate (in particolare quelle dei bambini piccoli) o escoriate, su ferite. L'uso interno è possibile solo dietro stretto controllo medico.
È sempre meglio seguire le indicazioni di specialisti, anche per l'uso esterno,
in quanto può provocare eritemi, arrossamenti, irritazioni, eruzioni cutanee,
in particolare se si utilizza il rizoma.
PREPARAZIONI Uso esterno Oleolita, decotto di rizoma, compresse, tintura.
Tintura:
far macerare 20 g di fiori in 80 g di alcol a 70° per 10 giorni.
Trascorso questo tempo si spreme bene e si cola. È utile diluita in 4-5 volumi di
acqua per impacchi e compresse, interrompendo la terapia al primo sintomo
di irritazione locale. A questa tintura possono essere addizionate acqua e
glicerina per applicazioni esterne (20 g tintura / 50 g glicerina / 60 g acqua).
Lo sai che L'arnica in Valle d'Aosta è da sempre utilizzata per contusioni, ematomi, fratture e in caso di artrosi o reumatismi. Si utilizza come macerato di fiori nella grappa, nell'alcol o nell'olio, ma la preparazione più diffusa è sicuramente l'estratto. Estratto d'arnica: porre i capolini d'arnica all'interno di un bottiglione o di un fiasco, possibilmente in vetro scuro. Sigillare accuratamente ed esporre al sole il contenitore capovolto. Trascorsi alcuni mesi, almeno 2, aprire con molta attenzione e filtrare l'estratto ottenuto. Le foglie secche erano usate come tabacco da fiuto, mescolate ad altre specie, contro la tosse stizzosa, i catarri e le bronchiti. Per questo motivo nella tradizione popolare è conosciuta come «tabacco di montagna». L'arnica è molto utilizzata in omeopatia. È il rimedio del trauma (shock, incidenti, fratture, emorragie, interventi chirurgici, parto), dell'affaticamento muscolare e nei disturbi capillari e venosi (varici, emorroidi). COLTIVAZIONE [...] Trapianto: periodo primaverile Durata della coltura 3-4 anni | << | < | > | >> |Pagina 35ASSENZIONOME ITALIANO Assenzio NOME LATINO Artemisia absinthium L. FAMIGLIA Asteraceæ NOME FRANCESE Absinthe NOME INGLESE Wormwood, Absinth NOME PATOIS Benefor, Ansin, Erba blantse ETIMOLOGIA L'epiteto generico Artemisia deriva dal greco artemés, ovvero sano, ed è collegato verosimilmente alle proprietà medicinali della pianta. Alcuni autori derivano tuttavia il nome da Artemide, dea della caccia, che utilizzava la pianta per la cura di alcuni disturbi all'apparato riproduttivo femminile. L'epiteto specifico absinthium deriva del greco absinthion, che significa privo di dolcezza; il sapore amaro è senza dubbio una delle caratteristiche della pianta.
[...]
ATTIVITÀ PRINCIPALI Uso interno È indicata nelle coliche digestive (coliti, meteorismo, ecc.), e in caso di alterazione della flora batterica intestinale (anche in seguito all'assunzione di antibiotici), per via della sua azione spasmolitica e carminativa. Utile nei casi di disturbi digestivi (date le proprietà aromatiche ed amaricanti). Grazie alle proprietà antinfiammatorie ed ulceroprotettive, è considerata preventiva e curativa in caso di ulcera e nelle infiammazioni acute o croniche della mucosa gastrointestinale. La tintura madre è indicata nei casi di cefalea e nell'eruzione dentaria dei bambini. Uso esterno Per le sue proprietà antalgiche, antinfiammatorie e cicatrizzanti è utilizzata per combattere: le affezioni della cavità orale, l'acne, l'ulcera varicosa, l'eczema, le ferite che cicatrizzano con difficoltà e le ragadi. Date le proprietà antimicrobiche, è utilizzata per preparazioni da utilizzare come lavande nelle infiammazioni delle mucose, soprattutto in quelle vaginali. [...] | << | < | > | >> |Pagina 53GINEPRONOME ITALIANO Ginepro comune NOME LATINO Juniperus communis L. FAMIGLIA Cupressaceæ NOME FRANCESE Genévrier commun, Genièvre NOME INGLESE Juniper NOME PATOIS Dzèn-èivro
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Lo sai che Nella tradizione valdostana lo dzenevrà era uno dei rimedi naturali più utilizzati e quasi ogni famiglia ne conservava un vasetto nella dispensa, per il momento del bisogno. Lo dzenevrà è utilizzato come diuretico, disinfettante delle vie urinarie, stomachico, antispasmodico. Può essere utilizzato puro o diluito in acqua o latte. Dzenevrà Raccogliere i frutti maturi e setacciarli per eliminare i frutti dell'anno (non ancora maturi) ed eventuali residui di foglie, lasciare a bagno in acqua per 24 ore, poi far cuocere finché la buccia dei frutti presenta delle piccole gobbe. Passare il tutto in un frantoio e raccogliere il succo che si ottiene, facendolo condensare a fuoco lento fino a quando assume una consistenza simile al miele. Versare in barattoli di vetro con chiusura ermetica e conservare in luogo fresco al riparo dalla luce [Denarier, 2006]. I rami più grossi del ginepro sono raccolti e lavorati per la realizzazione di bastoni da polenta. È accertato, infatti, che l'oleoresina contenuta al suo interno contribuisca a dare alla polenta un aroma particolare. I ramoscelli erano bruciati per la disinfezione delle case e delle stalle; agli inizi del secolo si pensava addirittura che questi fumi potessero essere utili contro la peste. Le coccole trovano impiego come aromatizzanti delle carni, soprattutto arrosti di cacciagione. L'uso più diffuso è sicuramente quello liquoristico per la preparazione di gin e altre acqueviti. COLTIVAZIONE [...] Trapianto: periodo autunnale Durata della coltura 10 anni | << | < | > | >> |Pagina 83ORTICANOME ITALIANO Ortica comune NOME LATINO Urtica dioica L. FAMIGLIA Urticaceæ NOME FRANCESE Grande Ortie, Ortie dioique NOME INGLESE Nettle, Common nettle NOME PATOIS Orti a, Ourti a, Ortsé ETIMOLOGIA L'epiteto generico Urtica deriva dal latino urere, ovvero bruciare ed è legato alla presenza sulla pianta di peli urticanti, contenenti liquido irritante. L'epiteto specifico dioica ha origine greca, di (due) e oikos (casa), ed indica la caratteristica della pianta di possedere fiori maschili e femminili su individui diversi.
[...]
Lo sai che Nel passato era comune eseguire urticazioni con piante fresche per curare reumatismi, amenorrea e affezioni dell'apparato respiratorio. Le giovani foglie sono utilizzate per la preparazione di minestre, torte salate, gnocchi e frittate. Nel Medioevo la pianta era utilizzata a scopo tessile: dai fusti si ottenevano lunghe fibre, molto resistenti. Nel linguaggio dei fiori l'ortica simboleggia la crudeltà: regalare un'ortica significa «la tua perfidia mi ferisce». La pianta era impiegata nella dieta dei galliformi, in particolare delle galline per aumentare la produzione di uova e prevenire parassitosi. Dalle foglie poste a macerare in acqua per alcuni giorni insieme a foglie di tabacco, si ottiene un efficace insetticida, utilizzato in particolare contro gli afidi delle piante da frutto. | << | < | > | >> |Pagina 95SAMBUCONOME ITALIANO Sambuco NOME LATINO Sambucus nigra L. FAMIGLIA Caprifoliaceæ NOME FRANCESE Sureau noir NOME INGLESE Elder, Common Elder NOME PATOIS Savis, Chouaou, Chaou, Sai, Saou, Sambus
[...]
Lo sai che Il sambuco è una pianta molto utilizzata in pasticceria per la preparazione di dolci e frittelle e in liquoreria, dov'è utilizzata per la produzione di bevande aromatizzate e liquori. Bevanda ai fiori di sambuco Raccogliere sei belle infiorescenze di sambuco, porle in 3 litri di acqua addizionati dal succo di 6 limoni. Aggiungere quindi 500 g di zucchero e lasciare riposare per un paio di ore al fresco. Filtrare e imbottigliare, quindi al sole per circa una settimana. Filtrare nuovamente e conservare in frigorifero (consumare in breve tempo). Servire diluendo in acqua lo sciroppo ottenuto: sarà un'ottima bevanda rinfrescante nelle calde giornate estive. Nella tradizione il sambuco era piantato vicino alle abitazioni: si credeva che la pianta fosse in grado di allontanare le serpi. È considerata una pianta tintoria, in particolare i suoi frutti creano un colore blu-violetto. | << | < | > | >> |Pagina 115La medicina popolare, che è attualmente oggetto di una rivitalizzazione, insieme a molte altre pratiche dette tradizionali, è sottoposta a un duplice sguardo, uno più indulgente e tollerante, l'altro molto più sospettoso, a seconda che la si consideri sotto l'aspetto della pratica culturale, da valorizzare, da salvaguardare, da patrimonializzare, come un bene collettivo immateriale, heritage, secondo l'attuale accezione inglese, fondatore di un'identità collettiva, o che la si consideri sotto l'aspetto della pratica terapeutica, mostrando allora apparentemente tutti i suoi limiti rispetto alle pratiche basate su un approccio scientifico alla natura, ma bisognerebbe anche intendersi sulle sfide messe in campo da questi due sistemi curativi. Le sfide, in effetti. Curare prima che la malattia si manifesti o per contrastarne gli effetti? Guarire quel che non è ancora malato o che è già malato? Curare la parte malata o tutto il corpo? Far passare il dolore o guarire il male? Innalzare il corpo verso un grado di salute sempre più alto o combattere una malattia? Lavorare per il futuro o per l'eternità?
Medicina dotta e medicina popolare s'intrecciano nelle nostre contrade col
susseguirsi delle generazioni, senza che la scelta di ricorrere a volte al guaritore
a volte al medico sia giudicata incompatibile. Medicina dotta e medicina
popolare sono separate da due concezioni del tempo: questa è iscritta in un
tempo immutabile, basato sull'eterno ritorno delle origini, a ogni nascita,
quella è iscritta in un tempo lineare, dove ogni avvenimento è unico e non si
ripete mai, basato sulla necessità dell'idea di progresso.
Le tre vie della terapia sono già tracciate nell' Avesta, il grande testo sacro del terzo millennio antecedente la nostra era: col coltello, con le cure mediche e con la parola magica, vale a dire con la chirurgia, la farmacopea e il soprannaturale. Certe civiltà antiche avevano un apparato tecnologico che permetteva l'esercizio della chirurgia, poiché esiste una relazione molto stretta tra il progresso della chirurgia e il raggiungimento di un certo grado di sviluppo tecnologico: l'arsenale di un grande chirurgo riflette generalmente la più alta maestria tecnica della sua epoca ed anche lo stato esatto delle conoscenze mediche. I Celti, per esempio, curavano con i sortilegi e facendo ricorso alle piante. Ma molto rapidamente si ritrovano su tutto l'Impero romano gli stessi oggetti, e la concordanza tecnologica assicura l'identità delle conoscenze: se le conoscenze razionali si diffondono facilmente e possono essere condivise, l'accesso al soprannaturale, invece, pone molti più problemi. Ma che cos'è una credenza? La nozione di soprannaturale non è universale, si è imposta nella civiltà occidentale contemporaneamente al concetto di scienze naturali. Al dominio della natura, osservabile con i metodi scientifici, si contrapporrebbe quello dell'immaginario, dei miti e delle superstizioni. Da allora, l'Occidente prova una certa difficoltà ad affrontare la parte irrazionale dell'uomo. Ci arriva grazie all'opera degli artisti, a qualche filosofo, alla psicanalisi e alle altre forme di razionalità proposte dall'antropologia. Ma intorno a noi esistono ancora numerose vestigia di quell'antica tradizione all'interno della quale la medicina popolare gioca certamente un ruolo importante. Guardarla dall'alto in basso come una piacevole tradizione di famiglia, credendo ancora alla menzogna della superiorità del pensiero occidentale razionale non costituisce forse l'approccio più costruttivo al problema, tanto più che l'antropologia è inconciliabile con l'eurocentrismo: «nell'antropologia prerelativista, gli Occidentali si rappresentavano come superiori a tutti gli altri popoli. Il relativismo ha sostituito questa detestabile barriera gerarchica con un'apartheid cognitiva: se non possiamo essere superiori in uno stesso universo, ogni popolo viva nel suo universo proprio. (...) Proteggono in questo modo il sentimento della propria identità» (Sperber, 1982: 83). In realtà, esistono almeno due modi di credere. Credere a ciò che si vede, si sente, si tocca e si prova, sulla base di un sentire comune, di una condivisione di conoscenze empiriche ammesse dall'insieme della società, ma anche credere a ciò che si sa perché è stato oggetto di uno studio portato avanti con una metodologia scientifica, perché è stato dimostrato dalla logica. Tutto questo rientra nella categoria delle credenze fattuali. Esiste tuttavia un'altra categoria di credenze, le credenze di rappresentazione: sono credenze culturali, «rappresentazioni acquisite per mezzo della comunicazione sociale e accettate in funzione dell'affiliazione sociale» (Sperber, 1982: 78). Si tratta di credenze apparentemente irrazionali il cui contenuto è semi-proposizionale, vale a dire che è verbalizzato solo a metà. In alcuni casi, ciò che non è svelato è presentato come una lacuna dovuta a una dimenticanza progressiva dei contenuti della credenza, sono gli indigeni stessi a dirlo; più sovente il carattere semi-proposizionale è riconosciuto implicitamente: «considerare che la buona interpretazione delle credenze sia un segreto perduto, un segreto da scoprire, o entrambe le cose, significa distinguere la credenza dalla sua interpretazione» (Sperber, 1982: 79). Credere, è accogliere la parola e i fatti, è condividere. Tra le credenze, prendiamo qui in considerazione la credenza nella preghiera, che è un rimedio, mai un semplice discorso. La preghiera è talvolta associata alla scrittura, che è un compito corporale in una società dell'oralità che concepisce il lavoro come attività fisica, e talora anche a un oggetto, il foglio di carta scritto, che diviene un vero e proprio oggetto magico dotato di un potere di guarigione. Le pratiche devozionali rientrano in questa categoria: si tratta dell'utilizzazione della preghiera e a volte della preghiera collettiva per fare il bene. Il secret è un altro esempio di credenza avente fini terapeutici. «Ci sono ancora persone che hanno il potere di fare sparire le verruche da un giorno all'altro senza farvi trangugiare niente e senza metterci sopra niente» (Concours Cerlogne, 1983, Scuola primaria di Hône, classe 2a).
Pensiamo anche al valore di protezione dalle malattie e dai serpenti esercitato
dalla mela infilata nel ramo benedetto il giorno delle Palme che i bambini
mangiavano il mattino di Pasqua.
Al contrario, quando la medicina dotta contemporanea prende in considerazione le erbe, questo non può essere inteso come un punto di ravvicinamento tra le due medicine. Sussiste una differenza di fondo nel ruolo attribuito alle erbe dalla medicina dotta, che non ha niente a che vedere con il ruolo attribuito alle erbe nella medicina popolare, poiché se si dissocia l'utilizzo delle erbe come sostanza dal loro aspetto simbolico ci si trova di fronte a un approccio completamente diverso. Uno s'interessa esclusivamente al principio attivo, l'altro prende la pianta come parte dell'universo condiviso con la persona malata che a sua volta fa parte di una comunità umana. Pur affermando che si tratta di due concezioni opposte, è importante ricordare che le relazioni tra medicina popolare e medicina dotta sono numerose, poiché sarebbe erroneo affermare che la medicina popolare è costituita da un insieme di saperi e di pratiche che si sono evolute in completo isolamento, senza apporti esterni, o peggio ancora uno spazio cognitivo fossilizzato che propone all'infinito le stesse soluzioni in modo immutabile. In effetti, la medicina popolare integra ad ogni generazione apporti nuovi, e si evolve altrettanto rapidamente, talora probabilmente più rapidamente della medicina dotta. Inoltre, c'è un pericolo ancora più subdolo che si nasconde nella tentazione di confrontare il sapere empirico al sapere costituito dalla scienza contemporanea, poiché ciò induce a pensare che il primo non abbia senso se non perché precede il secondo, e che il suo solo interesse sia nell'anticipare il secondo. In realtà si tratta di due modi molto diversi di concepire il corpo, la malattia, la vita, la morte e la relazione dell'uomo con l'universo. I saperi empirici appaiono disparati a un primo sguardo, ma se si riesce ad andare al di là della loro frammentazione quando sono presi in modo isolato, si potranno decriptare i sistemi simbolici che li governano e scorgere un'unità profonda che lega l'umano al cosmo e tutti questi saperi tra di loro. Letti in maniera corretta, riacquistano la loro unità d'origine in quanto sistemi interpretativi dotati di una finalità pratica.
La medicina però non è solo una concezione disincarnata, è strettamente
legata alla rappresentazione della figura del medico e del guaritore empirico.
La comunità medica è sovente percepita con molta diffidenza. Prodigare
cure a un malato rientra in una sfera molto delicata che ha a che fare con il
mutuo soccorso, con la carità: introdurre un compenso pecuniario all'interno
di questa logica ha come prima conseguenza che chi è pagato per curare
è escluso dalla comunità e che questo essere lontano dal medico lo pone
in una posizione di rispetto per quanto riguarda la pratica della medicina,
ma allo stesso tempo non lo mette al riparo dal sospetto che eserciti la sua
professione allo scopo di arricchirsi senza necessariamente avere a cuore la
salute del malato. Un'altra fonte di diffidenza è dovuta alla reticenza ad affidarsi
alle cure di un individuo che vanta conoscenze teoriche in seno ad una
società che fa del lavoro manuale il pilastro di tutta la sua organizzazione.
Nel 1371 in Francia un'ordinanza del re Carlo V riconosce l'anzianità della
professione medica: i chirurghi erano allora divisi in due categorie, quelli che
portavano l'abito lungo e quelli che portavano l'abito corto, gli uni parlavano
latino, gli altri praticavano e affrontavano la complessità del corpo.
La rappresentazione del corpo è centrale in ogni operazione che riguardi la comprensione del ruolo della medicina in una società qualsiasi. La morte è al centro delle relazioni uomo-corpo, sempre presente nonostante i progressi della medicina: una volta si sapeva che era vicina, ora si tenta di respingerla, ci si illude di allontanarla e di premunirsi contro la sua improvvisa irruzione, ma lei è sempre là. Nella nostra società moderna, si cerca di separare la vita dalla morte; nella società tradizionale, la si integrava a tutte le manifestazioni della vita: «fragilità e pienezza del corpo vanno di pari passo, e l'una è forse il prezzo molto pesante dell'altra» (F. Loux, 1979: 11). Per esempio, la nascita di un bambino costituiva un motivo d'inquietudine molto forte, a causa dello spettro della morte: neppure all'apice della gioia ci si può liberare dal suo pensiero recondito. La paura della morte e della malattia è alla base di molte proibizioni e di numerose prescrizioni. La vulnerabilità del corpo è sentita in modo molto acuto in una società che concepisce la salute come condizione indispensabile per il lavoro e quindi per la sopravvivenza dell'individuo e delle persone che da lui dipendono. Nel mondo rurale, il corpo è un bene, il primo attrezzo da lavoro, qualcosa di prezioso da educare e da preservare: il corpo è un valore, anche se le costrizioni di un lavoro spesso massacrante non escludono lo sfruttamento fisico e la sofferenza.
La nozione di dolore è al cuore di una tale rappresentazione del corpo: si
deve imparare a dominare il dolore e a resistere alla fatica, perché l'uomo è
sottomesso al senso del dovere. In una società basata sullo sforzo fisico e
sull'esibizione della forza, la sopportazione è una virtù. Anche la malattia
rappresenta una prova, l'occasione di acquistare valore sopportando il male.
In quest'ottica, la pratica della cura che passa dal dolore acquisisce tutto un
altro significato: solo coloro che sanno passare attraverso la prova del dolore
potranno raggiungere il bene, una prova di forza, prima che una forma di
espiazione.
Sarebbe anche erroneo interpretare l'assenza di discorso intorno al corpo come un'assenza di presa di coscienza corporale. Al contrario, il corpo, in quanto luogo del pudore e del tabù, è fatto oggetto di una ricchissima simbolizzazione, per esprimere ciò che non si vuole e non si può dire esplicitamente. La società tradizionale si caratterizza per una profonda unità del corpo, che è il supporto di ogni simbolizzazione e il pilastro di tutte le attività nel corso di una vita: i gesti del lavoro non sono puramente tecnici ma si riferiscono alla totalità dell'essere umano. Si lavora con le mani, con gli occhi, con tutto il corpo. Così anche l'apprendimento ritrova il proprio senso in una presa di coscienza dell'unità corporale nella globalità della relazione dell'uomo con l'universo: non si tratta mai di un insegnamento che ha per oggetto dei gesti fine a se stessi o dei saperi limitati al campo d'azione dell'apprendimento in questione, ma sempre di un insegnamento che prende in carico la totalità dell'uomo. È il contrario di quel che conosciamo oggi, quando viviamo in un corpo scisso di cui non troviamo più l'unità. Strumento della festa, luogo di tutti gli eccessi, il corpo è percepito come un bene per il fatto che connette l'essere alla dimensione del piacere, nel rispetto della natura, in quanto l'uomo fa parte non solo della società umana, ma anche del mondo naturale. Nella cultura popolare, il corpo è percepito come una passerella tra la natura e la cultura, contrariamente a quanto avviene nell'educazione borghese, che stabilisce una chiara opposizione tra queste due istanze: poiché il corpo trascina l'uomo verso l'animalità, bisogna diffidarne, occorre imparare a resistergli, bisogna dominarlo, punirlo. Da qui tutta l'etica del corpo: nei manuali di buone maniere si parla di modestia, una nozione apparentemente simile a quella di moderazione, ma in realtà molto diversa. La modestia consiste nel fare tacere tutte le manifestazioni del corpo, cancellando tutto quello che rinvia alla natura. La moderazione consiste nel richiamare le manifestazioni del corpo che lo fanno corrispondere al movimento dell'universo. Nella cultura borghese, la persona educata è molto distante dal plebeo, sempre assimilato al mondo animale e più in generale allo spazio naturale. In virtù dell'educazione religiosa, le campagne non sono impermeabili a questo tipo d'insegnamento, il che crea una certa ambivalenza verso il corpo nella società tradizionale, che non di meno è più orientata verso la ricerca di un equilibrio tra la natura e la cultura, che verso una rottura netta con la natura: quando la cultura popolare predica la sobrietà e la modestia, non lo fa riferendosi alla religione, ma per richiamare l'importanza del lavoro. [...] | << | < | > | >> |Pagina 145Vivere con i santi La religione, cattolica in primo luogo, è profondamente radicata in Valle d'Aosta. Oggi è in difficoltà come un po' dovunque in Europa, ma ha accompagnato dalla culla alla tomba, per secoli, le nostre popolazioni di montagna. Si trattava di una fede semplice, fatta di insegnamenti morali e di rituali sperimentati, assicurati da un clero di estrazione popolare, sempre molto vicino ai suoi parrocchiani. La superstizione, nelle sue forme più grossolane, era stata estirpata, ma i riti conservavano talora antichi residui, ultime tracce di credenze e di pratiche obsolete. La Chiesa, saggiamente, volente o nolente, aveva accolto questi ambigui retaggi e li aveva reinterpretati e coperti di una patina di cristianesimo. Questo procedimento è ben noto e non costituisce affatto una prerogativa valdostana. La devozione ai santi era particolarmente diffusa e incoraggiata dalla gerarchia ecclesiastica. Così, quando la natura non poteva fornire i rimedi necessari, quando i saperi umani diventavano inefficaci di fronte alla malattia, sia essa dell'uomo, dell'animale o della natura, non rimaneva che votarsi ai santi, come ultima risorsa. La modestia e il rispetto facevano sì che si evitasse, in genere, di disturbare il Buon Dio in prima persona per ottenere la guarigione. Si ricorre a Dio per cose ben più importanti! Il suo intervento, certo, era sempre apprezzato, ma si preferiva sollecitarlo con l'intercessione di una folla di santi dai poteri vari. Si tratta in genere di santi per lo più poco noti o, in caso contrario, che possiedono per noi attributi diversi da quelli riconosciuti dalla Chiesa ufficiale. Da noi, come già detto, si evitava il ricorso diretto all'Onnipotente. Per timidezza? Per rispetto? O, più semplicemente, per una sorta di diffidenza verso i potenti? Anche Notre-Dame-de-Tout-Pouvoir, che pure può contare su numerose cappelle sparse un po' dovunque in Valle, non era sempre la sola titolare del luogo sacro, che divideva sovente con altri santi meno illustri, ma dai poteri più precisi.
Per la guarigione da una malattia, si potevano invocare santi diversi e lo
stesso santo poteva risolvere diversi problemi di salute, poiché i suoi poteri
erano vari. La scelta del santo che fungeva da intermediario da parte del
fedele poteva essere di tipo personale, familiare o suggerito da una devozione
più estesa, condivisa dalla comunità parrocchiale o diocesana. Il rituale
d'intercessione era generalmente sobrio, e, in ogni caso, tollerato, persino
riconosciuto e assimilato dal culto locale. Alcune pratiche simboliche,
persino esoteriche, estranee ai dogmi della religione dominante, erano tuttavia
sopravvissute alle requisitorie appassionate dei parroci, ma erano relativamente
poco numerose. Per questo motivo sono diventate rare, negate
pubblicamente dagli adepti e sempre più difficilmente documentabili.
Guarire gli uomini Il primo pensiero, dopo quello della salvezza dell'anima, per i Valdostani, come per qualsiasi altra popolazione dell'epoca, di montagna o di pianura, era quello della salute fisica. I medici erano rari, costosi e concentrati in città o nei borghi. Così, la comunità aveva sviluppato delle conoscenze para-scientifiche condivise per fronteggiare i principali sintomi. La farmacopea popolare si basava essenzialmente, ma non esclusivamente, sull'utilizzazione delle piante. La loro conoscenza, benché generalizzata, era appannaggio delle donne, principalmente. Tutte le brave massaie sapevano servirsi dei principali rimedi, ma quando la situazione tardava a risolversi, si faceva ricorso, in ultima istanza, ai médicón, persone che avevano approfondito la conoscenza tradizionale delle erbe e dell'anatomia, agli aggiustaossa per le slogature ed ai guaritori, sovente donne, detentrici del secret. I secret sono numerosi e molto specifici. Ogni guaritore può possederne parecchi, ricevuti anche da persone diverse. Il rituale è segreto, ma, secondo numerose testimonianze e alcuni rari documenti scritti, sappiamo che si tratta essenzialmente di preghiere del tutto cattoliche rivolte a Dio e soprattutto ai santi. In pratica, i guaritori sono gli intermediari tra gli uomini e i santi che, a loro volta, fungono da intermediari tra Dio e gli uomini. L'uomo comune poteva anche affidarsi direttamente ai santi, senza passare per i guaritori. Questo avveniva con preghiere, processioni, voti e offerte, generalmente benedette, con il consenso, pertanto, e l'autorizzazione dell'istituzione religiosa. Se era necessario, non si risparmiavano gli interventi per garantire il risultato: quando le conoscenze familiari erano insufficienti, si faceva ricorso, nell'ordine, ai médicón, ai guaritori o agli aggiusta ossa, alla medicina ufficiale se possibile, e, infine, al potere dei santi... I santi generalisti Per guarire, ci sono santi che si potrebbero definire generalisti, perché possono essere invocati per qualsiasi male in generale. Essere generalista non esclude però la specializzazione e un santo generalista può anche essere specialista. Nel caso valdostano, generalista per eccellenza è la Santa Vergine in tutte le sue denominazioni: Notre-Dame-de-Tout-Pouvoir a Plout, Notre-Dame-de-la-Garde a Perloz, Notre-Dame-de-Guérison a Courmayeur, la Madonna del Carmine a Bionaz, Notre-Dame-de-Pitié a Pont-Suaz di Charvensod, la Consolata ad Aosta, ecc. Il culto mariano era particolarmente diffuso in Valle d'Aosta e la madre del Cristo era anche chiamata, in un canto molto popolare, «la regina immacolata del popolo valdostano». Con la Santa Vergine, c'erano santi locali importanti come san Grato, uno dei primi vescovi nel V secolo, patrono della diocesi di Aosta, venerato anche nella Savoia, in Piemonte e nell'antica contea di Nizza dove era invocato, tra l'altro, contro il caïroun degli ulivi; come san Besso, compatrono della diocesi di Ivrea, venerato essenzialmente in Piemonte, nel Canavese e, in Valle d'Aosta, esclusivamente nella valle di Cogne; come sant'Orso, valdostano sotto tutti gli aspetti, che s'invocava contro le inondazioni e che era proprietario, tra l'altro, di una vigna miracolosa il cui vino guariva tutti i mali.. . L'idea di curarsi con il vino che è un buon vasodilatatore non è del tutto estranea alla medicina ufficiale! | << | < | |