Copertina
Autore Andro Linklater
Titolo Misurare l'America
SottotitoloCome gli Stati Uniti d'America sono stati colonizzati, misurati e venduti
EdizioneGarzanti, Milano, 2004, Collezione storica , pag. 336, cop.ril.sov., dim. 145x220x31 mm , Isbn 978-88-11-73900-5
OriginaleMeasuring America [2002]
TraduttoreFabio Paracchini
LettoreCorrado Leonardo, 2004
Classe storia: America , storia della tecnica , paesi: USA
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Indice

    Ringraziamenti                            9
    Carte                                    12

    Introduzione                             17

 1. L'invenzione della proprietà             21
 2. Una confusione precisa                   35
 3. Fame di terra                            45
 4. Vita, libertà e cosa?                    63
 5. Semplice aritmetica                      79
 6. Una linea nella wilderness               91
 7. La dimensione francese                  107
 8. Decimali democratici                    121
 9. L'oncia di Annie                        141
10. La nascita del sistema metrico          151
11. La fortuna di Dombey                    165
12. La fine di Rufus                        175
13. La griglia immacolata                   193
14. La forma delle città                    211
15. La passione di Hassler                  221
16. I depredati                             241
17. Il limite dell'enclosure                257
18. Quattro contro dieci                    277
19. Il trionfo del sistema metrico          291
    Epilogo L'albero testimone              305


    Glossario delle unità di misura         311
    Bibliografia                            315
    Indice analitico                        321
 

 

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Pagina 17

Introduzione



In qualsiasi nazione con una storia industriale ci sono cittadine come East Liverpool, in Ohio. Sono state costruite vicino ai giacimenti di carbone che davano loro energia e sulle rive di grandi fiumi che portavano lontano i loro prodotti pesanti. Il Clyde in Scozia, il Tees in Inghilterra, la Ruhr in Germania: in tutte queste zone possenti strutture di ferro e acciaio sono state fuse, forgiate e temprate per costruire lo scheletro della prima società moderna, e le cittadine sono diventate ricche e fiduciose in una nebbia grigia di fumi, vapori e scarichi. Oggi i loro colori sono il ruggine del ferro e il rosso sbiadito dei mattoni, l'aria è pulita, il clima incerto e nelle strade malconce la rinascita si contrappone alla noia e alle droghe.

La materia che rese ricca East Liverpool fu l'argilla. Il carbone della Pennsylvania alimentava le fornaci e sul fiume Ohio viaggiava una quantità di piatti e tazze tale da permettere agli abitanti del luogo di vantarsi del fatto che East Liverpool era «la capitale mondiale delle stoviglie». Una volta dozzine di fabbriche e laboratori chimici costeggiavano le rive del fiume, ma oggi l'unica costruzione rimasta a ricordare il passato industriale di East Liverpool è una ciminiera solitaria che scarica in cielo dense spirali di fumo. Le chiatte risalgono ancora il fiume Ohio per trasportare minerali e fertilizzanti, ma questi prodotti sono perlopiù destinati alla vicina area di Pittsburgh, sull'altro lato del fiume. Vengono scaricate in depositi come quello di proprietà della S.H. Bell Company, i cui magazzini e moli di cemento smistano ogni anno migliaia di tonnellate di acciaio e rame all'estremità più a monte della cittadina.

Non sarebbe facile trovare un posto più anonimo di questo. Sopra i moli della Bell Company, la Route 68 della Pennsylvania si trasforma silenziosamente nella Route 38 dell'Ohio e gli alberi nascondono i cartelli posti ai bordi della strada. Anche una persona che sia a conoscenza del significato storico di questo luogo, che abbia percorso diverse centinaia di chilometri per trovarlo e che rotei freneticamente lo sguardo dalla strada al confine indefinito che la separa dal fiume, anche questa persona, prima di accorgersene, potrebbe superare di un centinaio di metri il punto che sta cercando.

Il linguaggio dei segnali fa sfoggio di un understatement altrettanto radicale. Una targa di pietra intitolata «The Point of Beginning» (Il Punto d'inizio) recita: «1112 piedi a sud di questo luogo si trovava il Punto d'inizio della misurazione delle terre pubbliche degli Stati Uniti. Lì, il 30 settembre 1785, Thomas Hutchins, primo geografo degli Stati Uniti, diede inizio alla Linea del geografo delle Seven Ranges».

Non vi è nient'altro a suggerire che qui gli Stati Uniti iniziarono a prendere forma fisica, nulla che indichi come a partire da qui venne tracciata sul territorio una griglia che sarebbe giunta a ovest all'oceano Pacifico, a nord al Canada e a sud al confine con il Messico, che avrebbe coperto più di tre milioni di miglia quadrate, avrebbe creato una struttura di proprietà terriera unica nella storia, avrebbe fornito la ragnatela invisibile che sta alla base della leggenda della frontiera, con i suoi carri e i suoi cowboy, i suoi agricoltori e i suoi cercatori d'oro, e avrebbe insidiosamente permeato l'inconscio collettivo di ogni americano che abbia mai posseduto anche una sola iarda quadrata di terra.

È una terra collinare, coperta dalle stesse querce, dalla stessa sanguinella e dagli stessi noci americani visti da Hutchins, e nella luce brillante di un pomeriggio di settembre il fiume lì sotto è percorso da onde color cremisi e rame. «Per la distanza di 46 catene (chains) e 86 anelli (links) in direzione ovest» scriveva Hutchins nella sua prima descrizione del territorio, «il Territorio è considerevolmente ricco, con un Terriccio profondo e nero, libero da Pietra.» Era una sorta di Robinson Crusoe sbarcato in una wilderness mai mappata e il suo obiettivo era qualcosa che si avvicinava molto alla magia: misurare, mappare e trasformare quel territorio in una proprietà. I delaware vi avevano vissuto, i miami vi erano passati, gli irochesi l'avevano occupata, ma nessuno l'aveva mai posseduta. Nessuno aveva mai pensato a possederla. L'idea che una persona potesse possedere della terra non esisteva nemmeno sulla riva sinistra dell'Ohio.

La bacchetta magica che avrebbe reso possibile tutto questo era presente già nella prima frase del resoconto di Hutchins. La terra sarebbe stata misurata in catene e anelli. Nella maggior parte dei casi una catena imprigiona: qui liberò. Ciò che liberò da quella terra ondosa e mai mappata fu un unico elemento: una distanza di 22 iarde. Era la lunghezza della catena. Ripetuta, sommata, elevata al quadrato e moltiplicata, quella misurazione conferì alla terra un valore che poteva essere calcolato in termini economici.

Ciò che iniziò sulle sponde del fiume Ohio non fu solo una misurazione topografica. Il vero significato del punto oggi ricoperto dal molo di cemento della Bell Company è che proprio qui l'idea più potente della storia economica - l'idea che la terra potesse essere posseduta, come un cavallo o una casa - venne per la prima volta liberata nella wilderness occidentale e incoraggiata a diffondersi attraverso il territorio degli Stati Uniti d'America. Ma nella sua poesia Il dono totale (The Gift Outright) Robert Frost colse un pensiero ancora più potente. La terra ha una sua magia e coloro che cercano di possederla corrono il rischio di esserne posseduti. Fu il desiderio di possedere questa terra, rifletteva Frost, che rese i suoi proprietari degli americani.

Erano queste le grandi forze che il capitano Thomas Hutchins, geografo degli Stati Uniti, mise in moto quando per la prima volta srotolò la sua catena nel Punto d'inizio.

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Pagina 21

1.
L'invenzione della proprietà



L'imponente biblioteca della Royal Institution of Chartered Surveyors (RISC) di Londra si trova in una posizione strategica. Da un lato, le sue alte finestre danno sulla strada che porta a Whitehall, dove i regnanti Tudor e Stuart governarono nel XVI e XVII secolo. Dall'altro si affacciano su Parliament Square, verso la Camera dei comuni, centro di potere della classe in ascesa della piccola nobiltà terriera che nel corso di quei due secoli sfidò l'autorità reale. Oggi non è facile immaginare l'atmosfera di sostenuta indignazione e di diffusa apprensione che accompagnò quella lotta, ma nei piccoli volumi vecchi di 450 anni e rilegati in pelle, conservati nella biblioteca della RISC, la realtà che diede luogo a quelle battaglie resta perfettamente in vita.

Nei volumi più antichi, come The Art of Husbandry di mastro Fitzherbert, pubblicato nel 1523, un topografo riveste ancora il suo originario ruolo feudale quale impiegato esecutivo di un nobile terriero. Il suo dovere è semplicemente quello di supervisionare (il sostantivo inglese per topografo, surveyor, deriva dal francese sur, sopra, e voir, vedere) la proprietà. Deve camminare sui terreni, annotare «le poggiature e i confini» dei poderi dei vassalli e fornire assistenza nella definizione dei registri ufficiali o degli archivi di corte in cui si determina quali servigi sono dovuti. Un tipico resoconto, suggerisce Fitzherbert, avrebbe potuto essere più o meno così: la terra di un dato vassallo «si estende tra il mulino a settentrione e il Campo Meridionale a meridione, poggia contro la pubblica via e consta di XII pertiche e X piedi in larghezza lungo la strada e IX pertiche in lunghezza e paga un tributo ... di due galline a Natale e due capponi a Pasqua».

«Poggiare contro» qualcosa significava confinarvi; l'espressione alternativa era «incontrare». Il metodo topografico antico, che identificava i confini di una proprietà dai punti in cui questa incontrava altri confini o oggetti visibili, divenne così noto come «limiti e confini». Con questo nome avrebbe attraversato l'Atlantico per giungere nelle colonie della Virginia e della Carolina e di lì nel Tennessee e nel Kentucky, con grande confusione dei proprietari terrieri e altrettanto grande guadagno per gli avvocati.

Già nel 1523 i latifondisti inglesi erano impegnati in una pratica che avrebbe trasformato l'ordine feudale. Del feudalesimo esistevano infinite varianti, ma alla base di tutte queste vi era il principio secondo cui la terra era lo stato e solo il capo dello stato poteva possederla di diritto. Duchi e baroni, i primi vassalli del re, tecnicamente ricevevano in consegna grandi appezzamenti di terreno della corona in cambio di pagamenti in beni o in servigi; i loro vassalli ricevevano in consegna le proprie fattorie dalla grande nobiltà in cambio di affitti o servigi; e così via fino ai villani, che non disponevano di terra ma pagavano in beni, servigi o denaro per avere il diritto di lavorarla. Il principio feudale venne applicato anche alle colonie americane, che fossero state fondate da imprese commerciali, come la Virginia Company, o da singoli proprietari, come William Penn. Tutti i documenti che autorizzavano la fondazione di una colonia (dalla Virginia nel 1606 alla Georgia nel 1732) dichiaravano che la terra era considerata come appartenente al re «al pari della sua tenuta di East Greenwiche nella conte a del Kent, in soccage libero e comune», un termine che di fatto imponeva ben pochi obblighi ma riconosceva la struttura feudale che governava il possesso terriero su entrambe le sponde dell'Atlantico. Ciò che i manuali del XVI secolo inavvertitamente rivelano quando descrivono nel dettaglio i doveri di un topografo, è come quell'ordine venisse sovvertito dall'interno.

Con il vecchio sistema, i vassalli coltivavano strette strisce di terra, spesso separate da ampi spazi in modo che i terreni buoni e quelli poveri fossero distribuiti equamente tra chi li lavorava. Per secoli chi utilizzava la terra cercò di consolidare queste strisce in un unico campo compatto che potesse essere «chiuso» da una staccionata o da una siepe in modo che le coltivazioni non venissero calpestate e il bestiame non si disperdesse. Era però sopraggiunto un periodo di inflazione selvaggia e agli inizi del XVI secolo tutti i lord e i vassalli cercavano di trarre il massimo profitto dalla terra. Fitzherbert sottolinea ripetutamente come il topografo dovesse comprendere che la terra recintata avesse un valore superiore alle strisce e ai pascoli comuni, perché poteva essere resa più produttiva. La spinta al cambiamento è evidente, ma i vecchi valori si trovano sostanzialmente ancora al proprio posto.

Poi nel 1534 viene pubblicato The Boke Named the Governour di sir Thomas Elyot, che forniva consigli ai «governanti» - tanto di regni quanto di proprietà terriere - su come gestire i propri «domini». Un primo passo fondamentale, secondo Elyot, consiste nel tracciare una mappa o una «raffigurazione» della proprietà, cosicché il governante sappia in che cosa questa consiste. Per usare le parole dell'autore, «nel visitare i propri domini, egli li rappresenterà in una raffigurazione, in modo che apparirà evidente al suo sguardo dove sia necessario destinare le sue cure e i suoi denari». Nel corso del XVI secolo i latifondisti inglesi presero l'abitudine di far misurare e mappare le loro proprietà e i terreni circostanti. Nel 1609 John Norden poteva così sostenere nel Surveior's Dialogue che «una [mappa] ben disegnata in base a informazioni veridiche descrive in modo tanto vivace l'immagine di un Possedimento... che il Signore seduto sul suo scranno saprà vedere quanto possiede, dove e in quali condizioni ciò si trova, e a quale uso e occupazione è adibito ciascun possedimento».

Vi era un significato particolare nel nuovo compito cartografico del topografo, poiché in quell'epoca solo i governatori di stati e città realizzavano delle mappe. Una mappa era un documento politico. Non si limitava a descrivere un territorio, ma ne affermava la proprietà.

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Pagina 34

Ma i nuovi possidenti terrieri d'Inghilterra sapevano che anche un rilievo imperfetto era meglio di niente. Mentre loro facevano misurare e mappare i propri possedimenti, per poi spremere gli affitti più alti possibili dai loro fittavoli, la corona ignorò le proprie terre per settant'anni dopo l'uscita del libro di Richard Benese. Nel 1603 il gran tesoriere d'Inghilterra Robert Cecil commissionò finalmente un rapporto sull'estensione dei possedimenti della corona e «scoprì che i feudi e i possedimenti migliori del Re erano perlopiù privi di misurazioni e incerti, [la loro area era stimata] più grazie alla tradizione orale che alla misurazione, conosciuta solo attraverso gli antichi affitti; la proprietà garantita più per caso che per conoscenza».

Gestiti in modo inefficiente e liquidati in modo casuale, i possedimenti reali che un tempo avevano prodotto tanto da sostenere da soli il governo del paese, ora generavano un reddito tanto basso che la corona fu costretta ad affidarsi al parlamento per aumentare le tasse e mantenere il regno. Il potere stava impercettibilmente passando da una corona povera di terre a una nobiltà che ne aveva molte. E qualche anno dopo, quando venne proposto di creare delle colonie nelle nuove terre d'America, ad avere denaro da investire erano quegli stessi mercanti e possidenti terrieri, persone che potevano misurare le loro proprietà e calcolarne il valore, e non il re.

Era questo il potere contenuto nella sciatta catena che giaceva ai piedi della statua di Rufus Putnam al museo di Marietta, in Ohio. Ciò che Edmund Gunter aveva inventato era uno strumento per creare la proprietà privata. Finché era stato l'acro a espandersi o a ridursi mentre il prezzo restava lo stesso, non era possibile che nascesse alcun vero mercato immobiliare. Ma da quando la terra poté essere misurata in base a un'unità invariabile, il prezzo iniziò a essere determinato dalla domanda e dall'offerta e la terra poté essere trattata come una merce. Non era questa l'intenzione di Gunter, ma fu una conseguenza della precisione che caratterizzava il suo strumento di misurazione.

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Pagina 35

2.
Una confusione precisa



Ciò che rende fondamentale la misurazione è il fatto che consente lo scambio di merci e servizi. La misurazione di una pezza di tessuto, di un gregge di animali o di una giornata di lavoro dà a queste cose un valore in termini di dimensioni, di numero o di rendimento, consentendo agli altri componenti della comunità di offrire qualcos'altro (cibo, protezione, addirittura amore o fedeltà) di valore equivalente. Quindi la misurazione è necessaria alla società quasi quanto il linguaggio e si dà in una fase iniziale delle civiltà, molto prima dello sviluppo della scrittura.

Ossa incise o monete di argilla utilizzate per fare calcoli o per gli scambi sono state trovate in Turchia in villaggi neolitici risalenti al IX millennio a.c. - più di diecimila anni fa - mentre la scrittura cuneiforme sumera, generalmente considerata la prima forma di scrittura, non comparve che cinquemila anni dopo. È significativo che molte delle tavolette di argilla che riportano iscrizioni cuneiformi si riferiscano a misurazioni di quantità, peso o lunghezza. Senza la capacità di misurare è difficile che possa darsi un'attività cooperativa. Con essa si possono sviluppare mercati ed economie sempre più sofisticate in cui il baratto, il denaro o il credito facciano da tramite fra ciò che una persona possiede e ciò che qualcun altro desidera.

Ciò che rendeva la catena di Edmund Gunter del tutto unica tra gli strumenti di misurazione utilizzati all'epoca era il fatto che non variasse. Erano in uso anche altre catene e ancora nel 1796 un manuale di topografia americano suggeriva che nelle terre boschive una catena potesse misurare 24 iarde mentre nelle foreste più fitte potesse arrivare a 32. Ma laddove si precisava che era stata utilizzata una «catena di Gunter», questa misurazione significava esattamente 100 anelli, ovvero 22 iarde, e un'area che misurava dieci catene di lunghezza per dieci di larghezza avrebbe avuto una superficie di dieci acri. Nel 1607 era difficile trovare un'altra unità di misura che fosse altrettanto coerente.

In un'economia moderna la variabile di una merce è il prezzo, ma prima del XVI secolo era pratica comune cambiare le dimensioni della misurazione. I produttori di dolciumi ricorrono tutt'oggi allo stesso accorgimento, perché i bambini associano un dato prezzo a un dato dolce e sono più propensi ad accettare una riduzione delle dimensioni del dolce piuttosto che una variazione del prezzo. Per motivi simili le autorità vaticane del XV secolo imponevano ai fornai di vendere le pagnotte a un prezzo fisso, aumentandone le dimensioni quando la farina era a buon mercato e riducendole quando costava molto.

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Pagina 37

[...] In breve, ciò che veniva misurato non era la quantità di una merce ma il suo valore umano, locale e soggettivo.

Le stesse misure erano derivate dall'attività dell'uomo e dalla forma del corpo umano. Era quasi universale la larghezza del pollice o dito, equivalente a un inch (pollice). Nel I secolo d.C. Vitruvio diede la definizione classica del rapporto tra questa e le altre unità di misura: «quattro dita fanno un palmo, quattro palmi fanno un piede, sei palmi fanno un cubito, quattro cubiti fanno l'altezza d'un uomo». Lo staio nasceva dalla quantità di semi necessari per seminare un acro di terreno (la quantità reale variava ancora più delle dimensioni di un acro) mentre l' ell, usato per i tessuti, era la larghezza del telaio o la distanza dalla testa al polso (il modo più semplice per misurare i tessuti consiste nel tenderli con un braccio a partire dal mento). Ugualmente antropometriche, e ancor meno precise, erano unità di misura come il «tiro d'arco» (la distanza che poteva essere percorsa da una freccia), l' houpée (la distanza a cui poteva essere udito di un urlo) e, tra gli indiani delle pianure degli Stati Uniti, la «vista a pancia di cavallo» (la distanza a cui una persona poteva vedere nelle praterie stando accovacciato sotto un cavallo: circa tre chilometri).

Il punto debole di queste misure variabili era costituito dalle possibilità che lasciavano aperte agli imbrogli. Sin da quando è stata inventata la scrittura - e probabilmente anche prima - vi sono state denunce contro chi utilizzava misure contraffatte. L'imbroglio più comune consisteva semplicemente nell'usare due serie di pesi e contenitori, uno largo per gli acquisti e uno piccolo per le vendite, e sin dai tempi più antichi vi sono testimonianze di autorità religiose e secolari che si scagliavano contro questa pratica. «Non avrai nel tuo sacco due pesi diversi, uno grande e uno piccolo» dice la legge ebraica nel libro del Deuteronomio, «Terrai un peso completo e giusto, terrai un'efa completa e giusta, perché tu possa aver lunga vita nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti» (Dt 25,13.15). Il Corano inveisce in modo simile: «Guai ai frodatori sul peso i quali, quando richiedon dagli altri la misura, la pretendono piena! E quando pesano o misurano agli altri danno di meno!» (Cor LXXXIII, 1.3 ).

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Pagina 42

[...] Senza misura, la musica era rumore, la poesia un balbettio, la terra una landa desolata, e nessuno lo sapeva meglio dei possidenti terrieri dediti alle enclosures e alle acquisizioni, la generazione i cui genitori e nonni avevano per la prima volta acquistato le terre da Enrico VIII, la generazione che segnò l'epoca elisabettiana con la propria energia e la propria immaginazione, la generazione a vantaggio della quale venne promulgata la legge sulle misure.

John Winthrop era un uomo di tale fatta. La sua famiglia aveva acquistato la proprietà di 500 acri di Groton Manor (East Anglia) da Enrico VIII. Lo stesso Winthrop si dedicò con energia all' enclosure e allargò i possedimenti terrieri di famiglia. Furono tanto il ribasso degli affitti e dei prezzi delle fattorie quanto i suoi ideali puritani a persuaderlo nel 1630 a offrirsi volontario per assumere il controllo della colonia che la Massachusetts Bay Company intendeva creare a Boston. Autoritario, acuto e carismatico, fu il primo governatore della colonia e vi infuse non solo i propri ideali di responsabilità comune e di coscienza individuale, ma anche la sua idea di proprietà.

Benché la patente reale desse ai coloni il diritto di stabilirsi nel New England, vi era chi - come Roger Williams, fondatore della colonia del Rhode Island - riteneva che la terra appartenesse di diritto ai nativi e dovesse essere acquistata da loro. Winthrop rigettò sbrigativamente quest'idea con un'argomentazione basata sulla sua stessa formazione personale. «Per quanto concerne i Nativi del New England» scrisse, «essi non recintano alcuna Terra, né vi hanno stabilito alcuna dimora fissa, né allevano Bestiame con cui abitarla.»

Dato che i nativi americani non avevano nulla che dimostrasse che la terra era loro, i nuovi americani potevano impossessarsene liberamente e il New England, come la vecchia Inghilterra, sarebbe appartenuto a chi lo avrebbe misurato e recintato. Così la risposta alla domanda «di chi è l'America?» era in realtà un'altra domanda: «chi avrebbe misurato l'America?».

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Pagina 55

La fame di terra dei coloni britannici appare assai bizzarra se confrontata con l'atteggiamento dei nativi americani. Dai powathan della Virginia dediti all'agricoltura agli irochesi di New York alle sei nazioni degli Appalachi perlopiù cacciatori, tutti condividevano la diffusa convinzione che un dato luogo apparteneva a un dato popolo solo nella misura in cui quel popolo apparteneva al luogo. I diritti sulle terre si acquisivano solo tramite l'occupazione, l'uso prolungato nel tempo o le sepolture dei famigliari, e questi diritti erano comuni, non individuali. «Cos'è questa cosa che chiamate proprietà?» chiese Massasoit, un capo dei wampanoag, ai coloni di Plymouth con cui aveva stretto amicizia negli anni Venti del Seicento. «Non può essere la terra, perché la terra è nostra madre, nutre tutti i suoi figli, gli animali, gli uccelli, i pesci e tutti gli uomini. I boschi, i fiumi e quant'altro si trova su di essa appartiene a tutti e può essere usato da tutti. Come può un uomo dire che appartiene solo a lui?»

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Pagina 60

Sulla mappa in crepitante pergamena, gli Appalachi appaiono come una massa nera e impenetrabile di linee che corrono dall'angolo inferiore sinistro a quello superiore destro, ma a ovest di queste montagne vi sono ampi fiumi e colline indicate con linee che piegano dolcemente verso il Mississippi, intervallate dalle annotazioni dello stesso Hutchins in nitido corsivo: «Una terra ricca e pianeggiante», «Grandi praterie naturali; innumerevoli mandrie di Bufali, Alci, Cervi eccetera. Crescono Segale, Canapa, Piante di Piselli, Indaco Selvatico, Trifoglio Rosso e Bianco eccetera».

Nemmeno la promessa di ballerine avrebbe potuto infiammare gli appetiti coloniali più della prospettiva di una tale fertilità. Il fatto che la terra appartenesse ai cherokee, agli shawnee e alle sei nazioni era un particolare che poteva essere superato tramite la negoziazione personale, come fecero il giudice Richard Henderson e il topografo Boone, o tramite uccisioni e terrore, come fecero molti altri. Per i piantatori era evidente che, una volta accantonate le pretese francesi, l'intera area tra le montagne e il fiume ora era pronta a essere occupata.

Ma la proprietà della terra non è mai una questione semplice. Essa non comprende solo i diritti sul terreno, ma anche sui minerali del sottosuolo, sulla vegetazione, sulla luce del sole e sull'aria, sull'utilizzo, lo sviluppo, l'accesso e il godimento e su molto più di quanto potrà rivelare un avvocato per la sua parcella. Dato che tutti questi elementi possono essere assegnati in affitto, affidati in uso, concessi a prestito o distribuiti in diversi modi, la proprietà terriera è generalmente descritta come un insieme di diritti legali che possono essere separati e gestiti singolarmente. Benché oggi nessuno possa vantare dei diritti terrieri assoluti (le leggi ambientali e le necessità statali limitano i diritti dei proprietari), nel regime feudale essi appartenevano tutti al re. Così buona parte della carta del 1629 in cui veniva creata la Massachusetts Bay Company è costituita da elenchi di diversi tipi di terra, di forme di proprietà e di modalità con cui trasferire tutto ciò. Carlo I prometteva di «dare, assegnare, pattuire, vendere, alienare, infeudare, distribuire, attribuire e confermare» alla Company tutte le «Terre e Terreni, Suoli, Boschi e Terreni Boschivi, Porti, Scali, Fiumi, Acque, Miniere, Minerali, Giurisdizioni, Diritti, Privilegi, Concessioni, Libertà, Immunità, Prerogative, Franchigie, Preminenze, Eredità e Materie Prime». Ciononostante la terra restava in ultima analisi del re e la Company la poteva avere «in soccage libero e comune», e ciò significava che - pur avendo dato, assegnato eccetera eccetera - la corona conservava un'autorità feudale e superiore su quella parte d'America.

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Pagina 63

4.
Vita, libertà e cosa?



Furono numerosi i fili che portarono i coloni a tessere la loro rabbia in un'unica dichiarazione di opposizione al dominio di Londra. La decisione del parlamento inglese di chiudere il porto di Boston nel 1774 come punizione per la distruzione di un prezioso carico di tè portò in superficie il risentimento dei mercanti del Nord, già gravati dal peso dei dazi sulle loro merci, la rabbia generalizzata per la precedente uccisione di rivoltosi civili da parte delle truppe britanniche e il timore diffuso che le assemblee coloniali fossero impotenti contro i ministri del re. Ma quell'autunno, quando i delegati delle colonie in subbuglio si riunirono a Filadelfia per partecipare al primo Congresso continentale e articolare le proprie lagnanze, non fu un caso che la prima risoluzione che essi approvarono fu quella di avere «diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà».

Qui per proprietà non si intendeva solo quella terriera, ma soprattutto i virginiani era proprio alle terre che pensavano, e in particolare a quelle al di là degli Appalachi. E di qui venne la dichiarazione del primo paragrafo della costituzione della Virgillia, estesa da George Mason nel giugno 1776: «Che tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti innati... ovvero il godimento della vita e della libertà, con i mezzi per acquistare e conservare delle proprietà, e perseguire e ottenere felicità e sicurezza». Il diritto a questo genere di proprietà era un ambito in cui il più umile dei mulattieri di Conestoga era alla pari del più ricco tra i piantatori.

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Pagina 151

10.
La nascita del sistema metrico



Il 19 giugno 1791 un distaccamento della Guardia nazionale di Parigi appostato davanti agli appartamenti reali del palazzo della Tuileries ammise un gruppo di dodici uomini alla presenza del re. È possibile che i soldati ne riconoscessero due, i cittadini Marie-Jean de Condorcet e Gaspard Monge. Erano entrambi membri di spicco dell'Assemblea nazionale, ma i nomi degli altri, e in particolare quelli di Giuseppe Luigi Lagrange (oggi famoso per i suoi studi sulla meccanica e il calcolo differenziale), di Pierre-Simone de Laplace (ritenuto il fondatore della meccanica celeste e il massimo esponente della teoria della probabilità) e di Antoine-Laurent Lavoisier (scopritore delle proprietà dell'ossigeno) sono probabilmente più famosi oggi, quantomeno tra matematici e chimici, di quanto non potessero essere allora tra le guardie reali.

Il fatto che Luigi XVI avesse richiesto per quel giorno la loro presenza a palazzo getta luce su un aspetto piacevole della sua personalità per altri versi abbastanza scialba. Non era una persona né immaginifica né energica, ma gli interessava capire come funzionavano le cose. I suoi ospiti in quell'occasione erano i membri della commissione sui pesi e sulle misure dell'Académie des Sciences che avrebbe definito la base del nuovo sistema di misurazione decimalizzato francese. Dalla data della loro visita si può capire quanto fosse profondo l'interesse del re. Allarmato dalla crescente forza della Rivoluzione e terrorizzato all'idea che la folla di parigini che si aggirava davanti al palazzo potesse farvi irruzione e linciare lui e la sua famiglia, Luigi aveva progettato di fuggire quella notte stessa.

Poco dopo che gli scienziati se n'erano andati, il re scrisse una lunga giustificazione dell'azione che stava per compiere, poi si mise in segreto gli abiti di un servo mentre la regina Maria Antonietta si travestiva da governante. A mezzanotte del 20 giugno Luigi passò alle spalle delle guardie, seguito pochi minuti dopo dalla regina, e insieme raggiunsero i figli su una carrozza coperta. Il tentativo di fuga non riuscì per un soffio. Nonostante la lentezza della carrozza e un incidente nell'attraversare uno stretto ponte, raggiunsero Varennes, a meno di tre ore dal confine, prima che una guardia rivoluzionaria confrontasse il volto del servo sulla carrozza con l'immagine del re su una banconota e lo riconoscesse. Luigi e la sua famiglia vennero fatti prigionieri e riportati a Parigi, dove il re avrebbe passato il tempo che gli restava da vivere più o meno agli arresti domiciliari. Meno di diciotto mesi più tardi venne ghigliottinato. Quindi si può dire che il suo ultimo atto autonomo da uomo libero fu scoprire come funzionasse di fatto il nuovo sistema decimalizzato di pesi e misure proposto per il suo regno.

In seguito alla raccomandazione di riforma rivolta da Talleyrand nel marzo 1790, l'Assemblea aveva ordinato all'Académie di istituire una commissione al riguardo. La sua prima relazione apparve a ottobre e vi si consigliava che il sistema per sostituire le vecchie misure aristocratiche fosse decimale. Le argomentazioni erano le stesse di Jefferson: la semplicità del calcolo su base dieci e l'opportunità che questo dava al cittadino medio di trattare in termini paritetici con chi era più istruito di lui. Poco dopo un nuovo membro, Gaspard Monge, un fervente giacobino ma anche un prodigio matematico oggi considerato il padre della geometria differenziale, sostituì Tillet nella commissione dell'Académie. Quell'inverno la commissione rivolse la propria attenzione alla scelta delle basi scientifiche per il nuovo sistema.

Vi erano solo tre possibilità. La relazione della commissione, resa pubblica il 19 marzo 1791, le elencava così: «la lunghezza del pendolo, un quadrante del circolo dell'equatore e infine un quadrante del meridiano terrestre». Come scienziati dovevano evidentemente esaminare tutte le possibilità, ma la relazione chiariva gli ovvi vantaggi del pendolo di un secondo. La lunghezza era semplice da calcolare e i risultati potevano essere verificati agevolmente, cosicché l'esperimento poteva essere fatto in qualsiasi località del mondo senza bisogno di tornare nel posto dove era stata effettuata la prova originaria. «Di fatto le leggi [della fisica] riguardanti la lunghezza del pendolo sono sufficientemente certe, sufficientemente confermate dall'esperienza per essere usate in esperimenti senza timore di errori che non siano impercettibili.» Non c'era nulla di nuovo, ma l'avallo di un gruppo di scienziati di tale fama era una notevole conferma dell'affidabilità del metodo.

Per le prime otto pagine della relazione della commissione francese veniva mantenuta l'uniformità tra i riformatori delle tre nazioni. Poi, a pagina nove, scoppiava la bomba. Dopo aver sostenuto la causa del pendolo di un secondo, la commissione commentava: «In ogni caso dobbiamo rilevare che l'unità da esso derivata contiene qualcosa di arbitrario. Il secondo di tempo consiste nella ottantaseimillesima parte della giornata ed è quindi una divisione arbitraria di quell'entità naturale. Così per fissare un'unità di lunghezza è necessario un elemento non solo eterogeneo, ma anche arbitrario». La relazione riconosceva che se necessario sarebbe stato facile misurare la lunghezza del pendolo sulla base della durata del giorno anziché del secondo, mantenendo così integra l'«entità naturale» (un pendolo che oscillasse centomila volte in una giornata di ventiquattro ore misurerebbe ventisette pollici), ma anche questa alternativa venne rigettata sulla base del fatto che utilizzava «un elemento eterogeneo».

Avendo scartato l'unico fondamento internazionalmente accettato per un sistema scientifico, la commissione espresse la propria preferenza per un'unità presa dalla terra stessa, poiché - e l'argomentazione è decisamente schiacciante - sarebbe stata «analoga a tutte le misure reali che nella vita di ogni giorno vengono prese sulla terra». Anche la possibilità di utilizzare come base l'equatore venne subito scartata (troppo lontano, troppo costoso, troppo complicato): restava solo l'opzione del meridiano. «Di fatto» concludeva la commissione in tono quasi frivolo, «si potrebbe dire che tutti vivono su un meridiano, ma solo una parte [dell'umanità] vive sull'equatore». A quel punto la relazione dichiarava coraggiosamente: «Un quadrante del meridiano terrestre diverrà quindi la [base] della misura, e la decimillionesima parte di quella lunghezza sarà usata come unità».

Si trattava della futura base del sistema metrico, e difficilmente la si sarebbe potuto scegliere in modo più capriccioso. Oggi la lunghezza di un metro è definita in termini di tempo (la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in una frazione di secondo) e il fatto che tale definizione - per usare la terminologia della commissione - sia «eterogenea» è irrilevante. L'argomentazione stringente per la scelta di un quadrante del meridiano, dall'equatore al polo nord, non era affatto più logica: «Di fatto» asseriva la commissione, «è molto più naturale registrare la distanza da un luogo all'altro sulla base di un quadrante di uno dei grandi circoli terrestri che registrarla sulla base della lunghezza di un pendolo.» Cinque delle più raffinate menti scientifiche del mondo, tutte addestrate all'impietosa scuola della dialettica cartesiana, avrebbero dovuto essere in grado di escogitare qualcosa di più convincente.

La speciosità del ragionamento della commissione fu subito evidente ai contemporanei e innescò inevitabilmente delle speculazioni su quali fossero state le vere ragioni della scelta. Il primo indizio giunse dal curioso incontro degli scienziati con Luigi XVI nel giugno 1791. Era stato il re, in quanto detentore del potere esecutivo, a firmare il decreto dell'Assemblea e a incaricare l'Académie di nominare le persone adatte per svolgere gli esperimenti necessari, ma è improbabile che, in pieno crollo dell' ancien régime e in mezzo agli urli della folla, la riforma dei pesi e delle misure occupasse gran parte dei pensieri di Luigi XVI. Ma vi era evidentemente un aspetto che stuzzicava la curiosità del re.

Avendo scelto il meridiano come base, la commissione ammetteva che sarebbe stato necessario misurarne accuratamente la distanza. Per quanto non fosse indispensabile misurare tutti i novanta gradi dall'equatore al polo per produrre una stima affidabile, la precisione di quest'ultima sarebbe stata direttamente proporzionale alla lunghezza che si fosse misurata. Per ridurre al minimo gli errori, tanto il punto di partenza quanto quello d'arrivo dovevano essere al livello del mare. La linea che soddisfaceva tutti questi requisiti partiva da Dunkerque, passava per Perpignan e arrivava a Barcellona. La lunghezza misurata avrebbe coperto poco più di nove gradi e mezzo, sufficienti per estrapolare con un buon grado di precisione l'intera distanza. Gli esperti francesi di geodesia avevano già triangolato due volte la maggior parte di quel tratto. Per il nuovo metro, la commissione consigliava di triangolarlo una terza volta.

Corpulento, indaffarato, ossessionato da una moglie più brillante e vivace di lui, Luigi non aveva perso il suo desiderio di capire perché e come funzionassero le cose. Nonostante l'imminenza del suo piano di fuga, convocò gli scienziati alla Tuleries. Quando si furono riuniti, si rivolse a Jacques Cassini, il quarto rappresentante della famiglia, che aveva ricevuto l'incarico di misurare il meridiano, e gli chiese perché avrebbe ripetuto una misurazione che suo padre e suo nonno avevano già fatto prima di lui. «Crede di poterlo fare meglio di loro?» chiese il re.

Cassini, senza rivelare che aveva già scaricato la responsabilità di questo lavoro fisicamente impegnativo ad altri due scienziati (Pierre Méchain e Jean-Baptiste Delambre), rispose in questo modo: «Maestà, mi permetto di pensare di poter fare meglio di loro perché godo di un grande vantaggio. Gli strumenti di cui essi disponevano misuravano gli angoli con una precisione di quindici [gradi] secondi. Il cavaliere di Borda ne ha inventato uno che misura gli angoli con una precisione di un secondo. La mia giustificazione è tutta qui».

La risposta rivelava che aveva avuto luogo un passaggio di potere: ci si era allontanati dagli idealistici sogni internazionali di Condorcet per avvicinarsi alle ambizioni pragmatiche di Jean-Charles Borda, il presidente della commissione. Borda voleva che il meridiano fosse usato come base perché avrebbe dovuto essere misurato con il superbo teodolite ripetitore che egli aveva inventato, e il merito del completamento dell'opera iniziata da Picard, che aveva impegnato generazioni di Cassini e aveva reso necessarie spedizioni in Perú e Lapponia, sarebbe alla fine andato a lui. Rifiutò quindi di accettare l'impossibilità di una misurazione della distanza esatta dall'equatore al polo. Nel suo Essai sur l'histoire générale des sciences, pubblicato nel 1803, il fisico Jean-Baptiste Biot suggeriva anche che era stato questo il motivo per cui fu scartato il pendolo. Borda, sosteneva Biot, aveva convinto la commissione a scegliere il meridiano perché avrebbe consentito di raggiungere la meta che la scienza francese si poneva da più di un secolo, ovvero stabilire le dimensioni della terra.

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