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| << | < | > | >> |Pagina 111Quanto può durare la sfortuna? È illimitata o ha una data di scadenza come le scatole di pelati? Su questo stavo riflettendo seduto dietro la scrivania del mio ufficio alle undici di martedì mattina. Per la verità non sono un tipo che si definirebbe riflessivo, ma ultimamente avevo una certa quantità di tempo libero e quando non hai niente da fare le riflessioni si materializzano più numerose delle pulci sui cani. Dunque, me ne stavo seduto alla scrivania. Il giorno prima si era rotta la poltrona girevole e così ora ero accomodato su una rugginosa sedia a sdraio gialla recuperata dal garage. Io, però, non ero in bermuda e maglietta, avevo la giacca e la cravatta e quindi, a vedermi dal di fuori, facevo una discreta figura da idiota. Non potevo fare diversamente, purtroppo. La mia ex moglie si era portata via tutte le sedie da casa lasciandomi solo il divano e la vecchia sdraio. E così ogni giorno facevo la spola da casa all'ufficio con quella maledetta sdraio sotto il braccio. Certo, avrei potuto usare la poltroncina di fronte alla scrivania. Ma poi, a quel punto, avrei dovuto far sedere i clienti sulla sdraio e non mi sembrava il modo migliore per conquistarmi la loro fiducia. Inoltre, visto che non mi facevo mancare niente, i muri di un verde slavato avrebbero avuto bisogno di una bella riverniciata. Mi auguravo che i clienti fossero persone dalla mente aperta e non dessero peso alle apparenze. La luce del sole proveniente dalla finestra alle mie spalle illuminava la parete destra dove stava appeso con aria malinconica il mio attestato da investigatore privato. Sotto l'attestato, appoggiato al muro con la stessa aria malinconica, c'era lo schedario metallico coperto di polvere. Ho già detto che pure io mi sentivo malinconico? Beh, ero malinconico. La scrivania del mio socio Riccardo Castellani era a sinistra e sul ripiano campeggiava un grosso scatolone da imballaggio. Castellani, invece, era in piedi e mi parlava gesticolando con foga. – La passera – disse il mio socio. – La passera? – Sì, Ventura. La passera. Te la ricordi ancora, no? È quella cosa che rende accettabile questa vita di merda a noi maschi. – E il calcio dove lo metti? – 'Fanculo il calcio. Io voglio la passera, Ventura. Non posso continuare così. Guardami. Ho ventisei anni. Sono una persona pulita. E pure di aspetto fisico non sono niente male, ammettiamolo. – Io non ammetto nulla senza il mio avvocato – dissi. Castellani mi lanciò un'occhiata minacciosa. – Non mi fai ridere. – Mi puntò il dito contro. – A te non fregherà niente, ma io ero uno che doveva scrollarsi le donne di dosso. Ora invece mi evitano neanche fossi il gobbo di Notre-Dame. E sai perché? – È finita la stagione degli accoppiamenti? Il mio socio piantò le mani sul ripiano della mia scrivania e ci si appoggiò. – No. Sono finiti i soldi. Non mi posso permettere di offrire neppure un caffè. – D'accordo, lo ammetto, è un periodo difficile. Ma lo sai anche tu, le grandi agenzie investigative fanno una concorrenza spietata. – Sono mesi che non lavoriamo. Neanche per ritrovare i gatti scomparsi ci assumono più. – Beh, se non altro, tu hai ancora una poltrona. – Cazzo, è proprio questo il punto. Sta andando tutto a puttane. Ma ora basta. – Prima o poi le cose cambieranno – dissi. A essere sinceri non ne ero così sicuro, ma cos'altro avrei potuto dire? Stiamo affondando, si salvi chi può? Di solito, questa frase non infonde grande fiducia nel futuro. Castellani sospirò. – Forse. Comunque non è più un mio problema. Me ne vado. – Ma dai, piantala di fare il melodrammatico e mettiti seduto sulla tua bella poltrona. – No, ormai è deciso – si lisciò la cravatta sul petto. – Ho vinto il concorso da vigile urbano. Comincio fra una settimana. – Stai scherzando? Castellani mi fissava più serio di un documentario sull'Olocausto. – Mi dispiace, Ventura. Ma non si poteva andare avanti in questo modo. – Siamo una squadra. Non puoi piantarmi così. – Mi dispiace – ripeté Castellani. – In questo lavoro non c'è futuro. E se sei furbo abbandoni la barca pure tu. – Certo. E cosa faccio? La divisa da vigile neanche mi dona – ci riflettei un po' su. – Oppure sì? Sorrise e mi tese il braccio sopra la scrivania. – Addio. Con un cigolio, mi alzai dalla sdraio e gli strinsi la mano. – Va bene. Se è questo che vuoi, buona fortuna. – Grazie. Anche a te. – Senti, non è che mi presteresti la tua poltrona? Sarebbe un peccato lasciarla lì a prendere polvere. – No, mi serve – disse subito. Bastardo, pensai. | << | < | > | >> |Pagina 464L'indomani mattina mi svegliai sull'amareggiato. I ricordi della giornata precedente erano ancora freschi. Multato dall'amico e piantato dalla donna. Non si poteva certo dire che avevo il problema di selezionare le conoscenze. Le mie conoscenze si selezionavano tranquillamente da sole. Da un momento all'altro avrebbe telefonato mia madre per dirmi che ero stato adottato. Feci una veloce colazione con caffè e salame stagionato, dato che non avevo più né pane né fette biscottate. Poi, dopo la doccia e la barba, entrai in camera per vestirmi e squillò il cellulare sul comodino. Il display si illuminava evidenziando un nome: Valeria. La mia ex moglie mi cercava. Rabbrividii. C'era solo una cosa da fare. E non era rispondere. Andai nel ripòstiglio, presi quello che mi serviva e tornai in camera. Il cellulare continuava a squillare. La suoneria de Il buono, il brutto, íl cattivo riempiva la stanza. Posai il cellulare sul pavimento e mi piegai. Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef, al mio posto, avrebbero fatto lo stesso. Soprattutto Lee Van Cleef, che interpretava il cattivo.
Picchiai il martello sul cellulare. Due volte. Smise di
squillare. Buttai i resti nella spazzatura, mi vestii, chiusi
l'appartamento e partii.
Raggiunsi casa di Joe verso le dieci. Abitava in una villetta in collina, una delle zone residenziali della città. Quando arrivai il cancello di ferro era già stato aperto e io entrai con la macchina nel vialetto ghiaioso. Posteggiai davanti ai gradini in pietra che portavano alla porta d'ingresso. Scesi dall'auto. La villetta era in mattoni rossi disposta su due piani e una parte della facciata era ricoperta da una fitta edera. Non vedevo il retro della casa, ma immaginai che da qualche parte ci dovesse essere la piscina. A fianco della villa c'era un garage con la saracinesca alzata. I due posti auto erano occupati da una Porsche cabrio e da un'Audi station wagon grigio metallizzata. Infilai le mani nelle tasche e mi appoggiai al cofano della mia auto ad aspettare. Dopo qualche secondo, dall'interno del garage uscirono Joe e una donna anziana di bassa statura, cicciottella e con occhiali da vista a forma di cuore. Clara. O forse lo zombie di Lolita. Joe era in maglietta e pantaloncini corti. Sulla maglietta c'era scritto: STALLONE GALATTICO. Anche Clara indossava una maglietta, ma sulla sua la scritta era PUPA DA RIMORCHIO. Ero già pentito di aver accettato il lavoro. I due si avvicinarono. - Ciao, Sergio – disse Joe stringendomi la mano. – Clara, lui è Sergio Ventura. Strinsi la mano anche di Clara. – Piacere, signor Ventura – disse la donna. – Finalmente ci conosciamo. Joe mi ha parlato molto di lei. Dice che lei è un duro, ha le palle che fumano. – Clara, no – disse Joe. – Così mi metti in imbarazzo. Mi fai sembrare un fessacchiotto. – Perché, che ho detto di male? – disse Clara guardandomi. – Figurati se il signor Ventura pensa che tu sia un fesso. Restai in silenzio. – Comunque, volevo ringraziarla – disse Clara. – Per cosa? – Per aver aiutato Joe con i due rapinatori. Alzai le spalle. – Non ho dovuto impegnarmi poi un granché. Clara mi dette un colpetto sul braccio. – Non faccia il modesto, Ventura. – Non ci penso nemmeno. – Lo sa cosa si dice dalle mie parti? La modestia è per gli incapaci e per quelli che ce l'hanno piccolo. – Gran cosa, la saggezza popolare – dissi. - Vogliamo andare? – disse Joe. – I nostri bagagli già in macchina. Caricai il mio borsone sull'Audi. Poi Joe si sistemò al volante, io al suo fianco e Clara dietro.
Joe inserì un cd di musica house nel lettore. Clara iniziò
a muovere la testa a tempo con la musica e finalmente partimmo.
Cinquanta minuti più tardi avevamo lasciato Torino e stavamo viaggiando in autostrada. Io era da quarantacinque minuti che volevo usare la pistola. La musica house era piacevole più o meno come il trapano di un dentista. Clara, che invece aveva la vescica debole, ci costringeva a fermarci in ogni autogrill che riusciva ad adocchiare. Una via crucis dell'incontinenza. Come se questo non bastasse a stressare i miei già esausti attributi, Joe non la finiva di parlare, continuando a raccontare aneddoti di cui non mi fregava nulla.
Ecco alcuni estratti di conversazione.
– Te l'ho già detto che ho una collega che si chiama Samantha Blue? – Sì – dissi. – È pure una mia cara amica, sai? – Ottimo. – Io le mie amiche me le sono fatte tutte, vero Clara? – Per forza, sei un ragazzo irresistibile – disse Clara in tono materno. – Grazie – disse felice Joe. – Comunque, cosa stavo dicendo? – Rifletté un momento e disse: – Ah, sì. Samantha Blue si fa chiamare così perché ha capelli e peli del pube di colore blu elettrico. – È una ragazza molto educata – disse Clara. – E poi il blu le dona così tanto. – Ma pensa – dissi. – Non è il suo colore naturale, però – disse Joe.
– Stavo giusto per chiederti da quale genitore avesse preso.
Il primo film hard non si scorda mai – disse Joe. L'abbiamo girato a Praga. Io avevo una gran fifa, ma poi grazie al cazzo è andato bene. – Grazie al cielo, vorrai dire – lo corressi io. – No. Grazie al cazzo. Era quello il titolo del film. – Una citazione da Bergman, suppongo. - Bergman è quel regista svedese, giusto? – disse con mia grande sorpresa Joe. – Gli svedesi sono in gamba nel porno – aggiunse. | << | < | > | >> |Pagina 92Claudio Ottoz era in casa.Ci presentammo spiegandogli che stavamo indagando sulla morte del suo amico Chenal. Ottoz ci fece sedere al lungo tavolo del soggiorno coperto da una tovaglia di plastica a quadretti rossi e bianchi e ci offrì un bicchiere di vino. Era un vecchio alto, con la schiena un po' curva e una benda nera sull'occhio destro. Senza che nessuno gliel'avesse chiesto, Ottoz iniziò a raccontarci il motivo che l'aveva portato a chiudere un occhio nella vita. – Una scheggia di granata – spiegò. – Avevamo fatto un'imboscata a una colonna di SS sulla vecchia strada per Ussel. – Ottoz, seduto di fronte a noi, parlava con lo sguardo perso fuori dalla finestra. – Noi eravamo acquattati fra gli alberi sul ciglio della strada. Durante la sparatoria hanno colpito Cinghiale, lo chiamavamo così perché russava facendo dei grugniti tremendi, ma Cinghiale stava lanciando una bomba a mano e le aveva già tolto la sicura... Quando è crollato a terra, la bomba è esplosa. Un attimo dopo l'occhio era andato. – E Cinghiale? - chiese Joe. - Dilaniato dall'esplosione. – Cacchio, che sfiga. Ottoz alzò le spalle. – Era la guerra. Comunque, se tornassi indietro, non cambierei nulla. - Secondo me Cinghiale un paio di cose le cambierebbe. – Non credo, sai? In fondo, allora noi avevamo una ragione per vivere e una per morire. Oggi cosa abbiamo? – Una ragione per inserire gli stacchi pubblicitari – dissi. Ottoz sorrise. – Già. – Io avrei detto i dvd – disse Joe. – Ad ogni modo, i fascisti e i nazisti andavano fermati – continuò il vecchio. – Anche perché quella gente non ha alcun senso dell'umorismo. – Capita, fra le teste di cazzo – dissi. – Giustissimo – disse il vecchio. Finì di bere il suo vino. – Sapete una cosa? Voi due mi piacete. Sareste piaciuti anche ad Attilio. – E a Cinghiale no? – domandò Joe. Ottoz mi guardò indicando Joe con un pollice. – Il ragazzo si è un po' fissato, eh? – Io allargai le braccia. – Ad ogni modo, certo, anche a Cinghiale sareste andati a genio. Joe sembrò soddisfatto della risposta e chiuse il becco. – Ci parli di Attilio Chenal – dissi. – Chi poteva avercela con lui? Ottoz trasse un lungo respiro e poi disse: – Voi mi sembrate persone oneste, però... Prima, voglio farle una domanda, signor Ventura. Se scoprisse chi è l'assassino del mio amico, dovrebbe dirlo ai carabinieri, giusto? – In teoria sì. Non ho il potere di arrestare nessuno. Intuii che il vecchio partigiano aveva voglia di togliersi un peso. Cercai di aiutarlo. – Nessuno, però, mi obbliga a raccontare tutto quello che vengo a sapere durante un'indagine. Ottoz annuì. – Anche il suo socio la pensa così? – Non è mio socio, ma sa quando tenere la bocca chiusa. – Eh? – disse Joe che si era distratto. – Visto come sa calarsi nella parte del fesso che non sa niente? – feci notare io. Ottoz mi fissò pensieroso ancora per qualche secondo, infine si decise. – Va bene – disse. Si riempì di nuovo il bicchiere di vino e bevve un sorso. – Quando, dopo l'omicidio, i carabinieri sono venuti per parlarmi, c'è una cosa che non ho detto. Non ho dormito per una settimana talmente ero combattuto, ma non potevo raccontarla. Attilio mi aveva chiesto di non rivelarla mai a nessuno qualsiasi cosa fosse successa. Voi, però, venite da fuori e forse può servire a scoprire l'assassino... Continuava a fornire giustificazioni. Dentro di me, invece, cominciavo a fremere e volevo scuoterlo urlandogli: "Ti decidi a parlare, porca puttana?". – Però, in paese non si deve sapere nulla di quello che sto per dirvi, capito? Annuimmo. – Insomma – disse – Maddalena, la figlia di Attilio, quando aveva quindici anni è stata stuprata da un uomo. – Chi era? – Non lo so. Maddalena ha detto che aveva un cappuccio in testa. Accidenti, il porno-istinto di Joe aveva ragione. La madre di Carolina ci aveva davvero nascosto qualcosa. Joe mi lanciò un'occhiata. Feci finta di niente. Mi venne però in mente una cosa: se a lui stava venendo un istinto da detective perché a me non cresceva l'uccello? – Come ha fatto a sapere dello stupro? – domandai. – Ero a casa di Attilio e sua moglie quando Maddalena è tornata a casa sconvolta. Fino a ora, solo io, Attilio e sua moglie sapevamo dell'accaduto. Io a mia moglie non l'ho mai detto. Era una brava donna, ma con lei i segreti avevano vita corta. – Carolina non lo sa? – chiese Joe. – No. E non voglio che lo venga a sapere, chiaro? Raccontarglielo la angoscerebbe soltanto e non sarebbe di nessun aiuto. — Non capisco — disse Joe. — Perché non avete fatto denuncia? – In quegli anni lo stupro non era considerato un reato così grave. E poi... – Chenal voleva farsi giustizia da solo – dissi io. – Esatto. - E ci è riuscito? – Questo è il punto. Io penso di sì, ma è solo una mia idea. Con Attilio non ne ho mai parlato. Ad ogni modo, quattro anni fa, uno del paese che si chiama Ernesto Colliard è scomparso da un giorno all'altro. In paese è girata la voce che fosse scappato in qualche isola tropicale, ma la verità è che Colliard, da giovane, girava spesso attorno a Maddalena. Ed era pure un violento. Per me Attilio è finalmente riuscito a scoprirlo, lo ha ucciso e ha nascosto il cadavere. – Questo Colliard quanti anni aveva quando è avvenuta la violenza? – Diciannove o venti. – Chenal come avrebbe fatto a scoprire che era stato lui? Ottoz scosse la testa spelacchiata. – Non lo so. Forse aveva dei sospetti e lo ha obbligato a confessare. – No, in questo caso non avrebbe lasciato passare così tanto tempo – dissi. – Non so davvero. Magari Colliard non c'entra nulla. Ma anche se Attilio aveva deciso di non parlarne più, io sapevo che non avrebbe mai rinunciato a vendicarsi. – Non ha fatto commenti sulla scomparsa di Colliard? – Ha solo detto che non avrebbe sentito la sua mancanza. – Ma c'è un collegamento fra lo stupro e l'omicidio? – chiese Joe. – È quello che mi chiedo pure io – disse Ottoz. – È presto per rispondere – dissi. – Colliard era sposato? – No. – Altri parenti con cui potremmo parlare?
– Sì. Una sorella.
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