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| << | < | > | >> |Pagina 5Fluida lei lo sarebbe stata tutta la vita. Ma ciò che aveva dominato i suoi contorni e li aveva attratti verso un centro, ciò che l'aveva illuminata contro il mondo e le aveva conferito un intimo potere, era stato il segreto. Segreto al quale lei non avrebbe mai saputo pensare in termini chiari, temendo di invaderne e dissolverne l'immagine. Segreto che aveva tuttavia formato nel suo intimo un nucleo lontano e vivo senza mai perdere la propria magia - sostenendola nella sua insolubile vaghezza come la sola realtà che per lei avrebbe sempre dovuto essere perduta. I due si sporgevano sul fragile ponte e, inquieta, Virginia sentiva i piedi nudi vacillare come se si librassero sopra il calmo gorgo delle acque. Era un giorno asciutto e violento dagli estesi colori immobili; gli alberi scricchiolavano al tiepido vento increspato da bruschi raffreddamenti. Il suo vestito sottile e strappato da bambina era attraversato da brividi d'aria fresca. La bocca seria premuta contro il ramo morto del ponte, Virginia immergeva gli occhi distratti nelle acque. A un tratto, tesa e lieve lei si immobilizzò.«Guarda!» | << | < | > | >> |Pagina 12Nei pomeriggi in cui il vento si aggirava nella Granja - le donne nelle loro stanze, il padre al lavoro, Daniel nel bosco - nei pomeriggi levigati in cui un vento carico di sole soffiava come sopra delle rovine, denudando i muri sgretolati, Virginia vagava nella limpidezza abbandonata. Camminava guardando, colta da una severa distrazione. Era pieno giorno, i campi si estendevano chiari, senza macchie e lei si muoveva insonne. Sentiva una nausea diffusa nei suoi nervi calmi - piccola e magra, le gambe segnate da zanzare e cadute, si fermava vicino allo scalone a guardare. Salendo sinuosi, i gradini acquisivano una grazia decisa così lieve che Virginia ne perdeva la percezione quasi nell'istante stesso in cui la possedeva e vi si bloccava davanti vedendo solo legno impolverato e velluto scarlatto, gradino, gradino, angoli secchi. Senza sapere perché, lei sostava, sventolando le braccia nude e sottili. Viveva all'orlo delle cose. La sala. La sala piena di punti neutri. L'odore della casa vuota. Ma il lampadario! C'era il lampadario. Il grande ragno incandescente. Lei lo guardava immobile, inquieta, quasi presentendo una vita terribile. Quell'esistenza di ghiaccio. Una volta! Una volta a un'occhiata - il lampadario si spargeva in crisantemi e gioia. Un'altra, lei attraversava di corsa la sala - lui era un casto seme. Il lampadario. Virginia usciva a salti senza guardarsi indietro.| << | < | > | >> |Pagina 22Eppure, a volte com'era rapida la sua vita. Luci camminano senza una direzione, Virginia scruta il cielo, i colori brillano nell'aria. Virginia cammina senza meta, la chiarità è l'aria, Vírginia respira chiarità, foglie tremano ignare, Virginia non pensa, le luci camminano senza una meta, Virginia scruta il cielo... Com'era rapida a volte la sua vita. La sua piccola testa di bambina le girava, lei fissava la campagna davanti a sé, spiava Granja Quieta ormai perduta in lontananza e guardava senza cercare di capire. A Brejo Alto non c'era il mare, ma bastava dare un'occhiata all'estensione della campagna, chiudere poi subito gli occhi, spremere il proprio cuore e come un figlio, un figlio che sta per nascere, sentire l'odore dolcemente putrido del mare. E anche se in quell'attimo il giorno era duro e nuovo, le piante secche di polvere, le nuvole rosse e calde dell'estate, gli aspri girasoli che si scuotevano all'estremità del grosso stelo contro lo spazio anche se non c'era la felice umidità delle terre vicine alle acque... una volta un uccello era scaturito dalla campagna, in un volo improvviso verso l'aria, e le aveva fatto accelerare i battiti del cuore con uno spavento impallidito. E la cosa era libera e lieve come quando si cammina sulla spiaggia. Virginia non era mai stata al mare però sapeva com'era e non forzava la sua vita a esprimerlo in pensieri. Sapeva e questo bastava.| << | < | > | >> |Pagina 30Daniel si mise a pensare violentemente a nulla. Un desiderio di uccidere, di conquistare, mentre una formica rossa e lenta muoveva le sue lunghe zampe sul cemento della panchina. Daniel non sapeva cosa fare e il rumore bagnato dell'acqua rinfrescava quel suo enorme spirito. Una grande voglia non senza una certa ironia lo invase, lui si avviava ormai verso i quindici anni. Afferrò un lungo stelo d'erba, lo strappò, lo masticò e per sfida lo inghiottì. Troppo poco. Gli pareva che avrebbe dovuto morire, sì, la morte come una risposta. Per vivere lui aveva bisogno di collera, la collera gli dava eloquenza. Respirò impetuosamente sentendo nel cuore il verde duro e inflessibile della vita - il nuovo coraggio gli ispirò un'idea, ecco, lui l'avrebbe spaventata, le avrebbe detto che sarebbe morto! Quel breve impulso diede un'accelerazione alla sua vita e i suoi occhi si rallegrarono. Tornò alla panchina sulla quale Virginia seduta immergeva gli occhi assonnati nel terreno. Un sottile scialle di lana le riparava dal freddo le spalle rattrappite.«Ma sei gobba», l'attaccò lui. Virgínia raddrizzò un attimo la schiena e tornò stancamente alla posizione di prima. Lui si irritò; ma, con saggezza, riuscì a trasformare il proprio impeto in una lenta forza di pazienza. Le disse: «Andiamo a camminare». Poco mancò che la facesse correre. Rapidamente, una certa gioia si impadronì di lei, il sonno svanì. «Morirò», le disse lui con tono naturale, non potendo più controllarsi. Lei impallidì. «No.» Virginia non lo contrariava mai... Lui la osservò incuriosito, la vide emozionata, scoppiò in un riso sprezzante e veemente e si scrollò come se fosse in acqua. «Morirò, così ... » Mise su una faccia da morto, ma si accorse che in quell'istante la violenza si era esaurita e, ormai disinteressato, guardava il giardino. Lei non si era spaventata. E via via che camminavano, lui cominciò ad avere sonno. Rimasero in silenzio, ma forse entrambi pensavano semplicemente la stessa cosa. Chissà se tutti sanno quello che so io? si interrogava Virginia. Lei che senza trasalire aveva appena pensato con una sorta di certezza al fatto di morire. | << | < | > | >> |Pagina 17L'indomani mattina una foglia si staccò da un grande albero e per interminabili minuti planò nell'aria fino a posarsi per terra. Virginia non capiva da dove venisse la dolcezza: il terreno era scuro e coperto di foglie secche ma, da dove allora veniva quella dolcezza? Nell'aria si formava un desiderio, palpitava attentamente, si dissolveva e non era mai esistito. Virginia allontanò le foglie e con un legnetto scrisse con lettere imprecise: «Impero del Sol Levante». Poi, col piede, cancellò le parole e scrisse: «Virginia». Lei appuntava se stessa non diversamente da come si tempera una matita e, col legnetto, tracciò un leggero segno per terra. Poi tornò a cancellarlo e con una serietà colma di fulgore volle disegnare qualcosa di maggiore intensità. Si concentrò e, simile a un presagio, fu percorsa da un'onda nervosa. Con eccezionale serenità a occhi chiusi disegnò grossolanamente come se lanciasse un grido attento - e riaprendo gli occhi non vide che un semplice, netto, rozzo e banale cerchio. Oggi non va - era semplicemente un'impressione e fin da piccola lei avrebbe dovuto saperlo. Sono infelice, pensò poi, lentamente quasi offuscata - ed era ormai una ragazzina. Si lasciò scivolare sulla grande pietra in mezzo al giardino. La frazione di un secondo fino a toccare il terreno. Ma per tutta la durata di quel secondo, a occhi chiusi, il viso attento e mobile, lei scrutò il giardino a lungo, più a lungo di quel secondo, sentendolo allora vuoto della grandezza di un mondo spopolato. E già lei toccava terra. Aprì gli occhi e nel passaggio dal buio alla luce il suo cuore si apri al mattino. Il sole, il sole gelido. E certi punti del giardino così segreti, segreti quasi a occhi chiusi, così segreti da poter contenere dell'acqua nascosta. L'aria aveva un brillio umido come una polvere quasi lucida. E andando di corsa senza forza si sarebbe impercettibilmente sentito lo spezzarsi di invisibili frecce, fragili e glaciali, e l'aria vibrare nelle orecchie, sottile, nervosa, impossibile da sentire ma sonora. Virginia cercava di chiudere nuovamente gli occhi, di possedere nuovamente la sorpresa. Ma la visione del mattino aveva semplicemente voluto scintillare in lei e sarebbe stato inutile tentare di scorgere il vuoto di un altro momento.| << | < | > | >> |Pagina 63La Società delle Ombre era forse nata a causa dell'affogato? Daniel e Virginia avevano presentato l'incantato e pericoloso inizio dell'ignoto, quell'impulso che nasceva dalla paura.Daniel le aveva detto: «Adesso fondiamo la Società delle Ombre». Prima ancora di sapere di cosa si trattasse, Virginia col suo corpo aveva già confusamente capito e aveva aderito. La Società delle Ombre aveva dei fini strani e poco definiti. Loro stessi non li conoscevano e mescolavano i regolamenti con una sorta di disperata ignoranza. La Società delle Ombre doveva esplorare il bosco. Sì, così. Ma perché? Vicino al grande caseggiato c'era un sentiero quasi ostruito dal quale si raggiungeva l'oscurità, già, l'oscurità, ma perché? «Perché la solitudine... Solitudine è il fine della Società», impose Daniel. «Come?» Virginia non capiva bene. «Tutto quello che ci fa paura perché ci lascia soli è quello che noi dobbiamo cercare», pontificò lui. | << | < | > | >> |Pagina 74Sognò che la sua forza diceva a voce alta dirigendosi al confine del mondo: voglio uscire dai limiti della mia vita, senza parole solo con la scura forza che dirige se stessa. Un impulso crudele e vivo la spingeva in avanti e lei avrebbe desiderato morire per sempre, se morire le avesse dato un solo istante di piacere, tale era la gravità raggiunta dal suo corpo. Avrebbe dato il suo cuore da mordere. Come crudeltà suprema, Virginia voleva uscire dai limiti della sua vita. Allora uscì di casa e andò alla ricerca, alla ricerca con tutto ciò che di più feroce possedeva; alla ricerca di un'ispirazione, le narici sensibili come quelle di un animale magro e impaurito, ma tutto attorno a lei era dolcezza e la dolcezza lei ormai la conosceva e ora la dolcezza non era che l'assenza della paura e del pericolo. Avrebbe fatto qualcosa così aldilà dei suoi limiti da non riuscire neppure a capirlo - ma lei non aveva forze, ah, non poteva uscire da ciò che poteva. Doveva chiudere un secondo gli occhi e pregare per se stessa con un disprezzo brutale finché con un profondo sospiro, spogliandosi dell'ultimo dolore, dimenticandolo, infine lei si sarebbe incamminata verso il sacrificio del destino. Perché se sono libera, se con un gesto posso rinnovare tutto quanto - Virginia camminava nella campagna sotto un cielo slavato - allora nulla mi impedisce di compiere quel gesto; questa era la buia sensazione inquieta che lei provava. Stava camminando quando vide un cane e con uno sforzo ansimante simile a quello che si fa per uscire da acque chiuse, a quello che si fa per uscire da ciò che si può, decise di ammazzarlo mentre camminava. Il cane scodinzolava indifeso - pensò di ammazzarlo e l'idea era fredda, ma lei temeva di ingannare se stessa dicendosi che l'idea era fredda per sfuggirne. A quel punto, a gesti guidò il cane fino a un dato punto sul fiume e col piede lo spinse risolutamente nelle acque verso la morte. Lo senti guaire, lo vide dibattersi trascinato dalla corrente e morire - non ne rimase nulla, neanche il cappello. Virginia proseguì serenamente. Serenamente continuava ad andare alla ricerca. Vide un uomo, un uomo, un uomo. Per effetto del vento i suoi pantaloni ampi gli si incollavano al corpo, quelle gambe, quelle gambe magre. Era un mulatto, l'uomo, l'uomo. E i suoi capelli, mio Dio, i capelli ingrigivano. Tremando dal disgusto lei gli andò incontro tra l'aria e lo spazio - e si fermò. Anche lui si fermò, i vecchi occhi in attesa. Niente sul volto di Virginia lasciava supporre ciò che lei aspettava che accadesse. Lei doveva parlare e non sapeva come. Disse:«Prendimi». Gli occhi del mulatto si spalancarono. E subito dopo stagliato contro l'aria pura e il vento, contro il verde chiaro e scuro dell'erba e degli alberi, subito dopo, capendo, lui scoppiò a ridere. Muto la sollevò ridendo, i capelli che ingrigivano, ridendo, e dietro si estendeva la campagna battuta dal vento. Muto la sollevò ridendo, un odore di carne masticata gli saliva dalla bocca, dal ventre attraverso la bocca, un alito di sangue; dalla camicia semiaperta spuntavano lunghi peli sudici e intorno l'aria era vivace, lui la sollevò per le braccia e la sensazione di ridicolo la irrigidì ferocemente - la faceva dondolare nell'aria per dimostrarle che era leggera. Virginia lo allontanò con violenza e lui muto, ridendo, muto si incamminò e la trascinò e invincibile la prese. E lui rideva ancora quando lei si rialzò e serenamente come per uscire infine dai limiti della sua vita calma e vigorosa gli schiacciò col piede il volto rugoso e gli sputò addosso mentre lui muto la guardava non capendo e il cielo si dilatava in un unico azzurro. | << | < | > | >> |Pagina 117Era quello, l'anice violetto come il ricordo. Senza farsi accorrere ne tratteneva in bocca un sorso e non lo inghiottiva per possedere l'anice presente come un profumo: inspiegabilmente, mentre era fermo l'anice si rifiutava di profumare e di emettere il suo gusto, l'alcol che le attutiva e le intiepidiva la bocca. Vinta, inghiottiva il liquido ormai vecchio, quello le scendeva in gola e sorpresa lei notava che quello era stato «anice» per la durata di un secondo mentre le scivolava in gola, o era stato dopo? O prima? Né «durante» né «mentre» ma più riassunto: era stato anice per un secondo come l'accostarsi della punta di un ago alla pelle, solo che la punta dell'ago dava una sensazione acuta e il gusto fugace dell'anice era ampio e calmo e fermo come un campo, si, un campo di anice, come guardare un campo di anice. Le sembrava impossibile sentire il gusto di anice in quanto lo si era sentito in passato e mai nel presente: dopo che questo succedeva ci si metteva a pensare a quel gusto e quel pensiero... era il gusto dell'anice.| << | < | > | >> |Pagina 165Virginia trascorreva le sue mattine vicino al tavolo a guardarsi le dita, le unghie levigate e rosee. Chissà se anche gli altri sanno quello che so io, le succedeva di pensare profondamente. Cercava di distrarsi disegnando linee diritte senza l'aiuto di una riga - ma dov'era il fascino del lavoro? Senza poterselo precisare meglio le sembrava di sbagliare a ogni istante. A volte pronunciava a voce alta alcune parole e ascoltandosi aveva la strana, inquieta e deliziosa impressione di non essere lei e che quel suo allarmato stupore fosse anche una menzogna. E poi in un successivo straniamento debole e stordito, lei era lei. Con una vocetta annoiata scrollando la testa diceva: «Insomma non sono contenta, non sono per niente contenta». Oppure cominciava a vivere in un'intima esaltazione, in un'ardente purezza il cui inizio era un'impercettibile falsità. Era ancora capace di chiudere gli occhi e di chiudersi con una forza brutale. Abbassava le palpebre con delicatezza come se lasciasse filtrare lentamente quella forza - e osservava le cose sotto una certa luce da crepuscolo dorato, cose che fluttuavano in un tremulo fulgore, le cose ora schiarite e sottili; tra le cose l'aria era tesa e fredda, i rumori si acuivano in aghi veloci. Stanca lì per lì lei spalancava gli occhi, liberava la propria forza - in uno scoppio muto le cose seccavano grigie, dure e calme, il mondo infine. Oppure rinasceva come chi rabbrividisca con un impulso di sorpresa. Virginia si vestiva con tanta cura come se dovesse trovare una folla in sua attesa sulla porta. Usciva in strada, camminava a passo lento sulla passeggiata esibendosi, gli occhi attenti, la sensazione di rifulgere ardente e seria. Lei era un insetto duro, uno scarabeo che volava in linee improvvise, sbatteva contro i vetri emettendo un canto stridulo. E in effetti nonostante quel suo aspetto modesto e la sua faccia pallida c'era chi la guardava incuriosito, sovente dedicandole più di un momento della propria attenzione. Con una segreta brutalità lei si animava; a un tratto come si faceva evidente quell'unica verità, le persone si preparavano, si imbellettavano, assumevano l'atteggiamento a seconda dell'abito, uscivano in strada, si incrociavano luminose per poi spegnersi nuovamente una volta in casa - con sicurezza e ardore Virginia capiva la città. Era orgogliosa di non essere Esmeralda. Ogni tanto si sentiva guardata come se fosse destinata a grandi cose. E di colpo a uno sguardo aveva questa impressione: quell'uomo sa qualcosa di me! Ma alla fine che gli importa? Perché per esistere non occorre che una cosa sia saputa - questa era la sensazione che lei aveva, le sopracciglia aggrottate. Sopraggiungeva poi una rapida calma, esitante dopo quello che non era neppure diventato un pensiero. Lei tornava a casa stanca come dopo una festa in cui fosse stata incoronata. Passava le sue giornate a leggere; leggeva come una prostituta bistrata piena di un'avidità e di una noia che le bruciavano l'anima e la disseccavano velocemente. Ciò che più la inquietava era la possibilità di andare a dormire così presto. Già al risveglio Virginia cominciava a pensare al momento in cui addormentarsi. Era come se il modo in cui scorrevano le ore si fosse irrimediabilmente trasformato e lei vivesse in mezzo alle ore, mossa dal dovere che queste le suggerivano. Non c'era nessuno che le impedisse di andare a letto alle sette di sera. Se non tralasciava di cenare, era solo perché lei a quel punto avrebbe potuto andare a letto alle cinque. Si organizzava tutta con calcolo e attenzione per poi rimanersene lì, vigile, a respirare.| << | < | |