Copertina
Autore Jonathan Littell
Titolo Le Benevole
EdizioneEinaudi, Torino, 2007, Supercoralli , pag. 956, cop.ril.sov., dim. 14x22x4,5 cm , Isbn 978-88-06-18731-6
OriginaleLes Bienveillantes [2006]
TraduttoreMargherita Botto
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe narrativa statunitense , narrativa francese , storia criminale , storia: Europa , psichiatria
PrimaPagina


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Indice


  3  Toccata

 27  Allemanda I e II

327  Corrente

415  Sarabanda

517  Minuetto (in rondò)

837  Aria

885  Giga


     Appendici

947  Equivalenza dei gradi
948  Glossario


 

 

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Pagina 3

Toccata



Fratelli umani, lasciate che vi racconti com'è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo. Ed è ben vero che si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale, ve l'assicuro. Rischia di essere un po' lungo, in fondo sono successe tante cose, ma se per caso non andate troppo di fretta, con un po' di fortuna troverete il tempo. E poi vi riguarda: vedrete che vi riguarda. Non dovete credere che cerchi di convincervi di qualcosa; in fondo, come la pensate è affar vostro. Se mi sono deciso a scrivere, dopo tutti questi anni, è per mettere in chiaro le cose per me stesso, non per voi. A lungo uno striscia su questa terra come un bruco, nell'attesa della diafana e splendida farfalla che porta in sé. E poi il tempo passa, la ninfosi non arriva, rimani larva, desolante constatazione, ma che farci? Certo, il suicidio resta un'opzione. Ma per la verità, il suicidio mi tenta poco. Ci ho pensato molto, ovviamente; e se dovessi ricorrervi, ecco come farei: mi piazzerei una bomba a mano proprio sul cuore e me ne andrei in un violento scoppio di gioia. Una piccola bomba a mano rotonda a cui toglierei con delicatezza la sicura prima di rilasciare la linguetta, sorridendo al lieve rumore metallico della molla, l'ultimo che sentirei, oltre ai battiti del mio cuore nelle orecchie. E poi, finalmente, la felicità, o perlomeno la pace, e le pareti dello studio addobbate di brandelli di carne. Toccherà alle domestiche pulire, sono pagate per questo, affari loro. Ma come ho detto, il suicidio non mi tenta. Non so perché, del resto, un vecchio residuo di morale filosofica, forse, che mi fa dire che in fondo non siamo qui per divertirci. Per far che, allora? Non ne ho idea, per durare, probabilmente, per ammazzare il tempo prima che lui ammazzi noi. E in tal caso, come occupazione, a tempo perso, scrivere vale come qualsiasi altra. Non che abbia poi tanto tempo da perdere, sono molto occupato; ho quel che si dice una famiglia, un lavoro, e quindi delle responsabilità, tutto ciò assorbe tempo, non ne lascia granché per raccontare i propri ricordi. Dato che di ricordi ne ho, e anche in notevole quantità. Sono una vera e propria fabbrica di ricordi. Avrei passato la vita a produrre ricordi, anche se ora mi pagano piuttosto per produrre merletti. In realtà, avrei potuto benissimo non scrivere. Dopotutto, non è obbligatorio. Dalla guerra in poi sono sempre stato un uomo discreto; grazie a Dio non ho mai avuto bisogno, come certi ex commilitoni, di scrivere le mie Memorie a scopo giustificativo, perché non ho niente da giustificare, né a scopo di lucro, perché mi guadagno abbastanza bene la vita cosí. Una volta, ero in Germania per affari, parlavo con il direttore di una grande azienda di biancheria intima a cui volevo vendere del merletto. Gli ero stato raccomandato da vecchi amici; cosí, senza fare domande, sapevamo entrambi come regolarci reciprocamente. Dopo il colloquio, che peraltro si era svolto in modo molto positivo, si alzò per prendere un volume dalla sua libreria e me lo regalò. Erano le memorie postume di Hans Frank, il governatore generale della Polonia; si intitolavano Di fronte al patibolo. «Ho ricevuto una lettera dalla sua vedova, - spiegò il mio interlocutore. - Ha fatto pubblicare a proprie spese il manoscritto, redatto poco dopo il processo, e lo vende per sopperire alle necessità dei figli. Se lo immagina, arrivare a questo punto? La vedova del governatore generale. Le ho ordinato venti copie, da regalare. Ho anche proposto a tutti i miei capireparto di comperarne una. Lei mi ha scritto una commovente lettera di ringraziamento. L'ha conosciuto?» Gli assicurai di no, ma che avrei letto il libro con interesse. In realtà sí, l'avevo incrociato di sfuggita, forse ve lo racconterò dopo, se ne avrò il coraggio o la pazienza. Ma allora, non avrebbe avuto alcun senso parlarne. Il libro, peraltro, era pessimo, confuso, piagnucoloso, intriso di una bizzarra ipocrisia religiosa. Queste mie note saranno forse altrettanto pessime e confuse, ma farò del mio meglio per essere sempre chiaro; posso garantirvi che almeno resteranno prive di qualunque genere di contrizione. Non ho alcun rimpianto: ho fatto il mio lavoro, tutto qui; quanto alle mie storie di famiglia, che forse racconterò, riguardano solo me; e per il resto, verso la fine ho probabilmente forzato il limite, ma a quel punto non ero piú del tutto me stesso, vacillavo e d'altro canto intorno a me si ribaltava il mondo intero, e non fui l'unico a perdere la testa, dovete ammetterlo. E poi non scrivo per mantenere la mia vedova e i miei figli, io; sono perfettamente in grado di sopperire ai loro bisogni. No, se alla fine mi sono deciso a scrivere, è probabilmente per passare il tempo, e anche, se possibile, per chiarire un paio di punti oscuri, per voi, forse, e per me stesso. Inoltre penso che mi farà bene. È vero che sono d'umore un po' spento. La stitichezza, probabilmente. Faccenda deprimente e dolorosa, oltre che nuova per me; una volta era tutto il contrario. Per molto tempo ho dovuto andare al gabinetto tre, quattro volte al giorno; adesso, una volta la settimana sarebbe una benedizione. Sono ridotto ai clisteri, procedura quanto mai spiacevole, ma efficace. Mi perdonerete se vi intrattengo con particolari cosí scabrosi: avrò pure il diritto di lamentarmi un po'. E poi, se non reggete questo fareste meglio a fermarvi qui. Non sono Hans Frank, io, e non mi piacciono le cerimonie. Voglio essere preciso, per quanto posso. Nonostante le mie vicissitudini, e sono state tante, resto di quelli che pensano che le sole cose indispensabili alla vita umana siano l'aria, il mangiare, il bere e l'evacuare, e la ricerca della verità. Il resto è facoltativo.

Qualche tempo fa mia moglie ha portato a casa un gatto nero, pensando senz'altro di farmi piacere. Ovviamente non aveva chiesto il mio parere. Doveva sospettare che avrei decisamente rifiutato, era piú sicuro mettermi di fronte al fatto compiuto. E una volta a casa, niente da fare, i bambini avrebbero pianto, ecc. Però quel gatto era indisponente. Quando cercavo di accarezzarlo, per dimostrare la mia buona volontà, schizzava a sedersi sul davanzale della finestra e mi fissava con i suoi occhi gialli; se cercavo di prenderlo in braccio, mi graffiava. Di notte, invece, veniva ad acciambellarsi sul mio petto, una massa soffocante, e dormendo sognavo di soffocare sotto un mucchio di pietre. Con i miei ricordi è stata un po' la stessa cosa. La prima volta che mi decisi a metterli per iscritto, presi le ferie. Probabilmente fu un errore. Eppure la faccenda era partita bene: avevo comperato e letto un gran numero di libri sull'argomento, per rinfrescarmi la memoria, avevo preparato delle tabelle, stilato cronologie dettagliate, e cosí via. Ma con quelle ferie avevo improvvisamente un po' di tempo e mi misi a pensare. Per di piú era autunno, una sporca pioggia grigia denudava gli alberi, e sprofondai lentamente nell'angoscia. Mi accorsi che pensare non è una buona cosa.

Avrei dovuto sospettarlo. I colleghi mi considerano un uomo calmo, posato, riflessivo. Calmo, certo; ma molto spesso durante la giornata la testa si mette a rombarmi, sordamente come un forno crematorio. Parlo, discuto, prendo decisioni, come tutti; ma al bar, davanti a una buona grappa, immagino che entri un uomo armato di fucile e apra il fuoco; al cinema o a teatro mi figuro una bomba a mano senza sicura che rotola sotto le file di poltrone; in piazza, un giorno di festa, vedo la deflagrazione di un veicolo imbottito di esplosivo, l'allegria pomeridiana trasformata in massacro, il sangue che scorre fra le pietre del selciato, i pezzi di carne appiccicati ai muri o proiettati attraverso le finestre per atterrare nella minestra della domenica, sento le grida, i gemiti delle persone con gli arti strappati, come le zampe di un insetto da un bambino curioso, l'intontimento dei sopravvissuti, un silenzio strano, quasi incollato sui timpani, l'inizio della lunga paura. Calmo? Sí, sto calmo, qualunque cosa accada, non lascio trasparire nulla, resto tranquillo, impassibile, come le facciate mute delle città sinistrate, come i vecchietti sulle panchine dei parchi con i loro bastoni e le loro medaglie, come i volti a fior d'acqua degli annegati che nessuno ritrova mai. Di rompere questa calma spaventosa non sarei capace, anche se volessi. Non sono uno di quelli che fanno scenate per un nonnulla, so come comportarmi. Eppure pesa anche a me. Il peggio non sono necessariamente le immagini che ho appena descritto; di fantasie cosí ne ho da tempo, dall'infanzia probabilmente, e comunque da molto prima di essermi trovato nel bel mezzo del mattatoio. In questo senso la guerra è stata solo una conferma, e mi sono abituato a queste scenette, le prendo come un commento pertinente alla vanità delle cose. No, ciò che si è rivelato doloroso, gravoso, è stato occupare il tempo soltanto a pensare. Rifletteteci: a cosa pensate, voi, durante la giornata? A pochissime cose, in realtà. Stilare una classificazione ragionata dei vostri pensieri abituali sarebbe facile: pensieri pratici o meccanici, pianificazione dei gesti e del tempo (esempio: mettere a bollire l'acqua del caffè prima di lavarvi i denti, ma mettere il pane a tostare dopo, perché è pronto piú in fretta); preoccupazioni di lavoro; noie finanziarie; problemi domestici; fantasie sessuali. Vi risparmierò i dettagli. A cena, contemplate il volto sempre piú sfiorito di vostra moglie, tanto meno eccitante della vostra amante, eppure ammodo sotto tutti i punti di vista, che fare, è la vita, quindi parlate dell'ultima crisi di governo. In realtà ve ne sbattete altamente dell'ultima crisi di governo, ma di che altro parlare? Eliminate questo tipo di pensieri, e converrete con me che non resta granché. Ci sono, ovviamente, momenti diversi. Inatteso, fra due pubblicità di detersivi, un tango di prima della guerra, Violetta per esempio, ed ecco che riaffiorano gli sciabordii notturni del fiume, le lanterne del chiosco delle bibite, il lieve odore di sudore di una donna spensierata; all'ingresso di un parco, il volto sorridente di un bambino vi riporta a quello di vostro figlio, appena prima che imparasse a camminare; in strada, un raggio di sole sbuca dalle nuvole e rischiara le grandi foglie, il tronco biancastro di un platano: e d'improvviso pensate alla vostra infanzia, al cortile della ricreazione dove giocavate alla guerra urlando di terrore e di felicità. Avete appena avuto un pensiero umano. Ma è rarissimo.

Se invece si sospendono il lavoro, le attività banali, la frenesia quotidiana, per dedicarsi seriamente a un pensiero, è tutt'altra faccenda. Ben presto le cose riaffiorano, a ondate gonfie e scure. Di notte, i sogni si disarticolano, si dispiegano, proliferano, e al risveglio lasciano nella testa una sottile patina acre e umida, che ci mette un bel po' a dissolversi. Intendiamoci bene: qui non si tratta di colpa, di rimorso. C'è anche questo, indubbiamente, non dico di no, ma penso che le cose siano ben piú complicate di cosí. Perfino uno che non ha fatto la guerra, che non ha dovuto uccidere, soffrirà di ciò di cui parlo. Riaffiorano le piccole cattiverie, la viltà, la falsità, le meschinità che affliggono chiunque. Non stupisce, quindi, che gli uomini abbiano inventato il lavoro, l'alcol e le chiacchiere sterili. Non stupisce che la televisione abbia tanto successo. Insomma, rinunciai ben presto a quelle malaugurate ferie, era meglio cosí. Avevo abbastanza tempo per scribacchiare all'ora di pranzo o la sera, dopo che le segretarie se n'erano andate.

Una breve pausa per vomitare, e riprendo. È un altro dei miei numerosi piccoli disturbi: di tanto in tanto mi torna su quello che ho mangiato, a volte subito, a volte dopo, senza motivo, cosí. È un vecchio problema, risale alla guerra, è incominciato verso l'autunno del 1941 per essere precisi, in Ucraina, a Kiev penso, o forse a Zitomir. Parlerò certo anche di questo. Comunque, col tempo mi ci sono abituato: mi lavo i denti, butto giú un bicchierino, e riprendo ciò che stavo facendo. Torniamo ai miei ricordi. Mi sono comperato diversi quaderni, di grande formato ma a quadretti piccoli, che tengo in ufficio in un cassetto chiuso a chiave. Prima, prendevo appunti su schede di cartoncino, sempre a quadretti; adesso ho deciso di ricominciare tutto da capo. A quale scopo non so esattamente. Certo non per l'edificazione della mia prole. Se in questo preciso istante morissi improvvisamente, per una crisi cardiaca, diciamo, o per un'embolia cerebrale, e le mie segretarie prendessero la chiave e aprissero questo cassetto, rimarrebbero sconvolte, poverette, e cosí pure mia moglie: basterebbero ampiamente le schede di cartoncino. Bisognerà bruciare tutto in gran fretta per evitare lo scandalo. Per me è lo stesso, sarò morto. E in fin dei conti, anche se mi rivolgo a voi, non è per voi che scrivo.

Il mio ufficio è un posto piacevole per scrivere, grande, sobrio, tranquillo. Pareti bianche, quasi prive di arredi, un espositore per i campioni; e in fondo una grande vetrata che si affaccia sulla sala delle macchine. Nonostante íl doppio vetro, l'incessante ticchettio dei telai Leavers riempie la stanza. Quando voglio pensare, mi allontano dalla scrivania e vado a mettermi li davanti, contemplo i telai allineati ai miei piedi, i movimenti sicuri e precisi dei merlettai, e mi lascio cullare. Talvolta, scendo a girellare fra le macchine. La sala è scura, i vetri sporchi sono tinti di azzurro perché il merletto è delicato, teme la luce, e quel lucore bluastro mi riposa la mente. Mi piace perdermi un poco nel ticchettio monotono e sincopato che pervade lo spazio, quel battito metallico a due tempi, ossessivo. I telai mi impressionano sempre. Sono di ghisa, dipinti di verde, e pesano dieci tonnellate ciascuno. Certi sono vecchissimi, non li producono piú da tempo; i pezzi di ricambio li faccio fare su ordinazione; dopo la guerra siamo passati dal vapore all'elettricità, ma le macchine vere e proprie non le abbiamo toccate. Non mi avvicino, per evitare di sporcarmi: diverse parti vanno costantemente lubrificate, ma l'olio rovinerebbe il merletto, cosí si usa la grafite, una mina di piombo polverizzata che il merlettaio cosparge sui meccanismi mobili usando una calza, come un turibolo. Il merletto esce nero, e la grafite ricopre le pareti, il pavimento, le macchine e gli uomini che le sorvegliano. Anche se non ci metto mano spesso, conosco bene quei grandi macchinari. I primi telai inglesi per il tulle, segreto gelosamente custodito, sono entrati in Francia di contrabbando all'indomani delle guerre napoleoniche, grazie a operai che aggiravano i dazi doganali; è stato un lionese, Jacquard, a modificarli per produrre il merletto, introducendovi una serie di cartoni perforati che producono il disegno. Alcuni rulli, in basso, forniscono íl filo; nel cuore del telaio, cinquemila bobine, l' anima, stanno chiuse in un carrello; poi un catch bar (in francese manteniamo certi termini inglesi) interviene a controllare e muovere il carrello con un grande schiocco ipnotico, avanti e indietro. I fili, guidati lateralmente da combs di rame fissati su piombo, secondo una complessa coreografia codificata da cinquecento o seicento cartoni Jacquard, tessono dei nodi; un collo di cigno risale il pettine; alla fine compare il merletto, lieve come una ragnatela, conturbante sotto la sua patina di grafite, e va ad avvolgersi lentamente su un supporto, fissato in cima al Leavers.

Il lavoro in fabbrica obbedisce a una rigorosa segregazione sessuale: gli uomini creano i motivi, perforano i cartoni, montano le catene, sorvegliano i telai e gestiscono il personale ausiliario che li fa andare; invece le loro mogli e figlie sono ancor oggi addette a sbobinare, ripulire dalla grafite, rammendare, rifilare, ripiegare. Le tradizioni sono ben radicate. Qui i merlettai formano una sorta di aristocrazia proletaria. L'apprendistato è lungo, il lavoro delicato: nel secolo scorso í merlettai di Calais arrivavano in fabbrica in calesse e cilindro, davano del tu al padrone. I tempi sono cambiati. La guerra, benché qualche telaio lavorasse per la Germania, ha mandato in malora l'attività. Si è dovuto ricominciare tutto da zero; oggi nel Nord restano solo all'incirca trecento telai, mentre prima della guerra ne funzionavano quattromila. Eppure, con la ripresa economica i merlettai si sono comperati l'automobile ben prima di molti borghesi. I miei operai però non mi danno del tu. Non credo che i miei operai mi amino. Poco male, non lo pretendo. E poi nemmeno io li amo. Lavoriamo insieme, tutto qui. Quando un dipendente è coscienzioso e attento, quando il merletto che esce dal suo telaio richiede pochi rammendi, gli concedo una gratifica a fine anno; invece chi arriva al lavoro in ritardo, o ubriaco, lo multo. Con queste premesse, andiamo d'accordo.

Forse vi domandate come sia finito nel settore dei merletti. Eppure, non ero affatto predestinato al commercio. Ho studiato legge ed economia politica, sono laureato in giurisprudenza, in Germania il titolo Dr. jur. fa legalmente parte del mio nome. Ma è vero che le circostanze mi hanno reso difficile far valere il mio diploma, dopo il 1945. Per dirvi tutto, non ero nemmeno predestinato al diritto: da ragazzo aspiravo principalmente a studiare letteratura e filosofia. Ma me lo hanno impedito; un altro triste episodio del mio romanzo familiare, sul quale forse tornerò. Però devo ammettere che per i merletti il diritto serve piú della letteratura. Ecco piú o meno come sono andate le cose. Quando fu tutto finito, sono riuscito a venire in Francia, a farmi passare per francese; non è stato troppo difficile, visto il caos del momento, sono tornato con i deportati, e nessuno faceva molte domande. Va detto che parlavo un francese impeccabile; il fatto è che ho avuto una madre francese; ho passato dieci anni della mia infanzia in Francia, vi ho fatto le scuole medie, il liceo, i corsi preparatori all'università e perfino due anni di studi all'ELSP, e poiché sono cresciuto nel Sud potevo addirittura tirare fuori un pizzico di accento meridionale, comunque nessuno prestava attenzione, era un vero casino, mi hanno accolto alla stazione di Orsay con una zuppa, e anche qualche insulto, devo dire che non avevo tentato di farmi passare per deportato, ma per un lavoratore dello STO, e questo non gli andava molto a genio, ai gaullisti, allora mi hanno malmenato un po', e anche gli altri poveri diavoli, poi ci hanno rilasciati, per noi niente Lutetia, ma la libertà. Non sono rimasto a Parigi, conoscevo troppa gente, e del genere che era meglio non conoscere, me ne sono andato in provincia, ho vissuto di lavoretti, qua e là. E poi la situazione si è calmata. Hanno smesso rapidamente di fucilare la gente, ben presto non si prendevano nemmeno piú la briga di mandarla in prigione. Allora ho fatto qualche ricerca e ho finito per ritrovare uno che conoscevo. Se l'era cavata bene, era passato da un'amministrazione all'altra, senza scossoni; da persona previdente, aveva accuratamente evitato di sbandierare i servizi che ci rendeva. All'inizio non voleva ricevermi, ma quando ha finalmente capito chi ero, si è reso conto di non poterlo proprio evitare. Non direi che sia stato un colloquio piacevole: c'era un evidente senso di disagio, di difficoltà. Ma capiva bene che avevamo interessi in comune: io, trovare un posto, lui, tenersi il proprio. Aveva un cugino nel Nord, un ex spedizioniere che tentava di rimettere in piedi una piccola azienda con tre Leavers recuperati da una vedova che aveva fatto fallimento. Quell'uomo mi assunse, dovevo viaggiare, fare il piazzista per i suoi merletti. Era un lavoro orripilante: finalmente riuscii a convincerlo che avrei potuto essergli piú utile sul piano dell'organizzazione. Effettivamente in quel campo avevo una notevole esperienza anche se, come per la laurea, non potevo farla valere. L'azienda si sviluppò, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, quando ripresi i contatti nella Repubblica federale e riuscii a penetrare nel mercato tedesco. Allora avrei potuto facilmente tornare in Germania: molti ex commilitoni ci vivevano in tutta tranquillità, certi avevano scontato una lieve condanna, altri non erano nemmeno stati disturbati. Con il mio curriculum, avrei potuto riprendermi il nome e la laurea, chiedere una pensione da ex combattente e di invalidità parziale, nessuno ci avrebbe fatto caso. Avrei trovato rapidamente un lavoro. Ma, dicevo a me stesso, a che pro? In fondo, non mi sentivo motivato dal diritto piú che dal commercio, e poi avevo finito per appassionarmi al merletto, questa splendida e armoniosa creazione dell'uomo. Quando riuscimmo ad acquistare abbastanza telai, il mio capo decise di aprire una seconda fabbrica e me ne affidò la direzione. È il posto che occupo da allora, in attesa della pensione. Nel frattempo mi sono sposato, con una certa ripugnanza, è vero, ma qui nel Nord era piuttosto necessario, un modo per consolidare la mia posizione. L'ho scelta di buona famiglia, relativamente bella, una donna perbene, e le ho subito dato un figlio, per tenerla occupata. Purtroppo ha avuto due gemelli, dev'essere di famiglia, la mia, intendo, a me un solo marmocchio sarebbe ampiamente bastato. Il capo mi ha fatto un prestito, ho comperato una casa comoda, non troppo lontana dal mare. Ecco come mi sono imborghesito. Comunque era meglio cosí. Dopo tutto quello che era successo avevo soprattutto bisogno di calma e di regolarità. Ai sogni di gioventú il corso della mia vita aveva spezzato le ossa, e le mie angosce si erano lentamente consumate, da un capo all'altro dell'Europa tedesca. Sono uscito dalla guerra come un uomo svuotato, che possiede solo amarezza e una lunga vergogna, simile a sabbia che scricchiola fra i denti. Cosí, una vita ligia a tutte le convenzioni sociali faceva al caso mio: un comodo guscio, anche se spesso lo contemplo con ironia, e talvolta con odio. A questo ritmo, spero di raggiungere un giorno lo stato di grazia di Girolamo Nadal, e di non essere incline a nulla se non al non essere incline. Ecco che divento libresco; è uno dei miei difetti. Peccato, non mi faranno santo, non sono ancora libero dai miei bisogni. A mia moglie rendo ancora omaggio di tanto in tanto, coscienziosamente, con scarso piacere ma anche senza troppo disgusto, allo scopo di mantenere la pace in famiglia. E qualche volta, quando sono in viaggio d'affari, mi prendo la briga di tornare alle mie vecchie abitudini; ma soltanto, quasi, per scrupolo igienico. Tutto ciò ha perso molto del suo interesse per me. Il corpo di un bel ragazzo, una scultura di Michelangelo, è lo stesso: non mi tolgono piú il respiro. È come dopo una lunga malattia, quando i cibi non sanno di niente; quindi mangiare manzo o pollo che differenza fa? Bisogna nutrirsi, tutto qui. Per la verità, non c'è piú granché che mi interessi. La letteratura, probabilmente, ma anche qui non sono certo che non sia per abitudine. Forse è perciò che scrivo questi ricordi: per rimescolarmi il sangue, per vedere se posso ancora provare qualcosa, se so ancora soffrire un po'. Bizzarro esercizio.

Eppure, la sofferenza dovrei conoscerla. Tutti gli europei della mia generazione ci sono passati, ma io, posso dirlo senza falsa modestia, ne ho vista piú della maggior parte di loro. E poi la gente dimentica in fretta, lo constato tutti i giorni. Perfino quelli che c'erano, per parlarne ricorrono quasi sempre a pensieri e frasi fatte. Basta guardare la patetica prosa degli scrittori tedeschi che trattano delle battaglie sul fronte orientale. Quella di Herr Paul Carrell, per esempio, un autore di successo di questi ultimi anni. Per combinazione ho conosciuto questo Herr Carrell, in Ungheria, all'epoca in cui si chiamava ancora Paul Carl Schmidt e scriveva, sotto l'egida del suo ministro von Ribbentrop, ciò che pensava davvero, con uno stile energico ed efficace: La questione ebraica non è una questione di umanità, non è una questione di religione; è unicamente una questione di igiene politica. Ora, il rispettabile Herr Carrell-Schmidt ha compiuto la notevole prodezza di pubblicare quattro insipidi volumi sulla guerra in Unione Sovietica senza usare nemmeno una volta la parola ebreo. Lo so, li ho letti: un compito ingrato, ma io sono testardo. I nostri autori francesi, i Mabire e altri del genere, non sono meglio. Quanto ai comunisti, è lo stesso, solo dal punto di vista opposto. Dove saranno mai finiti quelli che cantavano Ragazzi, affilate i coltelli sul bordo dei marciapiedi? Tacciono, oppure sono morti. Si chiacchiera, si fanno smancerie, si sguazza in una torba insipida impastata delle parole gloria, onore, eroismo, che noia, non c'è nessuno che parli. Forse sono ingiusto, ma oso sperare che mi capiate. La televisione ci bombarda di cifre, cifre impressionanti, allineando zeri; ma chi di voi si sofferma talvolta a pensare davvero a quelle cifre? Chi di voi ha mai tentato di contare tutte le persone che conosce o ha conosciuto nella vita, e di paragonare quella cifra irrisoria ai numeri che sente alla televisione, quei famosi sei milioni o venti milioni. Facciamo un po' di conti. I conti sono utili, aprono prospettive, rinfrancano la mente. Può essere un esercizio molto istruttivo. Perciò armatevi di un po' di pazienza e concedetemi la vostra attenzione. Considererò soltanto i due teatri dove ho potuto interpretare una parte, per quanto infima fosse: la guerra contro l'Unione Sovietica e il programma di sterminio ufficialmente designato nei nostri documenti con il bell'eufemismo di «Soluzione finale della questione ebraica», Endlösung der Judenfrage. Sui fronti occidentali, comunque, le perdite sono state relativamente basse. Le mie cifre di partenza saranno un po' arbitrarie: non ho scelta, tra le fonti non c'è accordo. Per le perdite sovietiche complessive mi attengo alla cifra tradizionale, citata da Chruscëv nel 1956, di venti milioni, pur osservando che Reitlinger, uno stimato autore inglese, arriva solo a dodici, e che invece Erickson, un autore scozzese altrettanto se non piú stimato, arriva a un conteggio minimo di ventisei milioni; sicché la cifra sovietica ufficiale sta giusto nel mezzo, milione piú milione meno. Per le perdite tedesche - solo nell'URSS, s'intende - ci si può basare sulla cifra ancora piú ufficiale e teutonicamente precisa di 6 172 373 soldati persi sul fronte orientale tra il 22 giugno 1941 e il 31 marzo 1945, cifra riportata in un rapporto interno dell'OKH (l'alto comando dell'esercito) ritrovato dopo la guerra, ma che comprende i morti (piú di un milione), i feriti (quasi quattro milioni) e i dispersi (morti, prigionieri e prigionieri morti, all'incirca 1 288 000). Diciamo quindi per brevità due milioni di morti, poiché qui i feriti non ci riguardano, contando molto approssimativamente le ulteriori cinquantamila e rotti vittime dal 1° aprile all'8 maggio 1945, principalmente a Berlino, alle quali va ancora aggiunto il milione di morti civili stimati a seguito dell'invasione della Germania orientale e dei conseguenti spostamenti di popolazione, ovvero, in totale, diciamo, tre milioni. Quanto agli ebrei, si può scegliere: la cifra canonica, anche se pochi sanno da dove provenga, è di sei milioni (è stato Höttl a dichiarare, a Norimberga, di averlo saputo da Eichmann; ma Wisliceny ha invece dichiarato che Eichmann aveva parlato ai colleghi di cinque milioni; e Eichmann stesso, quando infine gli ebrei hanno potuto chiederglielo direttamente, ha detto fra i cinque e i sei milioni, piú probabilmente cinque). Il dottor Korherr, che compilava statistiche per il Reichsführer-SS Heinrich Himmler, è arrivato a un po' meno di due milioni al 31 dicembre 1942, ma quando ho potuto discuterne con lui nel 1943, riconosceva che quelle cifre di partenza erano poco affidabili. Infine, lo stimatissimo professor Hilberg, specialista della questione e poco sospettabile di partigianeria, almeno a favore dei Tedeschi, giunge, alla fine di una dimostrazione serrata di diciannove pagine, alla cifra di 5 100 000, il che corrisponde grosso modo all'opinione del defunto Obersturmbannführer Eichmann. Vada dunque per la cifra del professor Hilberg, il che, per ricapitolare, fa:

        Morti sovietici                     20 milioni

        Morti tedeschi                       3 milioni

        Totale parziale (guerra all'Est)    23 milioni

        Endlösung                          5,1 milioni

        Totale                            26,6 milioni,
contando che 1,5 milioni di ebrei sono già stati calcolati fra i morti sovietici («Cittadini sovietici uccisi dall'invasore tedesco-fascista», come indica assai discretamente lo straordinario monumento di Kiev).

E ora i conti. Il conflitto con l'URSS è durato dal 22 giugno 1941 alle tre del mattino fino, ufficialmente, all'8 maggio 1945 alle ore 23,01, il che fa tre anni, dieci mesi, sedici giorni, venti ore e un minuto, ovvero, arrotondando, 46,5 mesi, 202,42 settimane, 1417 giorni, 34 004 ore, o 2 040 241 minuti (contando il minuto supplementare). Per il cosiddetto programma della «Soluzione finale» manterremo le stesse date; prima, non essendo stato ancora deciso né sistematizzato niente, le perdite ebree sono casuali. Mettiamo ora un insieme di cifre accanto all'altro: per i Tedeschi, fa 64 516 morti al mese, ovvero 14 821 morti alla settimana, ovvero 2117 morti al giorno, ovvero 88 morti all'ora, ovvero 1,47 morti al minuto, e ciò in media per ogni minuto di ogni ora di ogni giorno di ogni settimana di ogni mese di ogni anno per tre anni, dieci mesi, sedici giorni, venti ore e un minuto. Per gli ebrei, compresi quelli sovietici, abbiamo circa 109 677 morti al mese, ovvero 25 195 morti alla settimana, ovvero 3599 morti al giorno ovvero 150 morti all'ora ovvero 2,5 morti al minuto per lo stesso periodo. Dalla parte dei Sovietici, infine, abbiamo circa 430 108 morti al mese, 98 804 morti alla settimana, 14 114 morti al giorno, 588 morti all'ora, ovvero 9,8 morti al minuto, stesso periodo. Vale a dire, per il totale complessivo nel mio settore di attività le medie di 572 043 morti al mese, 131 410 morti alla settimana, 18 772 morti al giorno, 782 morti all'ora, e 13,04 morti al minuto, ogni minuto di ogni ora di ogni giorno di ogni settimana di ogni mese di ogni anno del periodo considerato ovvero, ripetiamo, tre anni, dieci mesi, sedici giorni, venti ore e un minuto. Chi ha sogghignato per quel minuto supplementare effettivamente un po' da pignoli consideri che fa comunque, sempre in media, 13,04 morti in piú, e immagini, se ci riesce, tredici persone che conosce uccise in un minuto. Si può anche fare un calcolo che definisca l'intervallo di tempo tra un morto e l'altro: il che ci dà in media un morto tedesco ogni 40,8 secondi, un morto ebreo ogni 24 secondi, e un morto bolscevico (contando anche gli ebrei sovietici) ogni 6,12 secondi, ovvero complessivamente un morto in media ogni 4,6 secondi, sul totale del detto periodo. Ora siete in grado di effettuare, a partire da queste cifre, qualche concreto esercizio di immaginazione. Prendete per esempio in mano un orologio e contate un morto, due morti, tre morti, ecc. ogni 4,6 secondi (o ogni 6, 12, 24 o 40,8 secondi, se avete una netta preferenza), tentando di figurarvi, come se fossero li di fronte a voi, in fila, quegli uno, due, tre morti. Vedrete, è un buon esercizio di meditazione. Oppure prendete un'altra catastrofe, piú recente, che vi abbia fortemente colpito, e fate il paragone. Per esempio, se siete Francesi, considerate la piccola avventura algerina, che tanto ha traumatizzato i vostri concittadini. Ci avete perduto 25 000 uomini in sette anni, incidenti compresi: l'equivalente di un po' meno di un giorno e tredici ore di morti sul fronte orientale; oppure, di circa sette giorni di morti ebrei. Ovviamente non metto in conto i morti algerini: poiché non ne parlate praticamente mai, nei vostri libri o nelle vostre trasmissioni, non devono contare molto per voi. Eppure ne avete uccisi dieci per ciascuno dei vostri morti, sforzo onorevole anche in confronto al nostro. Mi fermo qui, si potrebbe continuare a lungo; vi invito a proseguire da soli, finché non vi mancherà la terra sotto i piedi. Per me, non ce n'è bisogno: già da tantissimo tempo il pensiero della morte mi è piú vicino della vena del collo, come dice quella bella frase del Corano. Se mai riusciste a farmi piangere, le mie lacrime vi sfregerebbero il viso come vetriolo.

La conclusione di tutto ciò, se mi consentite un'altra citazione, l'ultima, ve lo prometto, è, come diceva cosí bene Sofocle: Non veder mai la luce vince ogni confronto. Del resto Schopenhauer scriveva qualcosa di molto simile: Sarebbe meglio se non ci fosse nulla. Poiché sulla terra vi è piú dolore che piacere, ogni soddisfazione è solo transitoria, e crea nuovi desideri e nuove miserie, e la sofferenza della preda è piú grande del piacere del predatore. Sí, lo so, le citazioni sono due, ma l'idea è la stessa: in verità, viviamo nel peggiore dei mondi possibili. Certo, la guerra è finita. E poi abbiamo imparato la lezione, non accadrà piú. Ma siete proprio sicuri che abbiamo imparato la lezione? Siete sicuri che non accadrà piú? Siete sicuri, addirittura, che la guerra sia finita? Per certi versi la guerra non è mai finita, oppure sarà finita solo quando l'ultimo bambino nato l'ultimo giorno di combattimenti morirà di morte naturale, e anche allora continuerà, nei suoi figli e nei figli dei suoi figli, fino a quando finalmente l'eredità si diluisca un poco, i ricordi si sfilaccino e il dolore si attenui, anche se in quel momento tutti avranno dimenticato da un bel pezzo, e tutto sarà da tempo relegato fra le vecchie storie, buone nemmeno a spaventare i bambini, e ancor meno i bambini dei morti e di chi avrebbe desiderato esserlo, morto intendo dire.

Indovino cosa pensate: Ecco un uomo davvero malvagio, vi state dicendo, un uomo perfido, insomma, un farabutto sotto tutti gli aspetti, che dovrebbe marcire in prigione invece di infliggerci la sua confusa filosofia da ex fascista pentito a metà. Quanto al fascismo, non confondiamo tutto, e quanto alla mia responsabilità penale, non giudicate prematuramente, non ho ancora raccontato la mia storia; quanto alla mia responsabilità morale, consentitemi alcune considerazioni. I filosofi politici hanno spesso fatto osservare che in tempo di guerra il cittadino, maschio perlomeno, perde uno dei suoi diritti piú elementari, il diritto di vivere, e questo a partire dalla Rivoluzione francese e dall'invenzione della leva obbligatoria, principio ora universalmente ammesso, o quasi. Ma hanno raramente notato che questo cittadino perde al tempo stesso un altro diritto, altrettanto elementare e forse per lui ancor piú vitale, per quanto riguarda l'idea che si fa di se stesso come uomo civilizzato: il diritto di non uccidere. Nessuno chiede il tuo parere. L'uomo in piedi sopra la fossa comune, nella maggior parte dei casi, non ha chiesto di trovarsi lí, proprio come chi giace, morto o morente, in fondo a quella medesima fossa. Mi obietterete che uccidere un altro soldato in battaglia non è lo stesso che uccidere un civile disarmato; le leggi della guerra permettono la prima cosa, ma non la seconda; e cosí pure la morale comune. Un buon argomento in astratto, certo, ma che non tiene assolutamente conto delle condizioni del conflitto in questione. La distinzione del tutto arbitraria stabilita dopo la guerra fra le «operazioni militari» da una parte, equivalenti a quelle di qualunque altro conflitto, e le «atrocità» dall'altra, perpetrate da una minoranza di sadici e di pazzi, è, come spero di dimostrare, un fantasma consolatorio dei vincitori — dei vincitori occidentali, dovrei precisare, perché i Sovietici, nonostante la loro retorica, hanno sempre capito di che cosa si trattasse: dopo il maggio 1945, e dopo le prime pantomime per fare un po' di scena, Stalin se ne fregava totalmente di un'illusoria «giustizia», voleva roba solida, roba concreta, schiavi e macchine per rialzare la testa e ricostruire, non rimorsi o lamentazioni, poiché sapeva bene quanto noi che i defunti non sentono i pianti e che i rimorsi non sono mai serviti ad arricchire la zuppa. Non difendo il Befehlsnotstand, l'obbligo di obbedire agli ordini tanto apprezzato dai nostri bravi avvocati tedeschi. Ciò che ho fatto, l'ho fatto con piena cognizione di causa, pensando che si trattasse del mio dovere e che dovesse essere fatto, per quanto sgradevole e increscioso fosse. La guerra totale è anche questo: il civile non esiste piú, e tra il bambino ebreo gasato o fucilato e il bambino tedesco morto sotto le bombe incendiarie c'è soltanto una differenza di strumenti; quelle due morti erano altrettanto inutili, nessuna delle due ha abbreviato la guerra, neppure di un secondo; ma in entrambi i casi l'uomo o gli uomini che li hanno uccisi credevano che fosse giusto e necessario; se hanno avuto torto, a chi dare la colpa? Ciò che dico rimane vero anche se si distingue artificiosamente dalla guerra quel che l'avvocato ebreo Lempkin ha chiamato genocidio, notando che almeno nel nostro secolo non c'è mai stato un genocidio senza guerra, che il genocidio non esiste fuori dalla guerra, e che come per la guerra si tratta di un fenomeno collettivo: il genocidio moderno è un processo inflitto alle masse, dalle masse, per le masse. Ed è anche, nel caso specifico, un processo segmentato dalle esigenze dei metodi industriali. Proprio come, secondo Marx, l'operaio è alienato rispetto al prodotto del suo lavoro, nel genocidio o nella guerra totale nella sua forma moderna l'esecutore è alienato rispetto al prodotto della sua azione. Ciò vale anche per il caso in cui un uomo appoggi il fucile al cranio di un altro uomo e tiri il grilletto. Poiché la vittima è stata portata lí da altri uomini, la sua morte è stata decisa da altri ancora, e anche chi spara sa di essere soltanto l'ultimo anello di una lunghissima catena, e di non doversi porre piú domande del membro di un plotone che nella vita civile giustizia un uomo debitamente condannato dalla legge. Chi spara sa che è un caso che sia lui a sparare, che un commilitone faccia parte del cordone di sicurezza mentre un terzo guida il camion. Tutt'al piú potrà tentare di scambiarsi di posto con la guardia o con l'autista. Un altro esempio, tratto dall'abbondante letteratura storica piú che dalla mia personale esperienza: il programma di sterminio delle persone affette da handicap grave e dei malati di mente tedeschi, il cosiddetto programma «Eutanasia» o «T-4», istituito due anni prima del programma «Soluzione finale». In questo caso, i malati selezionati nel quadro di un dispositivo legale erano accolti in un edificio da infermiere professionali che li registravano e li spogliavano; dei medici li esaminavano e li accompagnavano in una stanza sigillata; un operaio somministrava il gas; altri ripulivano; un poliziotto redigeva il certificato di morte. Interrogati dopo la guerra, ognuno di loro dice: Colpevole, io? L'infermiera non ha ucciso nessuno, si è limitata a spogliare e tranquillizzare degli ammalati, gesti comuni della sua professione. Nemmeno il medico ha ucciso, ha semplicemente confermato una diagnosi secondo criteri stabiliti da altre istanze. L'operaio che apre il rubinetto del gas, quindi colui che è piú vicino all'omicidio nel tempo e nello spazio, svolge una funzione tecnica sotto il controllo dei suoi superiori e dei medici. Gli operai che sgomberano la stanza compiono un necessario lavoro di bonifica, per di piú assai ripugnante. Il poliziotto segue la sua procedura, che è quella di constatare un decesso e annotare che ha avuto luogo senza violazione delle leggi in vigore. Chi dunque è colpevole? Tutti o nessuno? Perché l'operaio addetto al gas sarebbe piú colpevole dell'operaio addetto alle caldaie, al giardino, ai veicoli? Lo stesso vale per tutte le sfaccettature di quell'immensa impresa. Chi manovra gli scambi della ferrovia, per esempio, è forse colpevole della morte degli ebrei che ha avviato verso un campo di concentramento? Quell'operaio è un funzionario, fa lo stesso lavoro da vent'anni, convoglia i treni in base a un piano, non è tenuto a sapere che cosa contengono. Non è colpa sua se quegli ebrei sono trasportati da un punto A, attraverso il suo scambio, a un punto B, dove vengono uccisi. Eppure quell'operaio svolge un ruolo cruciale nel lavoro di sterminio: senza di lui il treno di ebrei non può giungere al punto B. Lo stesso vale per il funzionario incaricato di requisire appartamenti per i senzatetto vittime dei bombardamenti, per il tipografo che prepara gli avvisi di deportazione, per il fornitore che vende cemento o filo spinato alle SS, per il sottufficiale del genio che fornisce benzina a un Teilkommando della SP, e per Dio, lassú, che permette tutto questo. Ovviamente, si possono definire livelli di responsabilità penale relativamente precisi, che permettano di condannare certuni e lasciare tutti gli altri alla loro coscienza, sempre che ne abbiano una; è tanto piú facile quando si redigono le leggi dopo i fatti, come a Norimberga. Ma anche in quel caso ci si è mossi un po' a casaccio. Perché impiccare Streicher, quel bifolco impotente, ma non il sinistro von dem Bach-Zelewski? Perché impiccare il mio superiore, Rudolf Brandt, e non il suo, Wolff? Perché impiccare il ministro Frick e non il suo sottoposto Stuckart, che faceva tutto il lavoro per lui? Un uomo fortunato, quello Stuckart, che si è sempre sporcato le mani solo d'inchiostro, mai di sangue. Ancora una volta, siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o di quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io, l'avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione, comunque in un modo o nell'altro. Penso che mi sia permesso concludere come un fatto assodato dalla storia moderna che tutti, o quasi, in un dato complesso di circostanze, fanno ciò che viene detto loro di fare; e, scusatemi, non ci sono molte probabilità che voi siate l'eccezione, non piú di me. Se siete nati in un paese o in un'epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto piú fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l'arroganza di pensarlo, qui incomincia il pericolo. Ci si compiace di contrapporre lo Stato, totalitario o meno, all'uomo comune, cimice o giunco. Ma cosí si dimentica che lo Stato è fatto di uomini, tutti piú o meno comuni, ognuno con la propria vita, la propria storia, la serie di casualità che hanno fatto sí che un giorno si ritrovasse dalla parte giusta del fucile o del foglio di carta mentre altri si ritrovavano da quella sbagliata. Questo percorso è raramente frutto di una scelta, per non dire di una predisposizione. Le vittime, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono state torturate o uccise perché erano buone, cosí come i loro aguzzini non le hanno tormentate perché erano cattivi. Sarebbe un po' ingenuo crederlo, e per convincersene basta frequentare qualunque burocrazia, anche quella della Croce Rossa. Stalin, del resto, ha proceduto a un'eloquente dimostrazione di ciò che sostengo, trasformando ogni generazione di carnefici in vittime di quella successiva, senza che per questo venissero mai a mancargli gli aguzzini. Ora, la macchina dello Stato è fatta del medesimo impasto di sabbia friabile del materiale che macina, un granello dopo l'altro. Esiste perché tutti sono d'accordo che esista, perfino, e spesso fino all'ultimo istante, le sue stesse vittime. Senza gli Höß, gli Eichmann, i Goglidze, i Vysinskij, ma anche senza i manovratori degli scambi dei treni, i fabbricanti di cemento e i ragionieri dei ministeri, uno Stalin o uno Hitler è soltanto un otre gonfio d'odio e di orrori impotenti. Dire che la grande maggioranza di quanti hanno gestito le procedure di sterminio non erano dei sadici o degli anormali è un luogo comune, adesso. Di sadici, di pazzi, ce ne sono stati, ovviamente, come in tutte le guerre, e hanno commesso atrocità indicibili, è vero. Ed è altrettanto vero che le SS avrebbero potuto intensificare gli sforzi per controllare quella gente, anche se hanno fatto piú di quanto non si pensi abitualmente; e non è un'ovvietà: andate a chiederlo ai generali francesi, avevano un bel po' di grane, in Algeria, con i loro alcolizzati, violentatori, assassini di ufficiali. Ma non è questo il problema. Di pazzi ce ne sono ovunque, sempre. I nostri tranquilli sobborghi pullulano di pedofili e psicopatici, i dormitori pubblici di maniaci megalomani: certi diventano effettivamente un problema, uccidono due, tre, dieci, addirittura cinquanta persone - poi quello stesso Stato che si servirebbe di loro senza batter ciglio in una guerra li schiaccia come zanzare gonfie di sangue. Quegli uomini malati non sono niente. Gli uomini comuni di cui è composto lo Stato - soprattutto in periodi di instabilità -, ecco il vero pericolo. Il vero pericolo per l'uomo sono io, siete voi. E se non ne siete convinti, inutile continuare a leggere oltre. Non capirete niente e vi arrabbierete, senza alcun vantaggio né per voi né per me.

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Al nostro arrivo Lutsk bruciava ancora. Una staffetta della Wehrmacht ci prese in consegna per guidarci ai nostri alloggiamenti; dovevamo girare intorno alla città vecchia e al forte, il percorso era complicato. Kuno Callsen aveva requisito l'Accademia di musica, vicino alla piazza principale, ai piedi del castello: un bell'edificio del XVII secolo, semplice, un ex monastero che nel secolo scorso era stato anche adibito a prigione. Callsen ci aspettava all'ingresso insieme ad alcuni uomini. «È un posto pratico, - mi spiegò mentre scaricavano il materiale e le nostre cose. - In cantina ci sono ancora le celle, basta solo rifare le serrature, ho già incominciato». Da parte mia, alle segrete preferivo la biblioteca, ma tutti i volumi erano in russo o in ucraino. Anche von Radetzky la esaminava, con il suo naso bulboso e i suoi occhi distanti, preoccupato dalle modanature decorative; quando mi passò accanto, gli feci notare che non c'erano libri in polacco. «È strano, Herr Sturmbannführer. Non tanto tempo fa, qui era Polonia». Von Radetzky scrollò le spalle: «Come immaginerà, gli staliniani avranno purgato tutto». «In due anni?» «Due anni bastano. Soprattutto per un'Accademia di musica».

Il Vorkommando era già sommerso dal lavoro. La Wehrmacht aveva arrestato centinaia di ebrei e di saccheggiatori e voleva che ce ne occupassimo. Gli incendi continuavano e si diceva che fossero alimentati da sabotatori. E poi c'era il problema del vecchio forte. Sistemando i fascicoli, il dottor Kehrig aveva recuperato il suo Baedeker e me l'aveva porto al di sopra delle casse sventrate per mostrarmi la descrizione: «Il castello di Lubart. L'ha costruito un principe lituano, vede». Il cortile centrale rigurgitava di cadaveri, prigionieri fucilati dall'NKVD prima della ritirata, dicevano. Kehrig mi chiese di andare a vedere. Il castello presentava immense mura di mattoni, costruite su bastioni di terra, e sormontate da tre torri; c'erano sentinelle della Wehrmacht a guardia del portone, perché potessi entrare ci volle l'intervento di un ufficiale dell'Abwehr. «Ci scusi. Il Generalfeldmarschall ci ha ordinato di mettere in sicurezza il luogo». «Certo, capisco». Una puzza immonda mi colpi la faccia appena varcata la porta. Non avevo un fazzoletto e mi premetti un guanto sul naso per cercare di respirare. «Prenda questo, - mi propose lo Hauptmann dell'Abwehr porgendomi un pezzo di stoffa inumidito, - un po' aiuta». In effetti un po' aiutava, ma non abbastanza; avevo un bel respirare dalla bocca, l'odore mi riempiva le narici, dolce, greve, nauseante. Deglutii convulsamente per trattenere il vomito. «La prima volta?» domandò piano lo Hauptmann. Abbassai il mento. «Si abituerà, - continuò, - ma mai del tutto, forse». Lui stesso stava diventando livido, ma non si copriva la bocca. Avevamo attraversato un lungo corridoio a volta, poi un cortiletto. «Da quella parte».

I cadaveri erano ammonticchiati in una grande corte lastricata, in cumuli disordinati, sparsi qua e là. Un immane, ossessivo ronzio riempiva l'aria: migliaia di grosse mosche blu svolazzavano sui corpi, sulle pozze di sangue, di materia fecale. Gli stivali mi si appiccicavano al lastricato. I morti si stavano già gonfiando, osservai la loro pelle verde e giallastra, i volti informi, come di gente presa a botte. L'odore era immondo; e quell'odore, lo sapevo, era l'inizio e la fine di tutto, il significato stesso della nostra esistenza. Quel pensiero mi rivoltò lo stomaco. Gruppetti di soldati della Wehrmacht muniti di maschere antigas tentavano di districare i cumuli per allineare i corpi; uno di loro tirava un braccio, che si staccò e gli rimase in mano; lo buttò su un altro mucchio con gesto stanco. «Ce ne sono piú di mille, - mi disse l'ufficiale dell'Abwehr, quasi mormorando. - Tutti gli Ucraini e i Polacchi che tenevano in carcere dall'invasione in poi. Abbiamo trovato donne, perfino bambini». Volevo chiudere gli occhi, o coprirli con una mano, e al tempo stesso volevo guardare, guardare a sazietà e tentare di comprendere con lo sguardo quella cosa incomprensibile, li, davanti a me, quel vuoto per il pensiero umano. Scoraggiato, mi rivolsi all'ufficiale dell'Abwehr: «Ha letto Platone?» Mi guardò, interdetto: «Cosa?» «No, niente». Feci dietrofront e me ne andai. In fondo al primo cortiletto, sulla sinistra, si apriva una porta, la spinsi, si affacciava su alcuni gradini. Ai piani superiori vagai a casaccio per i corridoi vuoti, poi notai una scala a chiocciola, dentro una delle torri; in cima si accedeva a una passerella di legno fissata alle mura. Da lassú sentivo l'odore degli incendi in città; era comunque meglio e respirai a fondo, poi estrassi una sigaretta dall'astuccio e l'accesi. Avevo l'impressione che l'odore dei cadaveri putrefatti mi stesse ancora appiccicato all'interno del naso, tentai di scacciarlo esalando il fumo dalle narici, ma riuscii soltanto a tossire convulsamente. Guardai il panorama. In fondo alla fortezza si profilavano giardini, orticelli con qualche albero da frutto; oltre le mura vedevo la città e l'ansa dello Styr; da quella parte non c'era fumo, e il sole brillava sulla campagna. Fumai tranquillamente. Poi ridiscesi e tornai nella corte centrale. L'ufficiale dell'Abwehr non si era mosso. Mi fissò con un'aria strana ma priva di ironia: «Va meglio?» «Si, grazie». Mi sforzai di assumere un tono ufficiale: «Ha un conteggio preciso? È per il mio rapporto». «Non ancora. Domani, penso». «E le nazionalità?» «Gliel'ho detto, Ucraini, Polacchi probabilmente. Difficile dirlo, la maggior parte non ha documenti. Sono stati fucilati a gruppi, si vede che l'hanno fatto in fretta». «Ci sono ebrei?» Mi guardò stupito: «Certo che no. Sono stati gli ebrei a far questo». Feci una smorfia: «Ah, sí, certo». Si voltò verso i cadaveri e rimase un momento in silenzio. «Che porcheria», mormorò infine. Lo salutai. Fuori, si formavano capannelli di ragazzini; uno di loro mi domandò qualcosa, ma non capivo la sua lingua, passai oltre senza dire niente e tornai all'Accademia di musica per fare rapporto a Kehrig.

L'indomani il Sonderkommando si mise al lavoro sul serio. Un plotone agli ordini di Callsen e di Kurt Hans fucilò trecento ebrei e venti saccheggiatori nel parco del castello.

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Venne a chiamarmi Popp. «Sono quasi pronti, Herr Obersturmführer». Il cordone con gli ebrei si era spostato verso la parte bassa del bosco. I condannati pazientavano sotto gli alberi, a gruppetti, alcuni si erano appoggiati ai tronchi. Piú in là, nel bosco, Nagel aspettava con i suoi Ucraini. Alcuni ebrei, in fondo a una trincea lunga diversi metri, gettavano ancora palate di fango al di sopra del bordo. Mi chinai: l'acqua riempiva la fossa, gli ebrei scavano con l'acqua fangosa fino alle ginocchia. «Non è una fossa; è una piscina», feci notare abbastanza seccamente a Nagel. Lui non apprezzò molto il mio commento: «Cosa vuole che faccia, Herr Obersturmführer? Siamo capitati su una falda, e l'acqua sale man mano che scavano. Siamo troppo vicini al fiume. Comunque non passerò certo la giornata a far scavare buche in questa foresta». Si rivolse allo Hauptscharführer. «Bene, basta cosí. Li faccia uscire». Era livido. «I tiratori sono pronti?» domandò. Capii che avrebbero fatto sparare gli Ucraini. «Si, Herr Untersturmführer», rispose lo Hauptscharführer. Si rivolse al Dolmetscher e spiegò la procedura. Il Dolmetscher tradusse agli Ucraini. Venti di loro vennero ad allinearsi davanti alla fossa; gli altri cinque presero gli ebrei che avevano scavato, e che erano coperti di fango, e li fecero inginocchiare lungo il bordo, con la schiena ai tiratori. A un ordine dello Hauptscharführer gli Ascari imbracciarono le carabine e le puntarono alla nuca degli ebrei. Il conto però non tornava, ci dovevano essere due tiratori per ciascun ebreo, ma per scavare ne avevano presi quindici. Lo Hauptscharführer ricontò, poi diede ordine agli Ucraini di abbassare il fucile e fece alzare cinque ebrei, che andarono ad aspettare lí accanto. Molti recitavano qualcosa a bassa voce, probabilmente delle preghiere, ma per il resto non dicevano niente. «Sarebbe meglio aggiungere degli Ascari, - suggerí un altro sottufficiale. - Faremmo piú in fretta». Segui una piccola discussione; gli Ucraini erano solo venticinque in tutto; il sottufficiale proponeva di aggiungere cinque Orpo; lo Hauptscharführer sosteneva che non era possibile sguarnire il cordone. Nagel, esaperato, tagliò corto: «Continuate cosí». Lo Hauptscharführer abbaiò un ordine e gli Ascari sollevarono i fucili. Nagel fece un passo avanti. «Al mio comando...» La sua voce era stridula, faceva uno sforzo per controllarla. «Fuoco!» La raffica crepitò e vidi come uno schizzo rosso, coperto dal fumo dei fucili. La maggior parte degli uccisi cadde in avanti, con il naso nell'acqua; due rimasero sdraiati, raggomitolati su se stessi, sul bordo della fossa. «Ripulite e portate i successivi», ordinò Nagel. Alcuni Ucraini presero i due ebrei morti per le braccia e per i piedi e li gettarono nella fossa; atterrarono con un grande scroscio d'acqua, il sangue colava a fiotti dalle teste fracassate ed era schizzato sugli stivali e sulle uniformi verdi degli Ucraini. Due uomini si fecero avanti con le pale e si misero a ripulire il bordo della fossa, spedendo zolle di terra insanguinata e frammenti biancastri di cervello a raggiungere i morti. Andai a guardare: i cadaveri galleggiavano nell'acqua fangosa, alcuni sul ventre, altri sulla schiena con il naso e la barba fuori dall'acqua; il sangue si spandeva sulla superficie a partire dalla testa, come un sottile strato d'olio ma rosso vivo, anche le loro camicie bianche erano rosse e rivoletti rossi colavano sulla pelle e fra i peli della barba. Intanto portavano il secondo gruppo, i cinque che avevano scavato e altri cinque dal limitare del bosco, e li mettevano in ginocchio rivolti verso la fossa, verso i corpi galleggianti dei loro vicini; uno si voltò verso i tiratori, a testa alta e li guardò in silenzio. Pensavo agli Ucraini: come erano arrivati a quel punto? La maggior parte si era battuta contro i Polacchi, poi conpro i Sovietici; dovevano aver sognato un futuro migliore, per loro e per i loro figli, e adesso si ritrovavano in una foresta, con un'uniforme straniera, a uccidere gente che non gli aveva fatto nulla, senza un motivo che fossero in grado comprendere. Cosa potevano pensare di tutto ciò? Eppure, quando veniva impartito l'ordine, sparavano, spingevano i corpi nella fossa e ne portavano altri, manza protestare. Che cosa avrebbero pensato di tutto ciò in seguito? Avevano sparato di nuovo. Adesso, si sentivano provenire dei lamenti dalla fossa. «Ah, Cristo, non sono morti tutti», borbottò lo Hauptscharführer. «E allora finiteli», gridò Nagel. A un ordine dello Hauptscharführer due Ascari si fecero avanti e spararono di nuovo nella fossa. Le grida continuavano. Spararono una terza volta. Accanto a loro si ripuliva il bordo. Di nuovo, piú in là, ne portavano altri dieci. Osservai Popp: aveva raccolto una manciata di terra dal grande mucchio vicino alla fossa e la contemplava, la manipolava tra le sue grosse dita, la annusava, se ne mise perfino un po' in bocca. «Che c'è, Popp?» Si avvicinò: «Guardi questa terra, Herr Obersturmführer. È terra buona. A un uomo potrebbe toccare di peggio che vivere qui». Gli ebrei si inginocchiavano. «Buttala, Popp», gli dissi. «Ci hanno detto che dopo si potrebbe venire a stabilirsi qui, costruire delle fattorie. È una buona zona, dico solo questo». «Taci, Popp». Gli Ascari avevano sparato un'altra salva. Ancora una volta, dalla fossa salivano grida laceranti, gemiti. «Per piacere, signori tedeschi! Per piacere!» Lo Hauptscharführer fece somministrare il colpo di grazia; ma le grida non cessavano, si sentivano uomini dibattersi nell'acqua. Anche Nagel gridava: «Sparano a casaccio, i suoi uomini! Li faccia scendere nella fossa». «Ma, Herr Untersturmführer...» «Li faccia scendere!» Lo Hauptscharführer fece tradurre l'ordine. Gli ucraini si misero a parlare in tono eccitato. «Cosa dicono?» domandò Nagel. «Non vogliono scendere, Herr Untersturmführer, spiegò il Dolmetscher. - Dicono che non ne vale la pena, che possono sparare dal bordo». Nagel era paonazzo. «Che scendano!» Lo Hauptscharführer ne prese uno per il braccio e lo tirò verso la fossa; l'Ucraino oppose resistenza. Adesso tutti gridavano, in ucraino e in tedesco. Un po' piú in là aspettava il gruppo successivo. Con rabbia, l'Ascaro prescelto gettò a terra il fucile e saltò nella fossa, scivolò, cadde in mezzo ai cadaveri e ai moribondi. Il suo commilitone scese dopo di lui tenendosi al bordo e lo aiutò a rialzarsi. L'Ucraino bestemmiava, sputava, coperto di fango e di sangue. Lo Hauptscharführer gli tese il fucile. Sulla sinistra si udirono parecchi spari, delle grida; gli uomini del cordone sparavano nei boschi: uno degli ebrei aveva approfittato del trambusto per tagliare la corda. «L'avete preso?» chiamò Nagel. «Non so, Herr Untersturmführer», rispose da lontano uno dei poliziotti. «E allora andate a vedere!» Altri due ebrei fuggirono improvvisamente dall'altra parte e gli Orpo si rimisero a sparare: uno crollò subito, l'altro scomparve nel folto del bosco. Nagel aveva estratto la pistola e la agitava in tutte le direzioni, gridando ordini contraddittori. Nella fossa, l'Ascaro tentava di appoggiare il fucile contro la fronte di un ebreo ferito, ma lui rotolava nell'acqua, la testa scompariva sotto la superficie. Alla fine l'Ucraino sparò alla cieca, il colpo asportò la mascella all'ebreo, ma ancora non lo uccise, si dibatteva, afferrava le gambe dell'Ucraino: «Nagel», dissi. «Cosa?» Aveva il volto terreo, la pistola gli penzolava dalla mano. «Vado ad aspettare in auto». Nei boschi, si sentivano colpi d'arma da fuoco, gli Orpo sparavano sui fuggitivi; gettai un rapido sguardo alle mie dita per assicurarmi di aver estratto tutte le schegge. Vicino alla fossa, uno degli ebrei si mise a piangere.

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Sapeva di cosa parlava. A Cernyakov la SP aveva arrestato il presidente della trojka regionale dell'NKVD, insieme con un suo collega, e li aveva mandati a Zitomir. Interrogato da Vogt e dai suoi colleghi, quel giudice, Wolf Kieper, ammise di aver fatto giustiziare piú di milletrecentocinquanta persone. Era un ebreo sulla sessantina, comunista dal 1905 e giudice del popolo dal 1918; l'altro, Moise Kogan, era piú giovane, ma anche lui cekista ed ebreo. Blobel aveva discusso il caso con Rasch e con l'Oberst Heim e avevano concordato un'esecuzione pubblica. Kieper e Kogan furono giudicati da una corte marziale e condannati a morte. Il 7 agosto, di mattina presto, alcuni ufficiali del Sonderkommando, con l'appoggio degli Orpo e dei nostri Ascari, procedettero ad arrestare degli ebrei e li riunirono sulla piazza del mercato. La 6a armata aveva messo a disposizione un'auto della compagnia di propaganda che, con un altoparlante, girava per le vie della città annunciando l'esecuzione in tedesco e in ucraino. Arrivai in piazza a fine mattinata, insieme con Thomas. Piú di quattrocento ebrei erano stati radunati e costretti a sedersi, con le mani sulla nuca, vicino all'alta forca allestita il giorno precedente dagli autisti del Sonderkommando. Al di là del cordone di Waffen-SS affluivano centinaia di curiosi, militari ma anche uomini dell'Organizzazione Todt e dell'NSKK, oltre a numerosi civili ucraini. Gli spettatori riempivano ogni angolo della piazza, era difficile aprirsi un varco; una trentina di soldati si era perfino appollaiata sul tetto di lamiera di un edificio vicino. Gli uomini ridevano, scherzavano; molti fotografavano la scena. Blobel stava ai piedi della forca con Häfner, di ritorno da Belaja Cerkov. Vicino alle file di ebrei, von Radetzky arringava la folla in ucraino: «Qualcuno ha dei conti in sospeso con uno di questi ebrei?» domandava. Allora un uomo usciva dalla folla e dava un calcio a uno degli uomini seduti, poi tornava indietro; altri li bersagliavano con frutta e pomodori marci. Io guardavo gli ebrei: avevano il volto grigio, lanciavano sguardi angosciati, domandandosi che cosa sarebbe successo dopo. Fra loro c'erano molti vecchi, con folte barbe bianche e caftani unti, ma anche uomini abbastanza giovani. Notai che nel cordone di sicurezza c'erano molti Landser della Wehrmacht. «Che ci fanno qui?» domandai a Häfner. «Sono volontari. Hanno chiesto di dare una mano». Feci una smorfia. Si vedevano parecchi ufficiali, ma non riconoscevo nessuno dell'AOK. Mi diressi verso il cordone e interpellai uno dei soldati: «Che ci fai qui? Chi ti ha chiesto di montare la guardia?» Assunse un'aria imbarazzata. «Dov'è il tuo superiore?» «Non so, Herr Offizier», rispose alla fine grattandosi la fronte sotto il berretto. «Che ci fai qui?» ripetei. «Sono andato al ghetto stamattina, con i miei commilitoni, Herr Offizier. E poi, ecco, ci siamo offerti di dare una mano, i suoi colleghi hanno detto di sí. Avevo ordinato un paio di stivali di cuoio a un ebreo e volevo tentare di trovarlo prima... prima...» Non osava neppure pronunciare la parola. «Prima che lo fucilino, è cosí?» esclamai in tono acido. «Sí, Herr Offizier». «E l'hai trovato?» «È laggiú. Ma non sono riuscito a parlargli». Tornai vicino a Blobel. «Herr Standartenführer, bisognerebbe mandare via gli uomini della Wehrmacht. Non è corretto che partecipino all' Aktion senza ordini». «Lasci perdere, Obersturmführer. È un bene che dimostrino entusiasmo. Sono bravi nazionalsocialisti, vogliono fare la loro parte». Scrollai le spalle e raggiunsi Thomas. Indicò la folla con un cenno del mento: «Avremmo potuto vendere i biglietti, saremmo ricchi». Sogghignò. «All'AOK lo chiamano Exekution-Tourismus». Il camion era arrivato e faceva manovra sotto la forca. Due Waffen-SS fecero scendere Kieper e Kogan. Indossavano camicie da contadini e avevano le mani legate dietro la schiena. La barba di Kieper era incanutita dopo l'arresto. I nostri autisti sistemarono un'asse di traverso sulla benna del camion, ci salirono sopra e si apprestarono a fissare le corde. Notai che Höfler rimaneva in disparte, fumava con aria tetra; quanto a Bauer, l'autista personale di Blobel, verificava la solidità dei nodi. Poi salí anche Zorn e le Waffen-SS portarono su i due condannati. Li misero in piedi sotto la forca e Zorn tenne un discorso; parlava in ucraino, doveva spiegare la sentenza. Gli spettatori sbraitavano, fischiavano, e lui stentava a farsi sentire; gesticolò piú volte per zittirli, ma nessuno gli prestava attenzione. Alcuni soldati scattavano fotografie, additavano i condannati ridendo. A quel punto, Zorn e uno delle Waffen-SS passarono il nodo scorsoio intorno al collo dei due condannati, che restavano in silenzio, chiusi in se stessi. Zorn e gli altri scesero dall'asse e Bauer mise in moto il camion. «Piú piano, piú piano», gridavano i Landser che scattavano fotografie. Il camion avanzò, i due uomini tentavano di mantenere l'equilibrio, poi caddero uno dopo l'altro e oscillarono piú volte avanti e indietro. A Kieper i calzoni erano scesi sulle caviglie; sotto la camicia era nudo, vedevo con orrore la sua verga congestionata, eiaculava ancora. «Nix Kultura!» sbraitò un Landser, altri ripeterono quel grido. Zorn stava inchiodando sui montanti della forca dei cartelli che spiegavano la condanna; vi si poteva leggere che le milletrecentocinquanta vittime di Kieper erano tutti Volksdeutschen e Ucraini.

Poi, i soldati del cordone ordinarono agli ebrei di alzarsi e di muoversi. Blobel sali in auto con Häfner e Zorn; von Radetzky mi invitò ad andare con lui e fece salire anche Thomas. La folla seguiva gli ebrei, c'era un immenso frastuono. Tutti si dirigevano fuori città verso quello che veniva chiamato il Pferdefriedhof, il cimitero dei cavalli: lí era già stata scavata una trincea, con dietro una pila di traversine per bloccare le pallottole vaganti. L'Obersturmführer Grafhorst, che comandava la nostra compagnia di Waffen-SS, attendeva pazientemente con una ventina di uomini. Blobel e Häfner ispezionarono la trincea, poi aspettammo. Io riflettevo. Pensavo alla mia vita, alla relazione che doveva pur esserci fra la vita che avevo vissuto - una vita comunissima, la vita di uno qualunque, ma per certi versi una vita straordinaria, insolita, benché anche l'insolito sia molto comune - e ciò che stava accadendo lí. Una relazione doveva pur esserci, e di fatto una ce n'era. Certo, non partecipavo alle esecuzioni, non comandavo i plotoni; ma questo non faceva una gran differenza, poiché vi assistevo regolarmente, aiutavo a prepararle e poi scrivevo i rapporti; inoltre, che fossi stato destinato allo Stab invece che ai Teilkommandos era un po' casuale. E se mi avessero affidato un Teilkommando, sarei stato capace anch'io, come Nagel o Häfner, di organizzare retate, far scavare fosse, mettere in fila dei condannati, e gridare «Fuoco!»? Sí, probabilmente. Fin dall'infanzia mi ossessionava la passione per l'assoluto e per il superamento dei limiti; ora quella passione mi aveva portato sull'orlo delle fosse comuni dell'Ucraina. Le mie idee, le avevo sempre mantenute radicali; ora anche lo Stato, la Nazione avevano scelto il radicale e l'assoluto; e allora come si poteva, proprio in quel momento, voltare le spalle, dire no, e preferire in fin dei conti la comodità delle leggi borghesi, la mediocre sicurezza del contratto sociale? Ovviamente non era possibile. E se poi la radicalità era quella dell'abisso, e se l'assoluto si rivelava il male assoluto, bisognava comunque, di questo almeno ero intimamente persuaso, seguirli fino in fondo, a occhi ben aperti. La folla arrivava e riempiva il cimitero; notai soldati in costume da bagno, c'erano anche donne, bambini. La gente beveva birre si passava delle sigarette. Io guardavo il gruppo di ufficiali dello Stato maggiore: c'era l'Oberst von Schuler, il IIa, con molti altri ufficiali. Grafhorst, il Kompanieführer, disponeva i suoi uomini. Adesso si sparava con un fucile per ebreo, un colpo al petto all'altezza del cuore. Spesso non bastava a uccidere e un uomo doveva scendere nella fossa per finirli; le grida risuonavano fra le chiacchiere e i clamori della folla. Häfner, che comandava piú o meno ufficialmente l'azione, urlava. Tra una salva e l'altra, c'erano degli uomini che uscivano dalla folla e chiedevano alle Waffen-SS di cedere loro il posto; Grafhorst non si opponeva e i suoi uomini passavano le carabine a quei Landser, che sparavano un paio di colpi prima di tornare dai loro compagni. Le Waffen-SS di Grafhorst erano abbastanza giovani e fin dall'inizio dell'esecuzione manifestavano una certa inquietudine. Häfner fece una sfuriata a uno di loro, che a ogni salva porgeva la carabina a un soldato volontario e restava in disparte, pallidissimo. Per di piú, troppi colpi non andavano a segno e quello era effettivamente un problema. Häfner fece interrompere le esecuzioni e tenne un conciliabolo con Blobel e due ufficiali della Wehrmacht. Non li conoscevo, ma dal colore delle mostrine sul colletto si trattava di un giudice militare e di un medico. Poi Häfner andò a discutere con Grafhorst. Vedevo che Grafhorst non era d'accordo con ciò che diceva Häfner, ma non sentivo le loro parole. Alla fine, Grafhorst fece portare una nuova infornata di ebrei. Furono piazzati di fronte alla fossa, ma i tiratori delle Waffen-SS mirarono alla testa invece che al petto; il risultato fu spaventoso: la calotta cranica volava via, i tiratori si prendevano schizzi di cervello in faccia. Uno dei tiratori volontari della Wehrmacht vomitava e i commilitoni lo prendevano in giro. Grafhorst era diventato paonazzo e insultava Häfner, poi si rivolse a Blobel e la discussione ricominciò. Cambiarono di nuovo sistema: Blobel fece aggiungere dei tiratori che sparavano alla nuca in due, come a luglio; Häfner somministrava personalmente il colpo di grazia quando serviva.

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Da tutto ciò derivò un tipico ordine di von Reichenau: riferendosi alle nostre esecuzioni necessarie di criminali, bolscevichi ed elementi sostanzialmente ebrei, vietava ai soldati della 6a armata, senza ordine di un ufficiale superiore, di assistere, scattare fotografie o partecipare alle azioni. Di per sé non avrebbe probabilmente fatto una gran differenza, ma Rasch ci ordinò di svolgere le azioni fuori città, e di delimitare il perimetro con un cordone di sicurezza per impedire la presenza di spettatori. La discrezione, a quanto pareva, d'ora innanzi sarebbe stata di rigore. Eppure anche il desiderio di vedere quelle cose era umano. Sfogliando il mio Plane, avevo ritrovato il passo della Repubblica al quale mi aveva fatto pensare la mia reazione di fronte ai cadaveri della fortezza di Lutsk: Leonzio, figlio di Aglaione, mentre saliva dal Pireo costeggiando dall'esterno il muro settentrionale, si accorse che c'erano dei cadaveri che giacevano vicino al boia, e allo stesso tempo desiderava di guardarli ma provava ripugnanza e si volgeva dall'altra parte. Per qualche istante lottò con se stesso e si copri il viso, ma poi, vinto dal desiderio, spalancò gli occhi e corse verso i cadaveri dicendo: «Ecco voi disgraziati, saziatevi di questo bello spettacolo». A dire la verità, i soldati sembravano provare di rado l'angoscia di Leonzio, solo il suo desiderio, e doveva essere questo a infastidire la gerarchia, l'idea che gli uomini potessero godere di quelle azioni. Eppure tutti quelli che vi partecipavano ne traevano piacere, mi pareva evidente. Alcuni, era chiaro, godevano dell'atto in sé, ma quelli li si poteva considerare dei malati, ed era giusto farli cercare e affidare loro altri compiti, o addirittura condannarli se passavano i limiti. Quanto agli altri, che la cosa gli ripugnasse o li lasciasse indifferenti, la eseguivano per senso del dovere e dell'obbligo, e cosí godevano del proprio zelo, della propria capacità di portare a termine con successo un compito tanto difficile nonostante il disgusto e l'angoscia: «Ma io non provo nessun piacere a uccidere», dicevano spesso, godendo cosí del proprio rigore e della propria virtú. La gerarchia, com'è ovvio, doveva considerare questi problemi nel loro complesso, per forza di cose le risposte non potevano che essere approssimative o rozze. Certo, le Einzelaktionen, le azioni individuali, erano giustamente considerate omicidi e condannate. Il Berück von Roques aveva promulgato un'interpretazione dell'ordine dell'OKW relativo alla disciplina che comminava sessanta giorni di arresti, per insubordinazione, ai soldati che sparavano a ebrei di propria iniziativa; a Lemberg, si diceva, un sottufficiale si era beccato sei mesi di carcere per l'omicidio di una vecchia ebrea. Ma piú aumentava la portata delle azioni, piú diventava difficile controllarne tutte le ricadute. L'11 e 12 agosto il Brigadeführer Rasch riuní a Zitomir tutti i suoi capi di Sonderkommando e di Einsatzkommando: oltre a Blobel, Hermann del 4b, Schulz del 5 e Kroeger del 6. Venne anche Jeckeln. Il 13 era il compleanno di Blobel, e gli ufficiali avevano deciso di organizzargli una festa. Durante la giornata si mostrò di un umore ancor piú tremendo del solito, e passò lunghe ore da solo, chiuso nel suo ufficio. Anch'io ero piuttosto occupato: avevamo appena ricevuto ordine dal Gruppenführer Müller, capo della Geheime Staatspolizei, di raccogliere materiale visivo sulle nostre attività - fotografie, film, manifesti, volantini - da trasmettere al Führer. Ero andato a contrattare con Hartl, l'amministratore del Gruppenstab, un piccolo finanziamento per acquistare dagli uomini copie delle loro foto; all'inizio aveva rifiutato, con il pretesto di un ordine del Reichsführer che vietava ai membri delle Einsatzgruppen di ricavare qualunque genere di profitto dalle esecuzioni; e secondo lui la vendita di fotografie costituiva un profitto. Alla fine riuscii a convincerlo che non si poteva chiedere agli uomini di finanziare di tasca propria il lavoro del gruppo, e che bisognava rimborsare loro le spese per la stampa delle immagini che volevamo archiviare. Accettò, ma a condizione che venissero pagate soltanto le foto dei sottufficiali e dei soldati; gli ufficiali dovevano farle stampare a proprie spese, se ne scattavano. Munito di quell'autorizzazione, passai il resto della giornata nelle baracche a esaminare le collezioni della truppa e a ordinare delle copie. Fra l'altro, alcuni erano fotografi piuttosto esperti; ma il loro lavoro mi lasciava un retrogusto sgradevole, e al tempo stesso non potevo staccarne gli occhi, ero pietrificato. La sera gli ufficiali si riunirono alla mensa, che Strehlke e i suoi aiutanti avevano addobbato per l'occasione. Quando ci raggiunse, Blobel aveva già bevuto, gli occhi erano iniettati di sangue, ma si dominava e parlava poco. Vogt, che era l'ufficiale piú anziano, gli presentò i nostri auguri e brindò alla sua salute; poi gli si chiese di fare un discorso. Esitò, posò il bicchiere e si rivolse a noi, con le mani incrociate dietro la schiena. «Meine Herren! Vi ringrazio per gli auguri. Sappiate che apprezzo la vostra fiducia. Devo comunicarvi una triste notizia. Ieri, l'HSSPF Russland-Süd, l'Obergruppenführer Jeckeln, ci ha trasmesso un nuovo ordine. Quell'ordine proveniva direttamente dal Reichsführer-SS ed emana, lo sottolineo per voi come lui l'ha sottolineato per noi, dal Führer in persona». Parlando, sussultava; tra una frase e l'altra si mordicchiava l'interno della guancia. «Le nostre azioni contro gli ebrei dovranno d'ora innanzi includere tutta la popolazione. Non ci saranno eccezioni». Gli ufficiali presenti reagirono con costernazione; molti si misero a parlare tutti insieme. Si levò la voce di Callsen, incredula: «Tutti?» «Tutti», confermò Blobel. «Ma, via, è impossibile», disse Callsen. Sembrava che supplicasse. Io tacevo, sentivo come una specie di gelo. Oh Signore, dicevo a me stesso, anche questo bisognerà fare adesso, è stato deciso, bisognerà rassegnarsi. Mi sentivo invaso da un orrore senza limiti, ma restavo calmo, non traspariva nulla, la respirazione non era alterata. Callsen proseguiva con le obiezioni: «Ma, Herr Standartenführer, siamo in gran parte sposati, abbiamo dei figli. Non si può chiederci questo». «Meine Herren, - interruppe bruscamente Blobel con voce tagliente e al tempo stesso stridula, - si tratta di un ordine diretto del nostro Führer, Adolf Hitler. Siamo nazionalsocialisti e SS, e obbediremo. Dovete capire: in Germania è stato possibile risolvere la questione ebraica, nel suo complesso, senza eccessi e in modo conforme alle esigenze dell'umanità. Ma quando abbiamo conquistato la Polonia, abbiamo ereditato altri tre milioni di ebrei. Nessuno sa cosa farne né dove metterli. Qui, in questo paese immenso, dove combattiamo una guerra di distruzione implacabile contro le orde staliniane, abbiamo dovuto prendere sin dall'inizio misure radicali per garantire la sicurezza delle nostre retrovie. Credo che voi tutti ne abbiate compreso la necessità e l'efficacia. Non abbiamo forze sufficienti per pattugliare ogni villaggio e al tempo stesso combattere; e non possiamo certo permetterci di lasciarci alle spalle dei potenziali nemici cosí astuti, cosí scaltri. Al Reichsicherheitshauptamt si discute la possibilità, una volta vinta la guerra, di riunire tutti gli ebrei in una grande riserva in Siberia o nel Nord. Là saranno tranquilli, e noi pure. Ma prima bisogna vincere la guerra. Abbiamo già giustiziato migliaia di ebrei e ne restano ancora decine di migliaia; piú le nostre forze avanzano, piú ce ne saranno. Ma se giustiziamo gli uomini, non resta nessuno per mantenere le donne e i loro figli. La Wehrmacht non ha le risorse per nutrire decine di migliaia di inutili femmine ebree con i loro marmocchi. Non si può nemmeno lasciarli morire di fame: sono metodi bolscevichi. Includerle nelle nostre azioni, con i loro mariti e i loro figli, è in realtà la soluzione piú umana, date le circostanze. Inoltre, l'esperienza ci ha dimostrato che gli ebrei dell'Est, piú prolifici, sono il principale vivaio che rinnova costantemente le forze del bolscevismo giudaico come delle plutocrazie capitaliste. Se ne lasciamo sopravvivere alcuni, questi prodotti della selezione naturale saranno all'origine di una rinascita per noi ancora piú rischiosa del pericolo attuale. I bambini ebrei di oggi sono i sabotatori, i partigiani, i terroristi di domani». Gli ufficiali tacevano, cupi; Kehrig, notai, beveva un bicchiere dopo l'altro. Gli occhi iniettati di sangue di Blobel luccicavano attraverso il velo dell'alcol. «Siamo tutti nazionalsocialisti, - continuò, - SS al servizio del nostro Volk e del nostro Führer. Vi ricordo che Führerworte haben Gesetzeskraft, la parola del Führer ha forza di Legge. Dovete resistere alla tentazione di essere umani». Blobel non era un uomo particolarmente intelligente; quelle espressioni cosí forti non erano di certo farina del suo sacco. Eppure, lui ci credeva; cosa ancora piú importante, voleva crederci, e le offriva a sua volta a chi ne aveva bisogno, a quelli a cui potevano servire. A me non erano molto utili, i miei ragionamenti dovevo elaborarli da solo. Ma facevo fatica a pensare, la testa mi ronzava, una pressione insopportabile, volevo andare a dormire. Callsen giocherellava con la fede, ero certo che non se ne rendesse conto; voleva dire qualcosa, ma cambiò idea. «È una Schweinerei, una große Schweinerei», borbottava Häfner, e nessuno lo contraddiceva. Blobel sembrava svuotato, a corto di idee, ma tutti percepivano che la sua volontà ci dominava e non ci avrebbe mollato, proprio come altre volontà dominavano lui. In uno Stato come il nostro a tutti era assegnato un ruolo: Tu, vittima, e Tu, carnefice, e nessuno poteva scegliere, non si domandava il consenso di nessuno, perché tutti erano intercambiabili, le vittime come i carnefici. Ieri avevamo ucciso uomini ebrei, domani sarebbero stati donne e bambini, dopodomani altri ancora; e noi, una volta adempiuto al nostro ruolo, saremmo stati sostituiti. Perlomeno, la Germania non liquidava i suoi carnefici, anzi, se ne prendeva cura, a differenza di Stalin con la sua mania delle purghe; ma anche questo rientrava nella logica delle cose. Per i Russi, come per noi, l'uomo non contava nulla, la Nazione, lo Stato erano tutto, e in tal senso ci rispecchiavamo a vicenda. Anche gli ebrei avevano quel forte senso della comunità, del Volk: piangevano i propri morti, li seppellivano quando potevano e recitavano il kaddish; ma finché uno solo restava in vita, Israele viveva. Era senz'altro per questo che erano i nostri nemici privilegiati, ci somigliavamo troppo.

Non si trattava di un problema di umanità. Alcuni, beninteso, potevano criticare le nostre azioni in nome di valori religiosi, ma io non ero tra quelli, e nelle SS non dovevano essercene molti; o in nome di valori democratici, ma ciò che si definisce democrazia l'avevamo superato, in Germania, già da un po'. I ragionamenti di Blobel, in realtà, non erano del tutto stupidi: se il valore supremo è il Volk, il popolo a cui si appartiene, e se la volontà di questo Volk s'incarna in un capo, allora, in effetti, Führerworte haben Gesetzeskraft. Ma era comunque essenziale comprendere dentro di sé la necessità degli ordini del Führer: chi vi si assoggettava per semplice spirito prussiano di obbedienza, per spirito di Knecht, senza capirli e senza accettarli, cioè senza sottomettervisi, era soltanto un babbeo, uno schiavo e non un uomo. L'ebreo, da parte sua, quando si sottometteva alla Legge, sentiva che quella Legge viveva in lui, e piú era terribile, severa, esigente, piú la adorava. Anche il nazionalsocialismo doveva essere cosí: una Legge viva. Uccidere era una cosa tremenda; la reazione degli ufficiali lo dimostrava, anche se non tutti traevano le conseguenze della propria reazione; e chi non riteneva che uccidere fosse una cosa tremenda, uccidere un uomo armato come un uomo disarmato, e un uomo disarmato come una donna con suo figlio, era soltanto un animale, indegno di appartenere a una comunità di uomini. Ma era possibile che quella cosa tremenda fosse anche una cosa necessaria; e in tal caso bisognava assoggettarsi a tale necessità. La nostra propaganda ripeteva incessantemente che i Russi erano Untermenschen, subumani; questo però mi rifiutavo di crederlo. Avevo interrogato degli ufficiali catturati, dei commissari, e mi era apparso evidente che anche loro erano uomini come noi, uomini che desideravano soltanto il bene, che amavano la loro famiglia e la patria. Eppure quei commissari e quegli ufficiali avevano fatto morire milioni di loro concittadini, avevano deportato i kulaki, ridotto alla fame i contadini ucraini, represso e fucilato i borghesi e i deviazionisti. Fra loro c'erano sadici e pazzi, certo, ma c'erano anche uomini buoni, onesti e integri, che volevano sinceramente il bene del proprio popolo e della classe operaia; e se sbagliavano, restavano pur sempre in buona fede. Anche loro erano per lo piú convinti della necessità di ciò che facevano, non tutti erano pazzi, opportunisti e criminali come quel Kieper; anche tra i nostri nemici un uomo buono e onesto poteva convincersi a fare cose terribili. Quel che ora ci veniva chiesto ci poneva lo stesso problema.

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