Autore Elena Loewenthal
Titolo La carezza
SottotitoloUna storia perfetta
EdizioneLa nave di Teseo, Milano, 2020, Oceani 105 , pag. 256, cop.fle., dim. 15x21,5x2 cm , Isbn 978-88-346-0346-8
LettoreGiovanna Bacci, 2021
Classe narrativa italiana












 

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Indice


 13    In fine

 17    1999 - Prima
 19    La corruttela impossibile
 75    Lo spazio bianco
 89    Dimenticarsi la fede

107    La lacuna
109    2002
127    2007
139    2008
145    2014

151    2019 - Dopo
153    Tutto è tornato
181    Dove sei
223    L'isola

245    In un infinito altrove


 

 

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Pagina 13

In fine


Le aveva lasciato un livido sul seno. Il seno sinistro, alla sinistra del capezzolo, in cui un poco si confondeva. Un pallido reticolo appena sottopelle, di un colore indefinibile che non era né verde né blu, forse vagamente giallo. Lei aveva sperato che non andasse più via, come fanno certi ricordi che magari cambiano colore, che diventano sogni e speranze e magari anche l'ansia di un arrivederci sospeso nel tempo, ma che restano lì e non spariscono mai più del tutto.

E invece era via via sbiadito, il livido.

Possibile che due corpi che si incontrano, si stanno addosso, vanno l'uno dentro l'altro, si incollano l'uno all'altro, sudano e gridano insieme e singhiozzano anche un po' alla fine, possibile che il sesso lasci così poche tracce addosso? Passa davvero tutto così, come la polvere cosmica che per un pugno di giorni, in estate, diventa pioggia di stelle cadenti e poi sparisce nel buio del niente?

No? Macché. Sì.

Come i ricordi, il livido è sbiadito, scomparso sotto il tessuto della pelle e delle ghiandole, precipitato dentro la carne viva del corpo. È diventato il sogno di un ricordo, la malinconia di una speranza sempre più improbabile.

Tornerai? Forse. Chissà.

Sì. Macché. No.

"Ce l'ha una crema, una lozione, qualcosa per fissare i lividi?" aveva chiesto in farmacia.

"Nel senso di riassorbire, dice?"

"No, il contrario. Che resti lì dov'è."

La farmacista aveva sgranato gli occhi per un attimo, piegando leggermente il capo verso destra, come fanno i cagnolini quando provano ad ascoltare un rumore nuovo per loro. "Fissare? No, mi dispiace, non abbiamo niente per quello. Ma..." e si era interrotta prima di porre la domanda.

Ma perché?

Così era uscita dalla farmacia con una scatola di Oki orosolubile. Non che ne avesse bisogno, anzi: spargeva per tutte le borse che usava quelle minuscole bustine rettangolari monodose, in caso di necessità. Non lo usava mai, perché in quel periodo stava benissimo: non un acciacco, non un dolorino, non un accenno di stanchezza. Niente mal di testa, la digestione perfetta. Ma come si fa a stare così bene, si domandava ogni tanto, ultimamente. A questa età, poi. Quando dovrebbero cominciare almeno i piccoli fastidi, le noie fisiche. E invece, niente.

Fissare i ricordi. Non rinunciare a nulla di quello che era stato.

Che peccato, sarebbe stato, perdere qualcosa, un solo istante. No.

Se il livido prima o poi sarebbe andato via, sparito sotto la pelle, dentro il tessuto morbido del seno, oltre la cassa toracica, in fondo ai polmoni e al cuore, il resto no. Non doveva andare via. Mai più.

Tutto, tenere. Ogni gemito - brevi quelli di lui, escono dal profondo della gola quasi con fatica, solo di labbra quelli di lei. La sua mano grande che le copre tutto il viso mentre lui entra dentro di lei. La sua figura in cima alle scale, che aspetta di veder salire anche lei: non chiama, È un'ombra. Guarda e aspetta, con quella miscela di ironia e nobiltà che è tutto, in lui. E lo schiaffo sul fianco. E i pizzicotti. I morsi. E la mano sul collo, che stringe un poco, ma neanche troppo poco, forse per estrarre un guaito, forse per salire su insieme lungo la scala dell'io sono te e tu sei me e io sono fuori da me ma dentro di te. E la carezza sull'angolo che l'osso del bacino le fa, quando è distesa con una certa inclinazione, apposta per quella carezza che non finisce più, leggera e monotona.

Ma no, non era quella, la carezza.

E i baci che diventano subito qualche cosa d'altro, strade umide lunghe lunghe. E la forza e la gentilezza e quella distanza incommensurabile che sta fra chi entra e chi accoglie, chi possiede e chi è posseduto, e che solo la smisurata generosità del darsi insieme riesce a colmare e che ogni volta colmava.

Ogni volta.

Sono fuori da me.

Sono dentro di te.

Darsi, così. Come non mai. Né prima né dopo.

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Pagina 35

Pelle a pelle. È sempre e sempre sarà ed è sempre stato un insieme, il loro: mai affrontarsi, mai una opposta all'altro, mai uno contro all'altra, mai soltanto uno dentro l'altra, lui dentro di lei e lei dentro di lui: facendo l'amore sono sempre un tutto dentro un tutto, perché è tutto soltanto un presente perfetto. Mani, occhi, lingua, il cuore che batte forte dentro la cassa toracica e rimbomba in fondo alla carne, i polmoni che si dilatano, tutto che diventa umido, caldo, accogliente. Pelle che tutto fa passare, che tutto sente, ricorda, segna, vive, attraversa, si scioglie, manda nell'aria un petricore: il profumo denso della pioggia sulla terra asciutta, dopo tanto tempo.

Non è passato un attimo dentro la stanza, non uno, che sono nudi tutti e due, senza più scarpe, gonna, pantaloni, mutande, reggiseno, calze. Più niente.

Solo l'intermittenza imprevedibile del rilevatore di fumo sul soffitto del vestibolo, dove c'è la porta del piccolo bagno. Già sotto quella luce incerta, prima di entrare nello spazio buio della stanza, sono nudi. Pietro prende Lea per mano: lui ha le fattezze di un'ombra grande, lunga, un po' curva nelle spalle. Ma arrivati al letto, che non si vede, è Lea che gli passa davanti e si lascia cadere per prima, come se lo aspettasse lì da sempre. Lo spazio buio della stanza diventa lo spazio tutto bianco del lenzuolo. Dal materasso esce un cigolio brevissimo, quasi di contentezza. Pietro pensa che sia lei, sorride. No, è il letto. Poco dopo, perché tutto avviene con una specie di frenesia seppure gentile, Lea è pronta a giurare che lui le è entrato fin lassù, fino allo sterno e ancora più su, alla radice della gola: da in fondo al cuore, in un punto che chissà se è diaframma o qualcosa d'altro, forse un'eco delle reni, esce fuori un gemito basso, rauco, lungo che non finisce più.

Mai mai mai una cosa del genere. Così forte per lei.

Così forte per lui.

E così bella che come fai a dirla, una cosa così bella?

Quasi fossero, Lea e Pietro, dentro un sogno, uno di quei sogni fatti tutti di colori e movimento, un sogno pieno di stupore e allegria, di scoperta della complicità: Toh, siamo finiti tutti e due dentro questo sogno! È strano, ma bello. Sorridono, con i corpi che si toccano, si strofinano per essere più vicini, più che fare l'amore è una lotta contro, sì, contro lo spazio che li divide, foss'anche quel milionesimo di millimetro che impedisce a Pietro e a Lea di spazzare via ogni distanza fra loro.

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Pagina 196

Ma non ci sono soltanto cocci, al Museo Archeologico Nazionale "Domenica Ridola", il senatore che nel 1911 fondò il primo museo di questa terra incognita umanizzata sin dal Paleolitico.

Pietro e Lea visitano il museo ciascuno per conto proprio. Entrano insieme in ogni sala, e poi si separano, ogni tanto si incrociano. Ogni tanto si trovano faccia a faccia, sui due lati opposti di una vetrina, e si guardano riflessi negli oggetti: tre minuscole statuette scure, in pose strane. Una collana d'oro fatta di piastre finissime, quasi sbriciolate.

"Alla fin fine, quel che resta del passato è soprattutto l'idea della morte. Lo vedi? Quasi tutto quello che c'è qui riguarda i defunti. Guarda quanto sono ricchi i corredi delle tombe qui, a Pisticci. Tombe a tumulo, monumentali: un sacco di roba dei morti. Dei vivi, di Pisticci, che sappiamo? Un bel niente! La vita non si trasmette, non riesce a sfidare il tempo, passano quasi soltanto i defunti con il loro corredo di cose e ricordi. Necropoli, catacombe, ossari."

Si ritrovano di nuovo vicini nella sala dove è ricostruita la stipe votiva di Tirnmari. È una scena un po' di cartapesta.

"È vero" dice Lea.

"Sono i morti, i veri protagonisti della storia. Non so più dove, accidenti alla mia memoria, qualcuno mi ha detto che c'è un teschio con le orecchie."

"È a Napoli, Pietro. Le anime pezzentelle. Credo ce ne sia più d'uno. Forse anche a Ischia. Quando mettevano i cadaveri seduti sui colatoi, in qualche caso, invece di decomporsi, le cartilagini si mummificavano. Orribile. Ci siamo andati in gita tanti anni fa con i ragazzi, a Napoli, erano piccoli. Non so perché, li avevamo portati anche a vedere ossari e ipogei in giro per la città, fra una gita al Vesuvio e una pizza. Tanti anni fa, erano piccoli e non c'era ancora questa mania di Halloween, ma loro tre ridevano, invece io e mio marito eravamo sotto choc. Altro che dolcetto scherzetto."

"Giusto, le anime pezzentelle."

In una delle sale c'è la tomba di una giovane donna. C'è anche lei, in centro, dentro una bara di vetro. Ha addosso tanti monili - collo, braccia, caviglie, fronte ingioiellati. Oggetti sparsi tutt'intorno, a farle compagnia nel tempo dell'eternità. È distesa supina, sembra serena. Ma non c'è! Fra un bracciale e una cavigliera rimane soltanto assenza. Qualche minuscolo frammento di osso e basta. Appeso alla parete verso l'uscita, però, c'è un suo ritratto frontale, a tutta grandezza: una figura femminile puramente congetturale, ricavata dal nulla di quelle quattro schegge organiche superstiti. Dal vuoto affiorano una vita, una figura, una specie di storia. Il passato ha bisogno di tanta fantasia.

"Proprio come quando noi filologi si ricostruisce un testo che con tutta probabilità non è mai esistito. Risali su lungo l'albero genealogico della tradizione testuale, di corruttela in corruttela, di lacuna in lacuna, levi le interpolazioni, raggiungi finalmente l'opera 'in purezza', come si direbbe oggi" commenta Pietro con una serietà compunta, senza staccare lo sguardo dal ritratto minuscolo, ricco di dettagli e colori. Dietro le lenti, però, compare per un attimo il riflesso luminoso di un guizzo di ironia. O forse malinconia.

"Hai ragione. Va di moda con tutto, 'in purezza'. Tutto è in purezza. Vino, tessuti, profumi. Come non sopporto questi luoghi comuni del parlare. Dire, senza sapere cosa si dice, solo perché lo si sente dire."

"E quel testo in purezza, anzi scusa, quel testo perfetto. L'archetipo. È quasi sempre una tua, cioè scusa, una mia invenzione. Del filologo. Nessuno l'ha mai avuto sotto gli occhi, nessuno l'ha scritto prima di te. Di me. Del filologo. L'archetipo è soltanto frutto di immaginazione, per lo più."

"Nostalgia della cattedra?"

"Un po', sì, dai."

"Appunto. Anche qui, vedi. Non capisco proprio perché li abbiano ricostruiti, questi vasi, per esempio. Sarebbero più belli, se fossero rimasti rotti. Cocci. Come i frammenti di testo. Pensa alla poesia greca, quanto è più bella, nei frammenti."

"Preferisci la mancanza, Lea?"

"Preferisco l'imperfezione. Di lì passa la luce."

"Il caro, vecchio Leonard, eh, eh. Ohhh...!"

"Comunque hai ragione. La predominanza della morte è assoluta. Scaviamo nelle civiltà del passato e che ci troviamo? La persistenza dei defunti. Bisognerebbe scriverci un libro. Quel che resta, è sempre e soltanto la morte: della vita ben poco. Nulla. Gioielli, stoviglie, guarda quel pettine, lì accanto alla donna: tutta questa roba è sopravvissuta soltanto perché stava dentro una tomba."

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Pagina 210

"Riposino?" domanda Pietro sgusciando fuori dall'ascensore al piano di Lea, prima di lei.

Lea gli prende il polso come fosse un bambino recalcitrante che non ne vuole sapere di andare a nanna, avanzano guardinghi lungo il corridoio foderato di moquette, senza fare nessun rumore. Mentre apre la porta Lea guarda Pietro e sorride: quanto tempo è passato.

Eppure è come se fossero ancora lì, a vent'anni fa. È tutto uguale, il resto soltanto un vuoto da saltare, una lacuna irrilevante. Anche se è proprio in quello spazio bianco che debbono cercare il desiderio e la nostalgia, l'attesa e la speranza e la spensieratezza e una specie di convinzione mai spenta, in tutti quegli anni: prima o poi ci rivedremo e sarà tutto come prima. Meglio, anzi. Senza più fine, senza lacune, senza spazi bianchi, anzi neri - e vuoti.

Lea va alla borsa, estrae il telefonino, inforca gli occhiali da lettura e si butta sullo schermo. Scorre con il dito, legge. Rimette telefono e occhiali nella borsa.

"Pazzesco. Nulla. Ero un po' in ansia, a tavola. Ore e ore senza il telefono. E se mi cercano. Se è urgente? Un'emergenza? Se mi chiamano i figli? Cosa che del resto non fanno quasi mai... Invece niente. Guarda tu. Si può anche vivere senza."

"Te l'avevo detto."

"No, non me lo avevi detto."

"Sì che te lo avevo detto. Che te ne fai del telefono? Avevo detto" ribatte posando il suo sul comodino da notte.

Il pomeriggio è tutto più fiacco e anche più dolce. Si adagiano sul letto vestiti, si abbracciano, fanno finta di dormire. Ma Lea solletica la gamba di Pietro, scalza il pantalone, risale con il piede nudo sino al ginocchio. Lui sembra dormire, ma ride. La stringe forte con tutte e due le braccia, Lea gli sale addosso.

Pian piano, tutto si scuce.

Pietro infila un dito sotto il reggiseno di Lea, lo scalza quel tanto che basta per fare uscire il capezzolo. Comincia a girarci intorno, stretto e largo largo e stretto, sale sulla punta, pizzica, lo tiene a lungo fra due dita, sino a fare male. Poco male, tanto bene. Torna a girare con due dita, tiene gli occhi chiusi, è tutto lì in quelle due dita sul capezzolo di Lea. Anche Lea è lì: nient'altro, nessun altrove. Immobili.

È una sonnolenta controra di ottobre, tutto è lentezza. Dalle persiane chiuse passa la luce del giorno, qualcuno ride in corridoio, fuori dalla stanza, poi l'ascensore arriva al piano e suona, come ogni volta: una sola nota, sempre la stessa.

Il telefono di Pietro squilla due volte. È una suoneria assordante, molesta. Come una piccola sferzata sul collo di Lea. Lui risponde assonnato, chiude in fretta, è niente.

"Scusa, stavo riposando" dice due volte incollando le labbra al telefono. "Ci sentiamo domani per conferma. Grazie a te."

Abbassa la suoneria, posa il telefono sul comodino, è a pancia insù, nudo. Lea si butta su di lui.

Dopo tanto tempo, ecco uno spasmo. Un altro.

È tutto così dolce che Lea chiude gli occhi.

"Ferma, aspetta" dice Pietro, con la voce ancora strozzata, come se gli facesse un male tremendo.

"Ferma, aspetta" ripete Pietro.

È un'ingiunzione forte, Lea ubbidisce, si impietrisce così com'è, abbracciata a lui. Tace, perché capisce che è un momento inviolabile. Forse sa che cos'è, vagamente lo sa: un buco in fondo al cuore, anzi più giù. Una specie di avvisaglia che tutto tornerà a essere pulviscolo cosmico: sassi, solo sassi.

È la paura che viene quando si giunge a una soglia, che sia di piacere, di dolore o di tutti e due. Pietro è salito lassù, in cima al desiderio, e ci ha portato Lea.

Bello. Così bello da fare uscire da sé, fuori da tutto. Paura di essere così, lontani da tutto. Paura che quella paura passi.

Poi Pietro dice: "Sono fuori da me."

Da me.

E sospira, e le sorride.

"Eh eh. Ohhh... Scusa, ma è stato così forte. E bello. E forte."

E sorride anche Lea.

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