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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione di Giorgio Israel 7 La matematica da Pitagora a Newton Avvertimento ai lettori prima che incomincino a leggere 17 1. I numeri 19 Una meravigliosa invenzione dell'uomo 19 Una discussione con un ragazzo latino 20 «Calculi» e «abaci»; zephyrus e algoritmo 2l Anche gli «abaci» e i conti sulle dita continuano a servire a qualcosa 25 I numeri figurati di Pitagora 26 Le moderne calcolatrici elettroniche preferiscono la numerazione «in base due» 28 2. I triangoli 33 La scienza più antica è la geometria 33 Talete misura la piramide di Cheope con un bastone, due ombre e un'idea 34 Storia e leggenda del teorema di Pitagora 38 La dimostrazione di Pitagora, con due diverse scomposizioni di un quadrato 40 3. Le misure 43 Numero e misura 43 Le grosse difficoltà cominciano con le linee curve 46 Un'idea geniale di Archimede 48 Un tratto di curva «infinitamente piccolo» è un tratto di retta? 52 Copriamo una regione piana con fili. Riempiamo un solido con fogli 54 Ci vollero milleottocentocinquanta anni per inventare di nuovo il metodo di Archimede 56 La matematica moderna ha solo trecento anni 58 4. I simboli e i nuovi numeri 59 Anche «algebra» è una parola araba 59 Come si fa a «mettere in equazione» 60 Dai «debiti» ai «numeri negativi» 62 Come si fanno i calcoli con i «numeri absurdi», cioè con i numeri negativi 65 Gli irrazionali sono numeri? 66 Dall'algebra geometrica alla «logistica speciosa» 68 5. La geometria diventa algebra 73 Perché i «diagrammi» si chiamano «cartesiani» 73 Le coordinate della scacchiera e la scacchiera delle coordinate 76 La equazione associata ad una circonferenza 88 6. Funzioni, derivate, integrali 91 y funzione di x 91 Lo spazio funzione del tempo x. Il diagramma di un movimento 92 I fondatori del calcolo infinitesimale 94 La velocità istantanea e l'idea di derivata 95 Area e integrale 97 Conclusione di una storia che non ammette conclusioni 99 Appendici 101 |
| << | < | > | >> |Pagina 191. I numeriUna meravigliosa invenzione dell'uomo Sin da molto piccoli, quasi sempre ancor prima di andare a scuola, impariamo a leggere le parole e i numeri; diventa talmente un'abitudine, che difficilmente si riflette alla straordinaria genialità dell'uomo, che è riuscito con sole 21 «lettere» (o 24, o 26, a seconda delle lingue) a scrivere tutte le possibili infinite parole, e con solo dieci «cifre» tutti i possibili, infiniti numeri. Con 31 segnetti, così, a sei anni e spesso anche prima, diventiamo padroni delle chiavi che aprono i tesori del mondo: tutti i libri e tutte le tabelle e tutti i calcoli che poeti, scrittori, fisici, astronomi, matematici hanno potuto tramandarci da quando l'uomo ha inventato quei due strumenti mirabili: la scrittura alfabetica e la numerazione posizionale. Sono due invenzioni che hanno qualche cosa di simile, e sono tutte e due costate millenni di fatiche alla mente umana. Dare valore al posto di una cifra («principio posizionale») era una idea più difficile che non quella di dividere le parole nei suoni che le compongono, e scriverle mettendo uno dietro l'altro (o, in alcune lingue, uno sotto l'altro) i segni stabiliti per quei suoni, invece di affaticarsi a inventare e ricordare un diverso disegno, un ideogramma per ogni parola. Difatti, per esempio, nella nostra Italia l'origine della scrittura alfabetica si perde nel buio della preistoria: prima dell'alfabeto latino, quello che adoperiamo tuttora, c'erano quello greco, quello etrusco. Invece l'introduzione della numerazione araba (sarebbe più giusto, come vedremo, dire indiana), cioè di una numerazione nella quale si tiene conto della posizione delle cifre, è un fatto storico relativamente recente, del quale possiamo dire addirittura la data. Siamo nel 1202, ai tempi di Marco Polo, delle Crociate, di Federico Barbarossa, delle Repubbliche marinare: un mercante-matematico italiano, Leonardo Fibonacci detto Leonardo il Pisano, scrive un libretto che meriterebbe la stessa fama del Milione di Marco Polo (e forse della stessa Divina Commedia di Dante Alighieri); il Libro dell'abbaco (in latino: Liber abaci), nel quale spiega genialmente il comodissimo sistema degli arabi per scrivere i numeri e le sue applicazioni. | << | < | > | >> |Pagina 32. I triangoliLa scienza più antica è la geometria L'umanità, nella sua storia, ha studiato la matematica in ordine inverso a quello seguito nelle nostre scuole, o quasi. Infatti, la numerazione decimale (arabica-indiana) è la prima cosa che s'impara, appena si va a scuola, ed è stata invece - come abbiamo visto una tarda conquista di una umanità già dottissima in geometria. Si potrebbe dire, addirittura, che la geometria è di parecchie migliaia d'anni più vecchia dell'aritmetica: si può dire senz'altro che la geometria è stata la prima vera scienza costruita dall'uomo, la sola vera scienza dell'antica Grecia; già adulta quando la fisica, la chimica, la biologia, la geologia non erano ancora - si può ben dire - nate, quando la medicina muoveva i primissimi passi. La sola astronomia era abbastanza sviluppata: ma che cos'era l'astronomia dei caldei, degli egiziani, dei greci, se non geometria? Navigazione vuol dire astronomia e astronomia vuol dire geometria: ecco perché gli antichi popoli navigatori del Mediterraneo dovettero diventare ottimi geometri. Ma anche architettura vuol dire geometria; e soprattutto vuol dire geometria la agrimensura. Infatti, agri-mensura è la traduzione letterale, in latino, del greco geometria: in italiano, misurazione (metria) del suolo (cioè della terra, che in greco si dice gè: ricorderemo Gea, la dea della Terra). I greci avevano un vero e proprio culto per la geometria, che portarono a un alto grado di perfezione. La consideravano, come oggi si usa dire, una scienza formativa, cioè una scienza che abitua a ragionare, che affina l'intelligenza; dicevano anzi che non bisognava studiarla con scopi pratici, ma per «l'onore della mente umana». Platone, il grande filosofo allievo di Socrate, nella sua scuola (l'Accademia) nella quale si discutevano i più difficili problemi della logica, della politica, dell'arte, della vita e della morte, aveva fatto scrivere in alto sulla porta: «Non entri nessuno che non sia geometra». Diceva anche Platone, che «Dio stesso geometrizza», e intendeva probabilmente con ciò affermare che l'Universo è costituito secondo forme e leggi geometriche. Questo culto della geometria come scienza sovrana, che dà la chiave per comprendere l'universo tutto, era ancora vivissimo nel sommo Galileo Galilei (1564-1642). Ecco cosa scriveva Galilei: «Questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo)... non si può intendere se prima non s'impara a intendere la lingua, e conoscere i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche... Tuttavia, la geometria greca restò fedele al significato letterale del suo nome: gli studiosi greci si occuparono soprattutto di misure: misure di lunghezze, di aree, di volumi. Per misurare, svilupparono alcune teorie, che ancora oggi si imparano nelle scuole pressappoco nella forma che ad esse ha dato duemila e duecento anni fa Euclide: la teoria della similitudine e la teoria dell' equivalenza. Non possiamo davvero farne un'esposizione ordinata (del resto, già la dà la scuola); vorremmo però, con qualche esempio, farne vedere la portata e la genialità. | << | < | > | >> |Pagina 56Ci vollero milleottocentocinquanta anni per inventare di nuovo il metodo di ArchimedeQuesto nuovo metodo, per misurare le aree delle figure piane e i volumi dei solidi, fu reso pubblico per la prima volta da un grande scolaro di Galileo Galilei, quel Bonaventura Cavalieri che abbiamo già citato, in un bellissimo libro, intitolato la Geometria degli indivisibili stampato nel 1635 (scritto in latino, la lingua internazionale dei dotti fino a circa duecento anni fa). Ci furono discussioni terribili tra i matematici sugli indivisibili di Cavalieri; particolarmente accanito fu un altro frate, un olandese, il Guidino, che era un bravo geometra, ma all'antica, e non voleva sentire parlare di infinitamente grande e infinitamente piccolo. Il buon Guidino, e con lui molti avversari di Cavalieri, si appellavano all'autorità del sommo Archimede il quale, nelle pubblicazioni geometriche fino ad allora note, era sempre stato fedele al purissimo metodo di Euclide e non si era mai sognato di dividere i solidi in fogli e le figure piane in fili. Passarono tre secoli, all'incirca. Nel 1906 uno studioso, J. L. Heiberg, leggeva l'elenco degli antichi manoscritti conservati nella Biblioteca Gerosolimitana di Costantinopoli, con una breve notizia sul loro contenuto. Una di queste informazioni lo colpisce: si trattava forse di lavori di Archimede? Scrive, si fa mandare una fotografia di qualche pagina, non ha più dubbi: si tratta di un prezioso antico manoscritto in greco, su pergamena, forse del 900 dopo Cristo, con scritti di Archimede. Heiberg va a Costantinopoli e decifra con grande fatica il documento, perché qualcuno, verso il 1300, aveva voluto riutilizzare la stessa vecchia pergamena cancellando Archimede per scrivere cose di poco interesse. Trova alcuni scritti già noti, come il libro sulla Misura del circolo del quale abbiamo già parlato, e, verso la fine, negli ultimi fogli, scopre un'opera di Archimede che si credeva perduta: una lettera che aveva viaggiato duemila e duecento anni prima da Siracusa ad Alessandria d'Egitto. Scopre, cioè, una copia della lettera scritta da Archimede ad Eratostene, che dirigeva la famosa biblioteca di Alessandria, ed era anche lui un grande scienziato (fu il primo a misurare, abbastanza bene, un poco con un «metro» molto con la mente, il meridiano terrestre). In quella lettera, Archimede spiegava a Eratostene quale metodo aveva impiegato per «farsi un'idea» delle misure di superficie e di solidi, che aveva poi giustificato con i procedimenti rigorosi della geometria greca. Si trattava di un metodo meccanico, consistente - attenzione! nella suddivisione di una figura piana in infiniti fili infinitamente sottili, pesanti, e nella composizione con gli stessi fili, diversamente disposti, di un'altra figura più semplice che facesse equilibrio alla prima, poste l'una e l'altra sui piatti di una bilancia ideale. Metodo analogo usava Archimede per i solidi, suddividendoli in infiniti fogli, pesanti ma infinitamente sottili. Fra' Bonaventura trionfava su Guidino: il metodo degli «indivisibili» risaliva ad Archimede! Adesso ci si può rendere meglio conto del perché, poco fa, ci siamo arrischiati a definire Archimede il più grande genio scientifico di tutti i tempi. Solo a lui, ad Archimede, è accaduto questo fatto straordinario: che ci volessero ben milleottocentocinquanta anni (tanti ne sono passati dal 212 avanti Cristo al 1635 dopo Cristo) perché altri scienziati riuscissero a riscoprire un metodo da lui ideato, e rimasto nascosto in un'antica pergamena. | << | < | > | >> |Pagina 99[...] Ora, Newton e Leibniz sono stati appunto i primi a indicare un metodo più o meno automatico, capace di farci calcolare tale limite. Questa «macchina» si chiama integrazione, ed è relativamente complicata: però l'idea che sta alla base della sua costruzione, e che abbiamo ora accennata, è invece, nella sua essenza, piuttosto semplice.Conclusione di una storia che non ammette conclusioni Questa è l'ultima grande idea semplice e geniale della nostra storia. L'ultima, perché con essa si conclude tutto un periodo della storia del pensiero matematico. Se ne apre però un altro, quello nel quale ancora viviamo, pieno di un numero crescente di meraviglie, anche nel campo matematico, quali sono ad esempio oggi le grandi macchine calcolatrici elettroniche. Però anche sotto le più astruse magie odierne vi è, sempre, un'idea semplice. La storia della matematica, dopo Newton e Leibniz, è ancora piena di semplici idee che hanno rivoluzionato il sapere, che hanno aperto mondi nuovi, sconfinati, alla mente umana. Semplice l'idea di Gauss, di Lobacevski, di Bolyai, i quali, non convinti che in un triangolo comunque grande la somma degli angoli interni debba essere per forza uguale a due retti, ardiscono pensare a una geometria «astrale», non-euclidea, anti-euclidea. Semplici le idee del grande Bernardo Riemann, che, sviluppando lo spunto di Gauss e Lobacevski, ci ha insegnato a parlare di spazi e di geometrie al plurale, anzi... all'infinitamente plurale. Semplice l'idea che è alla base della Ars conjectandi (1713), dell'«arte di congetturare», di Giacomo Bernoulli che oggi chiamiamo calcolo delle probabilità, e che ha la sua prima origine da problemi sorti... giocando a dadi o a carte.
Semplici tante, tante altre idee geniali, come quella del francese
Henri Lebesgue (1912) che capì bene il concetto di
dimensione
mentre, per riposare la mente, stava costruendo un muretto di mattoni nel suo
giardino e fu colpito dal fatto che in parecchi punti del muretto dovevano
incontrarsi bordi di almeno tre mattoni.
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