Copertina
Autore Jack London
Titolo Quando il mondo era giovane
Sottotitoloe altri racconti di fantastoria
EdizioneCargo, Napoli-Roma, 2010, Biblioteca 31 , pag. 176, cop.fle., dim. 13x20x1,1 cm , Isbn 978-88-6005-032-8
OriginaleBefore of Adam [1907] - The First Poet [1916] - The Strength of the Strong [1914] - When the World Waas Young [1913]
CuratoreMaurizio Flores d'Arcais
TraduttoreElena Marsi
LettoreRenato di Stefano, 2010
Classe narrativa statunitense
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  5 Introduzione
    Maurizio Flores d'Arcais


    QUANDO IL MONDO ERA GIOVANE

 13 Prima di Adamo

127 La forza dei forti

145 Il primo poeta

153 Quando il mondo era giovane


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

INTRODUZIONE
Maurizio Flores d'Arcais



«Un'ombra ha sempre ossessionato Jack London» ha scritto la figlia dello scrittore «dalla prima giovinezza alla fine della sua vita: l'incertezza dell'identità di suo padre, la certezza della propria illegittimità, e la vergogna unita al dispiacere che il suo probabile padre fosse un ciarlatano o un pazzo». Di questa ossessione testimoniano non solo i ripetuti tentativi di London di mettersi in contatto con William Henry Chaney (un «professore di astrologia e di scienze occulte», come egli stesso amava definirsi, che aveva vissuto con la madre all'epoca del suo concepimento e l'aveva poi abbandonata non appena si accorse che era incinta, e da cui tuttavia non riuscì mai ad avere conferma della sua paternità) ma la costanza con cui essa affiora alla sua mente per riversarsi sulla pagina scritta. È stato lo stesso London, nel romanzo autobiografico John Barleycorn, a raccontare che quell'ossessione generò in lui incubi e fantasie deliranti, in cui vedeva se stesso che vagava per il quartiere cinese di San Francisco alla ricerca di suo padre, di tana in tana, mentre alle sue spalle si chiudevano porte di ferro ed egli moriva mille volte...

Da queste visioni spaventose, che lo accompagneranno per tutta la vita, trassero origine alcune fra le sue pagine più belle, come queste di Prima di Adamo, che costituisce, e non soltanto da un punto di vista quantitativo, il "pezzo" di maggior rilievo fra quelli contenuti in questa antologia: dove l'avventura di Gran Dente in una giungla di belve e di serpenti, dominata dalla legge del più forte e dalla lotta per l'esistenza, prende le mosse proprio dal momento in cui viene cacciato dal padrigno dal loro nido sugli alberi e si trova all'improvviso completamente solo a dover badare a se stesso: verranno poi l'amicizia con l'inseparabile Orecchio Floscio, l'amore per la Rapida, il terrore del violento e prepotente Occhio Rosso, la minaccia degli Uomini del Fuoco.

Per introdurre il lettore nel suo mondo primitivo, London adotta lo stesso procedimento narrativo del Richiamo della foresta, grazie al quale Buck, un grosso cane da slitta metà sanbernardo e metà pastore scozzese, sente la voce dei suoi progenitori, indelebilmente impressa nella sua memoria, che lo spinge ad abbandonare la civiltà per unirsi al branco dei lupi. Questo procedimento è qui portato all'estremo: richiamandosi alla teoria dell'evoluzione, London fa rivivere nei sogni di un bambino di oggi i ricordi dell'infanzia del mondo, tramandatigli da un coetaneo dell'Età della pietra grazie alla memoria che si trasmette nella specie, di generazione in generazione, attraverso quello che Weismann ha definito il «plasma germinativo». Non è questa la sede per discutere una tale teoria, né d'altra parte il racconto costituisce una sua volgarizzazione romanzata. Si tratta piuttosto di un pretesto, di una trovata letteraria (che London utilizzerà ancora nel Vagabondo delle stelle) da cui lo scrittore può partire per addentrarsi con la sua fantasia nel mondo primitivo di Gran Dente.

«La situazione di questa storia» scriveva London il 25 aprile 1906 all'editore McClure

in senso biologico è realmente prima di Adamo; è la storia più primitiva mai scritta... C'è l'amore! Un eroe! Uno scellerato! Una rivalità! E una descrizione letteraria del paesaggio e delle condizioni di vita del mondo ai suoi albori.

Dunque, si dirà, gli elementi tipici del romanzo popolare. Ma dietro questo "canovaccio" che sembrava annunciare la più tradizionale storia a lieto fine, melodrammatica e consolatoria, si riservano al lettore alcune sorprese. Varrà la pena a questo punto un confronto con Il Tallone di Ferro, un testo su cui, dalla sua apparizione, si sono formate generazioni di militanti socialisti e che fu scritto a brevissima distanza da Prima di Adamo. Per molti versi infatti, si tratta di due romanzi "complementari": entrambi, a loro modo, "utopistici"; ed entrambi, a loro modo, "ideologici".

Il Tallone di Ferro è utopia rivolta in avanti. Nella storia che narra il fallimento della Comune di Chicago e il trionfo di un'oligarchia reazionaria che per tre secoli dominerà incontrastata, London mostra tutta l'ambivalenza dello sviluppo che ha accompagnato l'ascesa e il consolidamento del potere della borghesia: uno sviluppo che costituisce al tempo stesso il possibile strumento per il dominio dell'uomo sulla natura e insieme il soggetto dell'alienazione umana, dell'annientamento dell'individuo, della schiavitù dell'uomo alla macchina; che produce le basi materiali per una forma sociale superiore e insieme una carica potenziale (e concreta) di distruzione senza precedenti, in grado di far precipitare l'umanità verso nuove forme di imbarbarimento. Contro ogni illusione progressista, contro ogni fiducia sulla linearità dello sviluppo storico su cui si cullava allora la maggioranza del movimento operaio internazionale, London fa emergere dal Tallone di Ferro tutta la concretezza dell'alternativa fra socialismo e barbarie.

Prima di Adamo è invece utopia rivolta al passato, dove domina incontaminata quella natura che ha costantemente affascinato Jack London e stimolato il suo sogno rousseauiano: un tema, questo, che troviamo a più riprese nella sua opera, a partire da Il richiamo della foresta, che pochi anni prima lo aveva condotto a un successo inaspettato. Ma a differenza della storia di Buck, dove il ritorno allo stato di natura può assumere connotati positivi perché il protagonista, un cane, proprio attraverso la liberazione non metaforica dalle catene "civili" degli uomini e nella riconquista del mondo primordiale dei suoi avi, può trovare il soddisfacimento dei propri istinti e la realizzazione della propria natura, in Prima di Adamo, dove è l'uomo il protagonista, dunque un essere sociale e storico per definizione, un ritorno tout court alla natura è rivendicazione priva di senso. Sebbene sia indubbiamente attratto dalla primordialità, dalla purezza del rapporto con la natura, da un mondo non ancora contaminato da quella tecnologia che ai suoi occhi è soprattutto catena di montaggio, London non può contrapporre qui un mondo naturale "buono" ad un mondo "artificiale" cattivo, non si lascia tentare da sogni regressivi. Ciò che vale per gli animali non vale infatti per l'uomo: e così se da un lato quel mondo primitivo viene descritto come un'epoca innocente e gioiosa in cui «si rideva molto», dall'altro è dominato da una lotta asprissima, che prefigura la successiva lotta fra le classi.

L'incubo della lotta per la sopravvivenza è dunque una costante in tutta la vicenda di Gran Dente. E infatti, così come disse di aver scritto Il Tallone di Ferro «in omagggio a Marx», a proposito di Prima di Adamo London dichiarò: «I veri ispiratori del mio libro sono Darwin, Huxley e Spencer». Ecco un altro motivo di complementarietà fra í due romanzi: il marxismo da un lato e l'evoluzionismo dall'altro sono infatti i due filoni principali (il terzo è Nietzsche) su cui si andò formando la sua disordinata ma formidabile cultura di autodidatta. Vediamo fino a che punto si sia trattato, come in molti (e solo in parte a ragione) hanno affermato a proposito di London, di una commistione spuria fra ideologie differenti e incompatibili.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

PRIMA DI ADAMO



Questi sono i nostri antenati, e la loro storia è la nostra storia. Ricordate che come è certo che un giorno noi venimmo giù dagli alberi per camminare eretti al suolo, così è altrettanto certo che, in un'epoca ancor più lontana, sgusciammo fuori dal mare per iniziare la nostra prima avventura sulla terraferma.


I


Immagini, immagini, immagini!

Quante volte mi sono domandato, prima che lo apprendessi, da dove arrivasse la moltitudine di immagini che popolava i miei sogni; poiché di siffatte immagini non ne avevo mai viste nella vita reale durante lo stato di veglia. Esse tormentarono la mia infanzia, trasformando i miei sogni in una serie di incubi e convincendomi, poco più tardi, che ero diverso dal resto della mia specie, che ero un essere contro natura e maledetto.

Soltanto di giorno conseguivo un po' di felicità. Il sopraggiungere della notte spalancava le porte al regno della paura... e quale paura! Oso affermare che nessun uomo che vive come me su questa terra ha mai patito uno spavento di tale natura e intensità. Giacché la mia è una paura antichissima, la paura imperante agli albori del mondo e quando il mondo era giovane. In breve, la paura che regnava sovrana durante il periodo conosciuto con il nome di Medio Pleistocene.

Cosa intendo dire con questo? Sento che è necessaria una spiegazione prima ch'io cominci a svelare quale era il contenuto dei miei sogni. Se non lo facessi, ben poco comprendereste di cose a me così familiari. Mentre scrivo, tutti gli esseri e tutti gli avvenimenti di quell'altro mondo si parano dinanzi a me in una vasta fantasmagoria, ma so che ai vostri occhi apparirebbero assurdi e insensati.

Cosa possono mai significare per voi l'amicizia di Orecchio Floscio, la calda seduzione della Rapida, la concupiscenza e l'atavismo di Occhio Rosso? Stridenti incoerenze e nient'altro. Proprio come le gesta del Popolo del Fuoco e del Popolo degli Alberi, o le vocianti assemblee dell'orda. Non sapete nulla della fresca pace delle caverne sul fianco delle rupi, e della chiassosa frenesia dei luoghi dove andavamo a dissetarci alla fine del giorno. Non avete mai conosciuto il morso pungente del vento mattutino sulla cima degli alberi, né il sapore della giovane corteccia dolce al palato.

Meglio sarebbe stato per voi – oserei dire – essere iniziati come me durante l'infanzia. Da bambino ero uguale agli altri bambini... di giorno. Nel sonno invece ero completamente diverso. Sin dagli anni di cui la mia mente conserva vivo il ricordo, il sonno è sempre stato per me un periodo di terrore. Raramente i miei sogni si coloravano di felicità. Di solito, erano pieni di paura, una paura così strana e sconosciuta da non esservi nulla di paragonabile. Nessuna delle paure che provavo nelle ore di veglia assomigliava a quella che s'impadroniva di me durante il sonno. Era una paura di un genere tale da trascendere ogni mia esperienza.

Per esempio, io ero un bambino nato e allevato in città, e la campagna rappresentava per me un terreno inesplorato. Eppure non sognavo mai la città, e in nessuno dei miei sogni apparivano case. Proprio come nessun essere umano penetrava mai la barriera del mio sonno. Io, che avevo visto degli alberi solo nei parchi e nei libri illustrati, erravo nel sonno attraverso sconfinate foreste. E gli alberi che sognavo non erano una semplice immagine sfocata, frutto della mia fantasia. Erano chiari e nitidi, e avevo con essi una familiarità di lunga data. Ne percepivo ogni ramo, ogni gemma; vedevo e conoscevo ogni singola foglia.

Ricordo perfettamente la prima volta in cui, da sveglio, vidi una quercia. Guardando le foglie, i rami, i nodi del tronco, mi tornò in mente con inquietante lucidità che innumerevoli volte durante il mio sonno avevo già visto quella stessa specie di albero. Così non fui sorpreso, più tardi, di riconoscere immediatamente, appena li vidi, alberi come l'abete, il tasso, la betulla, il lauro. Li avevo già visti tutti, e continuavo a vederli ogni notte, durante il sonno.

Come avrete notato, tutto ciò viola la legge fondamentale dei sogni, secondo la quale ciascuno vede in sogno soltanto le cose di cui ha già fatto esperienza nello stato di veglia, o combinazioni di quelle cose. Invece tutti i miei sogni contravvenivano a questa legge. Nei miei sogni non ho mai visto nulla di cui avessi avuto conoscenza da sveglio. Le mie due vite – in sonno e allo stato di veglia – erano nettamente separate, non avevano nulla in comune tra loro, se non la mia persona. In un certo senso, io ero il legame vivente tra quelle due esistenze.

Sin da piccolo appresi che le noci si acquistano in drogheria e le bacche dal fruttivendolo; ma ben prima di far mia quella conoscenza, avevo colto in sogno le noci sugli alberi o le avevo raccolte da terra alla base dei tronchi, proprio come mangiavo le bacche colte su arbusti e cespugli. Tutte cose completamente estranee al mio vissuto.

Non dimenticherò mai la prima volta che vidi servire a tavola dei mirtilli. Non ne avevo mai visti prima, e tuttavia, appena li scorsi, mi affiorarono di colpo alla mente ricordi di sogni nei quali avevo errato in terreni paludosi mangiando a sazietà di quei frutti. Mia madre me ne mise davanti un piatto pieno. Presi una cucchiaiata, ma ancor prima di averla portata alla bocca sapevo perfettamente che sapore avrebbero avuto. E non mi sbagliavo. Era lo stesso gusto asprigno che così tante volte avevo assaporato nel sonno.

E i serpenti? Molto tempo prima ch'io sapessi della loro esistenza, mi tormentavano durante il sonno. Mi aspettavano annidati nelle radure delle foreste, mi aggredivano guizzando sotto i miei piedi, sfrecciavano via contorcendosi attraverso l'erba secca o sulle rocce nude; oppure mi inseguivano fin sulla cima degli alberi, avviluppando i tronchi nei grandi corpi lucenti, scacciandomi sempre più in alto, spingendomi sull'estremità di rami che oscillavano scricchiolando, mentre il suolo sotto di me sembrava inabissarsi a una vertiginosa distanza. I serpenti! Con la loro lingua biforcuta, gli occhi piccoli e lucenti, le scaglie scintillanti, il loro sibilo e il rumore dei sonagli... non li conoscevo forse sin troppo bene il giorno in cui mi recai per la prima volta al circo e vidi l'incantatore di serpenti prenderli tra le mani e sollevarli? Erano come vecchi amici per me, o meglio vecchi nemici, che popolavano di terrore le mie notti.

Ah, quelle foreste sconfinate e la loro oscurità piena di orrore! Per quante eternità ho errato attraverso di esse, creatura spaurita e tremebonda, allarmata dal minimo rumore, spaventata dalla sua stessa ombra, nervosa, sempre all'erta e vigile, pronta a lanciarsi a ogni istante in una fuga forsennata per la vita. Perché io ero la preda offerta a ogni sorta di belva feroce che abitava la foresta, ed era con delirante paura che fuggivo davanti a quelle fiere predatrici.

Avevo cinque anni quando andai per la prima volta al circo. Tornai a casa malato, ma non per colpa di troppe arachidi e limonate. Lasciate che vi racconti. Quando entrammo nella tenda dove erano gli animali, un ruggito rauco squarciò l'aria. Allontanai bruscamente la mano da quella di mio padre e mi precipitai come un folle verso l'uscita. Nel farlo, mi scontrai con qualcuno e caddi a terra; e per tutto il tempo continuai a urlare in preda al terrore. Mio padre mi raggiunse e cercò di calmarmi. Mi indicò gli spettatori attorno a noi, niente affatto spaventati dai ruggiti e mi rincuorò assicurandomi che eravamo perfettamente al sicuro.

Nonostante ciò, tremavo ancora di paura quando, spinto dagli incoraggiamenti di mio padre, mi avvicinai finalmente alla gabbia del leone. Ah, lo riconobbi all'istante! La bestia! La bestia terribile! Davanti alla mia vista interiore balenarono i ricordi dei miei sogni: il sole di mezzogiorno che splendeva sull'erba alta, il toro selvatico che pascolava tranquillo, l'improvviso fendersi dell'erba dinanzi alla rapida corsa della belva dal pelo fulvo, il suo balzo sul dorso del toro, lo strepito della lotta, il mugghiare della preda, lo scricchiolio delle ossa; o ancora, la calma frescura dell'abbeveratoio, il cavallo selvatico che beveva placidamente con le zampe immerse nell'acqua, e poi di nuovo la belva dal pelo fulvo, sempre lei! Il balzo, i nitriti del cavallo, lo sciaguattare dell'acqua, lo scricchiolio prolungato delle ossa; e poi ancora, la cupezza del crepuscolo e il triste silenzio del giorno che volge al termine, spezzato di colpo dal sonoro ruggito, inatteso, come la tromba del giudizio, e subito dopo urla dissennate e schiamazzi tra il folto degli alberi, e anch'io, tremante di paura, sono una delle tante creature urlanti celate tra il fogliame.

Nel vederla lì, impotente dietro le sbarre della gabbia, mi inferocii. Digrignai i denti, presi a saltellare su e giù, lanciandole grida incoerenti e beffarde e facendo smorfie grottesche. Il leone rispose scagliandosi contro le sbarre e ruggendo, rivolgendo verso di me la sua sterile rabbia. Ah, anche lui mi riconosceva, comprendeva bene i suoni che io emettevo, poiché appartenevano a un remoto passato.

I miei genitori erano spaventati: «Il bambino è malato» disse mia madre. «Ha una crisi di nervi» rispose mio padre. Non ho mai confessato loro la verità, non hanno mai saputo. Avevo già circondato di reticenze quella mia peculiarità, quella semidissociazione della personalità, come credo di poterla chiamare.

Dopo l'incantatore di serpenti, non vidi altro quella sera al circo. Mi riportarono a casa in preda all'agitazione e spossato, provato dall'irruzione nella mia vita reale di quell'altra vita, la vita dei sogni.

Ho accennato alla mia reticenza. Una sola volta confidai la stranezza di quel che mi accadeva a qualcuno. Era un mio compagno, aveva otto anni come me. Dai miei sogni ricostruii per lui le immagini di quel mondo svanito dove credo davvero di aver vissuto un tempo. Gli parlai dei terrori di quell'epoca remota, di Orecchio Floscio e delle marachelle che facevamo insieme, dei consigli vocianti, degli Uomini del Fuoco e dei loro ripari.

Rise di me, mi canzonò, e mi raccontò storie di fantasmi e di morti che camminano di notte. Ma più di tutto, rise della mia scarsa immaginazione. E quando insistetti, rise ancora più forte. Gli giurai in tutta serietà che le cose stavano esattamente così, e lui iniziò a squadrarmi in modo strano. E in seguito fece ai nostri compagni un racconto così deformato e inverosimile delle mie confidenze che tutti presero a squadrarmi in modo strano.

Fu un'amara esperienza, ma imparai la lezione. Ero diverso da quelli della mia specie, ero anormale. Gli altri non potevano comprendermi, e ogni mio tentativo di fornire spiegazioni non poteva che far nascere ulteriori incomprensioni. Quando saltavano fuori storie di folletti e fantasmi, tacevo. Ma dentro di me sorridevo torvo. Pensavo alle mie notti di terrore, e sapevo che le mie erano cose reali, come la vita stessa, e non vapori impalpabili e ombre immaginarie.

Nessuno spavento mi coglieva al pensiero dell'uomo nero o degli orchi malvagi. Precipitare da vertiginose altezze attraverso rami frondosi; i serpenti che mi attaccavano costringendomi a una precipitosa fuga; i cani selvatici che mi inseguivano attraverso le radure sino al limitare delle foreste... queste erano paure concrete e reali, fatti e non fantasie, cose di carne viva, di sudore, di sangue. Orchi e babau sono stati per me dei fedeli alleati, se paragonati a quelle paure con cui divisi le notti durante l'infanzia e con le quali le divido ancora oggi che, giunto in età matura, le racconto.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 19

II


Ho detto che nei miei sogni non vedevo mai esseri umani. Di questo mi resi conto assai presto, e avvertivo in maniera cocente la mancanza dei miei simili. Persino quand'ero molto piccolo avevo la sensazione, in preda all'orrore dei miei sogni, che se avessi incontrato un uomo, uno solo, mi sarei salvato dagli incubi e quelle paure che mi perseguitavano sarebbero svanite. Questo pensiero mi ossessionò ogni notte per anni: se solo potessi trovare quell'unico essere umano, sarei salvo!

Voglio ribadire che tale pensiero mi coglieva nel bel mezzo del sogno, cosa che considero una prova della coesistenza delle mie due personalità, la prova che esiste un punto di contatto tra le due parti dissociate del mio io. La personalità dei miei sogni viveva in un'epoca remota, prima ancora che esistesse l'uomo come lo conosciamo; l'altra, quella della vita reale, si proiettava, per quanto è concesso all'umana conoscenza, nella sostanza dei miei sogni.

Forse gli psicologi troveranno da ridire sull'uso che faccio dell'espressione "dissociazione di personalità". So bene che differisce dall'uso che ne fanno loro, ma sono costretto a servirmene a modo mio, in mancanza di altre più appropriate. Non posso che fare appello all'inadeguatezza della lingua. E ora veniamo alla spiegazione del mio uso – o abuso – dell'espressione.

Solo al college iniziai a intuire cosa significassero i miei sogni, e quale fosse la loro causa. Fino a quel momento essi erano rimasti per me privi di senso e di causa apparente. Ma al college scoprii le teorie dell'evoluzione e la psicologia, e appresi la spiegazione di svariati stati mentali e sensazioni bizzarri. Per esempio, sognare di precipitare nel vuoto: il più comune degli incubi, noto per esperienza personale a qualsiasi essere umano.

Il mio professore mi disse che faceva parte di una memoria razziale, risalente ai nostri primi antenati che vivevano sugli alberi. Proprio perché erano arboricoli, il rischio di cadere rappresentava per loro una minaccia costante. Molti morirono così; e tutti sperimentarono prima o poi qualche caduta terribile, scampando alla morte solo afferrandosi ai rami mentre precipitavano al suolo.

Ora, queste cadute spaventose producevano nell'organismo un trauma che, a sua volta, causava alterazioni molecolari nelle cellule cerebrali. Tali alterazioni molecolari si trasmettevano alle cellule cerebrali della prole, trasformandosi quindi in memoria razziale. Così, quando voi e io, addormentati o semplicemente assopiti, precipitiamo attraverso lo spazio e ci risvegliamo in preda all'angoscia un attimo prima di toccare il suolo, non facciamo altro che richiamare alla memoria quanto avvenne ai nostri antenati arboricoli e che si è impresso, attraverso una serie di modificazioni cerebrali, nell'eredità della specie.

Non c'è nulla di strano in questo, come non c'è nulla di strano in un istinto. Un istinto è solo un'abitudine che si è impressa nella materia della nostra eredità. Da notare, tra parentesi, che in questo sogno della caduta, così familiare a voi e a me, come a chiunque altro, non giungiamo mai al suolo. Cadere al suolo equivarrebbe alla fine. Tra i nostri antenati arboricoli, quelli che cadevano a terra morivano sul colpo. Certo, anche per loro il trauma della caduta si comunicava alle cellule cerebrali, solo che morivano immediatamente, prima di poter generare dei discendenti. Voi e io discendiamo da quelli che non toccarono terra; per questo nei nostri sogni nemmeno noi giungiamo mai al suolo.

Veniamo ora alla dissociazione della personalità. Quando siamo completamente desti non sperimentiamo mai questa sensazione della caduta. La nostra personalità durante la veglia non ne ha cognizione alcuna. Perciò – e qui l'argomento è irresistibile – deve essere un'altra personalità a cadere quando dormiamo, una personalità distinta che ha già fatto tale esperienza e che conserva, in breve, un ricordo di avvenimenti vissuti da un'antica specie, proprio come la nostra personalità diurna serba il ricordo degli avvenimenti della nostra vita reale.

Fu a questo punto del mio ragionamento che iniziai a vedere la luce. E ben presto questa luce si manifestò in tutto il suo abbagliante fulgore, illuminando e svelando tutto ciò che c'era di bizzarro e inquietante, innaturale e impossibile, nei miei sogni. Nel sonno non era la stessa personalità della veglia a dominarmi, ma una personalità distinta, che possedeva un serbatoio di esperienze nuovo e completamente diverso e, a giudicare dai miei sogni, anche il ricordo di quelle esperienze.

Qual era questa personalità? Quando aveva vissuto su questo pianeta formandosi quello strano repertorio di esperienze? A tali domande erano i miei stessi sogni a fornire una risposta. Era stato in epoche remote, quando il mondo era giovane, nel periodo che chiamiamo Medio Pleistocene. Era caduta dagli alberi senza schiantarsi al suolo, aveva tremato di paura al ruggito dei leoni, era stata inseguita dalle fiere e minacciata da serpenti letali. Aveva tenuto con i suoi simili consigli vocianti, ed era scampata al brutale trattamento degli Uomini del Fuoco il giorno in cui era fuggita dinanzi alla loro invasione.

Obietterete: come mai, nonostante possediamo come te una seconda personalità indistinta che precipita nel vuoto mentre dormiamo, questi ricordi non appartengono anche a noi?

A questa domanda risponderò con un'altra domanda: perché vi sono vitelli a due teste? Si tratta di scherzi della natura. È questa la mia risposta. Io posseggo quest'altra personalità e una memoria razziale intatta perché sono uno scherzo della natura.

Ma vi dirò dell'altro. La più comune di queste memorie razziali è il sogno della caduta nello spazio. Poiché questa seconda personalità è in generale molto indistinta, ha conservato quasi esclusivamente questo ricordo. Tuttavia in molti di noi essa è più chiara e distinta, cosicché sogniamo di volare, di essere inseguiti da mostri, di soffocare, o di vedere rettili e vermi. In poche parole, mentre questa seconda personalità è presente in tutti, seppur in maniera residua, in taluni è quasi completamente obliterata e in altri più accentuata. Alcuni di noi hanno una memoria razziale più forte e integra di altri.

In conclusione si tratta solo di livelli di possesso variabili. In me il livello è altissimo. La mia seconda personalità è quasi altrettanto influente di quella vera. Perciò, come ho già detto, sono uno scherzo di natura, un capriccio dell'ereditarietà.

Credo sia stato proprio il fatto di possedere quest'altra personalità – sebbene a un grado inferiore – a far sorgere in alcuni la credenza nella reincarnazione personale. Per questi individui si tratta di un'ipotesi plausibile e convincente. Quando hanno visioni di scene che non hanno mai vissuto di persona, ricordi di atti e avvenimenti passati, la spiegazione più semplice è quella di una vita precedente.

Ma commettono l'errore di non tenere conto della loro natura duale. Non riconoscono l'esistenza di una seconda personalità, la scambiano per la loro stessa personalità, credendo di averne una sola. Partendo da un simile presupposto non possono che concludere di aver già vissuto altre vite. Ma hanno torto. Non si tratta di reincarnazione. Io ho visioni di me stesso nelle quali mi vedo errare nelle foreste del mondo nascente; tuttavia non è me che vedo, ma una creatura che rappresenta solo una parte remota di me, esattamente come mio padre e mio nonno. Questo alter ego di me stesso è un mio antenato, un progenitore dei miei progenitori nella primitiva stirpe della mia specie; lui stesso discende da una stirpe che, molto tempo prima di lui, sviluppò dita e pollici e imparò ad arrampicarsi sugli alberi.

A rischio di diventare noioso, sono obbligato a ripetere ancora una volta che a tal riguardo devo essere considerato uno scherzo di natura. Non solo la mia memoria razziale è di proporzioni smisurate, ho addirittura conservato i ricordi di un particolare e antichissimo progenitore. E sebbene si tratti di un caso assai inusuale, tuttavia non v'è nulla di eccezionale in questo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 88

XIII


Fu solo la sera del nostro primo giorno sulla riva meridionale del fiume che scoprimmo gli Uomini del Fuoco. Quello che pareva un gruppo di cacciatori erranti si era accampato non molto distante dall'albero che Orecchio Floscio e io avevamo scelto come alloggio per la notte. In principio le voci degli Uomini del Fuoco ci allarmarono, ma più tardi, quando sopraggiunse l'oscurità, il fuoco ci incuriosì. Scivolammo cauti e silenziosi di albero in albero fino a un punto da cui poter osservare bene la scena.

In una radura in mezzo agli alberi, vicino al fiume, ardeva un fuoco, e intorno a esso si trovava una mezza dozzina di Uomini del Fuoco. Improvvisamente Orecchio Floscio si aggrappò a me e sentii che tremava. Guardai più attentamente e vidi il piccolo vecchio grinzoso che circa tre anni prima aveva colpito Dente Rotto con la sua freccia, facendolo cadere dall'albero. Quando questi si levò e gironzolò intorno al fuoco gettandovi legna nuova, notai che zoppicava a causa di una gamba storpia. Quale che fosse, si trattava di una lesione permanente. Sembrava più rinsecchito e incartapecorito che mai e il pelo del viso era ingrigito.

Gli altri cacciatori erano giovani. Posati a terra accanto a loro, notai gli archi e le frecce, e riconobbi quelle armi. Gli Uomini del Fuoco portavano pelli di animale intorno ai fianchi e sulle spalle. In compenso, braccia e gambe erano scoperte e non avevano calzature. Come ho già detto, non erano villosi quanto quelli della Specie. Non avevano la testa grossa e differivano pochissimo da noi nel grado di inclinazione della fronte.

Camminavano meno curvi di noi ed erano meno elastici nei movimenti. Schiena, anche e ginocchia sembravano più rigide. Le braccia non erano lunghe quanto le nostre e nel camminare non parevano equilibrarsi toccando il suolo da una parte e dall'altra con le mani. Inoltre, i loro muscoli erano più pieni e simmetrici e i volti più gradevoli. Le narici si aprivano verso il basso, e anche il profilo del naso era più sviluppato, non era appiattito e schiacciato come il nostro. Le labbra erano meno flaccide e pendenti, e i canini meno simili a zanne. Tuttavia erano stretti di bacino come noi e non pesavano molto di più. Tutto sommato, differivano da noi meno di quanto noi stessi differissimo dal Popolo degli Alberi. Di certo le tre specie vantavano una parentela, e di un grado non molto lontano.

Il fuoco intorno al quale sedevano era molto affascinante. Orecchio Floscio e io rimanemmo seduti per ore a guardare le fiamme e il fumo. Ci incantava in special modo quando, all'aggiunta di nuovo combustibile, una pioggia di scintille si levava in aria. Avrei voluto accostarmi al fuoco e guardarlo, ma non c'era modo. Eravamo rannicchiati nell'inforcatura di un albero sul limitare della radura, e non osavamo correre il rischio di farci scoprire.

Gli Uomini del Fuoco, accoccolati intorno al falò, dormivano con il capo poggiato sulle ginocchia. Il loro sonno non era profondo. Le orecchie si muovevano leggermente, e apparivano inquieti. Spesso l'uno o l'altro si levava e alimentava il fuoco gettandovi altra legna. Nell'oscurità, oltre il piccolo cerchio di luce nella foresta, si aggiravano le belve predatrici. Orecchio Floscio e io le riconoscemmo dai rumori che facevano. C'erano cani randagi e una iena, e a un certo punto si levò un grande baccano di latrati e guaiti che svegliò all'istante tutto il circolo dei dormienti.

A un tratto un leone e una leonessa sostarono sotto il nostro albero, guardando avidamente con la criniera irta e gli occhi inquieti. Il leone si leccava i baffi, bramoso e impaziente, voleva farsi avanti e guadagnarsi un buon pasto. Ma la leonessa era più prudente. Fu lei a scoprirci, allora la coppia si fermò e guardò verso di noi, in silenzio, fiutandoci con le narici palpitanti. Alla fine emisero un ruggito, lanciarono un ultimo sguardo verso il fuoco e tornarono nella foresta.

Per molto tempo ancora Orecchio Floscio e io restammo a guardare. Ogni tanto udivamo gli schianti prodotti da corpi pesanti che si muovevano fra il folto degli alberi e nel sottobosco, e dall'oscurità che regnava fuori del cerchio di luce, vedevamo scintillare degli occhi investiti dai bagliori del fuoco. In lontananza sentimmo ruggire un leone, e ancora più lontano si levò il grido di qualche animale colpito, che si dibatteva nell'acqua presso un abbeveratoio. Dal fiume salì anche il sonoro grugnito dei rinoceronti.

La mattina, dopo aver dormito, ci accostammo di nuovo al fuoco. Covava ancora sotto la cenere, e gli Uomini del Fuoco erano partiti. Facemmo un giro lì attorno nella foresta per assicurarci che se ne fossero andati, poi tornammo di corsa verso le braci. Volevo rendermi conto a che cosa somigliasse il fuoco, e raccolsi fra il pollice e l'indice un carbone ardente. Il grido di dolore e spavento che lanciai mentre lo lasciavo cadere fece scappare Orecchio Floscio tra gli alberi, e la sua fuga terrorizzò anche me.

La volta successiva ci avvicinammo con maggiore prudenza, ed evitammo il contatto con i carboni ardenti. Ci mettemmo a imitare gli Uomini del Fuoco. Accovacciati accanto al fuoco, con il capo poggiato sulle ginocchia, fingemmo di dormire. Poi scimmiottammo anche il loro modo di esprimersi, producendo una quantità di suoni senza senso. Rammentai di aver visto il vecchio grinzoso attizzare il fuoco con un ramo e feci lo stesso, sollevando masse di carboni ardenti e nuvole di cenere bianca. Era un gran divertimento, e ben presto fummo coperti da capo a piedi di un candido strato di cenere.

Era inevitabile che imitassimo gli Uomini del Fuoco alimentando il fuoco. Provammo prima con alcuni ramoscelli. La cosa riuscì. Il legno avvampò scoppiettando e per la gioia iniziammo a strepitare e a danzare. Poi ci mettemmo a gettare sul fuoco pezzi di legno più grossi. Ne mettemmo tali e tanti che il fuoco diventò enorme. Correvamo eccitati avanti e indietro, trascinando fuori della foresta rami e arbusti morti. Le fiamme si levavano sempre più alte e la colonna di fumo torreggiava oltre la sommità degli alberi. Si udivano crepitii, schianti e rombi terribili. Era l'opera più colossale che mai fosse stata prodotta dalle nostre mani, e ne eravamo fieri. Anche noi siamo Uomini del Fuoco, pensavamo danzando come gnomi bianchi tra le fiamme.

L'erba secca e la vegetazione del sottobosco presero fuoco, ma noi non ce ne accorgemmo. All'improvviso un grande albero situato sul margine della radura andò in fiamme.

Lo guardammo sbigottiti. Il calore ci costrinse a indietreggiare. Un altro albero prese fuoco, poi un altro e una mezza dozzina ancora. Eravamo terrorizzati. Il mostro si era liberato. Ci acquattammo a terra spaventati, mentre il fuoco si propagava intorno alla radura circondandoci da ogni parte. Negli occhi di Orecchio Floscio riapparve l'espressione mesta che accompagnava sempre in lui la mancanza di comprensione, e so che nei miei occhi doveva esserci lo stesso sguardo. Ci aggrappammo l'uno all'altro, tenendoci stretti, fino a che il calore ci raggiunse e l'odore dei peli bruciati avvolse le nostre narici. Allora scappammo di gran carriera nella foresta, diretti verso ovest, volgendoci di tanto in tanto a guardare e ridendo mentre correvamo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 173

Nota editoriale


Maurizio Flores era un ragazzo nel Sessantotto e si tolse la vita nel Settantasette. Di quella generazione è d'uso ricordare le imprecisioni e gli sbagli, ma chi li ricorda più accanitamente sono i rappresentanti dei nuovi poteri, diffusori e propagandisti, e non c'è da fidarsene. È meglio, quando è possibile, risalire alle fonti e seguire i percorsi, certamente minoritari all'interno di quelle due generazioni, del "Sessantotto senza Lenin", della "lunga marcia attraverso le istituzioni" e, perché no, di quella poca "cultura al servizio della rivoluzione" che non barava, al contrario di chi sminuiva l'importanza della cultura e la avviliva nel momento stesso in cui la definiva, abusivamente, rivoluzionaria.

Ci sono personaggi di quegli anni che vanno considerati nella loro giusta luce di innovatori, la cui riflessione resta valida per il dopo-Sessantotto o il dopo-Settantasette: quelli che hanno tenuto gli occhi bene aperti sulla novità, che hanno letto e studiato e non solo organizzato e manifestato, che hanno tentato di legare tra loro il meglio del vecchio e il meglio del nuovo. Per esempio Alexander Langer, la figura politica e morale più luminosa e più propositiva, forse più attuale oggi di ieri, o Marco Lombardo-Radice, Mauro Rostagno, Maurizio Flores – scomparsi tutti precocemente, a volte in modo decisamente tragico, forse non a caso. Langer si occupò di ecologia e di pace, volle essere "costruttore di ponti", Lombardo-Radice fu psichiatra e scrittore, e da psichiatra interessato a "raccogliere tra la segale" i bambini e ragazzi traditi dalla sorte, Rostagno fu un libertario della vita quotidiana e un ribelle contro le assurdità della società. Maurizio Flores – più introverso, più letterato e forse anche più colto — esercitò la sua curiosità su opere e autori della letteratura consoni a un'interpretazione dei tempi che viveva e della loro crisi. Fu critico attento di romanzi e di saggi (per «il manifesto», «Ombre rosse», «Lotta continua»), attento soprattutto ad autori e a modi in cui le esigenze della narrazione, comprensione, espressione, investigazione delle esperienze umane si intrecciavano con le esigenze della liberazione.

Jack London lo appassionò per la sua radicalità — che per molti anni fu anche politica — e per la sua vitalità, per le sue scelte di parte e per la ricchezza delle sue esperienze, per le sue letture (Spencer, Darwin, Marx... e i narratori della nuda vita) e per la sua curiosità del mondo reale, per la sua volontà di esplorarlo e comprenderlo, vivendone le contraddizioni al massimo dell'intensità, e cedendo al mistero solo là dove esso si faceva invalicabile. La sua scelta dei racconti londoniani resta esemplare. Ebbe un notevole successo, in quegli anni, presso i lettori più giovani e più esigenti, che erano però tanti (uscita nel 1977 da Feltrinelli con il titolo Il richiamo della notte, viene qui ripubblicata con nuove traduzioni riprendendo il suo iniziale progetto in due volumi: il primo dedicato alla fantastoria, il secondo alla fantascienza).

Egli si arrese purtroppo molto presto, prima di scrivere i romanzi che avrebbe voluto scrivere, ma allontanando in tal modo almeno una delle contraddizioni che furono di London, quella del successo e della sua forza corruttrice. Avrebbe saputo resistere, nella sua salda moralità, ma i suoi dilemmi furono altri.

| << |  <  |