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| << | < | > | >> |Pagina 11PrologoErano quasi vent'anni che nessuno mi chiedeva di mio padre. Diciotto anni per essere precisi. Li ho contati subito dopo avere ricevuto quel messaggio da una donna eritrea che non conoscevo. Poche righe lette in fretta in mezzo al deserto giordano, lontano da casa e dalla mia famiglia. Poche parole per riportarmi a una storia che ormai credevo di avere cancellato. E dimenticato. | << | < | > | >> |Pagina 13Amman, 2012 Nello spiazzo polveroso davanti al compound delle Nazioni Unite i due funzionari inglesi si attardano a spiegarci nel dettaglio come sistemeranno gli arrivi di domani. Sono quasi le cinque del pomeriggio al campo profughi di Zaatari, nel nord della Giordania e al confine con la Siria. È un pomeriggio afoso per il mese di settembre, l'aria soffocante sembra decisa ad accanirsi sul campo e sui nostri polmoni. È un clima che piega le ginocchia e insinua un'inquietudine sottile, come un presagio. Il numero dei rifugiati sta crescendo troppo rapidamente, a un ritmo di duemila persone al giorno. I funzionari ripetono più volte quella cifra, duemila, per assicurarsi che la ricorderemo. Poi fanno una pausa senza alcuna teatralità, si asciugano la fronte chiara scottata dal sole e ci fanno cenno di avviarci insieme verso l'uscita. Io e gli altri giornalisti continuiamo a prendere nota sulle ultime pagine dei taccuini spiegazzati e traboccanti delle storie raccolte dal mattino. I due giovani freelance americani sono ancora carichi di entusiasmo per la loro prima inchiesta in Medio Oriente. L'inviato belga condivide il mio scetticismo su questa missione, sulla sua utilità. Abbiamo girato tutto il giorno tra le tende bianche dell'Onu, i prefabbricati per i bagni comuni e le grandi taniche d'acqua, ancora insufficienti per un campo così vasto. Abbiamo parlato con gli ultimi siriani scappati da Damasco e dalle altre città al confine. Famiglie intere in cammino per giorni, alcune per settimane. Corpi e volti evanescenti come fantasmi, pronti a volare via con il primo alito di vento se non fosse per le enormi buste di plastica che si sono portati appresso e che tengono ancora strette. Le hanno riempite durante la fuga con i primi oggetti di casa che hanno trovato: cuscini di velluto rosso, pentole annerite, vecchie lampade e tappeti troppo piccoli per qualsiasi uso. Oggetti senza valore ma necessari a ricordare chi sono stati prima della guerra. Abbiamo incontrato soprattutto anziani. Hanno più tempo e più pazienza per spiegare come sono riusciti a scappare per mettere in salvo se stessi e i nipoti, tutto il futuro che gli resta. Mentre procediamo lenti verso i cancelli sento il telefono vibrare con insistenza. È nella tasca destra della sahariana, ma non lo estraggo nemmeno per guardare il display, aspetto che smetta da solo. Nella testa ho ancora tutti quei racconti, la descrizione stanca delle violenze subite durante gli scontri tra i ribelli e le milizie di Bashar al-Assad. Come gli altri ripasso in silenzio l'inventario angosciante delle storie e la galleria degli sguardi che abbiamo attraversato, per poi scegliere con lucidità chirurgica quale usare negli articoli. Nei campi profughi c'è sempre questo contrasto inevitabile tra il dolore bruciante dei sopravvissuti e il calcolo algido che devi fare per confezionare al meglio il tuo prodotto editoriale. Ti avvicini per fare tuo il respiro affannoso durante la corsa dalla casa in fiamme, per farti battere il cuore di sgomento lungo le strade, tra cumuli di cadaveri, sangue rappreso, polvere e macerie ovunque. Senti il sudore che si scalda e si fredda sotto i vestiti durante la marcia infinita, giorno dopo giorno, senza il sollievo dell'acqua né del sonno in un letto pulito. Poi il primo approdo, la speranza di avercela fatta, un respiro profondo per provare a se stessi di essere ancora vivi. A noi tocca trasformare tutto questo in titoli, foto con didascalia, pochi dati per non annoiare il lettore e aggiungere la supplica dei rifugiati al mondo per commuoverlo, forse indignarlo. All'inizio mi convincevo che così avrei dato voce a chi non ne ha e sarei riuscito a denunciare quello che il mondo preferiva non sentire, che tentava di nascondere. Oggi sento di restare sempre e comunque un turista, uno che non va oltre lo scatto frettoloso o peggio ancora l'esibizione compiaciuta del proprio impegno. Per chi siamo qui oggi, per chi facciamo tutto questo? Per i siriani? Ci tuffiamo nelle viscere dei conflitti più atroci, ne esploriamo gli abissi attenti a non restarne invischiati, non ci sporchiamo mai le mani per cambiare davvero le cose. Possiamo riemergere, lavarci quell'inferno di dosso e poi esibirlo come un trofeo davanti al nostro pubblico, sperando che applauda. | << | < | > | >> |Pagina 24Bruxelles, 2012 A svegliarmi è stato il temporale. Un acquazzone violento ha invaso Bruxelles poco dopo il mio ritorno dall'aeroporto, a notte fonda. Mi sono steso e addormentato ancora vestito, senza disfare la borsa né preparare il letto con le lenzuola pulite, come mi ha sempre raccomandato di fare mia madre dopo un viaggio.
[...]
«Finalmente! Temevo non volessi più tornare... Com'è andato il viaggio?» la voce di Fauziya mi raggiunge alla porta dell'ascensore che mi lascia al terzo piano, quello della nostra redazione. «Tutto bene. Sono arrivato stanotte. Tu piuttosto, com'è stata la settimana qui?» le vado incontro per un abbraccio che ci fa sfiorare appena le guance. «Niente di nuovo, abbiamo aggiornato il sito con le notizie d'agenzia in attesa che tornassi. Sei tu quello che ha da raccontare. La situazione al confine siriano è così grave come dicono?» «Anche peggio. Sembrava solo un'emergenza, sembrava che la repressione di Assad finisse presto. Invece i siriani continuano a scappare e il campo in Giordania sta crescendo a un ritmo di duemila persone al giorno.» Ricordo la cifra che i funzionari Onu ci hanno ripetuto più volte. Fauziya non replica, annuisce con uno sguardo assorto che vuole assecondare la gravità delle mie parole. Poi suggerisce di metterci subito al lavoro per lo speciale sulla Siria. «Vado a chiamare gli altri ma prima prendo un caffè. Ne porto uno anche a te?» mi chiede appoggiata col bacino al lato della porta in una posa involontariamente sensuale. «Il caffè l'ho già preso, grazie. Ma quello vero, sai come la penso sull'importanza del caffè.» «Che cosa ti fa credere che il tuo caffè sia più vero del mio? Questo viene dall'Etiopia, dove nasce il migliore caffè del mondo. Lo sanno tutti e dovresti saperlo anche tu.» Sorride. È una scenetta banale che ogni tanto ripetiamo, la mia vice e io, conoscendo a memoria il copione. A volte io aggiungo qualche dettaglio sapiente sulla tostatura del caffè a Napoli e sulla pasticceria partenopea. Spesso invento qualcosa di misterioso e poetico, pronunciando quei nomi come ne potessi riassaporare la dolcezza: pastiera, sfogliatella, babà. Lei scuote la testa senza rispondere e mi concede queste innocenti rivendicazioni di italianità che posso permettermi solo con lei. Con gli altri, con i nordici e gli anglosassoni, cerco di mostrarmi il più indifferente possibile alla nazionalità. Mi voglio allontanare dal cliché dell'italiano alimentato da un brutto cinema e dagli scandali della politica. Evito di gesticolare quando parlo, non faccio chiacchiere sul calcio e tengo per me gli apprezzamenti sulle donne. Ogni tanto mi trovo a oscillare tra il bisogno di appartenenza all'Italia e il suo rifiuto. Gli europei del Nord conoscono questo nostro complesso, vecchio come le valigie degli emigranti legate con lo spago. Chi viene dal Sud sa che è quasi impossibile conquistare uno spazio di rilievo nel mondo dell'informazione internazionale, ancora impiantato sul dominio della lingua inglese. Con loro non lo ammetterei mai ma dopo una vita di precariato nei giornali italiani mi è arrivato come una benedizione questo posto da chief editor. Era impensabile fare il direttore a Roma. | << | < | > | >> |Pagina 38Asmara, 1890 Aveva ventisei anni Giacomo Longhi quando arrivò in Eritrea, nell'inverno del 1890. Era l'anno del Regio Decreto che proclamava il controllo su quella terra, in nome dell'avventura coloniale tanto voluta dal governo Crispi. Anche quel lato di costa orientale, sul Mar Rosso, era destinato allo scramble for Africa, la corsa alla spartizione tra le nazioni europee, ansiose di accaparrarsi fino all'ultimo pezzetto disponibile del continente. Da giovane sottufficiale piemontese Giacomo aveva girato un poco l'Italia del Nord dopo l'Unità ma non aveva mai oltrepassato i confini nazionali, come fosse trattenuto dalla paura di osare, di sapere cosa ci fosse al di là. Quando gli proposero di varcare quella frontiera, di andare anche lui alla conquista dell'Africa, accettò immediatamente, eccitato al pensiero del mondo nuovo che si sarebbe trovato davanti. Non immaginava che in quel mondo avrebbe passato sette anni e avrebbe avuto due figli. Si imbarcò al porto di Genova, insieme a centinaia di altri militari di rinforzo a ciò che restava del Corpo Speciale Africa. Il governo aveva istituito il Corpo tre anni prima per potenziare la presenza italiana dopo la sconfitta sonora di Dogali. Su quelle colline aride dell'entroterra eritreo circa cinquecento uomini, tra soldati e ufficiali, erano stati sterminati dall'esercito del comandante etiope Ras Alula. Per Giacomo le due settimane di viaggio furono interminabili, tra mal di mare e influenza. Perse la cognizione del tempo durante i sonni febbricitanti nella cuccetta della nave che aveva attraversato il Tirreno, fatto sosta a Napoli e poi solcato per giorni il Mediterraneo. Diventò ancora più magro, più pallido del solito e decise di farsi crescere una barbetta bionda per assumere quello che gli pareva un aspetto rude, adeguato al nuovo contesto. La spedizione approdò finalmente sulla costa egiziana, il primo vero contatto con il continente africano. Restò nel caos di Alessandria per le ventiquattro ore necessarie ai rifornimenti, neanche il tempo di uscire dal porto e vedere che gente ci fosse in giro, che aria si respirasse. Tutti sul ponte ammirarono a bocca aperta l'opera maestosa del Canale di Suez, inaugurato solo pochi anni prima. Quel lungo varco di azzurro brillante tra le dune aveva moltiplicato le esplorazioni, avviato nuove rotte commerciali a Oriente e offerto agli europei la possibilità di altre conquiste nelle zone più remote dell'Africa subsahariana. Passato Suez, la nave scese lentamente la costa torrida del Mar Rosso e i militari, ormai stremati dal caldo e dalle zanzare, conservarono tutta la meraviglia che si erano portati dietro per l'arrivo a Massawa, la Venezia d'Africa, dicevano. Una volta sbarcati però restarono delusi. La città era afosa, sudicia e misera, assai diversa dal mito di abbondanza e di opportunità che i manifesti della propaganda avevano promesso. Era molto più simile ai porti della bassa Italia, da cui partivano casse di frutta altrettanto acerba da banchine altrettanto luride. I viali alla sera si affollavano degli stessi marinai in cerca delle stesse prostitute. Altre le lingue, altre le sfumature della pelle e altre le malattie che potevi prendere. Si rischiava la malaria qui, oltre allo scolo. Questa era la colonia primogenita, come gli esploratori avevano battezzato la conquista italiana quasi all'altezza dell'equatore, l'Eritrea. Un lembo di costa che al giovane sottufficiale apparve subito esaltante e spaventoso al tempo stesso. Prima di lui decine di missionari, militari, politici e mercanti erano sbarcati su quella costa e in molti avevano sostenuto la missione d'oltremare della nazione. Si voleva dare all'Italia la sua degna porzione di colonie, la sua parte di prestigio internazionale, al pari di francesi, spagnoli, portoghesi, tedeschi e soprattutto inglesi, i veri protagonisti della scena imperialista. Si andava alla ricerca di terre nuove da sfruttare, diceva il governo, tanto per l'agricoltura quanto per le materie prime utili alle industrie nascenti del Nord. L'Italia era diventata una nazione da neanche trent'anni e gli ideali di libertà che avevano ispirato il Risorgimento stavano lasciando il posto a un incontenibile desiderio di impero. La classe dirigente borghese aveva fretta di far crescere l'economia di un Paese ancora povero, analfabeta e frammentato in un arcipelago di piccoli popoli. Mentre contadini e operai continuavano a partire a migliaia per le Americhe, in larga parte dal Mezzogiorno, chi aveva un ruolo politico e un minimo interesse commerciale non poteva che condividere quella brama di conquista. Gli italiani, però, non erano ancora attrezzati a livello militare né diplomatico. Non avevano l'esperienza degli inglesi nel soggiogare popolazioni intere e colonizzare territori assai più vasti. Per questo motivo i governi che si erano succeduti dall'Unità in poi avevano fatto un passo alla volta, senza spaventare nessuno. Si erano imposti nel Corno d'Africa con l'acquisto della baia di Assab, come fosse una semplice operazione commerciale. Poi avevano stabilito un piccolo ma solido presidio militare a Massawa. Col favore degli inglesi, che non vedevano negli italiani alcuna minaccia, fu disperso quel poco che restava del dominio egiziano e dell'eredità ottomana, per piazzare la prima, vera occupazione. Nella loro ottica liberale e progressista, i presidenti del Consiglio, prima Depretis poi Crispi, avevano giustificato al parlamento e all'opinione pubblica quell'operazione costosa e dal futuro molto incerto come una missione umanitaria, mirata a portare civiltà, a eliminare ogni forma di arretratezza, a cominciare dalla schiavitù. Questo era il pretesto a cui anche Giacomo aveva voluto credere, come gli altri sottufficiali cresciuti all'ombra della monarchia sabauda. Sentiva che quella missione era fatta per gli uomini come lui, quelli di una certa statura morale. Sentiva che era una predestinazione. Sulla spinta degli ideali umanitari dell'illuminismo, la tratta di esseri umani era stata abolita dalle nazioni europee, una dopo l'altra, nel corso del secolo. I governi ora sembravano perseguire una vera e propria crociata, dopo avere praticato lo schiavismo più spudorato per secoli e su più rotte. Anche per questa evoluzione ora gli europei correvano a cercare nuove forme di sfruttamento del continente con la scusa di portare civiltà, tra protettorati e colonie in tutta l'Africa. Già dai primi anni di occupazione, però, gli italiani non mostrarono la reale intenzione di fermare il commercio di uomini. Lungo la costa del Mar Rosso, nel tratto su cui sventolava solenne il tricolore del Regno, gli schiavisti continuavano ad andare avanti e indietro indisturbati. Erano prevalentemente mercanti arabi che controllavano quelle rotte da un tempo infinito e che deportavano gli schiavi africani verso Est, per rivenderli a peso d'oro, quelli che sopravvivevano al viaggio, nelle piazze dell'India e della Cina. Ai colonizzatori italiani più dello schiavismo interessava approfittare delle nuove terre e per fare questo dovevano assicurarsene il controllo pieno. Come gli altri europei partivano dal presupposto del diritto a quel possesso, della superiorità rispetto agli africani quasi fosse un fenomeno naturale, al pari dell'istinto animale o l'alternarsi delle stagioni. La convinzione della superiorità razziale era confermata dalla scienza del secolo e non trovava un contrasto effettivo nella Chiesa. I missionari partecipavano ai progetti coloniali e descrivevano le popolazioni dell'Africa subsahariana come masse indistinte di selvaggi superstiziosi, ma inoffensivi in fondo. Soggiogarli appariva giusto come educare dei bambini e non sarebbe stato difficile, neanche per il disorganizzato esercito italiano. Giacomo passò i primi anni negli uffici del comando di Massawa, tra le strade strette e tortuose dietro il porto, intricate come il groviglio di gente e di lingue incomprensibili che l'affollavano. Sopportava a malapena sia il lavoro sedentario nelle stanze impregnate di muffa, sia quella babele di nativi abissini, mercanti arabi e faccendieri greci che brulicavano in centro a ogni ora del giorno e della notte. La notte rovente ed erotica di Massawa era spossante per lui. Era tutto così diverso dalla campagna nebbiosa e muta che si era lasciato alle spalle. Non aveva nostalgie particolari ma quel posto non gli piaceva. Chiese di essere trasferito sugli altopiani di Keren, la Perla del Senhait come dicevano gli eritrei anziani, a un centinaio di chilometri dal mare e da Asmara. A millecinquecento metri il clima gli era assai più congeniale. Tra i monti brulli e gli altipiani assolati gli sembrava di ritrovare il fresco mite delle Langhe, la semplicità delle famiglie contadine come la sua, così lontana da non ricordarne quasi più i volti e le voci. Pensò che lì avrebbe potuto anche stabilirsi, per qualche tempo. In quella zona il governo aveva previsto grandi progetti di sfruttamento agricolo per le piantagioni di tabacco, di caffè e frutta di ogni tipo. I sottufficiali come Giacomo avrebbero presidiato le terre con le armi mentre gli agronomi avrebbero studiato il modo di renderle produttive e gli imprenditori se ne sarebbero impadroniti, sottraendole ai contadini eritrei con l'inganno o con la forza se necessario.
[...]
I governatori coloniali consentivano a quei pochi bambini riconosciuti dal padre di ottenere la cittadinanza. Non era una concessione motivata dalla magnanimità o dall'imbarazzo per la vigliaccheria degli uomini, però. L'occupazione militare partiva dal presupposto della superiorità razziale e doveva stabilire una separazione netta tra colonizzatori e colonizzati, tra individui civili e masse di selvaggi. Se si voleva rafforzare quella gerarchia i prodotti delle unioni miste, gli italoeritrei, dovevano essere subito assimilati alla cultura italiana per allontanare da loro ogni residuo di Africa, ogni tentazione di affiancare gli abissini in caso di rivolta. Anche con l'assimilazione però quei figli restavano «meticci», come li chiamavano i colonizzatori con disprezzo. Erano mulatti senza diritti e non sarebbero mai stati considerati italiani veri e propri, difficilmente avrebbero avuto una posizione di rilievo nella società coloniale. In molti casi le autorità concedevano la cittadinanza ma nascondevano le generalità del padre dietro la sigla N.N., nescio nomen, «non conosco il nome». Essere figli di padre ignoto era una condizione infamante per gli italiani e questa infamia si adattava bene ai meticci. D'altro canto anche per gli eritrei quei figli non erano altro che deqalà, bastardi. Meritavano altrettanto spregio e soprattutto sospetto. Dei meticci i neri non si fidavano perché temevano che sarebbero stati sempre e comunque dalla parte degli invasori, mai dalla loro. «I meticci sono i più cattivi» dicevano gli eritrei anziani che mai avevano visto tanti figli illegittimi prima di allora. Il mantenimento di quei figli, i figli degli invasori, avrebbe gravato sulle loro comunità. Perciò scacciavano i piccoli quando venivano riportati nei villaggi e tentavano di isolare sia loro sia le madri, considerate indegne e trattate come prostitute. Temevano che questa impurità avrebbe compromesso per sempre i loro equilibri, la loro tradizione. I meticci erano un elemento imprevisto e incomprensibile, un effetto collaterale dell'occupazione italiana, al pari dello sfruttamento nei campi, degli espropri e delle prigioni. I deqalà erano il frutto di un legame carnale tanto inevitabile quanto scandaloso. Questa mescolanza era una chiara minaccia all'identità, una provocazione, una bestemmia. Sia per gli invasori sia per i sudditi. Come altri europei gli italiani praticavano la segregazione anche nell'organizzazione delle città. I migliori ingegneri e architetti del Regno cominciavano a progettare gli assetti urbani distinguendo le zone per i coloniali da quelle per i nativi. L'apartheid era ovunque, dalle strade ai mercati, dalle piazze ai cimiteri. Agli italiani erano riservate le villette nuove tra gli ampi viali alberati del centro, mentre gli eritrei restavano ammassati nel rancore delle baracche di periferia. | << | < | > | >> |Pagina 64Bruxelles, 2012 [...] Mi alzo e mi metto a girare nervoso per l'appartamento con il bisogno impellente di trovare un libro che mi aveva prestato Fauziya, un piccolo saggio sulla discendenza africana in Europa. L'avevo sfogliato in redazione, mesi fa, quando me lo aveva dato come mi affidasse un segreto. L'avevo ringraziata sapendo che non avevo alcuna intenzione di leggerlo, di aprirlo di nuovo, di averne mai bisogno. Non lo vedo nella piccola libreria disordinata del soggiorno né dentro gli scatoloni ancora da vuotare e ancora a terra. Ripiego sul frigo per prendere la birra belga più alcolica che trovo, la stappo con una mano sola e con l'altra apro velocemente la finestra. Inalo tutta l'aria fresca che posso. Aspetto che l'ossigeno e l'alcol mi aiutino a ricordare che cosa mi aveva detto Fauziya sugli afroeuropei. Così le piace definire se stessa e i suoi amici artisti. Così tenta di etichettare anche me. Fauziya dice che anche io mi posso considerare uno dei nipoti o dei pronipoti delle colonie, un afrodiscendente, un afroeuropeo. Non siamo diversi dagli afroamericani, sostiene, e dovremmo affermare con orgoglio la nostra discendenza. La nostra discendenza. Quando me ne ha parlato quella volta l'ho guardata perplesso e divertito. Le ho risposto sarcastico che già faccio fatica a definire la mia identità di italiano nel mondo, ci mancherebbe confondermi le idee con l'appartenenza africana o afroeuropea, qualunque cosa significhi. Eppure, la storia dei miei nonni paterni, l'origine del nome non lasciano spazio a dubbi. La regola americana della goccia di sangue non mente, direbbe Fauziya. La one drop rule dovrebbe valere anche per me. Al tempo dello schiavismo, negli Stati Uniti, anche una lontana discendenza africana, una sola goccia di quel sangue bastava a classificarti come nero, per legge. Era il sistema con cui gli schiavisti assimilavano i mulatti ai neri, secondo una logica economica tanto brutale quanto banale. I padroni bianchi costringevano le schiave ad avere figli con loro e con questa meccanica moltiplicavano la forza lavoro, senza spendere soldi per comprare altre braccia. I mulatti prendevano il cognome dei padroni ma erano schiavi a tutti gli effetti, anche se di pelle chiara o più chiara rispetto alle madri. La regola della goccia di sangue è servita a segregare e sfruttare generazioni di uomini e donne per secoli, fino all'abolizione della schiavitù. Negli anni Cinquanta, però, il movimento per i diritti civili ha ribaltato quel principio in senso positivo e ha incluso un gran numero di persone, per estendere la propria base. Ancora oggi è considerato afroamericano chi può vantare un'origine africana anche remota. Se la regola si applicasse all'Europa sarebbero afrodiscendenti tutti gli eredi del colonialismo, tutti i nipoti d'Africa. La sostanza non cambia, in effetti. Le violenze, la segregazione e lo sfruttamento degli africani sono avvenute lo stesso, anche senza la deportazione in America e la schiavitù. Ogni crimine è avvenuto direttamente nella loro terra, lontano dai nostri occhi, invisibili alla memoria, nascosti come peccati inconfessabili di padri indifferenti e madri rassegnate, ammutolite. Pochi ne parlano in Europa, quasi nessuno in Italia. Certo, in Eritrea i meticci non avevano catene alle caviglie come i mulatti delle piantagioni dell'Alabama, le madri non erano state scaricate dalle navi negriere cosparse di olio nauseabondo per farne risaltare la pelle e le forme. Eppure le donne eritree venivano vendute lo stesso, come prostitute o come madame, al pari delle spezie, dei cavalli e dei fucili. I loro figli, i meticci, restavano intrappolati in una condizione eterna di inferiorità rispetto agli italiani ed erano comunque emarginati dagli eritrei. Gran parte dei mulatti americani alla fine sapeva da che parte stare, sapeva di appartenere alla comunità nera. Alcuni hanno persino rinnegato il cognome degli schiavisti bianchi e ne hanno fatto un manifesto, come Malcom X o Muhammad Ali. I meticci delle colonie italiane no, non hanno mai chiarito da che parte stare, chi essere davvero. Ancora se lo chiedono, forse. Come mio padre. | << | < | > | >> |Pagina 82«La cosa peggiore del razzismo è che è stancante, consuma tutte le tue energie» ha aggiunto con un tono ancora più cupo. «Hai la sensazione di potere essere derisa, insultata o persino aggredita, di continuo. Pensa ai ragazzi freddati dalla polizia americana per strada, ai bambini africani scheletriti negli spot delle Ong per raccogliere fondi oppure ai migranti morti nel Mediterraneo. I neri vedono il proprio corpo quasi sempre associato al dolore, alla morte. Come puoi vivere tranquillo? È un messaggio inquietante per chi ha la pelle scura, soprattutto per i più giovani.»| << | < | > | >> |Pagina 89Asmara, 1934 «Per l'Italia come per gli altri Paesi abitati da popoli di razza bianca è una questione di vita o di morte.» Per qualcuno, ad Asmara, quelle parole bruciarono come una spruzzata di sale su una ferita aperta. Il lungo editoriale di Mussolini sollevò preoccupazioni e ansie nella comunità italoeritrea della colonia primogenita. Il titolo era inquietante, era «categorico», come piaceva dire al duce: «La razza bianca muore?». Se ne parlava nei circoli, nei bar con i marmi e gli stucchi dove gli uomini si ritrovavano per il caffè nelle prime ore del mattino. Un'abitudine, quella del caffè al bar, che avevano portato i primi coloniali. Nei locali potevano entrare solo gli uomini e solo gli italiani, però. Qualche eccezione si faceva per i pochi meticci dalla pelle chiara, come Vittorio. Erano soprattutto loro a chiedersi che conseguenze avrebbe avuto la nuova politica di Mussolini, per se stessi e per i loro figli. La politica della razza.
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La preparazione delle armi e degli eserciti fu lunga. Accanto agli italiani, contro gli etiopi furono mobilitate migliaia di ascari eritrei, libici e somali. Sarebbe stata una guerra tra africani oppressi, uno scontro fratricida senza precedenti. Di fronte alla minaccia di sanzioni internazionali per un atto di aggressione ingiustificato all'Etiopia, Mussolini rispose che nessun governo europeo avrebbe difeso «un Paese africano senza l'ombra della civiltà». Usò proprio quella parola, la scusa logora di ogni occupazione europea: civiltà. Si doveva andare in Africa, di nuovo, per sradicare il male della schiavitù e portare la civiltà. Poi il governo colse il pretesto di una disputa su un confine qualunque e il 3 ottobre del 1935 partì l'offensiva contro l'impero di Hailè Selassiè. Questa volta la determinazione di Mussolini non trovò argini, così come la ferocia dei suoi generali. Agli attacchi via terra dall'Eritrea a nord e dalla Somalia a sud si aggiunsero i bombardamenti aerei. Ogni giorno, per mesi, stormi così fitti da coprire il sole sulle vaste pianure etiopiche sganciavano tonnellate di gas sulla popolazione inerme, armi vietate dalle convenzioni internazionali. Furono ricoperti di iprite non solo gli obiettivi militari, ma anche le scuole, gli ospedali, le strade, i fiumi, i campi e i villaggi dei contadini. Il gas dall'odore dolciastro si sprigionava al contatto della bomba con il suolo o con l'acqua, sollevando una pioggia tossica che provocava sofferenze atroci a chiunque cadesse nel suo raggio. In Italia arrivavano solo i comunicati di guerra che magnificavano ogni nuova conquista, ogni città assediata. Il comunicato sulla presa della capitale nemica, sette mesi dopo, recitava: «Le nostre avanguardie sono giunte in serata di ieri 4 maggio a trenta chilometri da Addis Abeba. Anche nel cuore dello Scioà le popolazioni accolgono festosamente le truppe italiane, facendo atto di sottomissione e offrendo doni». Ad Asmara si radunava la gran parte dei militari italiani di passaggio per l'Etiopia. Nei circoli si sentivano i racconti divertiti dei sottufficiali e sottotenenti sugli abissini in fuga durante gli attacchi. Si compiacevano davanti ai soldati e ai civili di avere terrorizzato e decimato quei «selvaggi» con le pallottole o con il fuoco appiccato ai villaggi. Si spassavano a esibire foto delle donne abissine ritratte con il terrore negli occhi. Poi ricamavano su come le avevano prese e possedute, quasi lo stupro fosse diventato uno sport incoraggiato dal regime. Quei militari erano arrivati in Africa pronti e tronfi per la conquista coloniale dell'era fascista, quasi un premio per la generazione dei Balilla. Erano gli «uomini nuovi» che Mussolini aveva preparato nei suoi anni di governo, erano i destinatari della propaganda sulla necessità dell'impero, sull'urgenza di affermare la superiorità della razza. Pochi in Eritrea credevano ai racconti dei militari. La realtà arrivava per quello che era. La violenza degli italiani non era mai stata un mistero, gli eritrei c'erano abituati, ma una ferocia così ottusa non si era mai vista. Chi era riuscito a fuggire dalla mattanza in Etiopia rivelava fatti e crimini che sarebbero emersi nella storia ufficiale solo dopo decenni. Lo facevano di nascosto, con la paura costante di essere denunciati alle camicie nere. Erano gli etiopi scappati delle zone occupate o gli ascari che disertavano nauseati dalla crudeltà dei loro capi. Alle innumerevoli vittime dei villaggi messi a fuoco si aggiungevano quelle delle esecuzioni dimostrative, come il massacro dei copti nel monastero di Debra Libanòs, a nord di Addis Abeba. Nella primavera del 1937 il generale Rodolfo Graziani fece fucilare circa duemila persone, in gran parte religiosi, come ritorsione di un attentato contro di lui. E poi c'erano i morti dei gas: migliaia di corpi coperti di piaghe e bruciature, rannicchiati e ammassati ai lati delle strade o lungo gli argini dei fiumi. L'iprite scaricata dagli aerei italiani toglieva la vista in pochi minuti, soffocava i polmoni e incendiava la pelle. Non c'era modo di sfuggire, non c'era riparo. L'agonia durava ore.
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La comunità degli italoeritrei era disorientata. Vittorio e Maria vivevano nell'ansia per i figli, per come sarebbero stati trattati in quella nuova situazione. Loro la cittadinanza l'avevano ottenuta prima, quando si chiudeva un occhio sulla convivenza tra italiani ed eritree, quando alla madre bastava dichiarare il nome del padre. La colonia per loro assomigliava più a una piazza colorata nel giorno del mercato che a una caserma grigia e violenta. Da genitori si chiedevano come avrebbero dovuto interpretare il Manifesto della razza in cui gli scienziati italiani parlavano di «antica purezza di sangue» e di «indirizzo ariano-nordico». Che senso avevano quelle parole nella vita degli italoeritrei che da mezzo secolo vivevano la mescolanza come il fatto più naturale dell'esistenza? Nelle rare occasioni in cui Vittorio frequentava la Casa degli italiani aveva trovato copie della nuova rivista «La difesa della razza» appena arrivate da Roma. Ne era rimasto turbato. Non sapeva come avrebbe potuto spiegare ai figli quei titoli se mai avessero avuto tra le mani la rivista. I meticci erano sempre descritti come «anormali, contronatura, aberrazioni». Nei documenti del governo quelle espressioni erano ancora più taglienti: «figli della colpa, individui senza freni morali, degenerati». Si domandava come considerare se stesso, dopo tutti gli sforzi che aveva compiuto per affrancarsi con gli italiani, per essere uno di loro. Aveva rischiato la vita in quella missione disperata per un esercito e per un Paese sempre meno suo. I richiami alla razza pura si sommavano agli insulti che lo avevano accompagnato fin da ragazzo: mezzosangue, meticcio-pasticcio, figlio del diavolo, né carne né pesce. E li amplificavano. L'unica cosa nuova, in quella demenza razzista senza freni, era l'equazione tra meticci ed ebrei. I primi rappresentavano un rischio di contaminazione per gli italiani puri in Africa e i secondi per la razza ariana in Europa. A quel punto, senza saperlo, meticci ed ebrei potevano dirsi alleati. Vittorio tornò alla sua impresa mineraria con la determinazione di una svolta. Era disgustato da come stava cambiando l'Italia. Non era più la madrepatria che aveva sognato e in cui era sicuro che un giorno sarebbe andato, accolto come un figlio tornato da un lungo viaggio. Ora l'Italia era più simile a una matrigna che rinnegava i propri figli, i figli delle colonie. Si allontanò dalla politica, dalle vicende della guerra e dalle discussioni pubbliche. Si dedicò soprattutto alla famiglia. Avevano tre femmine e quattro maschi, con caratteri somatici e sfumature della pelle che celebravano l'origine mista e sconfessavano quel cognome bianco. Se Michele, il quarto, era di carnagione chiara e aveva lineamenti sottili, il quinto, Pietro, era decisamente nero, tale e quale alle nonne eritree. Già dai primi anni di scuola Pietro spiccava nelle foto di classe tra gli altri bambini italiani. Per tutta l'infanzia, quando i compagni di scuola non credevano che lui e Michele fossero fratelli, lui aveva imparato a rispondere con la battuta della madre per togliersi dall'imbarazzo: il fratello era nato di notte mentre lui era nato di giorno, col sole. Era nato in primavera infatti, nell'aprile del 1934, poco prima di quell'articolo di Mussolini dal titolo profetico: «La razza bianca muore?». Nel giro di pochi anni l'allarme contro i neri si era trasformato in un vero e proprio conflitto. L'occupazione dell'Etiopia aveva aperto la strada a una nuova politica e a una retorica di totale disprezzo verso gli africani, con scienziati che facevano a gara per dimostrarne l'inferiorità genetica. Il rifiuto era ancora più forte verso i meticci, perché - sostenevano gli accademici fedeli al fascismo - i figli misti prendevano il peggio delle due razze e finivano per inquinare quella pura, quella italica. Un simile rischio implicava una risposta, una reazione energica. Per questo motivo Mussolini decise di avviare una nuova offensiva ma senza spargimenti di sangue, sarebbe bastata una legge. Lanciò la sua personale guerra al meticciato, una crociata ideologica armata di elementare burocrazia. «Articolo 3: Il meticcio non può essere riconosciuto dal genitore cittadino. Articolo 4: Al meticcio non può essere attribuito il cognome del genitore cittadino. Articolo 5: Il mantenimento, l'educazione e l'istruzione del meticcio sono a totale ed esclusivo carico del genitore nativo.» Erano questi i primi articoli della legge più razzista di tutte, la legge del 13 maggio 1940, e punivano in modo netto il crimine della mescolanza. | << | < | > | >> |Pagina 118Il Cairo, 2012
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Aisha mi ricorda la storia di piazza Mustafa Mahmoud, a Mohandessin, non lontano da qui. Anzi «la strage» di piazza Mahmoud, sette anni fa. Ne avevo letto sul sito di Al Jazeera ma non conoscevo i dettagli. Un gruppo di rifugiati sudanesi si era accampato in quella piazza con le tende per chiedere alle autorità dell'immigrazione il trasferimento in un altro Paese, perché qui erano trattati come animali, dicevano. La polizia andò a disperderli con gli idranti ma i sudanesi si rifiutarono di lasciare la piazza. Il giorno dopo i poliziotti tornarono, all'alba, li circondarono e li massacrarono con i manganelli. Ne uccisero venti e non si è mai saputo quanti fossero i feriti. La cosa peggiore è che nessuno si scandalizzò allora né tentò di difenderli in quanto rifugiati, anzi gran parte dei media li accusò di avere creato disordini. «Se sei nero quanto basta qui vieni trattato come un ladro, uno spacciatore, un pericolo. Non importa se sei un richiedente asilo o un criminale. Per questo gli africani ora hanno paura anche dei giornalisti» conclude Aisha. Ascolto e annuisco senza mostrarmi sorpreso. Penso che forse mi faccio troppe domande. Dovrei restare nella mia bolla di giornalista europeo come ho sempre fatto, senza chiedermi che cosa significhi non potersi muovere liberamente, non avere il privilegio del passaporto bordeaux e della pelle bianca. Aisha riprende a spiegarmi le differenze tra i gruppi politici in cui è frammentata l'opposizione ai Fratelli musulmani ma quell'espressione che ha usato «nero quanto basta» catapulta la mia mente indietro di mesi. La riporta dov'era rimasta incagliata, all'ultima email di Aida su mio nonno, su come è morto con mio padre accanto. Se la genetica mi avesse dato il suo colore della pelle, nera quanto basta, oggi rischierei anche io la vita per le strade del Cairo. Non ho voluto più rispondere alla cugina Aida per evitare di sapere altro, sia della famiglia sia di mio padre in Eritrea. Mi sono bastate le foto del funerale di Vittorio. Veniva salutato da «una folla di donne avvolte nella netsela bianca, accanto ai membri dell'Associazione Italo-Eritrei, tutti in abito scuro, mentre il feretro attraversava Asmara e raggiungeva il cimitero sulla cima della collina». Così recitava la didascalia della foto sbiadita in quella vecchia rivista che Aida ha trovato in rete. Questa storia continua a riemergere, anche quando cerco di concentrarmi solo sul presente, già abbastanza complicato. Torna in superficie come un relitto capovolto in un mare torbido di incertezze, una nave fantasma che fa paura al solo pensiero di rovesciarla e guardarci dentro. Anche se ora so le cose, conosco i fatti e dovrei semplicemente archiviarli con la ragione, resta una selva di dubbi che non riesco a sciogliere. Una vicenda vecchia di sessant'anni, ormai passata, dovrebbe essere dimenticata e basta. Invece riemerge viva e nera come la notte in cui hanno assassinato mio nonno. C'è una linea sottile che ci unisce, una lunga riga quasi cancellata dal tempo ma ancora rossa del sangue che scorreva su quella strada. Quella linea ha percorso tutti questi anni per arrivare a me, per ricongiungere quattro generazioni di uomini legati da una discendenza, da un nome. Vorrei liberarmi di questo nome, questo laccio che continua a tirarmi indietro, che mi trascina a forza verso radici ancorate alle tenebre vischiose della violenza coloniale, del razzismo e dell'abbandono.
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Ho caldo, sto sudando sotto la sahariana ma stringo lo zaino che ho infilato al contrario, sul petto. All'occorrenza ho a disposizione macchina fotografica, telefono, un fazzoletto di stoffa e una bottiglietta d'acqua per lavarmi gli occhi. Anni di cortei e cariche mi hanno insegnato che ti può arrivare una spinta, una manganellata e la nebbia improvvisa del gas lacrimogeno quando meno te lo aspetti, senza sapere quello che succederà dopo. Non voglio farmi sorprendere come le prime volte, come a Genova nell'estate del 2001. Ero andato al Social Forum per seguire i dibattiti sui nuovi accordi del commercio internazionale e mi sono ritrovato accecato per ore dai gas sparati dalla polizia. Volevano dividere il fiume umano che marciava contro il G8 in quella giornata infuocata di luglio. Il corteo stava oscurando il summit blindato nella zona rossa. Quel gas mi era sembrato abbastanza per la giornata e non potevo immaginare che la sera avrei assistito alla mattanza alla scuola Diaz. Non riuscivamo a rientrare, io e gli altri giornalisti di Indymedia, dopo l'irruzione degli agenti. Un cordone di divise scure e corazzate ci teneva bloccati ai cancelli quasi fossimo ostaggi di una guerra non annunciata. Mi chiedevo se fossimo ancora in Italia in quelle ore, ammutolito dalla paura, tra la rabbia e l'impotenza di fronte alle urla che dall'interno salivano al cielo e ci ricadevano addosso. Poi un silenzio di marmo e la sfilata macabra delle barelle. Penzolavano come in segno di resa le braccia dei ragazzi tramortiti dai manganelli, coi nasi e gli occhiali spezzati. | << | < | > | >> |Pagina 229Asmara, 2014 «Selam, Vittorio, merhaba!» «Kiflay? Selam... come stai? Mi spiace, non parlo tigrino.»
«Benvenuto. Ho detto benvenuto.»
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Harnet Avenue è la via principale di Asmara. Nel Ventennio si chiamava viale Mussolini. Chissà se qualcuno qui se lo ricorda. Percorriamo questa strada ampia e assolata, costeggiata da file di palme rigogliose alla ricerca di un posto in cui mangiare. Kiflay mi chiede se voglio provare la lasagna, che qui si fa ovunque, dice, è buona e anche più diffusa dello ziginì. «Non ci penso proprio» gli rispondo ridendo. «Sono qui per l'Eritrea, non per quello che resta dell'Italia, anche a tavola.» In realtà c'è una parte di me che si compiace di trovare certi sapori e certe sensazioni in un punto così remoto del mondo. Vedere la schiuma dei cappuccini troneggiare nelle tazze sui banconi dei bar mi piace. È un godimento che non sta nell'evocazione degli antichi caffè di Torino o di Palermo, ma nell'armonia che si sparge per la città, nella bellezza che si aggiunge ad altra bellezza, anche qui. A volte mi accorgo che il fantasma dell'oppressione coloniale mi perseguita e mi spinge a rifiutare tutto ciò che rimanda all'Italia. È una corazza d'intransigenza che finisce per castrare anche i piaceri più innocenti. Parcheggiamo dietro la chiesa di San Francesco, nella zona del monumento alla Fiat Tagliero. Era nato come un distributore di benzina a forma di aeroplano, sempre nel Ventennio, un omaggio futurista alla fabbrica piemontese così importante per la storia nazionale. Ora sta lì l'opera, dietro una grande rotatoria e nell'indifferenza della città. È ancora intatta ma sembra rovinata dal tempo, annerita dal fumo delle marmitte. Il ristorante si chiama Ghinda ed è quasi nascosto dalle palazzine in cima alla collina. Non ha insegne né indicazioni. Due donne anziane avvolte in scialli colorati siedono sui gradini di cemento con un grande mortaio in grembo. Pestano entrambe con vigore un misto di spezie dal colore rosso mattone e dall'odore pungente di cardamomo, di coriandolo e peperoncino. Non si curano di chi sale o scende le scale, la loro attenzione sta tutta in fondo a quel mortaio, a quel rito tanto antico quanto indispensabile alla cucina eritrea. «Preparano il berberè» mi spiega sottovoce Kiflay. «È la polvere con cui si fa lo ziginì. Pensa, sono sedici spezie diverse e tanto, tanto peperoncino. Anche mia madre lo prepara così.» Entriamo nel locale e l'Italia scompare del tutto. Regna la tradizione eritrea. Dalle scene di caccia dipinte a grandezza naturale sulle pareti ai tavoli di legno e pelle come fossimo in un tukul. Dice Kiflay che questo non è un ristorante da turisti, qui vengono i dirigenti più alti del governo e ogni tanto cena anche Isaias, il presidente, quasi sussurra. Il dittatore, penso io. La donna che ci accoglie ha una tunica bianca e ampia, ci rivolge uno sguardo austero, per niente accomodante. Sarà una suggestione ma avverto già diffidenza, quella che riserva agli europei venuti ad Asmara per combinare affari poco limpidi. Non credo parli inglese e lascio che Kiflay traduca per me. Devo proprio decidermi a imparare un po' di tigrino, quel tanto che basta per muoversi, per salutare e dire qualcosa che abbia un senso. Sarebbe il degno tributo verso Gabrù, la gente di Zaul, persino il regno di Saba, da cui anche io in parte discendo. Così saprei presentarmi, superare ogni diffidenza e dire chi sono, cosa sono, cosa sono venuto a fare. Scegliamo i piatti senza leggere il menu: ziginì di manzo, injera a parte e shirò in abbondanza. Anche sulla birra non ci sono dubbi né abbiamo alternative. Qui c'è solo l'Asmara, quella delle bottiglie piccole, panciute e scure. Una volta si chiamava Birra Melotti, come l'ingegnere venuto in Eritrea nel '39 per costruire strade e ponti e poi passato a produrre bibite. Ci bagniamo le dita nelle ciotole di vetro colme d'acqua tiepida, un gesto rituale necessario prima di cominciare. Il berberè esplode subito nel palato. Kiflay dice che è per il tipo di peperoncino, una qualità che solo qui cresce, ai piedi dei monti intorno ad Asmara, un clima unico. Anche l' injera è più spugnoso e aromatico di quello che ho mangiato a Roma e a Bruxelles, da Naser.
Vorrei fosse qui ora, Naser, per discutere di ingredienti, di spezie, tempi
di cottura della carne e varianti di
ziginì
col pesce, con le uova o magari di qualche alternativa vegetariana e vegana. Ma
Naser non può tornare. Nessun rifugiato può, anche se ha ancora genitori e
fratelli o sorelle. E comunque so che finiremmo per parlare
di politica e metterci subito nei guai. Faremmo a voce
alta discorsi sulla migrazione, sul regime, sui ragazzi che
scappano in massa e vengono a morire al largo delle nostre coste o, se va bene,
si stabiliscono al Nord.
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