Copertina
Autore Davide Longo
Titolo Il mangiatore di pietre
EdizioneFandango, Roma, 2008 [2004], Tascabili 3 , pag. 166, cop.fle., dim. 12x16,7x0,9 cm , Isbn 978-88-6044-042-6
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

Cesare tagliò un morso sottile di toma e richiudendo il coltello guardò la sera che calava oltre la finestra.

Le creste delle montagne staccavano ancora nell'ultimo sole, ma i pini in basso avevano il verde opaco del crepuscolo. Nei prati di là dal fiume restava qualche covone di fieno. Un vento pigro cullava faggi e castani a mezzacosta preparandoli al buio.

Mise in bocca la toma con un tozzo di pane e masticò fino a sentire il formaggio tornare latte, il pane grano.

Nella stanza la luce entrava stentata: contro le pareti si intuivano una credenza, un vecchio frigorifero, l'acquaio e poco altro mobilio scurito dagli anni. Una cassapanca di ciliegio stava accucciata accanto alla porta come un animale grasso e con le gambe corte.

Un sospiro lungo venne da sotto il tavolo.

Cesare abbassò lo sguardo e trovò gli occhi della lupa che lo fissavano.

— Sei brava Micol, sei brava — le disse allungando una mano.

La lupa socchiuse la bocca e prese tra i denti la crosta di formaggio, attenta a non sfiorare le dita.

Cesare la guardò.

Era un incrocio di cani incerti. Dei padri selvatici aveva la schiena magra e nervosa adatta alla corsa. Il castano degli occhi e la fedeltà le venivano invece da bestie abituate al lavoro.

Il telefono squillò.

Cesare senza fretta raggiunse il vecchio apparecchio grigio sulla mensola.

– Sì?

La voce del parroco uscì lieve dalla cornetta.

– Dite pure, non disturbate.

Mentre ascoltava Cesare lanciò un'occhiata al San Giuseppe sulla plancia da lavoro. Accanto restavano quattro ciocchi ancora troppo teneri per il bulino. Su di uno si intuivano le prove che aveva fatto per le pieghe del velo.

– Per gli ultimi di ottobre. Se il tempo asciuga – disse, poi pescò una gitanes dalla tasca della camicia e accese parando il cerino con la mano. Sorrise di quel gesto che gli era rimasto addosso da quando viaggiava sulle navi. Trent'anni senza vedere il mare non erano bastati a toglierglielo.

Il parroco disse del vento che batteva la valle in quei giorni, poi di un banco della chiesa da riparare e di tutti quei lavori che un tempo faceva lui solo e ora non più. Cesare se lo figurò nel suo nero di sempre, gli occhi quasi ciechi, ma d'un azzurro vivo, le mani fragili come fiori seccati.

– Bonsoir – lo salutò alla fine, quasi il francese fosse un modo più garbato per separarsi, poi mise giù la cornetta e nella stanza tornò il silenzio.

Con gesti lenti preparò la tavola. Posò sopra la cerata il pintone di vino, una baguette, il cucchiaio, un piatto fondo e un tovagliolo rosso che portava ricamate due iniziali, una soltanto sua.

Tolse la pentola dalla stufa e versò la minestra nel piatto. Uno sbuffo di vapore salì alle travi del soffitto e il profumo pieno della maggiorana si allargò nella cucina.

Accese la radio.

La voce metallica parlò di un politico finito in manette e del matrimonio di un reale cin più di duemila invitati. Cesare ascoltò senza muovere gli occhi dalla porzione di montagna e di cielo che la finestra ritagliava, poi spense l'apparecchio e bevve il vino che ogni sera chiudeva il pasto.

Portò le stoviglie nell'acquaio e rimboccò le maniche della camicia per sbrigare i piatti, ma dal rubinetto vennero soltanto poche gocce e lo sfiatare dei tubi vuoti.

Cesare storse le labbra.

Dieci anni prima era stato l'unico contrario a imbrigliare l'acqua del rio. Gli altri quattro che abitavano la borgata invece avevano firmato e il comune aveva avviato i lavori della potabile.

Per due mesi le ruspe avevano sventrato il greto di Cumbo Scuro.

Le macchine stavano attaccate alla montagna con uncini ricurvi. Di giorno urlavano fracassando sassi e alberi, la sera quando gli operai se ne andavano, rimanevano sole con le loro enormi bocche metalliche alzate alla luna.

Da allora, ogni principio d'autunno, i resti del bosco tappavano la condotta lasciando il paese senz'acqua.

Cesare guardò gli scarponi accanto alla stufa meditando se salire o aspettare l'indomani, poi dal campanile di Villar arrivarono sette tocchi che dicevano l'ora pulita di luce che gli restava.

Allacciò gli scarponi, caricò la stufa e uscì.

Fuori l'aria era serena, ma un vento secco tirava da monte piegando le punte degli abeti. Cesare chiuse i bottoni della giacca e guardò la macchia sopra le montagne che serravano la valle: nuvole cariche di freddo si affacciavano dalla Francia come qualcuno che si sporge alla finestra promettendo di venir giù.

Il clacson della corriera salì dalla statale.

Cesare riuscì giusto a vedere il torpedone che infilava il rettilineo di Torrette, poi il rumore del diesel si allontanò lasciando un silenzio di tanti piccoli suoni che non riuscivano a vincere uno sull'altro.

Pensò Adelmo al volante e gli altri seduti dietro.

Avrebbero fatto in tempo a mangiare con chi li aspettava e vedere le montagne scurire, poi si sarebbero addormentati nei loro letti e alle sei dell'indomani lo stesso pullman li avrebbe portati verso un altro giorno uguale di lavoro.

Sentì dell'amaro in bocca e prima che scendesse allo stomaco fischiò alla lupa avviandosi verso la borgata.

Attraversato il prato di camomilla e barbasso, passò l'arco della chiesa, poi, prima delle case, tagliò a sinistra imboccando la mulattiera per Champaneise.

Il sentiero prese quota con dolcezza. Era stato segnato dalle donne che un tempo andavano a macerare la canapa al rio e cresceva in tornanti larghi che lasciavano il fiato per chiacchierare e guardare attorno.

Giunto al pilone Cesare sedette sui gradini, sotto la corona di fiori finti e la scritta sbiadita "Virgo Sanctissima".

Accese l'ultima del giorno e attraverso il fumo biondo guardò le baite della borgata, piccole e piatte sotto di lui. La sua, sul costone, pareva una scarpa spaiata.

In quelle case uomini e donne per generazioni avevano fatto il pane, resistito agli inverni e cresciuto figli destinati a fare lo stesso. Adesso le loro grange erano soltanto dei gusci vuoti. La maggior parte finita la guerra era emigrata in Francia, qualcuno in Argentina, una famiglia in Germania. Negli anni a venire quelli che erano rimasti s'erano trasferiti uno dopo l'altro nella piana, vicino alle fabbriche dove erano entrati a lavorare.

Cichin era stato l'ultimo: due anni prima aveva venduto le vacche ed era sceso al ricovero. Da allora Cesare non aveva avuto più con chi giocare a carte.

La lupa arrivò e fece qualche giro nervoso intorno.

– Siste – le disse Cesare, perché gli piaceva che ogni cosa fosse ferma quando fumava, e la lupa sedette.

Dalla fondovalle venne il rumore della camionetta dei finanzieri che scendevano dopo aver chiuso la sbarra del confine. Il fiume correva lento e silenzioso assecondando le curve della strada.

Cesare fece un tiro lungo e con un dito sfiorò la donna che ballava sul pacchetto delle gitanes.

Come sempre pensò Adele.

Quando la sigaretta fu consumata, le nuvole che aveva visto lontane si erano mangiate il cielo di ponente.

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Pagina 49

Sergio passò una mano sulla faccia liberandola dal nevischio che cadeva minuto, poi fermò il passo e si voltò a guardare il vallone sotto di lui.

La notte aveva inghiottito il sambuco dove mezz'ora prima aveva nascosto il fantic e le luci di Castello brillavano ormai piccole e fredde che parevano i lumini di un camposanto. La massa scura del lago era un animale lento che dorme con le zampe ritirate sotto la pancia.

Abbassò la testa e riprese la marcia.

Doveva trovarsi ancora nello stretto del vallone perché il suono del cumbo copriva ogni altro rumore. Intorno a lui macchie scure che potevano essere cespugli o rocce uscivano dalla neve. Tutto il resto erano contorni e sagome che non avrebbe saputo dire.

Quando il suo cuore cominciò a battere grosso per la fatica, il sentiero gli diede respiro piegando a destra. Sentì l'eco del fiume sempre più esile e capì che la valle si era aperta nel falsopiano e che era così che gli uccelli e le bestie si muovevano nel buio.

Non dovette camminare molto che l'ardesia argentata di un tetto si disegnò nel buio. La porta e le finestre della casa guardavano cieche a valle. Dall'interno non proveniva alcun suono.

Si avvicinò tenendosi basso. L'aria tersa era tagliata da qualche fiocco leggero che gli si spegneva sulla pelle bollente del viso. Le gambe si muovevano nella neve con un rumore di sabbia.

Raggiunta una finestra piccola a monte sbirciò dentro, poi passò sul davanti ed entrò facendo chiaro con l'accendino: la stanza era vuota, lo sterco per terra ormai compatto. Nell'aria restava l'odore delle bestie che i pastori avevano riparato nei giorni di pioggia.

Non sono mai stati qui, si disse.

Si mise seduto su due gradini che le lose del tetto avevano tenuto asciutti e accese una sigaretta. Le nubi avevano scoperto la cima a dritta del colle. Nella luce livida della luna la montagna pareva una colata di metallo. Le rocce erano così perpendicolari che la neve non aveva trovato da attaccarsi.

Una raffica di vento scese da monte arrossando la punta della sigaretta.

Sergio pensò tutte le cose che esistevano dietro quelle montagne. Pensò il padre che aveva vissuto tutta la vita attaccato al palo come le sue capre. E la madre che aveva scelto diverso.

Nell'aria adesso si muoveva un odore oleoso e caldo.

Sergio si alzò di scatto e cercò attorno.

Le nuvole avevano ricucito lo strappo e nel buio sentiva soltanto il battito del proprio cuore. Una linea di sudore gli scendeva fredda fra le natiche.

Senza una ragione gettò la sigaretta e prese verso la testa del vallone. Quando il vento posava, l'odore si perdeva, ma lui continuava a tenerlo stretto in testa e dopo pochi passi lo ritrovava. Era un lezzo colloso di resina e fumo.

Uscito da un lariceto riconobbe i muri di un'altra grangia.

Un filo di fumo usciva dalla piccola costruzione e dalle crepe alle pareti i bagliori di un fuoco si allungavano sulla neve intorno.

Sergio si accovacciò dietro un sasso e rimase a guardare.

Sentiva di appartenere a una lunga catena di uomini che si erano spostati di notte, avevano cacciato e scrutato nascosti nel buio fuochi accesi da altri. Alcuni erano stati accolti, altri scacciati o uccisi. Tutti avevano percorso piste segnate dai padri e da altri uomini di cui si era persa memoria.

Una pernice o qualche altro uccello piccolo si tuffò in una macchia di ontani poco distante e il suono riverberò nel silenzio come un colpo d'ascia sul legno.

Sergio si appiattì dietro il masso.

Per qualche istante tutto rimase fermo e il buio parve aver nascosto il rumore, poi la porta della casa si schiuse e una sagoma si disegnò in controluce.

— Monsieur?

La voce vibrò stentata. Sergio sentì il sangue accelerare affilando i sensi.

— Monsieur? — ripeté l'uomo.

In quel momento un bagliore incerto che poteva essere la luna passò le nuvole. Gli alberi intorno presero una forma precisa e un'ombra color cenere.

L'uomo si voltò verso l'interno e disse poche parole fatte di lettere dure, poi gettò una sigaretta che Sergio non gli aveva visto. La brace disegnò un arco rosso e scomparve nella neve con uno sfregolio metallico.

Un istante dopo la porta era chiusa.

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