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| << | < | > | >> |IndiceV Introduzione di Davide Longo Racconti di montagna 3 Ferro di Primo Levi 17 Donna di Goffredo Parise 23 Kilimanjaro di Michael Crichton 51 Prima neve sul Fuji di Yasunari Kawabata 73 Un idillio alpino di Ernest Hemingway 81 Le valanghe degli Urali di Emilio Salgari 93 Prometeo di Franz Kafka 95 Il tempo dei cosmonauti di John Berger 127 Notte d'inverno a Filadelfia di Dino Buzzati 133 Lo zigolo delle nevi di Jørn Riel 151 L'avventura di uno sciatore di Italo Calvino 159 Un crepaccio nella neve ghiacciata di Bernardo Atxaga 167 Il rifugio di Guy de Maupassant 181 Neve fresca di Tobias Wolff 187 Alla ricerca del latte di Achille Giovanni Cagna 211 Un colpo d'ala di Vladimir Nabokov 235 Quando salendo creavi il mondo di Fosco Maraini 241 Una brutta estate sul K2 di Jon Krakauer 257 La montagna di vetro di Donald Barthelme 263 Grindelwald di Hermann Hesse 273 Sulle orme dello yeti di Bruce Chatwin 291 Un Natale del 1945 di Mario Rigoni Stern 297 L'ascesa al Monte Ventoso di Francesco Petrarca 307 Nota biobibliografica Tra le pp. 72 e 73: Il perfetto bianco della neve. Vittorio Sella alpinista e fotografo, 1859-1943 di Luca Bianco Inserto fotografico |
| << | < | > | >> |Pagina VIntroduzione
di Davide Longo
Nei prati delle mie montagne si trovano funghi che la gente del posto ha battezzato petti di lupo, nel senso di scoregge di lupo. La traduttrice di John Berger in uno dei racconti di questa antologia li chiama piú correttamente «vesce di lupo», ma il loro nome scientifico è lycoperdon bovista. Nella prima fase della loro vita ricordano certi dolci bianchi che girano sui rulli dei ristoranti giapponesi. Come quei dolci il lycoperdon bovista è mangereccio, ciononostante quasi nessuno lo coglie. Cosí accade che nell'arco di qualche giorno la sua parte interna diventi polverulenta mentre l'esterno si ossida prendendo un colore opaco poco invitante. A quel punto al lycoperdon bovista non resta che attendere qualcosa o qualcuno che urtandolo lo faccia esplodere in uno sbuffo marron, sbuffo che i montanari hanno associato alla scoreggia di un lupo, ma che rappresenta in verità il suo originale modo di riprodursi. Questo meditavo un ottobre fa, sul treno che mi portava verso casa dopo aver lasciato le stanze dell'Einaudi e accettato la cura di questo volume, guardando il profilo del Monviso che si disegnava nel grigio appena differente del cielo oltre il finestrino. Meditavo che, se «cura» era un lycoperdon bovista appena uscito dalla terra, una parola bianca e calda come l'abbraccio tra due persone di statura differente, il termine «curatore» aveva l'aspetto poco invitante di un petto di lupo marron. Era bellissima la prospettiva di prendermi cura di un'antologia di racconti sulla montagna, ma un curatore in concreto cosa avrebbe dovuto fare? Il termine, da ogni lato lo valutassi, mi sembrava alludere a compiti troppo giudiziari, ieratici o pastorali. Forse non in assoluto, ma almeno per come vestivo io. Bisognava trovare un'altra parola, ma come si può chiamare uno che cerca racconti che hanno a che fare con la montagna, li legge, ne sceglie alcuni e prova a metterli insieme senza fargli torto? Con il treno ormai in frenata, conclusi che la parola che piú si approssimava al compito fosse levatrice, ossia una che si occupa di bambini di altri senza cadere nell'equivoco che siano suoi, cerca di tirarli fuori da dove sono senza fare danni, dedica loro la giusta attenzione e infine li affida a genitori e parenti perché se li godano. Uscendo dalla stazione camminavo con slancio futurista verso il parcheggio dove la mattina avevo legato la bici. Mi pareva di aver risolto gran parte della faccenda. Il lavoro di ricerca si prospettava lunghissimo, ma una volta conclusa la faticosa marcia di avvicinamento, scalare la parete sarebbe stato divertimento puro. Anche quando scoprii che avevano rubato ruote e sella alla mia bici, lasciando il telaio ben assicurato al palo, non accusai il colpo. Non mi passò nemmeno per la testa che l'evento potesse rappresentare un monito alla mia sicumera. Avete presente la storiella dell'alpinista che si sveglia nel cuore della notte, consulta il meteo, fa una bella colazione, prepara zaino, corde e ramponi, sale in auto, arriva all'attacco della parete, studia la via, fa i primi tiri di corda, poi sente un insolito dondolio nelle parti basse e si accorge di essere uscito di casa senza braghe e mutande?
Neanche io la conoscevo, ecco perché slegai quel che restava della mia bici
e, telaio in spalla, mi avviai con baldanza verso casa.
A quel tempo dalla finestra del mio studio potevo vedere, nelle giornate terse, le Alpi Cozie alzarsi senza troppi preamboli dietro le colline di Saluzzo e Pinerolo; le Marittime allungarsi a sud oltre le Langhe indicando la direzione del mare, e le Graie, in rare giornate invernali di sole e purezza di cuore, chiudere l'orizzonte a nord come un prolungamento dei tetti del paese. Anni prima avevo scelto quella casa proprio per questa ragione: avevo sempre abitato case da cui potevo scorgere il Monviso e diversamente mi sarebbe mancato. Il Monviso è una montagna bella a vedersi da tutti i lati. Questo perché a distanza appare come una piramide perfetta ed è cinquecento metri piú alta di tutte le cime che gli stanno intorno. Qualcuno dice sia la montagna che la Paramount ha scelto a proprio simbolo, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Comunque, se fosse, non ci sarebbe niente di male perché quando si pensa all'ideale platonico di montagna è possibile che venga alla mente qualcosa di molto simile al Monviso. Le cime intorno sono niente a confronto; anche il Visolotto alla sua destra pare un cucciolo che inciampa dietro al genitore. Eppure chi conosce queste montagne sa che la distanza inganna, che non sempre le cose sono facili o difficili come sembrano, e che ci vogliono uomini ben diversi per salire l'uno o l'altro. Io per esempio sono il tipo d'uomo che può salire il Monviso e infatti è accaduto piú volte, ma non potrei salire il Visolotto. Il Visolotto richiede un rapporto diverso con la verticalità. È una questione di attitudine al vuoto, non solo di tecnica di scalata. Non serve provarci per capire che non è roba per te. Chi sa fare il pane non è detto sappia fare i bigné. Non c'è niente di cui sentirsi umiliati: il pane lo mangi tutti i giorni ed è buonissimo. Questo in ogni caso era lo spettacolo che incontravo alzando la testa dai primi libri che mi ero procurato. Ci sono autori che subito vengono alla mente quando associ letteratura e montagna, e alcuni di loro erano tra i miei grandi amori letterari: Rigoni Stern, Hemingway, Buzzati. Le prime settimane le passai a rileggere i loro volumi che avevo in casa o potevo trovare nella biblioteca del paese. Nelle settimane successive telefonai a case editrici e librerie specializzate, frugai su internet, annotai decine di nomi, titoli, numeri di telefono. Parlai con autori, alpinisti, docenti. Saltarono fuori scrittori contemporanei, stranieri non ancora tradotti, intere collane dedicate alla letteratura di montagna, resoconti di scalate, racconti di viaggio, memorie di alpinisti, classici antichi, grandi dell'Ottocento, giapponesi a non finire. Il mio studio si riempi di libri e carte ammonticchiati in pile casuali. Da un paio di mesi cercavo, leggevo, annotavo e da quel marasma ero certo che da un momento all'altro sarebbe scaturito un principio ordinatore; poi, un pomeriggio in tutto uguale agli altri, alzai gli occhi dal computer e vidi il Monviso imbiancato e attorno altri monti, via via piú modesti e meno candidi, fino alle colline di un pesante verde invernale e piú sotto la pianura ferma e orizzontale da cui guardavo. Ricordai la bicicletta senza ruote e senza sella, come se ne stava legata a quel palo, dolente e piena di significato, e avvertii l'insolito dondolio della storiella. Che cos'era una montagna? E di conseguenza: che cos'era un racconto di montagna ? Non poteva essere soltanto la quota a decidere se un racconto fosse o meno di montagna. Detto questo, ed escluso l'altimetro, quale criterio poteva esserci? Non ne avevo la piú pallida idea. Ero attaccato alla parete, ogni cosa esposta alle intemperie e i pantaloni sulla poltrona di casa. Finiva gennaio. Dalla finestra le montagne apparivano bianche e nettissime di giorno, metalliche appena il sole calava. Decisi di passare un paio di giorni nella casa di montagna tornando a valle con una soluzione. L'inizio non fu promettente: per tutto il viaggio ragionai se fosse legittimo o meno definire di montagna una casa a 1200 metri. Arrivato accesi le stufe e riempii due secchi alla fontana perché da novembre a primavera toglievamo l'acqua corrente per evitare che gelasse nei tubi, poi, prima che facesse buio, uscii a fare due passi e trovai Talino seduto sulla panca davanti a casa, il cane accucciato sotto le gambe. Dopo la morte della moglie viveva solo, ma le figlie, sposate in valle una al guardiacaccia, l'altra al messo, venivano ogni due giorni a dargli una rassettata. Si chiamavano Anna e Rita e da bambini avevamo spesso giocato insieme. Allora Talino aveva una ventina di mucche e nell'estate vendeva latte allungato ai villeggianti. Anche il miele che la moglie vendeva sulla statale era allungato. E baravano grossolanamente sul peso del formaggio. Ciononostante non si erano mai arricchiti e Talino portava quel giorno gli stessi pantaloni di venticinque anni prima. - Come va, Talino, - gli chiesi. - A la mòda dij vej. - Vorrei arrivarci io. Era l'incipit classico. In verità Talino non era propriamente vecchio, aveva una sessantina d'anni, e io non avrei affatto voluto arrivare alla sua età nelle sue condizioni. Sedetti accanto a lui. Il cane si scostò infastidito dall'assenza di cattivi odori sui miei pantaloni. Liquidai i discorsi d'obbligo sulla neve che era arrivata presto, i cinghiali che calavano a sgrufare negli orti e la borgata in rovina mentre un tempo in quelle case ci vivevano piú di cento anime. L'ultimo argomento era il piú rischioso perché poteva aprirsi a parentesi su come una volta tutti in borgata si facevano i vestiti e le scarpe da soli, sui prati tenuti come biliardi, la guerra, gli emigranti, Marsiglia, quello che non aveva mai visto una banana e i francesi gliela lasciarono mangiare con la buccia, Parigi, i nipoti che tornavano d'estate e non sapevano il patuà, la lingua che si perdeva, la solitudine, il disfacimento, il commestibili del paese che non teneva piú le Gitanes. Fui abile, bloccai ogni divagazione sul nascere e, dopo il de profundis sul paese, ci ritrovammo in silenzio. Il cielo era basso, la temperatura poco sopra lo zero; la neve, caduta un mese prima, coperta di foglie ed escrementi animali. Pensai fosse il momento. - Secondo te, Talino, cos'è la montagna? Si girò inquadrandomi con i suoi acquosi occhi verdi e restò a fissarmi a lungo senza dire nulla. Pensai non avesse inteso e mi preparai a riformulare la domanda, ma d'un tratto sbottò. - 'Tses mnúit balengu? Alzai le spalle: una domanda un po' balenga lo era. Talino scosse la testa e tornò a guardare la parete di pini sul versante opposto. Restammo cosí una mezz'ora, il rumore del fiume rotto da qualche raro passaggio d'automobile sul fondovalle. Quando una cornacchia si posò su uno dei pali del recinto, Talino inverti le gambe accavallate e sputò lontano. - Niente peggio che qui per 'spettare di tirar le balle nell'uscio. Ël temp a passa mai.
Quella sera dormii agitato e, alzatomi all'alba, tornai a
casa per mettermi a cercare tra le carte una pagina che ero
sicuro di aver letto. Quando la trovai non ebbi nessuna rivelazione,
semplicemente le cose stavano cosí. Era evidente a tutti, anche a Talino con i
suoi pantaloni tenuti su col fil di ferro.
«Quando guardiamo una montagna che ci è familiare, certi istanti sono irripetibili. Basta una luce particolare, una data temperatura, il vento, la stagione. Potremmo vivere sette vite e non rivedere mai piú la montagna come la stiamo vedendo in quel momento; il suo volto è specifico come uno sguardo fugace scambiato attorno al tavolo di colazione. Una montagna occupa sempre il medesimo posto, e la si può quasi considerare immortale, ma chi la conosce bene sa che non si ripete mai. La sua è una scala temporale diversa dalla nostra». Sono parole che John Berger pronunciò in occasione della cerimonia che lo proclamava vincitore del Premio Itas, dedicato ai libri di montagna. In queste righe ci sono molte cose belle, alcune vere, ma soprattutto una definizione ferocemente esatta di che cosa sia la montagna per un uomo. «Una montagna occupa sempre il medesimo posto, e la si può quasi considerare immortale, ma chi la conosce bene sa che non si ripete mai. La sua è una scala temporale diversa dalla nostra». Capii cosí che potevo paradossalmente fregarmene di che cosa fosse la montagna in sé, dove iniziasse, dove finisse e secondo chi. Quello che dovevo avere chiaro era cosa rappresentasse per gli uomini, e quel giorno Talino e Berger, ciascuno a proprio modo, me lo avevano insegnato come meglio non si poteva. La montagna per un uomo è un tempo diverso. Di conseguenza, un racconto è un racconto di montagna quando narra l'incontro di un uomo con il tempo della montagna. Se tale incontro si verifica tra la montagna e un uomo seduto su un treno, intento a fissare le cime lontane, quello è un racconto di montagna, cosí come lo è se l'epifania sopraggiunge in una grangia circondata da vacche, in cima al K2 o nell'ascesa di un modesto cocuzzolo come il Mont Ventoux. Il cuore pulsante dell'antologia doveva essere un'esperienza, non un luogo; un'esperienza di cui la montagna era il motore, ma l'uomo il protagonista. Rilessi in questa chiave tutto quello che avevo raccolto e mi accorsi che molti testi, pur belli, si accantonavano da sé. Penso per esempio al delicato racconto di una storia d'amore tra due turisti in un paese alpino. Sarebbe stato diverso se si fosse svolta in un paese della campagna parigina, nella City di Londra o su un'isola tropicale? No, fatte le debite correzioni nelle descrizioni dei luoghi, del cibi, delle abitudini e della temperatura, sarebbe stata la medesima meravigliosa storia. La presenza e il tempo della montagna non influenzavano per nulla i sentimenti, le percezioni, le azioni dei protagonisti, motivo per cui quel racconto avrebbe potuto entrare a far parte di un'antologia di storie d'amore, di un'antologia dei racconti meglio scritti di ogni tempo, ma, per come avevo deciso di intenderla, non era un racconto di montagna.
Le storie che cercavo, comuni o straordinarie, reali o
ideali che fossero, dovevano essere toccate dalla montagna piú che abitarla. I
loro protagonisti dovevano vivere l'esperienza della rarefazione cui la montagna
obbliga l'uomo; rarefazione dell'aria, dei suoni, degli incontri, ma soprattutto
del tempo. Perché la montagna ci costringe in primo luogo a prendere atto di
questa feroce verità: il tempo esiste, è il centro della nostra vita, ma non è
fatto a nostra immagine e somiglianza.
Comprai quattro grosse scatole di cartone plastificato, di quelle che si montano e hanno su tutti i lati dipinti famosi o motivi floreali. Le riempii con il materiale che non aveva passato questa seconda lettura e le infilai sotto la scrivania dove d'ora in avanti non avrei piú potuto allungare le gambe. Questo per dire che in un lavoro come questo possono convivere reverenza, ferocia, sensi di colpa e atti estremi di tenerezza o autopunizione. Fatto ciò, le superfici piane del mio studio risultarono piú snelle e io mi sentii pronto per mettere mano a un'altra questione non piccola. Non farò troppi giri di parole: fin dall'inizio il materiale che avevo raccolto apparteneva a tre tipologie, ciascuna delle quali avrebbe potuto legittimamente dare vita a tre diverse antologie. I racconti scritti da scrittori. I racconti di viaggio di artisti-viaggiatori. I resoconti delle ascensioni scritti da alpinisti. Leggendo questa antologia vi verrà alla mente il racconto di qualche scrittore che non compare nell'indice. È possibile che non sia saltato fuori durante le mie ricerche, ma molto piú probabile che l'abbia letto e abbia deciso di non includerlo. Sul perché non ci siano Musil, Giacosa, Stifter, la Blixen e molti altri che hanno scritto almeno un racconto di montagna e bene, non c'è molto da dire. Si è trattato di una valutazione dettata dal gusto, dalla lunghezza e dalla natura del testo, dallo spazio a disposizione e da molti altri fattori tutti soggettivi e opinabili. Al contrario, sull'assenza di Messner e Bonatti, sul fatto che non compaiano Ruskin e Hugo, sento di dovere una spiegazione. Nell'Ottocento, come nel secolo precedente, il viaggio in Italia rappresentava una tappa quasi obbligata nella formazione degli artisti europei. Aggiungete che per venire in Italia, qualunque fosse la loro provenienza, questa élite di viaggiatori doveva passare attraverso le Alpi e che pochi resistevano alla tentazione di mettere su carta la meraviglia di fronte a questo spettacolo, e vi farete un'idea di quante pagine di diario, impressioni di viaggio e riflessioni siano state prodotte in quel periodo a proposito delle valli alpine. Non stiamo parlando di viaggiatori qualsiasi, ma di gente come Dumas, Ruskin, Hugo, Chateaubriand. Possibile lasciarli fuori da un'antologia di racconti sulla montagna? Mettiamola cosí, i racconti che troverete nell'antologia mi paiono rispondere a tre requisiti: sono racconti, cioè storie brevi; hanno una qualità letteraria molto alta; hanno a che fare con la montagna, cosí come la intendono Talino e Berger. Quelle dei viaggiatori ottocenteschi sono pagine ironiche e commosse, ricche di magnifiche descrizioni, ma per come la vedo io nella maggioranza dei casi non sono racconti, e nemmeno propriamente storie. Il loro obiettivo del resto era quello di descrivere uno spettacolo naturale e le emozioni che suscitava, non di narrare una storia. Grossolanamente potremmo dire che quelle pagine appartengono piú al genere documentario d'autore che alla fiction. In piú sarebbe stato necessario estrapolarle da quel continuum temporale che è un diario di viaggio: insomma, il concetto di racconto concluso in sé sarebbe andato a farsi benedire. Ecco perché non troverete Hugo, Ruskin e compagnia. Discorso diverso per i récit d'escalade, le cronache delle ascensioni. I grandi alpinisti custodiscono un tesoro di storie dall'enorme impatto drammatico. Probabilmente non c'è uomo che meglio di Bonatti sappia che cosa è la montagna verticale; nessuno piú di Messner è stato in simbiosi con la montagna d'alta quota, ne ha compreso la natura e accettato la sfida. Nei loro libri c'è tutto: la morte, il dramma, il limite, la vittoria, la dimensione epica, eppure la vocazione dei loro testi non è propriamente letteraria. Le cronache delle imprese alpinistiche sono talvolta ben scritte, ma chi scrive è sempre prima di tutto un alpinista, solo in seconda battuta uno scrittore. La distinzione può sembrare sottile, ma non è la verticalità ciò che questa antologia insegue e nemmeno la competenza alpinistica. Piuttosto l'esperienza della montagna, narrata nella forma racconto, da un eccellente scrittore. Troverete nell'indice delle contraddizioni? Forse: Chatwin era un viaggiatore, Krakauer un buon alpinista, Maraini entrambe le cose, ma io credo che in loro la natura dello scrittore fosse piú forte dell'altra con cui pure conviveva. Ecco come sono saltati fuori i ventitre racconti che compongono questa antologia. Io credo siano grandi racconti e grandi racconti di montagna. Mi rendo conto che da una introduzione ci si attenderebbe altro, ma non sono né un cattedratico né un critico letterario. Sono solo uno che scrive storie e cammina in montagna. Cosa potrei dirvi di Nabokov, di Kawabata o di Calvino? Che sono grandi scrittori? È qualcosa che qualcuno di voi non sapeva?
Quel che posso dirvi è che leggere questi racconti è stato per me fonte di
godimento e sofferenza insieme, e che nessuno mi ha lasciato indifferente. Mi
auguro vi capiti lo stesso.
Oggi è luglio pieno e ho finito di scrivere questa introduzione. Sono venuto in montagna per farlo, mi sembrava giusto cosí. Ho spento il computer e siedo sui gradini davanti a casa. Il cielo è di un azzurro epico che chiederebbe grandi battaglie e movimenti d'uomini, invece tutto è immobile; i pini sul versante opposto hanno le teste ferme, niente muove il ronzio del fiume. Nel prato sotto casa vedo passare la figura lenta di Talino che si tira dietro la sua capra. Ho saputo che gli è morto il cane alla fine dell'inverno. Adesso ha preso un cucciolo da una grangia. L'ha chiamato Nani, come quello che è morto e quelli prima. Quando lo saluto mi fa un cenno distratto. - Volevo ringraziarti! - gli grido. Allora si ferma e mette la mano a visiera per guardarmi controsole. - Per quella volta che mi hai spiegato cos'è la montagna. Mi guarda ancora per qualche momento, poi riprende la marcia. Quando è arrivato alla fine del campo, prima di calare giú per la riva, si volta a cercarmi. - Stà nen da sul, - grida, poi scende alcuni passi e non c'è mai stato. | << | < | > | >> |Pagina 95John Berger
Il tempo dei cosmonauti
Se potessimo dare un nome a tutto ciò che accade, non ci sarebbe bisogno di storie. Il fatto è che da queste parti la vita supera il nostro vocabolario. Ci manca una parola e cosí si deve raccontare tutta la storia. Che rapporto c'era, ad esempio, tra il vecchio pastore Marius e il piccolo che Danielle portava in grembo quando lasciò il villaggio? Era il padrino del bimbo? Ne dubito. La storia cominciò e fini nell'estate del 1982, lassú nell'alpeggio, che chiamiamo Peniel. C'è chi dice di sapere che il nome Peniel viene dalla Bibbia. Genesi. Capitolo 32. Ma se lo leggete, non scoprirete che cosa accadde davvero tra Marius e Danielle. Peniel è un altopiano a 1600 metri d'altitudine. Un ciglio dell'altopiano domina, da una colossale parete rocciosa, il villaggio sottostante. Da lí, quando i temporali si accompagnano al sole, si può guardare verso valle dall'alto di un arcobaleno - come se fosse l'arco di un ponte ai vostri piedi. La parete rocciosa è fatta per lo piú di pietra calcarea, qua e là mescolata ad arenaria. I rimanenti bordi dell'altopiano si perdono nelle montagne alle loro spalle. Un tempo, su questo altopiano, c'era una foresta e alcuni giganteschi tronchi d'albero si conservano ancora al di sotto di uno strato di argilla, sotto li terriccio su cui crescono i pascoli. Dove questa argilla e l'antica foresta sono piú prossimi alla superficie, la terra è grassa e umida, e sulle rocce cresce un muschio verde cupo che, a toccarlo o a sedercisi sopra, sembra pelliccia. Ecco perché le rocce diventano come animali. Alcuni anni fa, quando il russo, Gagarin, il primo uomo nello spazio, stava circumnavigando la terra, ciascuna delle venti baite sparse sul Peniel ospitava, d'estate, bestiame e donne e uomini. Cosí tanto bestiame che l'erba bastava appena. La durata del pascolo era, di comune accordo, limitata. Ti alzavi alle tre per la mungitura e, non appena faceva giorno, portavi al pascolo le vacche. Alle dieci, quando il sole cominciava a salire alto nel cielo, le riportavi a casa e facevi il formaggio. Nella stalla davi loro l'erba che avevi falciato a mezzogiorno. Dopo pranzo facevi la siesta. Alle quattro tornavi a mungere, e solo allora riaccompagnavi le vacche al pascolo e rimanevi con loro finché non riuscivi piú a distinguere gli alberi, ma solo la foresta. Allora le riportavi a casa e, una volta che si erano sistemate sulla paglia per la notte, potevi uscire all'aperto a scrutare il cielo notturno, dove la Via Lattea aveva l'aspetto di un velo, e a cercare di individuare Gagarin a bordo del suo sputnik orbitante. Tutto questo avveniva venticinque anni fa. Durante l'estate in questione - l'estate del 1982 - solo due delle venti baite erano abitate, una da Marius e l'altra da Danielle, e c'era tanta di quell'erba che potevano lasciar pascolare i loro animali notte e giorno. Le due baite erano separate da un passo fiancheggiato da due cime, il Saint-Pair e la Téte-de-Duet. Danielle doveva fare mezz'ora di cammino per superare il valico che portava alla baita di Marius. - Perché i caproni mandano un odore cosí forte? - le chiese Marius la prima volta che andò a trovarlo. - Dopo un inverno di ghiaccio e neve vai nella stalla e sai che l'anno prima lì dentro c'era un caprone! I montoni non puzzano a quel modo, i tori non puzzano in quel modo, gli stalloni non puzzano a quel modo, perché i caproni sí? Il solo altro puzzo forte come quello del caprone, - prosegui Marius, - è l'odore di conceria. Quando sono tornato al villaggio, mi ci sono voluti sei mesi per togliermi dalla pelle quel tanfo. Quando sono tornato al villaggio, potevi strapparmi un pelo da qualsiasi parte del corpo - fissò Danielle con i suoi occhi fermi e scaltri per essere sicuro che capisse bene a cosa si riferiva - qualsiasi parte del corpo, annusarlo, e dire: quest'uomo ha lavorato in conceria. - E cosa volete che sia un caprone? - replicò Danielle. - Tutti i caproni puzzano, non è cosí? L'altra cosa - oltre al puzzo di conceria - che Marius aveva portato con sé al villaggio era il modo di indossare il cappello. Lo calzava sulle ventitre, ben calato su un occhio. Come un boss. Non come il boss di una fabbrica, ma come il boss di un'organizzazione criminale. E non se lo toglieva mai. Dormiva con il cappello in testa. Quando riportava le vacche al coperto dopo un temporale - se l'acquazzone è violento rifiutano di muoversi, abbassano la testa, dispongono il dorso a mo' di tetto cosí che la pioggia scorra via da entrambi i lati, e aspettano - quando Marius riportava al chiuso la sua mandria dopo un temporale e il suo cappello era cosí inzuppato che persino al coperto continuava a piovere, se lo toglieva e subito ne metteva un altro. Mettersi il cappello era per lui un gesto d'autorità, e dai trent'anni a oggi che ne aveva settanta l'autorità del gesto non era cambiata. Adesso portava il cappello come se si aspettasse obbedienza totale da trenta vacche e un cane. - Quella là è Violette, - borbottò a Danielle, indicando con il bastone una grossa vacca marrone dagli occhi e dalle corna neri. - Sempre l'ultima a venire quando la si chiama, sempre a zonzo per conto proprio, ha un sistema tutto suo, Violette, e me la toglierò di torno in autunno! Aveva perso il padre all'età di quattordici anni. Suo padre, che si era sposato due volte, aveva una passione per le carte. Ogni sera, in inverno, diceva: «Sauva la graisse! Togliete l'unto dal tavolo, ché si gioca a carte». E cosí aveva finito per essere conosciuto come Emilien à Sauva, e suo figlio come Marius à Sauva. Emilien, il padre, si era lasciato dietro ben poco eccetto i debiti. La casa di famiglia era stata venduta, e Marius, che era il figlio maggiore, era andato a cercare lavoro a Parigi. Salendo per la prima volta in vita sua su un treno, aveva giurato che sarebbe tornato con il denaro necessario a saldare i debiti della famiglia e che prima o poi avrebbe avuto la mandria di vacche piú numerosa del villaggio. - E cosí andrai a spazzare i loro camini? - gli aveva domandato il controllore. - Mangerò la loro merda, - aveva risposto il ragazzo Marius, - se mi pagano di piú per farlo. Ottenne quel che si era giurato. Lavorò in una conceria a Aubervilliers, un po' a nord dell'Arco di trionfo. A trent'anni aveva estinto i debiti della famiglia. A cinquanta possedeva la mandria piú numerosa del villaggio. - Oggi sono calme, Danielle, - prosegui lui, - calme e arrendevoli, e stanno in gruppo. Non come ieri - ieri sentivano il temporale, e l'aria era piena di formiche volanti. Correvano a coda ritta. Ieri non puoi immaginare quanto erano antipatiche. E oggi sono melliflue. Dolci come il miele, Danielle. Era l'inizio dell'estate e il prato era pieno di fiori: asfodeli, campanule, botton d'oro, arnica, colchici, primule e fiordalisi (che si dice siano le anime dei poeti). Danielle aveva ventitre anni. Sua madre era morta e lei viveva con il vecchio padre, che aveva cinque vacche e qualche capra. Lavorava nel magazzino di una fabbrica di mobili ma nella primavera del 1982 la fabbrica era fallita, e cosí lei si era offerta di portare gli animali del padre sui monti - alla baita dove da bambina aveva passato numerose estati con la madre. «Dove trova il coraggio di starsene lassù da sola?», si chiedeva la gente del villaggio. Ma la verità era che lei non aveva bisogno di coraggio. Quella vita le si addiceva - il silenzio, il sole, la lenta routine quotidiana. Come capita a molte persone che sono sicure di se stesse, Danielle metteva un po' soggezione. Ai balli del villaggio i ragazzi non facevano a pugni per farle da cavalieri nonostante danzasse bene e avesse fianchi larghi e piedi minuscoli. Non erano sicuri che avrebbe riso delle loro battute. E cosí dicevano che era lenta. In realtà, la sua cosiddetta lentezza era una forma di imperturbabilità. Aveva un viso largo - un po' come quello delle squaw indiane - occhi scuri, spalle ampie, polsi piccoli e mani grassocce e capaci. Era facile immaginare Danielle come madre di molti bambini - salvo che lei non sembrava avere alcuna fretta di trovarsi un uomo a far loro da padre. - Nonno! - lo stuzzicò lei, quando tornò a fargli visita di lí a qualche giorno. - Ve li tingete, vero? - Tingere cosa? - Settant'anni e neanche un capello bianco! - È ereditario. Danielle guardò altrove come se avesse improvvisamente dimenticato la sua battuta. Le rare nuvole bianche sulle cime erano il solo segno che il mondo non si era fermato. - Mio padre aveva la stessa testa di capelli, - prosegui Marius, - spessa e nera come un agnello, quando lo hanno chiuso nella bara. Riporta Lorraine, Johnny! - gridò al cane. - Va' a cercarla! Il cane balzò via per recuperare la mucca che si era allontanata lungo il pendio a occidente. Nel corso delle stagioni le mucche al Peniel avevano tracciato, con le loro stesse zampe, stretti sentieri a terrazzo lungo i pendii. Si può camminare lungo uno di quei sentieri senza neanche accorgersi che da una parte il balzo sta diventando sempre piú scosceso. - Va' ad acchiappare Lorraine! Marius aveva una maniera tutta sua di chiamare. I suoi richiami sembravano ordini e allo stesso tempo richieste. Ognuno trova un suo modo di far sentire la propria voce in montagna, e tutti sanno che gli animali rispondono ai suoni che somigliano a canzoni. Eppure le sue grida non erano musicali, erano una specie di urlo convulso e ogni frase finiva con il suono «su!»: «Johnny porta su! Prendi su! Su Johnny su!» Il richiamo che Marius rivolgeva al suo cane era simile al grido di chi si sveglia all'improvviso dal sonno. - Va' a prendere Lorraine su! - Pericoloso, - disse. - Due anni fa Lilac è caduta in quel punto e si è rotta una zampa. Per non sprecare la carne ho dovuto fare a pezzi la carcassa con una scure e poi riportarli alla baita con una treggia. Da solo. Nessuno a darmi una mano e nessuno a vedere. La volta successiva che Danielle andò a fargli visita fu di sera. Aveva fatto molto caldo tutto il giorno, le capre erano languide come lei. Finito di mungere, si era arrampicata fino al passo. Di là le arrivava lo scampanio della mandria di Marius, e insieme, alle sue spalle e assai piú forte, lo scampanio delle sue cinque vacche. Portava con sé una torcia elettrica nel caso ne avesse avuto bisogno al ritorno. Marius era seduto su uno sgabello nella stalla, vuota fatta eccezione per una mucca. La guardò da sotto il cappello, gli occhi neri fissi e intenti su Danielle. - Ce l'ho messa tutta a portarti qui, - ringhiò, - può darsi che mi serva il tuo aiuto quando verrà il momento di tirare. Conosco la mia Contessa. Contessa, la vacca davanti a loro, aveva la coda in aria e dalla sua vulva dilatata pendevano luccicanti anelli di muco. Danielle si avvicinò alla sua testa e le senti la temperatura tra le corna. - Quel che le serve, - disse, - è un po' di rugiada sul naso. Cercò di buttarla sul ridere, perché si accorse che le mani di Marius tremavano. Quanti vitelli aveva aiutato a venire al mondo nel corso della sua vita? E adesso possedeva non una, ma trenta vacche. Perché mai era cosí nervoso? L'ultimo raggio di sole brillava tra le assicelle della parete a ovest. Quando Contessa muoveva la testa il campanaccio che portava al collo rintoccava come un animale in pena. Era afoso come se tutto il legno del pavimento, delle pareti e del tetto, tutto il legno della stalla, avesse la febbre; Danielle sapeva perché era nervoso. Per essere tanto nervosi bisogna essere uomini e uomini anziani: non era il pericolo di perdere il vitello o la mucca a preoccuparlo, era una questione di orgoglio. Come se lo stessero sottoponendo a un esame, come se dovesse superare una prova. Nessuna donna, giovane o vecchia, avrebbe sofferto altrettanto. - La testa si è girata, - borbottò Marius spingendosi il cappello ancora piú indietro sulla fronte, - ecco perché il bastardo non viene fuori. Per la terza o quarta volta si arrotolò la manica fino alla spalla e infilò il braccio destro nella mucca. Adesso Contessa era cosí debole che ciondolava come un ubriaco. - Cristo santo tienila su, - gridò lui, - vuoi rompermi un braccio? Tienila su! Dio onnipotente, non è possibile! Tienila su, mi senti? Tuo padre può anche essere il mio peggiore nemico, ma tu tienila dritta sulle zampe, mi senti? Mentre urlava rivolto a Danielle, con la mano aperta, le dita separate come sonde, quietamente, sistematicamente, cercava di individuare le spalle del vitello, quindi le anche, per poi, con una sola mano, girarle in modo che il vitello potesse imboccare il passaggio. Sudava a profusione, e cosí Danielle e Contessa. Muco, legno impregnato di un secolare odore di vacca, sudore e da qualche parte l'odore pungente di iodio dei parti. - Ecco fatto, - grugni lui. Sfilò il braccio e quasi immediatamente apparvero i due zoccoli anteriori, derelitti come gattini annegati. Danielle tastò la fune, impaziente di afarla scivolare attorno agli zoccoli e tirare, per mettere fine a un travaglio che era già durato anche troppo, e tuttavia esitò perché Marius era lí davanti, la faccia a pochi centimetri dalla fica della vacca, gli occhi sconvolti come se stesse pregando. - Eccolo che arriva! Sta venendo -. Il vitello sgusciò malfermo ed esausto nelle braccia di Marius. Lui si versò un po' di acquavite sulle dita e gliele ficcò in bocca per farlo succhiare. Sembrava piú morto che vivo. Lo mise accanto a Contessa, che gli leccò il muso e muggí. Il suo fu un suono acuto e penetrante. «Un suono folle», pensò Danielle. Il vitello si animò. Lei andò a prendere un po' di paglia. Quando tutto fu sistemato, Marius rimase a sedere sul suo sgabello, la mano destra, con la quale aveva rivoltato il vitello, ancora ben aperta e allargata, ancora intenta a disegnare nell'aria della stalla gli stessi gesti che aveva fatto dentro l'utero. La differenza era che adesso non tremava piú. - Certo che sapete il fatto vostro, nonno! - Non sempre, non sempre. Una dolce brezza spirava dalla porta aperta. La luce, dentro la stalla, stava svanendo. - Non ce l'avrei fatta senza di te, - disse lui. - Non ho fatto niente. Lui rise e cominciò a srotolarsi le maniche della camicia. - C'eri! - gridò, - eri qui! L'hai tenuta in piedi.
Sulla strada del ritorno fu contenta di essersi portata la
torcia, perché il valico corre da nord a sud e, con la luna
ancora bassa a est, la strada tra i dirupi era immersa nelle
tenebre. Si fermò a osservare le stelle, che da lí, dove era
buio, parevano dieci volte piú luminose.
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