Copertina
Autore Beppe Lopez
Titolo La scordanza
EdizioneMarsilio, Venezia, 2008, Romanzi e racconti , pag. 382, cop.ril.sov., dim. 14x22x3,5 cm , Isbn 978-88-317-9571-5
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe narrativa italiana
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Indice


       Andata

   11  Nonna Momen' (1924)
   37  Ioland' (1946)
   69  Momenucc' (1952)
   83  Martredd' (1957)
  107  Stefanell'(1963)
  133  Mamma Porziell' (1965)
  175  Rigonett' (1975)
  205  Iagatedd' (1976)
  225  Annina, Míriam e Clara (1978-80)


       Ritorno

  241  Saverin' (2000)
  259  Ortenz' (2000)
  273  Saverin' (2001)
  307  Saverin' (2002)
  329  Lupit' (2003)
  347  Saverin' (2003)


 

 

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Pagina 11

Nonna Momen'
(1924)



Tiene quindici anni Momen' la Uecchineri quando vede per la prima volta Antonio Malapezza detto 'Ndramalonga, che per conto suo ne vanta già diciannove inoltrati. È soprannominata Uecchineri perché gode di un paro d'occhi che rassomigliano veramente a due pezzi di carbone, appicciati o astutati a seconda delle circostanze e delle intenzioni.

È fìgghia di una famìgghia di contadini marchiata dalla fame e, come se non abbastasse, pure dalla simpatì per i comunisti e per i sindacati. Abita dentro a un buco di casa, a Corato, paisotto che non a caso passa per essere stato ingiuriato da Federico Secondo in persona, ai tempi suoi, con lo sfottò: «Quarata magna semper merdosa fuit.» Momen', insomma, è proprio povera povera. È pure misera misera come corporatura. Di culo e di menne, poi, manco a parlarne. Pare una piccinenna, quasi una criatura. Gli occhi suoi, però, sono uno spettacolo, un incantesimo, una magì. Talmente neri e penetranti che, se vuole, ti stende alla prima occhiata.

Quando vede per la prima volta 'Ndramnalonga, Momen' non lo stende. Ma non è perché non voglia stenderlo. Il fatto è che quello già si era stenduto da solo preventivamente, apprima ancora di mirarla di persona.

L'erede Malapezza non è di Corato. È di tutt'altra famìgghia e di tutt'altro livello sociale rispetto a Momen'. Appartiene difatti a una ricca dinastì di commercianti baresi. Lo stesso soprannome 'Ndramalonga glielo hanno affibbiato perché è lungo e fino come un filo di entrame. Insomma, Antonio pure fisicamente pare proprio un signore. Com'è, allora, che è arrivato 'nnanzi a quel cafùrchio di casa, a Corato, già così stenduto e intenzionato?


[Comincia di qui, da una vicenda d'amore semplice e potente, quella fra sua nonna Filomena chiamata Momen' e suo nonno Antonio detto 'Ndramalonga – e quindi da un'epoca in cui lui non era ancora nato, in cui le storie coniugali erano ancora semplici e potenti, e i rapporti affettivi, familiari e sociali solidi ancorché rigidi, inaffrancati e opprimenti – la memoria che Antonio chiamato Niudd', il protagonista della nostra storia, vuole ricostruire e affidare a sua figlia Saverina. Lui è nato nel 1947. A ventotto anni, nel 1975, è emigrato a Roma, attratto dalla vita politica e culturale di cui la capitale era il centro indiscusso, e dalle opportunità professionali che lì gli si offrivano. Nel 1977 gli è nata Saverina. Dagli inizi degli anni Ottanta, matura una sempre più profonda delusione ed estraneità ad un "sistema" e ad una società che sente sempre più feroce, volgare e "senza memoria di sé". E sulla sua vita, dal gennaio del 2000, grava l'ombra dell'assenza fisica e della mancanza di contatti con Saverina, ritornata a Bologna, dopo le feste di Natale e capodanno, per riprendere gli studi presso quella università. Perciò, nell'estate dello stesso anno, all'età di cinquantatré anni, solo e "straniero in patria", Niudd' decide di tornare a vivere, anzi a "sopravvivere" a Bari, in via Mirenghi, nella casa che lo aveva visto bambino e ragazzo. Con una sola speranza: rivedere sua figlia.]


Teneva diciotto anni giusti giusti 'Ndramalonga quando aveva pigliato possesso di un magazzino di tessuti e biancherì aperto per essere sotto alla sola ed esclusiva responsabilità sua. Un magazzino fuori città, addirittura a Lecce, terra di baroni ricchi a strafòttere e di povere fèmmene attaccate da una malatì misteriosa che ci fa ballare il ballo di San Vito ma che sa guarire solo Santu Paulu meu delle tarante.

Quando gli era murto di vecchiaia il papà – a quei tempi un òmmeno sentiva incurvarsi la sckena e vedeva appannarsi gli occhi praticamente all'età che, mo, tiene un giovanotto che finalmente la può rizzare la sckena e li può aprire alla vita gli occhi – lui era ancora troppo meninno per pigliare in mano le redini della famìgghia e del commercio all'ingrosso di tessuti e biancherì in via Argiro. Così questa incombenza se la caricò sopr'alla sckena la sora grande, soprannominata a giusta rascione e oramà chiamata da tutti Cervddin', per accennare al fatto che teneva stranamente tanto cervello fino quanto un òmmeno fatto. Ma 'Ndramalonga dovette dire lo stesso baibai alla scola e mettersi capasotto dentro al commercio, dove mo faticava tutta la famìgghia e cioè la mogghiera, le tre figghie e appunto il figghio piccinunno della bonanima di Malapezza il Vecchio, che fino all'ultima scirnata di vita e di fatica se l'era sbrogliata da solo, facendosi aiutare esclusivamente per i conti dalla "ragioniera di casa". Per la precisione, Cervddin' non lo spalleggiava per i conti veri e propri (qua bastavano e avanzavano l'esperienza e l'istinto suo di commerciante di terza generazione), ma per la scrittura dei conti. Durante la scirnata Malapezza il Vecchio vendeva, incassava e registrava tutto dentro al cervello. Poi, la sera, tornava a casa e dettava a Cervddin' la contabilità.

Carica un pacco di lenzuola oggi, mostra alla cliente una fasciacuscini ricamata domani e tratta la vendita di un corredo intero dopodomani, fatto sta che 'Ndramalonga diventò mano a mano del mestiere e sopravanzò in bravura e capacità di frecare la clientela le altre due sore (pure loro più grande dell'unico màscuo della famìgghia), arrivando praticamente allo stesso livello di Cervddin'. Perciò, quando fu chiaro che il magazzino di via Argiro non poteva più bastare a sfuare il carico di abilità e d'importanza commerciale accumulato dai Malapezza, si decidette che solo lui o Cervddin' poteva scire a Lecce per aprire la succursale. Ma Cervddin', dopo tutto, era una povera fèmmena: mica la si poteva mandare a sola a sola dentro a un paise straniero, dove i Malapezza non conoscevano nisciuno, se non una decina di commercianti al minuto. E poi – come si dice – leccesi falzi e cortesi. Seri e cerimoniosi quando si pigliano la robba, ma zompafossi e scostumati quando hanno da mettere la mano al portafoglio per pagarla. Con loro hai sempre da tenere la sckena aperta, rispondendo con cerimonia a cerimonia, con malacreanza a malacreanza. E un òmmeno è sempre un òmmeno, e viene comunque più rispettato di una povera fèmmena.

'Ndramalonga, a vederlo di sfusciuta o, al contrario, a fissarlo bbuono bbuono dentro agli occhi, te ne avvertivi subito che sotto sotto era un 'uagnongiddo, che teneva ancora addosso la cacazza, la pavura di farsela sotto. Ma la confidenza necessaria fra grossista e merciaiuoli – né spiccia né al contrario compenetrata, insomma una confidenza giusto a metà strata fra la prima e la seconda – lui la reggeva adeguatamente. Quando si ha da capare una stoffa, si sa, il venditore sta quasi sempre di spalle o di tre quarti rispetto al cliente, per indicargli questo o quel prodotto nuovo o per seguirne le indicazioni sopr'agli stigli. Poi, quando è il momento di srotolare la stoffa sopr'al bancone, il venditore sta quasi sempre con la capa abbisciata, come se volesse convincere il cliente di essere lui stesso abbabbiato, quasi affatturato dalla qualità del lino o del cotone che si fa scivare fra i dìsciti. Perciò, gli occhi dei due in definitiva si fissano raramente fra loro, e quando è il momento di salutarsi e di lanciarsi finalmente una bella occhiata come tra compari, oramà l'affare è achiuso. Così, pure un giovanotto vergognuso vergognuso come 'Ndramalonga, con tutte le pavure e le timidezze tipiche dell'età e di quell'altezza e magrezza, teneva la possibilità di fare l'opera sua come commerciante.

Allora, dato che ogni semana tanti merciaiuoli, per accattare la robba da loro, venivano da Lecce, da Matera o dalla Calabria, scendevano alla stazione, facevano cinquanta passi e si affacciavano al magazzino... dato che la robba ordinaria che ci serviva per i clienti loro, quei merciaiuoli se la facevano portare con il carrùccio dai lavoranti del magazzino sino alla stazione, anzi sino al binario, di più: alla salita del treno, quando non direttamente dentro allo scompartimento... dato che, apprima di ripartirsene per i paisi loro, facevano però uno zompo in via Sparano, alle spalle di via Argiro, per accattare dentro a quei negozi la robba bona per loro stessi e per le mogghiere e i figghi loro... dato che due erano perciò le maniere per ingrandire l'attività di un grossista di via Argiro: appunto un negozio di robba bona in via Sparano, per sfruttare quei merciaiuoli pure per le esigenze personali oltre che per quelle dei clienti loro, oppure una succursale per agguantare i merciaiuoli direttamente dentro al paise loro, apprima che, arrivando alla capitale del commercio, potessero trasire dentro a qualche altro magazzino di via Melo o di via Argiro stessa... dato che non era possibile accattare per il momento un sottano alla strata in via Sparano, non perché ci mancassero i tornesi ai Malapezza ma perché non ci stava un solo proprietario di sottani in via Sparano che vendesse o affittasse senza sparare sopr'al prezzo... dato che in particolare da Lecce si potevano servire almeno una centinaia di paisi e paisotti del Tacco d'Italia... dati e considerati tutti questi ragionamenti, la famìgghia stabilette che tuccuava a 'Ndramalonga scire ad aprire un negozio a Lecce, anzi dentro al centro del centro di Lecce, proprio sotto alla colonna di Sant'Oronzo.

Faceva, dunque, diciotto anni giusti giusti 'Ndramalonga il dì che s'inaugurò, con quattro paste secche e una bottiglia di vèrmut, la prima succursale Malapezza in terra straniera.

E teneva diciotto anni e sei mesi il dì che si vedette arrivare senza preavviso dentro al negozio Cervddin', che per la prima volta aveva pigliato un treno e per la primissima volta metteva piede a Lecce. La saracinesca della succursale fu abbasciata con malagrazia quella sera stessa, per non essere più rialzata, almeno non da un Malapezza.

'Ndramalonga si era forse rivelato scarso come commerciante autonomo e indipendente? Aveva forse pigliato il vizio delle carte, facendosi frecare tutti gli incassi ai tavoli da gioco del Circolo Cittadino, per cui bisognava mo bloccarlo apprima che s'impegnasse e si mangiasse tutta la ricchezza di famìgghia? Quello sfallimento poteva forse essere attribuito a una maledizione proveniente direttamente dall'alto della colonna di Sant'Oronzo, magari infuriato contro alle pretese coloniali – addirittura sopr'alla piazza sua stessa – di un emissario della potenza commerciale fondata sopr'alle ossa di San Nicola? No, niente di tutto questo. Più semplicemente, la spiegazione di quella chiusura improvvisa, dopo appena sei mesi di apertura, va rintracciata dove vanno rintracciate — più spesso di quanto non si creda, non si sappia e non si ammetta – le spiegazioni di sfallimenti e di guerre, così come di successi e di pacificazioni: il conno o, chiamatelo come volete, ciunn' o vulva o vagina o fessa o natura o piccione o fica o chiacone (fico secco) o verm' - cocch' (albicocca) o scarcioffa (carciofo) o sgarrassa o spaccazza o frisola (padella) o fris' o fr'sedd' (frisella) o pizza o panzerotto o popizza (frittella di polenta di granturco a forma circolare) o pisciacca o picciacca o perchiazza o perchione o pèrchia o paprasciann' (barbagianni) o chichì o cozza o pelosa... Insomma, 'Ndramalonga aveva perduto la capa per una fèmmena.

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Pagina 83

Martredd'
(1957)



«Allora, ti sei divertita a Roma, a quel funerale?»

Niudd' fa lo spiritoso con nonna Momen'. Sa che può farlo perché lei stravede per lui ed è la prima, quando non ci stanno attorno altr'iùmmeni o fèmmene grandi, a babbuare e a fare battute.

Difatti gli risponde, con una bella risa: «Dimmi, dimmi, mamma e papà ti hanno ditto che solo 'na vecchia matta accome a me poteva scìrsene a Roma per 'nu funerale, tenendo calata la saracinesca della mercerì per 'na semana sana sana? Non è vero?»

Pure Momenucc', che è là con loro, se la ride. Stanno asseduti tutti e tre, sopr'a tre scannetti vicino all'entrata del negozio. È controra e di clienti da servire non se ne vedono proprio.

«Che c'entrano mamma e papà!» cerca di sminuire la cosa Niudd' arrossendo, dato che tiene ancora dieci anni, fa la quinta elementare alla scola dei salesiani al Redentore, forse si vuole fare prèvito da grande e non dice le buscì perché è peccato. «È che tutti quanti sono rimasti con tanto di occhi a vedere per la prima volta, nella storia del quartiere, la merceria chiusa...»

«Per prima cosa, 'sta mercerì è stata chiuduta 'n'altra volta, tanti, tanti anni fa, apprima che tu nascessi. Ma questa è 'na storia che vi conterò 'n'altra volta» lo interrompe la mammagrande. «Per seconda cosa, io sàccio bbuono che màmmeta e attàneto c'entrano, eccome se c'entrano, con la buscì che avite contato a tutti quanti, dicendo che io stavo a Roma per 'na gita. Si vergognavano a fare sapere ch'ero a Roma per il funerale di Di Vittorio.»

«Credevano tutti che la merceria era chiusa perché tu stavi malata grave» si difende Niudd', «e io dovevo spiegare a tutti che invece tu stavi in buona salute e che te n'eri andata in gita a Roma. Così papà e mamma mi avevano incaricato di dire, è vero. E io sono stato costretto a dire una bugia dietro l'altra, confessandomi ogni pomeriggio.»

S'intromette Momenucc': «Pure io dicevo a tutti che tu te n'eri andata in pellegrinaggio a Roma.»

«Eh certo, loro si vergognano a fare sapere che tènono 'na parente comunista.»

«Ma tu mica sei comunista, tu credi a Gesù!» afferma con forza Niudd', spezzando immediatamente un filo di sospetto che improvvisamente gli è venuto a proposito della cristianità della mammagrande.

«Gesù non c'entra» Momen' della Mercerì tranquillizza il nipote del core suo, «è che ai poveri cristi hanno fatto credere che la politica è 'na brutta parola 'mmocca a loro. E la parola chiù politica ch'esiste qual è? Co-mu-ni-sta! Perciò li hanno improsati con la storia dei comunisti-nemici-di-Gesù-Cristo. E loro, fessi fessi, che ci credono...»

«Ogni tanto tu tiri fuori questa parola: la politica. Ma esattamente che cosa è, secondo te, la politica? Non è il mestiere che fanno il sindaco di Bari e il presidente della Repubblica?» vuole sapere Niudd'.

«La politica non è solo quello che fanno loro, il sindaco, il presidente, il capo del governo e i compari loro. La politica assignìfica che tutti i cristiani, soprattutto quelli chiù disgraziati, hanno da interessarsi pure alla sorte degli altri e al governo dell'Italia, invece di pensare solo ai fatti propri.»

«Qua, in via Modugno e in via Mirenghi» obietta la Momenucc', «lo sai che dicono tutti? Dicono: abbasta che stamo bbuono noi...»

«Eh sì, che ce ne freca a noi della politica, abbasta che frecamo!» si lassa sfuscire d'istinto la mammagrande, volendosi riferire solo al significato di "mangiare" del verbo frecare, ma ricordandosi subito che esso ne ha un secondo ("ingannare") e purtroppo pure un terzo più volgare ("copulare") che non sta proprio bbuono 'mmocca a una mammagrande, specie quando parla a due nipoti piccinunni. Momen' della Mercerì si ripiglia prestamente e tranquilla spiega: «Quelli che dicono "abbasta che stamo bbuono noi!" so' solo dei poveri ignoranti ed egoisti. Avite da sapere che ci stonno iùmmeni che hanno pensato e pensano pure agli altri, pure a noi, e non solo a mangiare e a stare bbuono loro e la famìgghia loro. Se non ci fossero st'iùmmeni generosi, se non ci fossero stati, mo ci stavano veramente ancora i patruni e gli schiavi.»

«E Di Vittorio, quello del funerale, era uno di questi uomini, no?» la preme a contare il fatto Niudd'.

«Era il chiù grande di 'sti grand'iùmmeni. E mo non ci sta chiù. È murto il tre novembre, dentro a 'nu paise che si nomina Lecco, addove era arrivato per tenere 'nu comizio. Lui stava sempre in movimento, non si fermava mai. E dopo 'na vita di strapazzi, il core non lo ha accompagnato chiù. Avevate da vederlo chi era Peppino Di Vittorio. Se 'sti sposseduti del quartiere nostro l'avessero acconosciuto, non starebbero dalla matina alla sera a dirsi tra loro: abbasta che stamo bbuono noi, abbasta che stamo bbuono noi! Senza pensare che, se tutti se ne strafrècano degli altri e del destino del mondo, tutte le cose restano accosì accome stonno e gli unici a stare veramente bbuono so' sempre e solo loro, i capezzuni e i ricchi. Di Vittorio s'interessava di tutti e di tutto, e ci voleva bene a tutti quanti.»

«Vuoi forse dire che questo Di Vittorio era una specie di Gesù Cristo che voleva bene a tutta l'umanità?» la sfida il meninno.

«Di chiù, di chiù!» è la risposta secca e sicura di Momen'.

«Oh, meno male che non tí sta a sentire il parroco del Redentore» la sfotte Momenucc', «sennò ti mandava dritta dritta all'inferno.»

«... Per noi Di Vittorio era di chiù. Gesù sta in cielo, ma qua, a badare a noi ci stava lui. Lui è stato veramente il redentore per miliuni di cristiani. E pure per la famìgghia mia, per tutti gli altri accome a noi, nasciuti e cresciuti dentro alla miseria, in campagna, a Corato, a San Severo, addove si moriva di fame, addove a quelli che non volevano abbasciare la capa ci facevano 'nu bel paliatone.»

«E chi è che vi dava mazzate?» domanda interessato Niudd'.

«A me no, ero 'na 'uagnedda. Eppoi il nonno tuo, Antonio Malapezza soprannominato 'Ndramalonga, mi portò giovane giovane qua, a fare la signora. Ma a papà mio e ai compagni suoi, sì che ce ne dèttero di mazzate.»

«Ma chi ce le dava?»

«I patruni, i fascisti, la polizì...»

«Forse la politica è una cosa difficile, è cosa loro, della gente importante, non è per la povera gente...»

Momen' della Mercerì lo fissa dentro agli occhi e gli spiega: «M'accome te l'ho da dire? La politica non è la PO-LI-TI-CA, non è 'na cosa difficile, 'na cosa sdrèusa, misteriosa, che l'hanno da trattare solo loro, i signuri, i patruni, gli onorevoli e niusciun altro. La politica è la vita, è la dignità, è l'orgoglio di ogn'e uno di noi, di tutti noi. È il pane che tutti, pure gl'ignoranti e i pezzinti, hanno il diritto di mangiare. È la possibilità di fare scire 'nnanzi i figghi nostri, di farli studiare, di farli diventare pure loro professuri e signuri. Tutti avimo il diritto alla dignità. Questo ci ha insegnato Peppino Di Vittorio. Ma oramà noi grandi, dentro a 'stu quartiere, ce ne simo scordati tutti. Pure io. Tutti imbriachi di scordanza. Ogn'e uno pensa a se stesso e alla famìgghia propria e se ne freca degli altri. Manco le bestie fanno accosì!»

«Che c'entrano mo le bestie? Noi dobbiamo pensare a stare bene...» azzarda Momenucc'. «Come si dice? Chi vole la vita che se la campa...»

«... Sì, magari facendo i contrabbandieri e le malefèmmene, accome avimo fatto tutti quanti noi, qua.»

«Pure tu hai fatto la malafèmmena? Non ci credo» quasi grida Niudd'.

«Certo che io non l'ho fatta la malafèmmena, non ti sckantare!» lo rassicura la mammagrande. «Ma dopo la guerra, avimo fatto tutti quanti mille mestieri per assopravvìvere. Non immaginate nemmeno il contrabbando che ci stava...»

«Ma oramai è acqua passata...»

«Sì, proprio passata! Purtroppo quell'acqua non ammanca mai. Se non ci sta la guerra, ci stonno le prepotenze, ci sta lo sfruttamento, e la povera gente è obbligata ad arrangiarsi. Accosì si crede, sbagliando, di potersi difendere pensando solo a se stessi, a frecare e a frecarsi tra noi, accome manco le bestie...»

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Pagina 241

Saverin'
(2000)



Il piede premuto sopr'all'acceleratore, l'occhio fisso alla strata, Niudd' sta guidando una Errequattro rossa. Va a Bari. Ma non per un viaggio o una gita o per una questione di fatica o di famìgghia. Si sta proprio a trasferire a Bari, da dove era emigrato il 1975. Si sta a lassare definitivamente dreto alla sckena Roma, la politica, il giornalismo e venticinque anni di vita. Anzi, non solo quelli. Diciamo pure che per la vita, per la vita sua, Niudd' non tiene più nisciun interesse.

È un viaggio di ritorno, insomma, quello che sta facendo Niudd'. Uguale e contrario a quello di andata. Allora, un viaggio dall'antichità alla modernità, dalla semplicità alla complessità, un viaggio di evoluzione e progresso. Mo, un viaggio all'ammerso, d'involuzione e regressione.

Ha venduto la grande casa dove ultimamente abitava, con la sola compagnì della cagna Lupit', dentro a un borgo della Sabina romana. Ha venduto, regalato e abbrusciato la montagna di cose e le tonnellate di carta stampata accumulate per quarant'anni, quarant'anni di speranze, d'illusioni, di passioni, di successi e di sconfitte. Ha caricato sopr'alla Errequattro il minimo indispensabile, ma proprio una valigetta, non di più, facendo salire Lupit' sopr'al sedile di dreto. E l'ha mettuta in moto. Con la determinazione di non assirne se non esclusivamente per fare benzina e per parcheggiare a Bari, dentro al quartiere Libertà, in via Mirenghi, esattamente davanti al portone della casa rimanuta senza vita e inutilizzata dopo la morte di mamma Porziell' e di papà Giacint'.

È là che, mo, se ne vuole stare, a solo a solo, senza parlare o incontrare più nisciuno.

È disperato, ma lucido. Sa che due ossessioni si sono impatronite di lui. L'ossessione di una doppia assenza. L'assenza della fìgghia, nel senso pratico pratico che lei non ci sta con lui: è da sei-sette mesi che non la vede e non la sente, e lui non se ne spiega (o non se ne ricorda) la rascione. E l'assenza dell'Italia, nel senso tecnico di "perdita della coscienza e della memoria", della coscienza e della memoria di sé. Ma mentre su questa assenza, che pure lo ha tormentato per una ventina di anni, ci ha mettuto una pietra sopra, o almeno così gli pare, quell'altra ossessione è una ferita aperta. Una lacerazione dolorosa, che nulla e nisciuno può rimarginare, salvo la riapparizione di Saverin'.

E lui, difatti, un'unica cosa desidera, a una sola cosa pensa, a una e basta: rivedere la fìgghia.

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Pagina 253

Fu allora che achiudette proprio con tutti e con tutto. Sì, d'allora, diciamo dall'estate passata, suppergiù da un annetto, Niudd' non solo non ha più tuccuato fèmmena, ma, per la prima volta dentro alla vita sua, non ci pensa proprio.

Mo ha deciduto di achiùdere baracca e burattini e di tornarsene alla città sua di origine, là dove "tutto è cominciato e tutto è giusto che finisca". Almeno per quello che riguarda lui personalmente. Una possibilità, una sola, che tutto possa finire e insieme ricomenzare Niudd', sotto sotto, la intravvede: Saverin'...

Ma mo come mo, Niudd' si sente proprio rassegnato. Rassegnato e "straniero in patria". Una rassegnazione e uno straniamento ben radicati dentro alla capa e al core suo. Da quindici? Da venti anni? Certo, non da molto tempo dopo l'assassinio di Moro e l'inizio della "restaurazione" degli anni Ottanta. Ancora alla fine degli anni Settanta, Niudd' era culo-e-cammisa con tanti altri 'uagnuni e 'uagnedde che volevano cangiare il mondo, che credevano di starlo a fare, che amoreggiavano e si scazzavano, trascorrevano bellissime serate in trattorì, facevano splendidi seminari sopr'alla rivoluzione prossima ventura. E intanto ci stava chi preparava in concreto la restaurazione. Non avevano sgamato nulla, erano giovani, credevano che tutto ci fosse dovuto, come se a nisciuno potesse venire in mente di fermare la "rivoluzione", di difendersi dalla "rivoluzione".

La verità, più o meno questo ha da sostenere Niudd' con Saverin', è che stavano ballando sopr'al Titanic. Stavano già affondando e non se ne rendevano conto. A mo' d'esempio: era già il 1979, Moro era stato acciduto da un anno, "i nuovi equilibri politici e sociali già in avanzata formazione" e uno come lui pensava ancora di potersi disinvoltamente dimettere da un grande giornale romano, dove si esibiva come brillante cronista di politica interna — posto sicuro e tante soddisfazioni — per scire a fare la rivoluzione culturale dentro al profondo Sud, creando nientemeno che un quotidiano "moderno, democratico e popolare". L'avventura sua durò un poco chiuassà di quella di Pisacane, ma finette esattamente quando si materializzò quello che tenevano in capa i nemici della "solidarietà nazionale" di Moro e Berlinguer: il ritorno organico dei socialisti al governo in funzione anti-comunista, due anni dopo l'assassinio dell'òmmeno che aveva voluto e imposto alla Dc la politica di apertura ai comunisti. Solo allora, tornando a Roma, Niudd' avette chiaro, sino in fondo, quello che era succeduto. E soprattutto scoprette che, per quelli che ci credevano seriamente alla democrazì, al progresso della povera gente e al diritto alla dignità di ognuno di noi, scarparo o intellettuale, non ci stava praticamente più posto da nisciuna banda: tutto asservuto, lottizzato, blindato, inferocito.

Ad oltre venti anni di distanza — si diceva Niudd' sino ad appena sei-sette mesi fa, quando gli sfusceva ancora, ogni tanto, uno schizzo d'interesse o di attenzione per quello che lo circondava, che lo accerchiava, che lo metteva in angoscia — si può veramente dire che niente più d'allora è stato uguale a prima. E chissà se sarà possibile a questo Paese, un dì, ripigliare a crescere, a caminare con la sckena dritta. Niudd' oramà ci ha mettuto una croce sopra...

Ma a Saverin' ce la vuole contare, per filo e per segno, la storia di questo Paese. E la storia sua personale. Un poco, lo ammette, perché possa comunque rimanere una qualche testimonianza del passaggio suo sopr'a questa terra: e a chi consegnarla se non a una fìgghia? Un poco per documentare Saverin' sopr'alla esperienza – certamente irripetibile – di una generazione d'italiani che si sono fatti un primo passaggio epocale, attraverso il Sessantotto, da un Paese innocente e autoritario, a un Paese moderno, smanioso, "in fase di liberazione individuale e collettiva", e poi un secondo passaggio epocale, quello tra il 1978 e il 1980, a una società in profonda crisi morale, sociale e politica. Un poco, pure, per rivendicare con la fìgghia i valori e gli scopi di certe scelte sue, giustificandosi per i tanti errori compiuti dentro alla propria inquieta esistenza e per questo finale sprofondamento dentro alla mancanza totale d'inquietudine.

Ma non è nemmeno sicuro che si possa definire così l'attuale stato suo mentale...

Niudd' si ricorda e non si ricorda che, una volta, dava agli altri — non solo a quella bella 'uagneddozza innocente che scappò di casa per venire a campare con lui — l'idea di essere un combattente, uno positivo, addirittura un vincente. E un combattente lo era proprio. Lo era stato. Eccome se aveva combattuto.

Ma cosa fare, come fare se l'Italia è quella che è?

E poi, le mazzate che ricevi dentro alla vita, mo Niudd' ha d'ammetterlo, làssano il segno, ti càngiano.

Per una vita aveva teorizzato e praticato l'idea che uno, se vuole, se lo vuole veramente, può spostare le montagne. E invece...

Piglia Aldo Moro, un altro che, sì, voleva spostare le montagne. Non a caso il motto suo era: dominare con l'intelligenza gli avvenimenti. Per non esserne dominati. Moro, un uomo travolgiuto, annientato, eliminato dagli avvenimenti... Ma con lui, in effetti, stiamo dentro alla dimensione storica. Come iòmmeno, come generazione, Moro può essere certamente considerato un perdente. Ma chi non è un perdente, un morente, alla fine 'nu muert', un morto? Quello che fai, però, lassa un segno. La storia – avrebbe sostenuto con forza Niudd' ancora qualche anno fa e comunque lo sosteneva con Saverin', e lei e le 'uagnedde e i 'uagnuni come lei sono l'unica speranza che teneva e forse tiene ancora il Paese nostro – è l'accumulo di questi segni lassati da "individui collettivi". Perciò, forse, Niudd' si era identificato in Moro: primato dell'intelligenza, determinazione di ferro e guanto di velluto. E convinzione di poter reggere a qualsiasi interlocutore, se si rispettano le regole del gioco. Perciò, forse, lo ha così colputo l'"irregolare" e "imprevedibile" eliminazione fisica sua. Fuori da ogni regola.

Del resto l'unica maniera di vivere, di dare un senso al nulla che è l'esistenza – appena la vede, Niudd' cercherà di ripeterlo a Saverin', d'incoraggiarla a proseguire sopr'a questa strata, lei che può, lei che sa, lei che ne tiene l'età, dato che per lui personalmente, per la vita sua questa filosofì non tiene più nisciun significato – può nascere solo dall'intreccio fra il pessimismo dell'intelligenza, dell'analisi, del pensiero e l'ottimismo della volontà, dell'azione, del fare...

Poi, col tempo... Niudd' non sa se questo ce lo ha da dire a Saverin', forse non è giusto dircelo alla 'uagnedda, anzi decide senz'altro che non ce lo ha proprio manco d'accennare... Col tempo ti avverti che sono tutte cazzate. Che l'ottimismo della volontà e il fare, qualunque cosa tu faccia, da sacerdote laico o da pezzo di merda, da specialista o da generalista, da sublime architetto o da fèmmena di casa, valgono quello che valgono: solo a dare un senso al nulla che è l'esistenza. E che le montagne, in definitiva, rimangono sempre al posto loro. E che dentro alla vita ti capita pure di pagare, magari duramente, a mo' d'esempio la sfortuna. Sì, la sfortuna, un sovrapprezzo, l'imprevedibile, l'immeritato, anzi l'immeritabile...

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Lo stesso "ciclone", da un certo momento in poi, non lo ha interessato più nemmeno come spettatore. Il ciclone? Ma manco un venticiddo, una bavetta di vita sociale. Se ne voleva stare per i fatti suoi, con tutte le carte e le cose sue, per le quali del resto dentro a quella casa di Trastevere oramà non ci stava più spazio, tanto è vero che aveva dovuto pigliare un'altra casa in affitto, a Prati, per sistemarvi le cose, le collezioni di giornali, le carte e i libri "di meno immediata utilità". Ma per lui le cose esistevano se le teneva sotto agli occhi. Le cose, e non solo le cose, riusciva a viverle se le teneva tutte insieme, dentro allo stesso posto, a portata di mano, altrimenti se le scordava proprio. E invece mezza vita sua stava in via dell'Arco di San Calisto e l'altra metà a Prati. Pure per questo fatto vendette la casa di Trastevere — facendo il guadagno più grosso della vita sua, incamerando una cifra suppergiù sette volte quella che gli era costata dieci anni apprima — e si accattò la grande casa dentro al paisotto della Sabina romana. E là se ne stava tutta la scirnata, a solo a solo, non si ricorda nemmeno più a fare che. Là tenevano comunque un posto comodo le carte, i giornali, i libri e tutte le altre cianfrusaglie che aveva accumulato per quarant'anni.

Per quarant'anni — quante volte Saverin' lo ha sfottuto per questo! — non aveva gettato niente, fosse pure una vecchia bolletta pagata, i blocchetti degli assegni emettuti, un appunto oramà incomprensibile, un ritaglio di giornale ingialluto, un accendino di plastica scarico, un sigaro sfatto, una pipa a pezzi, un costume stretto, un mobile scasciato, un giocattolo sfrantumato, una cravatta imbrattata, un bigliettino da visita sbiaduto, un tappo per le rècchie rinseccuto, un documento o una medicina scaduta, un mazzo di chiavi che chissà quali porte avevano aperto, un portacenere spaccato, una posata arruzzinuta, un pallone sbottato, una vilanza inservibile, una pezza da terra sfilacciata e inutilizzabile... Nulla, non gettava nulla. Non sa perché, ma sin da 'uagnone aveva sempre d'astipare tutto, da collezionare, da sistemare dentro ai tiretti, da rilegare, da raccogliere, d'ammucchiare dentro a vecchie valigie, da riempire librerì e scaffalature, d'accatastare dentro agli stanzini...

Forse Niudd' reagiva così ad un "forte senso di precarietà della vita", come lui stesso sotto sotto pensava? O forse faceva così accumulando cose e cosaredde che non toccava magari per anni e anni, ma che comunque là stavano e là rimanevano a disposizione sua — proprio perché attraversava la vita di corsa, mai soffermandosi sopr'al presente, pronto a gettarsi di volta in volta tutto dreto alla sckena? E quella corsa, che un motivo, una rascione, una causa evidentemente non poteva non averla, per quanto selvatica e incomprensibile, aveva da essere mettuta in relazione al passato che lo poteva risucchiare, al presente che non lo soddisfaceva mai o al futuro tutto da costruire e forse inconstruibile? Chi lo sa.

Ci fu, una volta, chi per questa manì accumulatrice di Niudd' facette l'ipotesi di una «precoce esperienza d'insostenibile angoscia» del resto niente affatto contrastante con la teorì sua personale del «forte senso di precarietà della vita». E non fu un dilettante qualsiasi, ma una illustre docente di «psicologia dinamica» che firmava, sopr'a un noto settimanale femminile, la rubrica Psiche lei. Succedette che Cecca aveva scrivuto, «così, tra il serio e il faceto», a quell'apprezzata specialista chiedendole perché «il mio compagno accumula ritagli e quotidiani, settimanali, mensili, dossier e riviste specializzate da ritagliare. Non butta via nulla. Questa massa cartacea occupa oramai ogni angolo della casa e io sono disperata. Il paradosso è che, quando vuole rileggere un articolo, non riesce a trovarlo in questi cumuli disordinati. Il suo tentativo è di tenere tutto sotto controllo, come fa anche con me. Ma è una pretesa assurda».

La risposta della psicologa dinamica mirava innanzitutto a individuare le radici, la fonte primaria di quella manì: «Quando, per qualche ragione, il mondo intero sembra venir meno, il bambino può decidere di tenere stretto in pugno, per sempre, ciò che rappresenta un antidoto alla catastrofe esistenziale incombente. Di fronte alla perdita di tutto, delimitare l'ambito degli oggetti indispensabili, da conservare a tutti i costi, costituisce una forma di autodifesa dall'ansia fluttuante, la più terribile». E difatti se ci sta una cosa che Niudd' credeva di sapere di se stesso era appunto di soffrire di quella che lui stesso chiamava "sindrome della catastrofe": prepararsi sempre al peggio, in definitiva aspettarsi sempre il peggio e, spesse volte, non evitare, anzi forse consentire, incoraggiare, sino a determinare il peggio. Ma un "peggio" specifico: definitivo, catastrofico.

La psicologa spiegò che «il collezionista esercita sulle cose che ama una proiezione di sé che le trasforma in simboli dell'Io e del Mio. Ciò che sta a cuore a chi accumula è soprattutto il potere, un potere arcaico che esige la presa, il contatto diretto, sensibile con le cose. Non importa poi che risultino inutilizzabili dal momento che la proprietà le rende potenzialmente disponibili, virtualmente fruibili». L'accumulo, poi, «prevarica ogni altra esigenza» e «il fatto che la sua volontà di controllo e di possesso sia di lunga durata, ed estesa alla famiglia, rivela cause remote». Appunto, una precoce esperienza d'insostenibile angoscia.

Niudd' condividette l'analisi, quando Cecca gliela facette leggere sopr'al giornale, rivelandogli solo allora di essere ricorruta a quella psicologa. Questa difatti sosteneva che «quando l'attenzione si fissa eccessivamente su cose alle quali attribuiamo un valore assoluto – il denaro per l'avaro, le opere d'arte per il collezionista, i libri per lo studioso [e quindi pure i giornali per un giornalista, notò Niudd'] – emerge un sintomo ossessivo, una formazione di compromesso tra il male e la cura». Una cura «insufficiente» ma pure un rituale che svolge «una funzione vitale perché esorcizza una minaccia incontrollabile». Conclusione: «Meglio tollerare un muro di carta che affrontare il dilagare del nulla che nasconde». Una conclusione che Niudd', annichiluto facc'in fronte alla sola idea del nulla – proprio lui che, appunto, aveva sempre teorizzato che ogni azione o attività dell'uomo è "dare un senso al nulla che è l'esistenza" – trovò perlomeno sbrigativa e non all'altezza dell'analisi.

Comunque l'accumulo era comenzato proprio con la carta stampata. All'epoca Niudd' teneva una quindicina di anni. Era stato capace di ammassare giornali e ritagli di giornale dal pavimento al cielo di uno stanzino, che aveva convinciuto mamma sua a riservargli sopr'alla terrazza della casa di via Mirenghi. Ad un certo punto non riusciva manco più a trasire dentro a quello stanzino. Un lunedì ci salette, per scaricarvi i quotidiani ammontonati durante la semana e aprette la porta, pronto a spingere a causa della massa di carta che da tempo premeva dall'interno. Ma quella volta la porta non facette nisciuna resistenza: la stanza era vacante, era stata totalmente svacata. Mamma Porziell' aveva fatto gettare tutto. Dopo un momento di smarrimento e di nervatura, ma proprio un momento, Niudd' si sorprendette a sentirsi liberato, sollevato, leggero.

Poi aveva ricomenzato ad accumulare e ad astipare, e non si era più fermato per quarant'anni. Alle carte, alle riviste, alle collezioni di giornali, alle cartelle di ritagli di giornale, ai giornali da ritagliare e poi alle stampate da internet, col tempo si erano assommati a migliara i libri. Saggi di storia, politica, sociologì e psicanalisi, e tanti romanzi, migliara di romanzi. E vocabolari, decine di vocabolari e dizionari, enciclopedì e atlanti, e centinara di annuarii, manuali e guide, glossarii e prontuarii. E dischi di tutti i tipi, le forme e le razze, dai settantotto giri, ai quarantacinque, ai trentatré, alle cassette, ai cd, alle collezioni di film in videocassetta. E cose e mobilia pure di antiquariato. Grammofoni, còmmode, orologi da muro, servizi di piatti, penne stilografiche, vecchie macchine per scrivere, piccoli automi, friscketti di terracotta, santini di cartapesta. E stampe d'epoca, manifesti politici, vasi e cocci antichi, monete e soldi di tutte le nazioni. Centinara di cravatte, pipe a decine, bastoni da passeggio...

Del resto aveva venduto Trastevere e accattato la grande casa in campagna pure per dare spazio a quella massa di carte e di cose. Apprima i ricoveri, quindi il garage, poi la cantina, a seguire i ripostigli e naturalmente le librerì, lo studio, la stanza per mangiare, i comò, i corridoi, le scale, gli stanzini, il belvedere, la stirerì. Ma non ci stavano problemi, là. Lo spazio a disposizione non l'avrebbe colmato nemmeno accumulando per due vite sane sane.

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Saverin'
(2002)



Le sole due cose di carta che Niudd' non ha abbrusciato, dicendo baibai per sempre a Roma, e non solo a Roma – i quattro album di fotografì di Saverin' e le cinque agende – se le tiene mo sopr'al tavolo della camera da pranzo. Pronte per essere sfogliate.

Non vede l'ora di sfogliarsele con la fìgghia, appena arriva.

Tutte le altre fotografì della vita sua, che pure aveva accumulato e incollato coscienziosamente per anni e anni sopr'agli album, arrivando a riempirne trentacinque, le aveva abbrusciate apprima del viaggio di ritorno a Bari: da quella ingialluta di Momen' la Uecchineri e Antonio Malapezza detto 'Ndramalonga all'inaugurazione della mercerì di via Modugno, a quelle grigie di Porziell' e Giacint' da fidanzati sotto alle luminarie della festa di San Nicola, a quelle del matrimonio loro con il compare e la commara d'anello e la damigella, a quelle sue da piccininno con il cavalluccio di cartapesta, a quelle scattate a Niudd' e a Iagatedd' durante le gite con gli amici a Locorotondo e a Monte Sant'Angelo, a quelle del matrimonio loro dentro a una massarì della campagna di Conversano, a quelle del viaggio di nozze in Spagna, a quelle scattate durante le vacanze con Cristina e Cecca (in Sardegna, in Abruzzo, in Puglia...) e i viaggi con le altre fèmmene che sono state con lui (a Stoccolma, a Parigi, in Scozia, a Praga...), a quelle dei restauri dentro alla grande casa di campagna, a quelle scattate dentro al giardino pensile...

Da tutti gli album, due anni fa, aveva staccato e salvato solo le fotografì di Saverin', gettando tutte le altre in mezzo alle fiamme, comprese quelle di quattro album che, liberati da facce e situazioni che mo voleva lassarsi definitivamente dreto alla sckena, utilizzò per sistemare in ordine cronologico solo le immagini della esistenza della fìgghia: da quelle della panza di Iagatedd' all'ottavo mese di gravidanza e del primo giorno di vita di Saverin' (Iagatedd' ancora provata, dentro al letto della clinica, la tiene amorevolmente in braccio e lui, con la cammisa e la cravatta, se la mira abbambolato e incuriosito) all'ultima, quella scattata qualche dì apprima che Saverin' lo salutasse per rientrare a Bologna, con lei che a quasi ventitré anni gli mette la mano sopr'alla spalla.

Niuudd' non vede l'ora di sfogliarsi con Saverín le cinque agende targate 1976, 1977, 1978, 1979 e 1980. Di quelle che, per farsi pubblicità, una volta regalavano le banche e le assicurazioni: per ogni scirnata, una pagina sana sana, così ce ne potevi scrivere di cose – non solo gli appuntamenti – se ne tenevi la voglia o ne sentivi la necessità. Un periodo, queste cinque annate, da maledire e da benedire allo stesso tempo. Cinque anni che lo hanno segnato per tutta la vita. E non solo lui, per la verità, ma tutti i cristiani che hanno passato la vita in Italia d'allora a mo. Solo che per lui ci sta da specificare una particolarità. Sono stati, sì, gli ultimi anni della esistenza civile sua, apprima che comenzasse a perdere il gusto delle battaglie e delle relazioni sociali, diciamo pure il gusto della vita, mano a mano che la politica pigliava la brutta piega che ha pigliato, con tutte le conseguenze relative per quelli che, come lui, ci credevano sul serio al "processo anti-autoritario" degli anni Sessanta e Settanta o che comunque non hanno voluto riciclarsi o saputo adattarsi. Ma sono stati pure i primi anni suoi con la responsabilità di una fìgghia: responsabilità che onestamente a quei tempi non sapeva manco dove stesse di casa.

Sono stati gli anni dello spartiacque, in brutto e in bello, per tutti. L'interruzione di una storia e l'inizio di tutta un'altra storia. Una linea di demarcazione netta tra l'evoluzione e il regresso, tra lo sfoco sociale e l'imposizione istituzionale, tra la ricerca di libertà e la "chiusura degli spazi", tra il movimento e la paralisi, tra l'apprima e il dopo.

Da una banda – apprima – un'Italia inquieta e confusa ma proiettata verso "equilibri sociali e politici più avanzati", un'Italia in fase di "progressiva liberazione", dentro alla quale pure Niudd' si liberava e cresceva. Cresceva in consapevolezza di se stesso e degli spazi che in effetti gli si aprivano 'nnanzi: dal dialetto all'italiano, dal parlato allo scritto, dalla poesì al giornalismo, dalla lettura dei romanzi ai saggi, dallo stato di sbandato senz'arte né parte al "contratto nazionale di lavoro", dal Sud emarginato e vittimista alla Roma potente e prepotente, dal quartiere Libertà a Trastevere, dai cafurchi senza bagno alle case storiche restaurate, dalla volgarità al gusto delle cose belle, dall'individualismo all'"individualità collettiva", dal clientelismo alla "lotta". Niudd' in effetti si sentiva una specie di metafora del Paese e della evoluzione sua. Risoluta e velleitaria, tormentata e liberatoria, lenta ed esagerata, purificatrice e inquinante, ricostruttiva e devastante, forse insieme troppo materialista e troppo idealista, assennata e disperata, romantica e feroce. Tutto e il contrario di tutto insomma, ma e-vo-lu-zio-ne.

Dall'altra banda – dopo – l'Italia della restaurazione, del "ritorno impossibile a prima del Sessantotto", della politica che tornava ad essere solo ed esclusivamente robba da intrallazzisti e carrieristi. L'Italia del degrado, dell'involuzione. Della modernizzazione senza sviluppo. Della modernizzazione senza nemmeno la modernità.

A sfogliarle mo quelle agende, sgranando il rosario dei fatti di cronaca e di politica che da "bravo cronista" Niudd' fissava sopr'a quelle pagine, dando un'occhiata pure agli appunti che lui e qualche volta Iagatedd' vi scrivevano a proposito di Saverin', ma pure a proposito di loro due e delle discussioni che allora facevano sopr'alla "liberazione sessuale" sostenuta in particolare dal màscuo della coppia (chissà perché sempre più pronto e più interessato della fèmmena, dentro alle coppie di quella generazione, a darsi a quella bella novità), e cercando di decifrare gli appunti apprima volanti e clandestini che Niudd' riversò sopr'a quelle agende solo dopo la separazione da Iagatedd', insomma a leggerli mo tutti insieme quegli appunti, dicono chiaramente contro a checcosa la storia italiana e Niudd' per primo stavano per scire a sbattere.

Allora né Niudd' né milioni di cristiani come lui, pure quelli più informati e smaliziati, riuscèttero a sgamare qualcheccosa. Certo, sapevano di stare a combattere una battaglia che si poteva pure perdere, ma tenevano la convinzione che poi la guerra sarebbe comunque continuata, che avrebbero potuto recuperare. Le regole quelle erano, quelle parevano ancora. Anzi, venivano date per scontate. Nisciuna battaglia perduta, nisciuna delusione, nisciuna cazzata avrebbe fatto perdere a tutti loro, a quei 'uagnuni e a quelle 'uagnedde, la certezza che, comunque, il progresso fosse inarrestabile, che la ricerca della giustizia sociale e della felicità individuale potesse continuare, avesse da continuare afforza. E questo, proprio questo – Niudd' vuole spiegare a Saverin' – fu lo sbaglio nostro. E che sbaglio!

Quegli appunti praticamente giornalieri rivelano, per la verità, che lui qualche intuizione a proposito del pericolo di un cangiamento totale di regole e di epoca l'avette, pur continuando a compiacersi della propria "liberazione individuale" come se semplicemente gli fosse dovuta e a partecipare alla "liberazione collettiva" come se fosse ineluttabile. In pratica, come se l'una e l'altra fossero conseguenze inesorabili di tutte le trasformazioni eccezionali che effettivamente ci erano state, a comenzare da dieci anni apprima, a proposito dei rapporti tra iùmmeni e iùmmeni, tra iùmmeni e fèmmene, dentro alle famìgghie, sopr'ai posti di lavoro, dentro alla scola, e all'interno delle istituzioni e della politica. Qualche annotazione e sottolineatura, dentro a quelle agende, fa capire insomma che, se Niudd' o qualche compagno o compagna sua si fossero soffermati ad analizzare quello che succedeva proprio sotto agli occhi loro, fra lotte e tentativi di repressione, fra dichiarazioni di progresso e avvertimenti d'involuzione, fra scontri di piazza e trame di Palazzo, fra ammazzamenti e scandali politico-finanziari, sarebbero riuscititi a capire checcosa stava per succedere. Ma non lo facèttero.

Così l'Italia di Niudd' fu troncata violentemente fra il 1978 e il 1980, senza che lui nemmeno se ne avvertisse.

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