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| << | < | > | >> |IndicePremessa. L'idea di un mondo senza guerre in cinque momenti di svolta della storia contemporanea 13 1. Kant, la rivoluzione francese e la «pace perpetua» 19 1.1. Ideale della pace e confini della res publica christiana 19 1.2. La genesi della «pace perpetua» 24 1.3. La pace perpetua dalla conservazione alla rivoluzione 28 1.4. Prima della rivoluzione francese: i meriti della guerra secondo Kant 31 1.5. Kant e la Germania quali campioni della «pace perpetua» 34 1.6. Kant contra Saint-Pierre (e il principio di intervento) 38 1.7. «Pace perpetua» o «monarchia universale»? 42 1.8. Sul banco degli imputati: Antico regime o capitalismo e colonialismo? 45 1.9. L'idea kantiana di pace perpetua ieri e oggi 48 2. Fichte, la pace e l'esportazione della rivoluzione 51 2.1. Fichte filosofo per eccellenza della «pace perpetua» 51 2.2. La monarchia assoluta quale radice della guerra 53 2.3. La pace perpetua da utopia a programma politico 55 2.4. Esportazione della rivoluzione e sradicamento della guerra 59 2.5. «Repubblica universale» e pace perpetua: Cloots e Fichte 65 2.6. Esportazione della rivoluzione, girondini e giacobini 69 2.7. Universalismo esaltato ed espansionismo 72 2.8. L'ombra del 18 Brumaio sul paese della pace perpetua 74 2.9. «Confini naturali», coesistenza pacifica e pace perpetua 78 2.10.Il capitalismo-colonialismo quale causa di guerra 81 3. Pax napoleonica e guerre di liberazione nazionale 87 3.1. Pace perpetua o pax napoleonica? 87 3.2. Dalla Grande nazione alla «repubblica cristiana dei popoli» 90 3.3. Pace per i popoli civili, guerra ai barbari! 94 3.4. La guerra dalle colonie alla metropoli 98 3.5. Ripensare la pace perpetua alla luce di Machiavelli 101 3.6. Machiavelli maestro del sospetto nelle relazioni internazionali 106 3.7. La svolta di Fichte: abbandono o maturazione dell'universalismo? 108 3.8. Chi sono gli sciovinisti e i fautori della guerra? 113 3.9. Fichte e le rivoluzioni anticoloniali del Novecento 117 3.10.Fichte e la Germania dalla «pace perpetua» alla «guerra di popolo» 122 3.11.La perpetua da programma politico a utopia? 127 3.12.Pace perpetua e guerra di popolo da Fichte al Novecento 132 4. La pace perpetua dalla rivoluzione alla Santa alleanza 137 4.1. Novalis e la Santa alleanza 137 4.2. «Spirito borghese» e guerra nell'analisi di Hegel 140 4.3. Regime rappresentativo e «bollori» bellici 143 4.4. Come l'universalismo esaltato si rovescia nel suo contrario 146 4.5. Critica della «pace perpetua» e delle guerre della Santa alleanza 148 4.6. La pace perpetua dallo spirito oggettivo allo spirito assoluto 151 5. Commercio, industria e pace? 155 5.1. Washington, il commercio e le «bestie selvagge» 155 5.2. Constant e l'«epoca del commercio» e della pace 157 5.3. Sviluppo della società industriale e declino dello «spirito militare» 161 5.4. Trionfo delle «comunità pacifiche» e scomparsa delle razze «guerriere» 163 5.5. Sogno della pace perpetua e incubo dell'«imperialismo»:Comte e Spencer 166 5.6. Massacri coloniali e «Stati Uniti del mondo civilizzato» 170 5.7. L'Impero britannico garante della «pace universale»: Mill e Rhodes 174 5.8. Angell e il canto del cigno della pax britannica 177 5.9. Presagi del Novecento 181 6. Come mettere fine alla guerra: Lenin e Wilson 185 6.1. Heine, la Borsa e le «voglie imperialiste» 185 6.2. Marx e la «guerra industriale di annientamento tra le nazioni» 186 6.3. «Il capitalismo porta in sé la guerra come la nube la tempesta» 191 6.4. Salvemini per la guerra che «uccida la guerra» 194 6.5. «Realizzare la fratellanza e l'emancipazione dei popoli» 197 7. 1789 e 1917: due rivoluzioni a confronto 203 7.1. L'anticolonialismo quale critica e autocritica 203 7.2. L'antidoto alla guerra: democrazia rappresentativa o diretta? 206 7.3. Difesa ed esportazione della rivoluzione: Cloots e Trotskij 209 7.4. Tradizione comunista e critica del «napoleonismo» 214 7.5. La mancata definitiva resa dei conti con il «napoleonismo» 219 7.6. Il campo della pace perpetua lacerato dalla guerra 222 8. Wilson e il passaggio dalla pax britannica alla pax americana 229 8.1. Il garante della pace: dall'Impero britannico a quello americano 229 8.2. La prima breve stagione della «pace definitiva» 232 8.3. Una lotta prolungata tra i partiti di Lenin e di Wilson 236 8.4. Trionfo del partito di Wilson e «nuovo ordine mondiale» 238 8.5. «Ordinamento cosmopolitico» e «pace perpetua e universale» 241 9. Lo «sceriffo internazionale» e la pace 249 9.1. «Non dobbiamo aver paura di condurre guerre per la pace» 249 9.2. L'«internazionalismo liberale» quale «nuovo internazionalismo» 253 9.3. La «rivoluzione neoconservatrice» sulle orme di Trotskij e di Cloots? 256 9.4. «Rivoluzione neoconservatrice» o controrivoluzione neocoloniale? 260 9.5. Dalla «pace definitiva» di Wilson al dileggio della «pace perpetua» di Kant 264 10. Democrazia universale e «pace definitiva»? 269 10.1. Il "teorema di Wilson" e le guerre delle democrazie 269 10.2. Il "teorema di Wilson" e le guerre tra le democrazie 274 10.3. L'antagonismo rimosso tra "le due più antiche democrazie" 277 10.4. Dittatura e guerra: un'inversione di causa ed effetto 281 10.5. Hamilton e Tocqueville critici ante litteram del teorema di Wilson 285 10.6. Le responsabilità della guerra dal colonialismo alle sue vittime 288 11. Una nuova grande guerra in nome della democrazia? 291 11.1. «Sceriffo internazionale» e nuove forme di guerra 291 11.2. Pericoli di guerra su larga scala e teorema di Wilson 296 11.3. Teorema di Wilson e «trappola di Tucidide» 298 11.4. La guerra quale «continuazione della politica con altri mezzi» 301 11.5. L'Impero, i vassalli e i barbari 304 11.6. La Cina, l'anticolonialismo e lo spettro del comunismo 307 11.7. Una «guerra irregolare» già in corso? 312 11.8. Presagi del XXI secolo? 315 12. Come lottare oggi per un mondo senza guerre 319 12.1. Alla ricerca della mitica "Casa della pace" 319 12.2. L'Occidente quale Casa della limitazione della guerra? 322 12.3. La guerra senza limiti dalle colonie alla metropoli 324 12.4. La guerra dalla "natura" alla storia 327 12.5. Come prevenire la guerra: potere imperiale o limitazione del potere? 329 12.6. Chi ci proteggerà dalla «responsabilità di proteggere»? 333 12.7. Con quali trasformazioni promuovere la pace? 335 12.8. Lo Stato, la guerra e le utopie del Novecento 340 12.9. L'ideale della pace perpetua alla scuola del realismo politico 343 Conclusione. «Pace perpetua» e tormentata marcia dell'universalità 349 Bibliografia 357 Indice dei nomi 375 |
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L'idea di un mondo senza guerre in cinque momenti di svolta della storia contemporanea
Tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta la realizzazione dell'ideale di un mondo senza guerre sembrava a portata di mano: la Guerra fredda si era conclusa con la dissoluzione dell'Unione Sovietica e del «campo socialista» e con il trionfo dell'Occidente e del suo paese guida. Erano ancora pensabili conflitti gravi e dirompenti sul piano internazionale? Caratterizzata com'è, nei suoi momenti più significativi e decisivi, da contraddizioni acute, da lacerazioni, rivoluzioni, guerre e conflagrazioni, «la storia mondiale» – aveva osservato a suo tempo Hegel (1969-79, vol. 12, p. 41) – «non è il terreno della felicità». Sennonché, la vittoria indiscussa dei princìpi liberali e democratici, che l'Occidente incarnava, sembrava aver posto fine a tutto ciò: il 1989 era vissuto come l'alba di un mondo nuovo all'insegna della pace e finalmente in grado di godere una serenità e una felicità non più turbate dalle paure e dalle angosce del passato. Aveva ancora senso parlare di storia mondiale? In quello stesso anno la «fine della storia» era annunciata da un filosofo statunitense, Francis Fukuyama , tanto più autorevole per il fatto di essere al tempo stesso un funzionario del Dipartimento di Stato. È vero, una piccola nube si profilava all'orizzonte: fervevano i preparativi diplomatici e militari per un risolutore intervento armato in Medio Oriente; ma non di guerra si doveva parlare. Occorreva ristabilire la legalità internazionale, mettendo fine all'invasione del Kuwait perpetrata dall'Irak di Saddam Hussein. Si trattava in realtà di un'operazione di polizia internazionale, sancita dal Consiglio di sicurezza dell'ONU. Era ormai all'opera il «nuovo ordine mondiale» e nessuno poteva sottrarsi alla legge e al governo della legge, che dovevano essere fatti rispettare in ogni angolo del mondo, senza riguardi per nessuno. Cominciava a prender forma una sorta di Stato mondiale, anzi (nelle parole di Fukuyama) uno «Stato universale omogeneo», chiamato a far valere la sua autorità senza prestare soverchia attenzione alle frontiere statali e nazionali. Già questo era il segno che stava dileguando il flagello della guerra, la quale è per definizione un conflitto armato tra Stati sovrani, cioè tra entità che, almeno dal punto di vista dell'ideologia dominante, nel 1989 e negli anni immediatamente successivi apparivano incamminate sulla via del tramonto. Un illustre sociologo italiano spiegava qual era il destino che la parte più avanzata dell'umanità, «nel Nord del pianeta», stava riservando alla guerra: «Stiamo espellendola dalla nostra cultura come abbiamo fatto con i sacrifici umani, i processi alle streghe, i cannibali» ( Alberoni , 1990). Alla luce di tutto ciò, la spedizione contro l'Irak di Saddam Hussein, più ancora che un'operazione di polizia internazionale, era l'espressione di una pedagogia della pace certo energica ma comunque benefica per coloro stessi che dovevano subirla. A distanza di poco più di due decenni, dopo una serie di guerre, centinaia di migliaia di morti, milioni di feriti e milioni di profughi, il Medio Oriente è un cumulo di rovine e un focolaio di nuove conflagrazioni. E si tratta solo di uno dei focolai; altri forse ancora più pericolosi si manifestano in altre parti del mondo, in Europa orientale e in Asia. Si infittiscono gli articoli, i saggi, i libri che evocano lo spettro di una guerra su larga scala, anzi di una nuova guerra mondiale, che potrebbe persino varcare la soglia nucleare. Come spiegare questo passaggio in tempi rapidi dal sogno della pace perpetua all'incubo di un olocausto nucleare? Prima ancora di tentare di rispondere a tale domanda, conviene porsi un problema preliminare: è la prima volta che l'umanità sogna la pace perpetua e sperimenta un brusco e doloroso risveglio, oppure questo ideale e il successivo amaro disincanto hanno una storia prolungata che può essere interessante e utile indagare? Sia chiaro: più che di analizzare una per una le prese di posizione di singoli autori, affascinati dalla prospettiva di un mondo non più afflitto dal flagello della guerra e del pericolo di guerra, si tratta qui di indagare i momenti storici in cui tale ideale ha ispirato, assieme a personalità illustri, settori considerevoli dell'opinione pubblica e talvolta masse di uomini e donne, ed è divenuto comunque una forza politica reale. Abbiamo a che fare fondamentalmente con cinque momenti di svolta della storia contemporanea. Il primo si apre nel 1789 con le promesse e le speranze della rivoluzione francese (in base alle quali il rovesciamento dell'Antico regime avrebbe posto fine non solo alle tradizionali guerre dinastiche e di gabinetto ma al flagello della guerra in quanto tale) e termina con le incessanti guerre di conquista dell'era napoleonica. Il secondo momento di svolta è di importanza minore: per un breve periodo di tempo, la Santa alleanza s'impadronisce o tenta d'impadronirsi della bandiera della pace perpetua, al fine di giustificare e legittimare gli interventi militari, le guerre da essa intraprese contro i paesi inclini a lasciarsi contagiare dalla rivoluzione pur sconfitta e quindi colpevoli di mettere in crisi la Restaurazione e l'ordine consacrato dal Congresso di Vienna dopo la sconfitta di Napoleone. Il terzo momento di svolta vede lo sviluppo del commercio mondiale e della società industriale moderna andare di pari passo con l'illusione in base alla quale la nuova realtà economica e sociale avrebbe comportato il dileguare dello spirito di conquista mediante la guerra: è un'illusione che chiude gli occhi sui massacri connessi all'espansionismo coloniale in quei decenni più che mai in corso e alla quale pone fine la carneficina della Prima guerra mondiale. Il quarto momento di svolta, inaugurato dalla rivoluzione russa nell'ottobre 1917 scoppiata sull'onda della lotta contro la guerra, individua nel capitalismo-colonialismo-imperialismo il sistema da abbattere, al fine di spianare la strada alla realizzazione della pace perpetua, e si conclude con i conflitti sanguinosi e con le vere e proprie guerre che lacerano lo stesso «campo socialista». Infine il quinto momento di svolta: dopo aver conosciuto una lunga ed eterogenea fermentazione e preparazione ideologica, esso inizia propriamente con l'intervento degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale, deciso dal presidente Woodrow Wilson in nome della «pace definitiva» (da realizzare con la sconfitta del dispotismo rimproverato in particolare alla Germania di Guglielmo II), e conosce il suo culmine con il trionfo conseguito dall'Occidente e dal suo paese guida nella Guerra fredda e con l'avvento della «rivoluzione neoconservatrice». A partire da questo momento, la diffusione planetaria delle istituzioni liberali e democratiche e del libero mercato viene individuata e additata come la leva per far trionfare definitivamente la causa della pace; è una pretesa, tuttavia, che perde credibilità con il susseguirsi di un'«operazione di polizia internazionale» e di una «guerra umanitaria» all'altra, e con l'acutizzarsi di conflitti e tensioni che riportano all'ordine del giorno il pericolo di guerre non meno sanguinose di quelle divampate nel Novecento. Si tratta di cinque momenti di svolta che in un modo o nell'altro hanno al loro centro cinque paesi determinati, rispettivamente la Francia rivoluzionaria, che fa seguito al rovesciamento dell'Antico regime; l'Austria, ovvero l'Impero asburgico, che guida politicamente la Santa alleanza (alla cui ideologia fornisce un importante contributo la cultura tedesca nel suo complesso); la Gran Bretagna, protagonista della rivoluzione industriale e dell'edificazione di un grande impero; la Russia sovietica, che ispira un movimento rivoluzionario di portata planetaria; gli Stati Uniti della rivoluzione (o controrivoluzione) neoconservatrice che, dopo il trionfo conseguito nella Guerra fredda, per qualche tempo sperano di stabilire nel mondo un'imperiale pax americana. Sono questi cinque momenti di svolta, che non sempre si susseguono linearmente l'uno all'altro ma che talvolta si affrontano e si scontrano nel corso di un medesimo periodo storico, che occorre innanzitutto ricostruire in modo da tracciare un bilancio utile al fine di comprendere le illusioni e le delusioni del passato e di analizzare e fronteggiare i crescenti pericoli di guerra del presente. Abbiamo a che fare con cinque momenti di svolta che regolarmente si aprono con speranze e promesse esaltate ed esaltanti e regolarmente si concludono con cinque catastrofici fallimenti? Sarebbe una conclusione precipitosa e unilaterale ed essa avrebbe il torto di rendere omogenei processi politici e sociali tra loro ben diversi e di appiattirli tutti sorvolando sulla loro complessità e sulle loro contraddizioni. Un bilancio equilibrato può essere tracciato solo alla fine dell'esposizione. Due risultati della ricerca, tuttavia, possono già essere anticipati. Chi dovesse rappresentarsi l'ideale di un mondo senza guerre come un sogno sereno e felice, non turbato dai conflitti politici e sociali del mondo circostante, farebbe bene a ricredersi immediatamente: la storia grande e terribile dell'età contemporanea è anche la storia dello scontro tra diversi e contrapposti progetti e ideali di pace perpetua. Ben lungi dall'essere sinonimo di armonia e concordia, essi sono per lo più emersi da grandi crisi storiche e a loro volta hanno spesso provocato aspre battaglie ideologiche, politiche e sociali e alimentato conflitti acuti e persino devastanti. C'è un secondo risultato, forse più inquietante. La linea che separa sostenitori e critici dell'ideale di un mondo senza guerre non coincide in alcun modo con la linea che separa pacifisti e guerrafondai ovvero "anime belle" da un lato e "cinici praticanti della Realpolitik" dall'altro: può ben accadere che i primi siano più guerrafondai e cinici dei secondi. Detto diversamente, la parola d'ordine della pace perpetua o permanente o definitiva non è di per sé sinonimo di nobili ideali; non poche volte ad agitarla sono state forze impegnate a praticare o a legittimare una politica all'insegna del dominio, dell'oppressione e persino della violenza genocida. Come la guerra di cui parla Karl von Clausewitz (1978, p. 38), anche la pace o la pace perpetua o permanente o definitiva è la «continuazione della politica con altri mezzi», e forse persino la continuazione della guerra con altri mezzi. Siamo ricondotti alle battaglie ideologiche e politiche e ai conflitti anche sanguinosi che scandiscono la storia dell'ideale di un mondo senza guerre e che il mio libro si propone di ricostruire nella loro genesi e nel loro sviluppo e di analizzare sul piano politico e filosofico. E tale ricostruzione e tale analisi mi sembrano tanto più urgenti quanto più minacciose si addensano all'orizzonte le nubi di nuove tempeste belliche. | << | < | > | >> |Pagina 2499
Lo «sceriffo internazionale» e la pace
9.1. «Non dobbiamo aver paura di condurre guerre per la pace»
Quattro anni dopo la campagna di bombardamenti aerei contro la Jugoslavia, nel 2003, la Seconda guerra del Golfo è scatenata da Stati Uniti e Gran Bretagna non solo senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma anche con la netta opposizione di paesi membri a pieno titolo dell'Occidente e della NATO, quali la Germania e la Francia. Anche a voler far per assurdo coincidere la kantiana «libera federazione» dei popoli e la «Lega della pace» non più con l'ONU bensì con la NATO (e cioè solo con l'Occidente e la sua strapotente alleanza militare), i conti egualmente non tornano. Non si può più parlare di "guerra di Kant". Realmente il Nuovo ordine mondiale va nella direzione indicata dall'autore del saggio Per la pace perpetua? Si tratta di una domanda che gli osservatori più attenti avrebbero potuto porsi già in occasione della Prima guerra del Golfo. Poco più di un anno prima, nel dicembre 1989, il presidente statunitense George H. W. Bush invadeva Panama calpestando tranquillamente la legalità internazionale e atteggiandosi a sovrano dell'emisfero occidentale; in Medio Oriente Israele (con la complicità dell'Occidente) continuava a disattendere le risoluzioni dell'ONU chiamate a risolvere la questione palestinese o ad attenuare la tragedia di un popolo da decenni sotto occupazione militare. Ma tutto ciò non sembrava molto rilevante a quanti erano convinti che si stesse aprendo un nuovo, luminoso, capitolo di storia. È vero, sempre nel discorso del 29 gennaio 1991, assieme a quello del Nuovo ordine mondiale, George H. W. Bush agitava un motivo diverso e contrapposto: annunciava l'avvento anche del «prossimo secolo americano», proclamava che agli Stati Uniti, il paese che sempre aveva difeso la causa della «libertà e democrazia» (erano rimossi i capitoli più imbarazzanti della storia statunitense), competeva una «responsabilità unica» nella guida del mondo. Sì, «la leadership americana» era «indispensabile», anche perché rispecchiava l'incontestabile superiorità morale e politica di un popolo rispetto a tutti gli altri: «Noi siamo una nazione dal realismo solido come la roccia e dal lucido idealismo. Noi siamo americani. Siamo la nazione che crede nel futuro. Siamo la nazione che può plasmare il futuro. Per l'appunto questo noi abbiamo iniziato a fare». Era un linguaggio dai toni imperiali: era per questo da criticare? Già nel 1991 si erano levate voci che avevano interpretato il Nuovo ordine mondiale in modo alquanto radicale e cioè senza prestare alcuna attenzione alle forme e alle regole: Saddam Hussein era un dittatore; perché limitarsi a cancellare la violazione del diritto internazionale di cui si era reso responsabile piuttosto che rovesciarlo? Peraltro, egli non era l'unico dittatore: perché risparmiare gli altri? Ad argomentare in tal modo era anche il filosofo che pure dichiarava di ispirarsi a Kant: «Non dobbiamo aver paura di condurre guerre per la pace». I «nemici mortali» da liquidare o mettere in condizione di non nuocere non erano solo il paese di Saddam e gli «Stati terroristi», c'era anche «la Cina comunista, per noi impenetrabile». Non ci si doveva fermare a mezza strada nella realizzazione della «pax civilitatis» a livello mondiale, nell'innalzamento della «pax americana» a «pax civilitatis» ( Popper , 1992b; 1992c). L'ampiezza del programma qui enunciato e l'assenza di qualsiasi riferimento all'ONU (del cui Consiglio di sicurezza il grande paese asiatico faceva e fa parte) erano sintomatici: in Occidente si stava affacciando la tentazione dell'esportazione della rivoluzione "democratica" in ogni angolo del mondo, agendo in modo sovrano e senza esitare a far ricorso alle armi. È a questo punto che si afferma negli Stati Uniti una nuova piattaforma teorica e politica, quella della «rivoluzione neoconservatrice». Non si tratta di una svolta rispetto al Nuovo ordine mondiale teorizzato da George H. W. Bush: il discorso imperiale ora diventa esplicito e privo di remore. Per quanto riguarda la politica internazionale, la raccomandazione formulata da Popper («non dobbiamo aver paura di condurre guerre per la pace»), in modo da realizzare una «pax americana» che sia sinonimo al tempo stesso di «pax civilitatis», può ben servire a sintetizzare il programma della rivoluzione neoconservatrice: con o senza il suggello dell'ONU, occorre mettere fine prima o dopo ai regimi considerati antidemocratici e perciò stesso perturbatori dell'ordine pubblico internazionale; solo in tal modo si potrà liberare l'umanità dal disordine e dalla violenza vigenti nei rapporti internazionali. | << | < | > | >> |Pagina 2609.4. «Rivoluzione neoconservatrice» o controrivoluzione neocoloniale?I neoconservatori non si stancano di presentarsi come la forza rivoluzionaria indomita e indomabile che esprime l'anima profonda del paese rivoluzionario per eccellenza, quello che già dalla sua fondazione è impegnato a promuovere e far trionfare «la rivoluzione liberale mondiale», senza lasciarsi impressionare o ostacolare dai confini statali e nazionali. Dati questi presupposti, ben si comprende la risposta fornita a quanti esprimono critiche o riserve nei confronti del programma di guerre (preventive e all'occorrenza senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza): «La dottrina Bush [Jr.], così com'è, ha semplicemente rispolverato e riportato alla luce la tradizione dell'America liberale e rivoluzionaria». Se nel passato si è scontrata con «conservatori europei come Metternich», oggi l'America che, come sappiamo, «è sempre stata una forza rivoluzionaria», oltre che con i despoti e «le forze conservatrici del mondo islamico», deve fare i conti anche con «gli europei» i quali, «stanchi dei cambiamenti radicali nel proprio continente, cercano stabilità e prevedibilità nel mondo futuro» (Kagan, 2004, pp. 39-41). Il linguaggio enfaticamente rivoluzionario non è solo espressione di civetteria: un programma così radicale che, in nome della democrazia e della pace, teorizza e pratica la liquidazione del diritto internazionale vigente, ha bisogno in effetti di una legittimazione "rivoluzionaria". E, tuttavia, conviene interrogarsi sulla fondatezza di tale legittimazione. Nell'esporre il loro ambizioso programma, i neoconservatori amano prendere le mosse dal processo sfociato nella fondazione degli Stati Uniti. Sennonché, nel grande quadro che viene tracciato e che abbraccia quasi due secoli e mezzo di storia mondiale, un'assenza balza gli occhi: non c'è posto per la rivoluzione anticolonialista. Così, si celebra la nascita della Repubblica nordamericana, si esprime disgusto per gli «orrori» della rivoluzione francese e, a maggior ragione, della rivoluzione d'ottobre, si parla delle due guerre mondiali e della Guerra fredda, in contrapposizione a esse si sottolinea che il trionfo della causa della pace va di pari passo con il trionfo della «rivoluzione liberale mondiale» promossa dallo «sceriffo internazionale» risiedente a Washington, ma nulla, assolutamente nulla si dice dell'epico rivolgimento che ha comportato la fine degli imperi coloniali classici e la crisi profonda dello stesso dominio neocoloniale. A ben guardare, più che di un silenzio, si tratta di una negazione e di una negazione che, pur silenziosa, è ferma e determinata. In primo luogo viene data per scontata la permanente validità della dottrina Monroe: «L'egemonia che l'America conquistò nell'emisfero occidentale nell'Ottocento non ha mai cessato di essere una caratteristica della sua politica internazionale» (Kagan, 2003, p. 96). Lo stesso sistema coloniale classico è al riparo da qualsiasi critica: Nel dopoguerra l'Europa, non più in grado di inviare oltremare forze sufficienti a conservare i suoi imperi coloniali in Asia, Africa e Medio Oriente, fu costretta a un massiccio ripiegamento dopo più di cinque secoli di dominio: fu, sul piano dell'influenza planetaria, l'arretramento forse più significativo di tutta la storia. Non erano ancora trascorsi dieci anni dall'inizio della guerra fredda che gli europei cedettero agli Stati Uniti sia i possedimenti coloniali sia le responsabilità strategiche in Asia e in Medio Oriente. A volte lo fecero spontaneamente, altre, come nel caso della crisi di Suez, sotto le pressioni americane (ivi, pp. 17-8). Gli Stati Uniti quali eredi dei «possedimenti coloniali» e, in ultima analisi, degli «imperi coloniali» europei in quanto tali? I neoconservatori non hanno difficoltà a riconoscerlo: al contrario, la cosa sembra essere un motivo di vanto. | << | < | > | >> |Pagina 26910
Democrazia universale e «pace definitiva»?
10.1. Il "teorema di Wilson" e le guerre delle democrazie
Sviluppi imprevisti (da un lato l'ascesa rapida dei paesi emergenti e in particolare della Cina, dall'altro le gravi difficoltà incontrate dagli Stati Uniti in Afghanistan, in Irak e nel Medio Oriente nel suo complesso) hanno mutato rapidamente e in modo drastico il quadro internazionale dal quale prendeva le mosse la rivoluzione neoconservatrice: l'aspirante «sceriffo internazionale» non è così incontrastato e irresistibile come appariva alla fine della Guerra fredda; non è in grado di detenere il monopolio della violenza, e tanto meno della violenza legittima. Lo Stato mondiale — che avrebbe avuto la sua capitale a Washington e che con le sue possenti operazioni di polizia internazionale avrebbe posto fine all'anarchia dei rapporti internazionali, realizzando in modo inedito l'obiettivo sognato o inseguito dai progetti di pace perpetua — appare ora come una fantasticheria priva di qualsiasi appiglio nella realtà. Non per questo ha perso di credito quello che potremmo definire il "teorema di Wilson", ereditato e radicalizzato dalla rivoluzione neoconservatrice, che a esso ha fatto riferimento al fine di legittimare o promuovere le guerre di esportazione della democrazia e della rivoluzione democratica. Anzi, nell'autunno del 2010 quel teorema ha conosciuto una sorta di consacrazione ufficiale e solenne nel discorso pronunciato dal presidente del Comitato Nobel (in occasione del conferimento del premio per la Pace a Liu Xiaobo) e trasmesso in diretta da tutte le più importanti reti televisive del mondo. Il concetto fondamentale era chiaro: le democrazie non si sono mai fatte guerra e non si fanno guerra tra di loro; e dunque per far trionfare una volta per sempre la causa della pace occorre diffondere la democrazia su scala planetaria. Voleva essere un discorso di pace, ma esso consacrava il solenne riconoscimento tributato a una personalità che in più occasioni aveva espresso la sua convinzione secondo la quale la disgrazia della Cina consisteva nella durata troppo breve del periodo di dominio coloniale (Sautman, Hairong, 2010). E, dunque, gli anni migliori del grande paese asiatico sarebbero stati quelli iniziati con le guerre dell'oppio. Il Comitato del premio Nobel per la Pace restava fedele alla sua tradizione: tra le guerre che esso condannava continuavano a non rientrare le guerre coloniali! A questo punto conviene analizzare più da vicino il teorema di Wilson. Ritorniamo alla Prima guerra del Golfo. Alla vigilia del suo scatenamento il sociologo italiano citato nella Premessa, a dimostrazione della tesi secondo cui nel «Nord del pianeta», vale a dire nell'Occidente liberaldemocratico, la guerra apparteneva ormai al passato, adduceva trionfalmente una prova da lui ritenuta incontrovertibile e decisiva: l'«Europa vive in pace da quasi cinquant'anni» (Alberoni, 1990). Ignorate erano le guerre coloniali che, dopo il 1945, diversi paesi europei avevano condotto in Indocina, in Egitto, in Algeria, in Angola o nelle isole Falkland. Per quanto riguarda il «Nord del pianeta», del tutto rimossa era la guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam, che aveva comportato l'invio di centinaia di migliaia di uomini e che, ancora mentre il sociologo italiano inneggiava al trionfo della pace, vedeva milioni di uomini e donne portare nel loro corpo le orribili conseguenze dei bombardamenti terroristici scatenati da Washington decenni prima. Il brillante sociologo avrebbe potuto trarre profitto dal lungo elenco che uno storico eminente fa delle «guerre esterne» in cui è stato impegnato un paese come la Francia. In questo contesto ci interessa solo il periodo che va dal 1945 allo scoppio della Prima guerra del Golfo: «1945 Guerra di Siria; 1946-54 Guerra di Indocina; 1947 Guerra del Madagascar; 1952-54 Guerra di Tunisia; 1953-56 Guerra del Marocco; 1954-62 Guerra d'Algeria; 1955-60 Guerra del Camerun; 1956 Guerra con l'Egitto; 1957-58 Guerra del Sahara Occidentale; 1962-92 Intervento nel Ciad» ( Tilly , 1993, p. 204). Se dovessimo occuparci di altri paesi democratici (la Gran Bretagna e gli Stati Uniti), l'elenco sarebbe pressoché interminabile! S'impone una prima conclusione: si può identificare la causa della democrazia con la causa della pace solo a condizione di fare astrazione dalle guerre coloniali, e cioè proprio dalle guerre che si distinguono per la loro particolare ferocia. Se facciamo intervenire anch'esse nel bilancio storico, ecco che giungiamo a un risultato sorprendente: a distinguersi in quanto belliciste sono per lo più le democrazie occidentali. A riconoscerlo sono autori non sospettabili di ostilità preconcetta nei loro riguardi. A metà dell'Ottocento il liberale inglese Richard Cobden esclamava: Noi siamo stati la comunità più aggressiva e combattiva che sia mai esistita dall'epoca dell'impero romano. Dopo la rivoluzione del 1688, abbiamo speso oltre millecinquecento milioni [di sterline] in guerre, nessuna delle quali è stata combattuta sulle nostre spiagge, o in difesa dei nostri focolari e delle nostre case [...]. Questa propensione battagliera è stata sempre riconosciuta, senza eccezione, da tutti coloro che hanno studiato il nostro carattere nazionale (cit. in Pick, 1994, p. 33). Pressappoco in quello stesso periodo di tempo, Tocqueville era costretto a constatare: dopo aver mosso guerra al Messico ed essersi impadronita di una parte considerevole del suo territorio nazionale, la democrazia americana da lui tanto ammirata e amata non cessava di dar prova di espansionismo. Rivolgendosi alla fine del 1852 a un interlocutore statunitense, e facendo riferimento ai tentativi di espansione al Sud, portati avanti anche attraverso avventurieri «privati» e con la mira rivolta a Cuba e all'America centrale, il liberale francese esprimeva la sua preoccupazione e il suo disappunto per il persistente «spirito di conquista e persino di rapina» di cui davano prova gli Stati Uniti (cfr. infra, PAR. 10.5). [...] A ben guardare, questa medesima dialettica ha presieduto alla fondazione e al successivo sviluppo della Repubblica nordamericana, spesso definita e celebrata come la più antica democrazia del mondo. L'ascesa al potere dei coloni ribelli e l'instaurazione di un'articolata e partecipata democrazia per la comunità bianca andava di pari passo non solo con il rafforzamento della schiavitù nera (un atto di guerra dal punto di vista di Rousseau), ma soprattutto con l'inasprimento della guerra vera e propria contro i nativi. Il governo di Londra era preso di mira proprio per aver cercato di contenere al di qua dei monti Appalachi la marcia espansionistica e cioè, in ultima analisi, la guerra coloniale di cui erano protagonisti i coloni. E si trattava di una guerra sostanzialmente priva di limiti e di regole, dato che i nemici, i «selvaggi» pellerossa, erano da George Washington assimilati, come sappiamo, a «bestie selvagge della foresta», con le quali non si poteva certo stipulare un trattato di pace degno di questo nome. Il nesso tra democrazia e guerra emerge da una pagina straordinaria di Adam Smith. Questi, mentre già si delineava la rivolta dei coloni inglesi in America destinata a sfociare nella fondazione degli Stati Uniti, osservava che la schiavitù poteva essere soppressa più facilmente sotto un «governo dispotico» che non sotto un «governo libero», con i suoi organismi rappresentativi esclusivamente riservati, però, ai proprietari bianchi. Disperata era in tal caso la condizione degli schiavi neri: «Ogni legge è fatta dai loro padroni, i quali non lasceranno mai passare una misura a loro pregiudizievole». E dunque: «La libertà dell'uomo libero è la causa della grande oppressione degli schiavi [...], e dato che essi costituiscono la parte più numerosa della popolazione, nessuna persona provvista di umanità desidererà la libertà in un paese in cui è stata stabilita questa istituzione» (Smith, 1982, pp. 452-3, 182). Smith non parla dei nativi, ma il ragionamento da lui sviluppato si applica anche e soprattutto a loro. Allorché la società civile è dominata dalla comunità bianca, un «governo libero», ovvero un governo democratico, è una vera iattura per le "razze" considerate inferiori e pertanto sottoposte a una guerra di schiavizzazione oppure di decimazione e annientamento. La democrazia e il suo ampliamento sono talvolta esplicitamente invocati o realizzati in funzione della guerra, e soprattutto della guerra coloniale. Nell'Italia del 1912 l'introduzione di un suffragio maschile quasi universale, con la liquidazione pressoché completa della discriminazione censitaria (per quanto riguarda la Camera bassa), era contemporanea all'invasione e alla conquista della Libia. Esponenti di primo piano delle élite dominanti del tempo (si pensi in particolare a Vittorio Emanuele Orlando) mettevano in evidenza compiaciuti la «coincidenza non certo fortuita di tali memorabili eventi [bellici] con la radicale riforma democratica dei nostri ordinamenti» (Losurdo, 1993, cap. 2, par. 5). La «radicale riforma democratica» era dunque chiamata a rendere più agevole e a legittimare una guerra che, nella denuncia di Lenin (1955-70, vol.18, pp. 322-3), comportava il massacro di «famiglie intere», compresi «bambini e donne». | << | < | > | >> |Pagina 29111
Una nuova grande guerra in nome della democrazia?
11.1. «Sceriffo internazionale» e nuove forme di guerra
Nonostante il trionfo conseguito dal partito di Wilson a conclusione della Guerra fredda e la successiva ascesa del Nuovo ordine mondiale, nel frattempo le guerre a ripetizione scatenate dallo «sceriffo internazionale» hanno bruciato molte illusioni. Distanziandoli nettamente dalla posizione assunta da Hardt e rompendo (di fatto e senza riconoscerlo) con la visione espressa in Impero , Negri (2006, p. 48) definisce «ingiusta e infame» la «guerra» scatenata contro la Jugoslavia. La «pace perpetua e universale» è ancora di là da venire! Anche Habermas sembra aver preso le distanze dalle illusioni nutrite nel 1999: i bombardamenti contro la Jugoslavia non preannunciavano l'«ordinamento cosmopolitico»! All'ordine del giorno sono invece le guerre cui non cessano di far ricorso l'aspirante «sceriffo internazionale» e i suoi alleati. Esse sono ancora più frequenti di quanto appaia a prima vista, dato che talvolta assumono forme nuove e non immediatamente evidenti. Al fine di chiarire questo punto prendo le mosse da due articoli apparsi qualche tempo fa su due autorevoli organi di stampa statunitensi. Nel giugno 1996, un intervento del direttore del Center for Economic and Social Rights, pubblicato sull'"International Herald Tribune", metteva in evidenza le terribili conseguenze della «punizione collettiva» inflitta mediante l'embargo al popolo irakeno: già «più di 500.000 bambini» erano «morti di fame e di malattie». Molti altri erano sul punto di subire la stessa sorte: nel complesso, a essere colpiti in modo devastante erano «i diritti umani di 21 milioni di iracheni» (Normand, 1996). A una considerazione di carattere più generale procedeva alcuni anni dopo una rivista vicina al Dipartimento di Stato qual è "Foreign Affairs": dopo il crollo del «socialismo reale», in un mondo unificato sotto l'egemonia statunitense, l'embargo costituiva l'arma di distruzione di massa per eccellenza; ufficialmente imposto per prevenire l'accesso di Saddam alle armi di distruzione di massa, l'embargo «ha provocato in Irak più morti che tutte le cosiddette armi di distruzione di massa nel corso della storia» messe assieme (Mueller, Mueller, 1999, p. 51). Si trattava di un embargo che prolungava la Prima guerra del Golfo (quella del 1991) e sfociava nella Seconda guerra del Golfo (con l'invasione dell'Irak nel 2003 messa in atto da Stati Uniti e Gran Bretagna). Ebbene, già sette anni prima della sua conclusione, l'embargo risultava assolutamente devastante: è come se il paese arabo avesse subito contemporaneamente il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, sli attacchi all'iprite scatenati dall'esercito di Guglielmo II e poi, nel corso delle guerre coloniali, prima da Churchill contro l'Irak e poi da Mussolini contro l'Etiopia. Non ci sono dubbi: almeno nelle sue forme più gravi, l'embargo è di fatto guerra. | << | < | > | >> |Pagina 294Prima di essere travolta dalla catastrofe che continua a infuriare mentre io scrivo, la Siria era considerata un'oasi di pace e di tolleranza religiosa in particolare dai profughi irakeni che vi approdavano in fuga dal loro paese, investito dagli scontri e dai massacri di carattere religioso e settario nei quali era sfociata l'invasione statunitense (Losurdo, 1014, cap. I, par. 6). Che cos'è avvenuto poi? È scoppiata una guerra civile per cause del tutto endogene? In realtà, prima ancora della Seconda guerra del Golfo, i neoconservatori chiamavano a colpire la Siria, che ai loro occhi aveva il torto di essere ostile a Israele e di appoggiare la resistenza palestinese (Lobe, Oliveri, 2003, pp. 37-9). Di questo progetto di vecchia data si sono subito ricordati gli analisti più attenti che si sono occupati dei più recenti sviluppi della situazione: già da un pezzo la Siria era stata inserita dai neoconservatori nel novero dei paesi «considerati un ostacolo alla "normalizzazione"» del Medio Oriente; «nell'ottica dei neoconservatori, se gli Stati Uniti fossero riusciti a provocare un cambio di regime a Baghdad, Damasco e Teheran, la regione, soggetta ormai all'egemonia congiunta degli Stati Uniti e di Israele, sarebbe stata finalmente "pacificata"» (Romano, 2015, p. 74). Peraltro, un anno prima che la «Primavera araba» raggiungesse la Siria – ammette o si lascia sfuggire il "New York Times" – «gli USA erano riusciti a penetrare nel Web e nel sistema telefonico» del paese (Friedman, 2014). Per far che? Iniziava l'armamento della cosiddetta «opposizione laica e moderata», il cui leader – a riconoscerlo era sempre l'autorevole quotidiano – non era più in Siria da «svariati decenni». A entrare in azione non erano solo gli oppositori rientrati dall'Occidente e da esso incoraggiati, finanziati e armati. Il regime di Bashar al-Assad – mi avvalgo sempre delle informazioni della stampa statunitense – era «colpito da cyber attacchi assai sofisticati» (Sanger, Schmitt, 2015). Ma tutto ciò ancora non bastava. E non bastavano neppure le minacce di ricorso alla forza militare provenienti da Washington: l'armamento dell'opposizione più o meno «moderata» diveniva esplicito e massiccio. In realtà, a essere appoggiati o assistiti non erano solo i «moderati». Come rivela "The Wall Street Journal", anche i «combattenti» dei gruppi islamisti più radicali e feroci, confluiti poi nell'Islamic State of Iraq and Syria (Isis), erano «regolarmente» curati «negli ospedali di Israele», che invece bombardava le installazioni militari della Siria (Trofimov, 2015). Certo, le cancellerie e i media occidentali continuano a parlare di «guerra civile», ma può essere definita «civile» una guerra che è stata programmata a migliaia di chilometri di distanza quasi un decennio prima del suo scoppio, che (per riconoscimento della più autorevole stampa occidentale) vede la partecipazione di decine di migliaia di combattenti stranieri, affluiti in Siria grazie al «confine poroso» della Turchia ("International New York Times", 2015) e, più in generale, grazie alla complicità di paesi circostanti, alleati dell'Occidente e impegnati a rifornire quei combattenti di armi e denaro? In realtà, nonostante le forme nuove da essa assunte, non è difficile individuare la guerra di aggressione, il cui carattere neocoloniale risulta confermato se non altro dal fatto che il calpestamento della sovranità nazionale del piccolo paese è stato proclamato e messo in atto in modo sovrano senza autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, semplicemente in base alla legge del più forte.La nuova forma di guerra ha trovato il consenso esplicito e compiaciuto di un illustre politologo e polemologo statunitense, che nell'estate 2013 descriveva senza orpelli il comportamento dei rivoltosi in Siria: Salafiti fanatici di stile talebano che picchiano e uccidono persino devoti sunniti per il fatto che non scimmiottano costumi a loro estranei; sunniti estremisti che sono impegnati ad assassinare innocenti alauiti e cristiani a causa solo della loro religione [...]. Se i ribelli vincono, i siriani non sunniti possono attendersi solo l'esclusione sociale e persino il massacro vero e proprio (Luttwak, 2013). Un'analisi così cruda era un appello a sventare il pericolo che evocava? Nulla di tutto ciò: A questo punto, uno stallo prolungato è il solo esito che non sarebbe dannoso per gli interessi americani [...]. C'è solo uno sbocco che può essere favorito dagli Stati Uniti: un pareggio a tempo indeterminato. Inchiodando l'esercito di Assad e i suoi alleati (Iran e Hezbollah) in una guerra contro i combattenti estremisti allineati con Al Qaeda, quattro nemici di Washington saranno impegnati in una guerra gli uni contro gli altri e saranno quindi nell'impossibilità di attaccare gli americani e gli alleati dell'America (ibid.). | << | < | > | >> |Pagina 31511.8. Presagi del XXI secolo?La «guerra irregolare» potrebbe non bastare. Ne sono ben consapevoli i dirigenti statunitensi i quali, come sappiamo, aspirano a garantire a sé stessi la possibilità di scatenare un attacco nucleare prevenendo e neutralizzando al tempo stesso la ritorsione del paese colpito. È questa aspirazione a spiegare la denuncia da parte del presidente Bush Jr., il 13 giugno 2002, del trattato stipulato trent'anni prima. Era «l'accordo forse più importante della Guerra fredda» (Romano, 1015, p. 24), quello in base al quale Stati Uniti e Unione Sovietica si impegnavano a limitare fortemente la costruzione di basi antimissilistiche, rinunciando così al perseguimento dell'obiettivo dell'invulnerabilità nucleare e quindi del dominio planetario che tale invulnerabilità dovrebbe garantire. Per qualche tempo Washington ha creduto che tale obiettivo fosse ormai a portata di mano. Nel 2006 un articolo pubblicato su "Foreign Affairs" (una rivista vicina al Dipartimento di Stato) annunciava: «Probabilmente, sarà presto possibile per gli USA distruggere gli arsenali nucleari a lungo raggio della Russia o della Cina con un primo colpo» e senza dover temere ritorsioni. Non era più credibile l'arsenale nucleare russo, che stava conoscendo un rapido deterioramento, e ancora meno credibile era quello cinese: «Le probabilità che Pechino acquisisca nel prossimo decennio un deterrente nucleare capace di sopravvivere sono esili [...]. Contro la Cina gli Stati Uniti hanno oggi una capacità di primo colpo [nucleare impunito] e saranno capaci di mantenerla per un decennio e anche più» (Lieber, Press, 2006, pp. 43, 49-50). Forse ai giorni nostri questa sicurezza baldanzosa comincia a declinare. Si spiega così l'aspetto più inquietante della corsa agli armamenti in atto: se gli Stati Uniti cercano di conseguire l'invulnerabilità nucleare, i paesi da essa potenzialmente minacciati sono impegnati a prevenirla o a renderla quanto mai difficile e problematica. È per questo che gli strateghi e gli analisti politici e militari hanno ripreso (o hanno ripreso con rinnovato e più acuto interesse) ad analizzare il possibile andamento di una guerra nucleare. Sul "National Interest" del 7 maggio 2015 si può leggere un articolo particolarmente interessante. L'autore, Tom Nichols, non è una personalità insignificante, è «Professor of National Security Affairs at the Naval War College». E il titolo è di per sé eloquente e quanto mai allarmante: In che modo America e Russia potrebbero provocare una guerra nucleare (How America and Russia Could Start a Nuclear War). È un concetto più volte ribadito dall'illustre docente: la guerra nucleare «non è impossibile»; piuttosto che rimuoverla, gli Stati Uniti farebbero bene a prepararsi a essa sul piano militare e politico. Ecco lo scenario immaginato: la Russia – che già con Eltsin nel 1999 in occasione della campagna di bombardamenti della NATO contro la Jugoslavia ha proferito terribili minacce e che con Putin meno che mai si rassegna alla disfatta subita nella Guerra fredda – finisce con il provocare una guerra che da convenzionale diventa nucleare e che conosce una progressiva scalata anche a questo livello. Il risultato è una catastrofe senza precedenti: negli Stati Uniti le vittime non si contano; la sorte dei sopravvissuti forse è ancora peggiore sicché, per accorciare le sofferenze, occorre somministrare loro la morte mediante eutanasia; il caos è totale e a far rispettare l'ordine pubblico può essere solo la «legge marziale». Ora vediamo quello che succede nel territorio del nemico sconfitto, e colpito non solo dagli Stati Uniti ma anche dall'Europa e in particolare da Francia e Gran Bretagna, esse stesse potenze nucleari:
In Russia, la situazione sarà ancora peggio [che negli Stati Uniti].
La piena disintegrazione
dell'Impero russo, iniziata nel 1905 e interrotta solo dall'aberrazione
sovietica, giungerà finalmente a compimento. Scoppierà una seconda guerra civile
russa e l'Eurasia, per decenni se non più a lungo, sarà solo un miscuglio di
Stati etnici devastati e governati da uomini forti.
Qualche rimasuglio di Stato russo potrebbe riemergere dalle ceneri ma
probabilmente sarà soffocato una volta per sempre
da un'Europa non intenzionata a perdonare una così grande devastazione.
Nel titolo l'articolo qui citato fa riferimento solo alla possibile guerra nucleare tra Stati Uniti e Russia, ma chiaramente l'autore non si accontenta delle mezze misure. Il suo discorso prosegue evocando una replica in Asia dello scenario appena visto. In questo caso non è Mosca ma Pechino a provocare la guerra prima convenzionale e poi nucleare, con conseguenze ancora più terrificanti. Il risultato però non cambia: «Gli Stati Uniti d'America in qualche modo sopravvivranno. La Repubblica Popolare di Cina, analogamente alla Federazione Russa, cesserà di esistere in quanto entità politica» (Nichols, 2015). Gli scenari qui evocati sono dei presagi del XXI secolo? Una circostanza dà da pensare. Agli inizi del Novecento La grande illusione di Angell vedeva la luce contemporaneamente a due testi di London e Wells che, sia pure in forma letteraria, prevedevano l'orrore del secolo appena iniziato. Ai giorni nostri, a cavallo tra XX e XXI secolo, Habermas da un lato e Hardt e Negri dall'altro proclamavano l'avvento di un mondo che stava iniziando a darsi un «ordinamento cosmopolitico» o che si accingeva a realizzare o forse aveva realizzato la «pace perpetua e universale». Quindici anni dopo, su una prestigiosa rivista statunitense vediamo non un letterato bensì uno stratega e analista ipotizzare una o due guerre nucleari totali. Siamo in presenza di un testo rivelatore, che involontariamente getta luce sul progetto, o meglio sul sogno, accarezzato dai seguaci più fanatici della religione dell'«assoluta superiorità» degli Stati Uniti, dai circoli disposti a stroncare con ogni mezzo le resistenze che si frappongono al dominio planetario dello «sceriffo internazionale». Per costoro, non si tratta di respingere l'«aggressione» attribuita alla Russia e alla Cina, e non si tratta neppure di disarmare questi paesi e di metterli nella condizione di non nuocere. No, sarebbe preferibile annientarli in quanto Stati, in quanto «entità politiche». Almeno per quanto riguarda la Russia, l'autore si lascia sfuggire che la sua «disintegrazione» è il risultato di un processo benefico iniziato nel 1905, disgraziatamente interrotto dal potere sovietico ma che potrebbe «finalmente» (finally) giungere alla sua conclusione. Il docente statunitense qui citato sembra esprimere disappunto e delusione per la disfatta subita dalla Germania nazista a Stalingrado. Una cosa è certa: distruggere la Russia quale «entità politica» era il progetto caro al Terzo Reich, ed è inquietante che in Ucraina la NATO si avvalga o si sia avvalsa anche della manovalanza politica di gruppi neonazisti. Distruggere la Cina quale «entità politica» era invece il progetto caro all'imperialismo giapponese, emulo in Asia dell'imperialismo hitleriano. Dà allora da pensare il fatto che gli Stati Uniti rafforzino il loro asse con un Giappone che rinnega la sua Costituzione pacifista e che si rivela più che mai riluttante a riconoscere i crimini commessi dall'Impero del Sol Levante nel tentativo di assoggettare e schiavizzare il popolo cinese e altri popoli asiatici. Se anche non va letto quale espressione di una tendenza generalizzata e incontrastata, l'articolo citato sopra è tuttavia sintomatico. Già in passato, lo stratega statunitense Brzezinski ha evocato, se non l'annientamento vero e proprio di due importanti «entità politiche», pur sempre lo «smembramento» della Cina o un processo di secessioni a catena nella Russia (Brzezinski, 1998, pp. 118, 121, 127). D'altro canto, in base alla dottrina proclamata da Bush Jr., gli Stati Uniti si attribuivano il diritto di stroncare tempestivamente l'emergere di possibili competitori della superpotenza allora del tutto solitaria. Anzi, abbiamo visto un esponente del neoconservatorismo mettere tranquillamente sullo stesso piano «criminali», «delinquenti» e «potenziali rivali» (cfr. supra, PAR. 9.1). Chiaramente, l'idea della liquidazione dei paesi che rischiano di mettere in discussione l'ordine mondiale garantito da un solitario «sceriffo internazionale» è accarezzata da certi circoli militari e politici della Repubblica nordamericana, alcuni dei quali sono disposti perfino a correre il rischio di una guerra nucleare. La più recente versione del sogno della «pace definitiva» – quella che, sull'onda del trionfo conseguito dagli Stati Uniti e dall'Occidente nella Guerra fredda, prometteva di sradicare una volta per sempre il flagello della guerra mediante la diffusione su scala planetaria (all'occorrenza facendo ricorso alle armi) della democrazia e del libero mercato – si è rovesciata o rischia di rovesciarsi nell'incubo di un olocausto nucleare. | << | < | > | >> |Pagina 31912
Come lottare oggi per un mondo senza guerre
12.1. Alla ricerca della mitica "Casa della pace" [...] Nel complesso, «gli indù non sono meno pronti a combattere dei maomettani». La "Casa della pace" jainista o indù non ha maggiore credibilità della "Casa della pace" islamica o cristiana (è in particolare l'Islam che ama raffigurarsi come la "Casa della pace"). Talvolta, invece che in una religione, cultura o etnia determinata, la mitica "Casa della pace" viene individuata e additata nel sesso o genere femminile: la donna incarnerebbe il rifiuto della cultura della morte in conseguenza del suo ruolo nella riproduzione della vita. Sennonché, storicamente, tale ruolo ha assunto spesso un significato contrapposto rispetto a quello che ai giorni nostri gli viene attribuito. A Sparta era per l'appunto la madre a esortare il figlio da lei generato a saper affrontare la morte in battaglia: «Ritorna con questo scudo o sopra di esso», e cioè vittorioso e con le armi in pugno oppure morto quale guerriero valoroso e onorato. Storicamente è altresì avvenuto che, in situazioni disperate, siano state proprio le madri a infliggere la morte ai neonati che esse intendevano sottrarre a un futuro orribile e comunque considerato intollerabile: così si sono comportate le donne indie incalzate dalle infamie dei conquistadores o le schiave nere o, ancor prima, nel Medioevo, le donne ebree alle prese con le persecuzioni dei crociati cristiani, a ogni costo decisi a convertirle assieme ai loro figli. E di nuovo a spegnere una vita era colei che l'aveva messa alla luce. È vero che tradizionalmente le donne hanno svolto nei conflitti armati un ruolo non diretto ma indiretto, ma ciò avveniva in omaggio alla cultura non della pace bensì della guerra: sul piano militare strategico la donna svolgeva una funzione essenziale non in quanto guerriera bensì in quanto generatrice di guerrieri; per tutto un periodo storico la riproduzione della vita era al tempo stesso la riproduzione e lo sviluppo della macchina da guerra. Indipendentemente da questa funzione strategica, anche sul piano tattico, pur non impugnando le armi direttamente, le donne erano ben partecipi della guerra. Ai tempi di Maometto le donne fedeli alla causa del Profeta forse non combattevano, ma non erano per nulla estranee alla conduzione delle operazioni belliche, impegnate com'erano a mutilare i cadaveri dei nemici e a comporre sanguinanti collane di nasi e orecchie. Soprattutto, esse incoraggiavano i combattenti con i loro incitamenti e i loro canti: «Se avanzate vi abbracceremo / stenderemo cuscini per voi; / se indietreggiate vi abbandoneremo / e in modo per nulla amorevole». Sia pure in forma meno plastica, un'analoga divisione del lavoro è stata all'opera in Occidente, almeno nei periodi più tragici e più sanguinosi della sua storia. Quando leggiamo delle donne che in Gran Bretagna, ancor prima del 1914, si adoperavano «a far vergognare i loro ragazzi, mariti o figli che non si arruolavano volontari», siamo portati a pensare alle donne ovvero alle Grazie e alle Muse che incoraggiavano e spronavano i guerrieri di Maometto. Il ruolo della donna nell'ambito di questa divisione del lavoro, all'insegna della mobilitazione totale e della generale esaltazione bellicista, non sfuggiva a Kurt Tucholsky, che nel 19z7, nell'intervallo tra le due guerre mondiali, procedeva in Germania a un duro atto di accusa: «Accanto ai pastori evangelici c'è stata in guerra ancora una specie umana, mai stanca di succhiar sangue: si tratta di uno strato determinato, di un tipo determinato della donna tedesca». Mentre il massacro assumeva forme sempre più terribili, essa sacrificava «figli e mariti» e si lamentava di non poterne «avere a sufficienza da sacrificare». In ogni caso, la tradizionale divisione del lavoro tra uomo e donna volge ormai al termine anche sul piano militare, come dimostra fra l'altro la presenza crescente delle donne nelle forze armate e talvolta persino nei corpi di élite. E, per quanto riguarda la visione del mondo, è probabile che la distanza che separa una soldatessa da un soldato sia minore di quella che separa entrambi da coloro che esercitano ad esempio una professione liberale. In conclusione, anche nella sua nuova veste femminile e femminista, la «Casa della pace» non cessa di essere un luogo mitico. | << | < | > | >> |Pagina 32412.3. La guerra senza limiti dalle colonie alla metropoliNel tracciare il suo bilancio storico-teorico, Schmitt (1981, p. 41) si richiama al «grande e coraggioso pensatore dell' ancien regime» che è Joseph de Maistre. E ben si comprende tale omaggio, rivolto all'autore che per primo mette in stato d'accusa la rivoluzione francese per aver reso barbara e spietata la cavalleresca «guerra europea», nell'ambito della quale «solo il soldato combatteva il soldato, mentre le nazioni non erano mai in guerra». Abbiamo appena visto che in realtà la guerra-duello è messa in crisi già dalla crociata bandita contro il paese responsabile di aver rovesciato l'Antico regime. Ora conviene dare uno sguardo all'altra faccia della difesa della guerra-duello in Europa: con lo sguardo rivolto al mondo coloniale, l'autore caro a Schmitt celebra l'«entusiasmo della carneficina» e sembra persino giustificare lo sterminio degli indios, questi «uomini degradati» che giustamente «gli europei» si rifiutano di riconoscere quali «loro simili». La scomparsa delle guerre cavalleresche è deplorata solo per ciò che concerne quella parte del globo sulla quale risplende in modo tutto particolare «lo spirito divino»; per il resto è chiaro che, nell'ambito della «carneficina permanente» che rientra nell'economia del «grande tutto», ci sono «certe nazioni» che l'«angelo sterminatore» si «accanisce» a immergere nel sangue (Maistre, 1984, vol. 4, p. 83, e vol. 5, pp. 18-28). Nel condannare la scomparsa dello jus publicum europaeum e del principio della delimitazione della guerra, Schmitt fa esplicita astrazione dalla sorte riservata dall'Occidente ai popoli coloniali. Sennonché, come risulta dall'analisi storica, tale esclusione ha finito con il produrre conseguenze catastrofiche anche per i popoli collocati all'interno dell'Europa, dell'Occidente, del «mondo civile» in quanto tale. Il fatto è che il confine tra civili e barbari è labile e può dileguare del tutto in occasione di grandi crisi storiche. Esse tendono a mettere in moto una duplice dialettica. In primo luogo, la labilità del confine tra civiltà e barbarie può manifestarsi sul piano interno a un singolo paese. In Francia, nel corso dello scontro che faceva seguito al rovesciamento dell'Antico regime i rivoluzionari erano paragonati ai barbari e ai selvaggi delle colonie: valeva ancora lo jus publicum europaeum, oppure contro di loro ci si poteva avvalere dei metodi tradizionalmente riservati al governo dei popoli estranei alla civiltà? Tra la metà dell'Ottocento e gli inizi del secolo successivo, di tanto in tanto un brivido percorreva l'Occidente liberale: forse rischiavano di diffondersi in Europa i metodi spietati cui essa faceva ricorso per soggiogare i barbari delle colonie. Pur esprimendo il suo convinto consenso alla spietata energia con cui la Francia conduceva la conquista dell'Algeria, in un testo del 1841 Tocqueville (1951-83, vol. 3.1, p. 136) confessava la sua «segreta preoccupazione»: cosa sarebbe avvenuto se le «abitudini» e i «modi di pensare e di agire» acquisiti nelle colonie fossero rimbalzati nella madrepatria? «Dio ci risparmi per sempre di vedere la Francia diretta da uno degli ufficiali dell'esercito d'Africa». In effetti, Cavaignac, il generale che non esitava a ricorrere a pratiche genocide pur di liquidare la resistenza degli arabi, diveniva alcuni anni dopo il protagonista della sanguinosa repressione e delle esecuzioni sommarie che si abbattevano sui barbari della metropoli, vale a dire sugli operai parigini insorti nel giugno 1848 rivendicando il diritto al lavoro e alla vita. Certo, a lui, nonostante la precedente messa in guardia, Tocqueville forniva un appoggio costante e privo di incrinature; resta il fatto che la sua «segreta preoccupazione» risultava tutt'altro che infondata. E ben fondato era anche il monito lanciato oltre mezzo secolo dopo, questa volta da un liberalsocialista critico del colonialismo: prima o dopo l'«uomo bianco» avrebbe finito con il far ricorso anche contro «altri uomini bianchi» alle brutali o disumane «pratiche di guerra» tradizionalmente messe in atto contro i «nativi», contro i popoli coloniali (Hobhouse, 1909, pp. 179-80, nota). Era un monito destinato a rivelarsi profetico nel corso del Novecento. La tradizione coloniale agiva possentemente alle spalle del totalitarismo fascista e nazista. È quello che emerge con chiarezza nel caso della Spagna. Lo storico più autorevole della guerra civile che tra il 1936 e il 1939 ha insanguinato questo paese così spiega le infamie di cui si macchiarono i militari ribelli: I leader della ribellione, i generali Mola, Franco e Queipo de Llano, avevano del proletariato spagnolo la stessa visione che avevano dei marocchini; si trattava di una razza inferiore che doveva essere assoggettata mediante una violenza priva di esitazioni e di compromessi. Pertanto essi applicarono in Spagna il terrore esemplare appreso nel Nord Africa allorché facevano ricorso alla Legione straniera spagnola e ai mercenari marocchini (i Regulares), all'esercito coloniale.
Il consenso alla macabra violenza dei loro uomini trova espressione nel
diario di guerra di Franco del 1922, che descrive con compiacimento la
distruzione dei villaggi marocchini e la decapitazione dei loro difensori. Egli
prova diletto nel raccontare come il suo trombettiere adolescente tagliava
l'orecchio di un prigioniero. Lo stesso Franco diresse dodici
Legionarios
in una spedizione dalla quale essi ritornarono portando come trofei le teste
insanguinate di dodici membri della tribù
(harquenos).
La decapitazione e mutilazione dei prigionieri era una pratica corrente. Quando
nel 1926 il generale Miguel Primo de Rivera visitò il Marocco, un intero
battaglione della Legione attendeva l'ispezione con teste sanguinanti
conficcate sulle loro baionette. Durante la Guerra Civile il terrore messo in
atto dall'esercito in Africa fu dispiegato in modo simile sulla terraferma
spagnola quale strumento di un progetto freddamente concepito e mirante a
gettare le basi per il futuro regime autoritario (Preston, 2012, pp. XII-XIII).
Sì, in quegli anni tragici «la violenza della storia coloniale spagnola degli anni prima trovò modo di ripiombare sulla metropoli». Solo così si può comprendere il comportamento degli ufficiali franchisti: «L'asprezza e gli orrori delle guerre tribali marocchine tra il 1909 e il 1925 li avevano brutalizzati» (ivi, p. 9). In secondo luogo, la labilità del confine tra civiltà e barbarie può manifestarsi sul piano internazionale. È la dialettica che è al cuore della tragedia e dell'orrore del Novecento. Dopo lo choc provocato dalla rivoluzione d'ottobre e in particolare dal suo appello agli «schiavi delle colonie» a insorgere, Oswald Spengler , esprimendo un orientamento largamente diffuso non solo in Germania ma anche nell'Occidente nel suo complesso, dichiarava che la Russia aveva gettato via la «maschera "bianca"», per diventare «di nuovo una grande potenza asiatica, "mongolica"», parte integrante, ormai, dell'«intera popolazione di colore della terra» animata da odio contro l'«umanità bianca» (Spengler, 1933, p. 150). Anche agli occhi di Hitler, i popoli dell'Unione Sovietica (e più in generale dell'Europa orientale) erano parte integrante del mondo coloniale e andavano trattati di conseguenza. Una considerazione analoga valeva a maggior ragione per gli ebrei, che provenivano dal Medio Oriente e che si erano identificati con il bolscevismo (di cui avevano alimentato il gruppo dirigente) e assieme a esso partecipavano all'aizzamento delle razze «inferiori». Non si contribuisce certo a risolvere il problema della limitazione della guerra guardando con nostalgia allo jus publicum europaeum, fondato su una distinzione (tra civili e barbari) che è sempre stata problematica e spesso foriera di disastri e che comunque risulta priva di senso in un mondo irreversibilmente globalizzato. Il primo grande merito dell'ideale universalistico di pace perpetua risiede proprio nell'aver messo in discussione tale distinzione. | << | < | > | >> |Pagina 328Nell'ambito dell'ideologia dell'Antico regime, la guerra così come la miseria di massa erano una calamità o meglio un evento naturale, consacrato in qualche modo dalla Provvidenza. Ai giorni nostri pochi oserebbero rinviare alla natura o alla volontà divina per spiegare la persistenza del flagello della povertà in questa o quell'area del globo: da un lato la rivoluzione industriale ha promosso un prodigioso sviluppo delle forze produttive, dall'altro incessanti rivoluzioni politiche hanno messo all'ordine del giorno il problema della produzione e distribuzione della ricchezza sociale. La tesi della miseria endemica come fatto naturale è ormai contraddetta dall'esperienza storica di massa. Per fare solo un esempio: si pensi alle alterne vicende storiche che hanno portato un paese di millenaria civiltà come la Cina a piombare prima nella miseria più nera e poi a rinascere miracolosamente. Sono sotto gli occhi di tutti la centralità dell'azione politica e il carattere storico della miseria di massa.Per quanto riguarda la guerra, dobbiamo condividere l'opinione di Maistre? In realtà, allorché tracciava il suo bilancio storico in base al quale mai si era verificata e mai si sarebbe verificata una «rivolta sul campo di battaglia», egli aveva semmai ragione per quel che riguardava la storia alle sue spalle: nel Novecento la rivolta dell'esercito di un paese contro il suo stesso governo, contro la guerra e i promotori di guerra è stata all'ordine del giorno, a cominciare dalla rivoluzione d'ottobre, decisa a porre fine al massacro della Prima guerra mondiale. Peraltro, a provocare rivolte e rivoluzioni non sono state solo le guerre su larga scala: la "rivoluzione dei garofani", che nell'aprile 1974 rovesciava in Portogallo la dittatura di tipo fascista, non può essere compresa senza la crescente insofferenza dell'esercito per la barbara guerra che esso era chiamato a combattere nelle colonie. A introdurre un'altra sostanziale novità nel discorso sulla guerra hanno provveduto gli sviluppi della rivoluzione industriale e tecnologica che hanno reso possibili e agevoli carneficine e devastazioni senza precedenti e persino l'olocausto nucleare. Ferme restando tutte le altre differenze, per la guerra possiamo ripetere l'argomentazione fatta valere per la miseria di massa: da un lato la rivoluzione industriale e tecnologica, dall'altro le rivoluzioni politiche hanno liquidato una volta per sempre la visione che riduceva quei due flagelli a una calamità naturale contro la quale nulla potevano l'azione politica e la storia. L'emergere dell'ideale della pace perpetua come progetto politico (piuttosto che come semplice sogno) e come progetto politico che si propone di abbracciare l'umanità nel suo complesso è un momento di svolta nella storia del pensiero e nella storia in quanto tale: piuttosto che essere assimilata a un fenomeno o a una catastrofe naturale, la guerra è ora indagata a partire dai rapporti di potere vigenti nell'ambito di un singolo paese o a livello internazionale. In tal modo, per ingenue o enfatiche e messianiche che possano essere le forme da esso assunte, l'ideale della pace perpetua ha comunque il merito, già sul piano scientifico, di contribuire a denaturalizzare e storicizzare il fenomeno della guerra. | << | < | > | >> |Pagina 330Si verifica a questo proposito un paradossale rovesciamento di posizioni. Se il movimento che ha preso le mosse da Marx ed Engels ha spesso inseguito il sogno del dileguare del potere in quanto tale, con la conseguenza rovinosa di aver prestato scarsa attenzione al problema della sua limitazione, è proprio su quest'ultimo punto che la tradizione liberale ha avuto il merito di richiamare l'attenzione. È universalmente noto il grande motto di lord Acton: "Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto". Occorreva dunque spostare l'accento dalla ricerca di governanti eccellenti all'introduzione di norme e di meccanismi atti a contenere il potere e quindi a renderlo accettabile o tollerabile e il più possibile innocuo. A sua volta, anticipando in qualche modo la visione di lord Acton ma facendola valere a livello dei rapporti internazionali, Adam Smith (1977, p. 618, libro IV, cap. VII) ha osservato che, al tempo della scoperta-conquista dell'America, «la superiorità di forze risultava così grande a vantaggio degli europei, che essi poterono commettere impunemente ogni sorta di ingiustizia in quei paesi lontani». Anche e forse soprattutto a livello internazionale, il potere assoluto corrompe in modo assoluto: una colossale sproporzione di forze e il godimento da parte dell'Occidente di un'irresistibile potenza militare hanno reso possibile e hanno caratterizzato quella che si potrebbe definire l'"epoca colombiana", il ciclo storico che ha visto l'Occidente protagonista di ininterrotte guerre di assoggettamento, schiavizzazione e annientamento dei popoli coloniali.Veniamo ai giorni nostri. Arrogandosi il diritto di scatenare una guerra anche senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, l'Occidente di fatto rivendica, a livello internazionale, un potere non sottoposto ad alcun controllo. Così, considerando, anzi proclamando superato il principio del rispetto della sovranità statale, ma riservando esclusivamente a sé stesse il diritto di dichiarare superata la sovranità di questo o quello Stato, le grandi potenze dell'Occidente e in primo luogo il suo paese guida si attribuiscono una sovranità dilatata, da esercitare ben al di là del proprio territorio nazionale, una sovranità imperiale. Sul piano più propriamente militare, conosciamo l'aspirazione degli Stati Uniti a conseguire il monopolio di fatto dell'arma nucleare, e cioè a potervi far ricorso senza timore di ritorsioni. Facendo tesoro del motto di lord Acton, una conclusione subito s'imporrebbe: indipendentemente dalla personalità del presidente'che siede alla Casa bianca, per democratiche che siano le sue idee e attitudini, il potere assoluto di vita e di morte di cui egli verrebbe a disporre a livello planetario corromperebbe "in modo assoluto", anzi in modo più assoluto che mai. Una situazione quanto mai angosciante dal punto di vista di Acton. Sennonché, l'Occidente liberale e i suoi pensatori più prestigiosi esprimono la preoccupazione contraria: si mostrano inquieti e allarmati per il fatto che il potere assoluto rivendicato da Washington è messo in crisi dalla resistenza inaspettata che l'Impero ha incontrato e incontra in diversi angoli del mondo, dalle difficoltà economiche che ostacolano il mantenimento e lo sviluppo di un apparato militare così mastodontico e dall'ascesa dei paesi emergenti e in particolare della Cina. In Occidente sostanzialmente incontrastato, il potere assoluto ha avuto in effetti conseguenze catastrofiche. Come risulta particolarmente evidente in Medio Oriente. Dopo centinaia di migliaia di morti, milioni di feriti e milioni di profughi, distruzioni materiali su larghissima scala e l'emergere dell'inferno concentrazionario di Abu Ghraib, la realtà è sotto gli occhi di tutti: interi paesi (Irak, Libia, Siria) vedono frantumata la loro struttura statale e la loro integrità territoriale; divampano le guerre di religione; la condizione della donna conosce un drastico peggioramento (si pensi alla reintroduzione della poligamia in Libia); inizialmente appoggiati dall'Occidente o da paesi (Arabia Saudita) a esso alleati, infuriano barbarici gruppi fondamentalisti. L'utopia della «pace definitiva» da imporre diffondendo la «democrazia» grazie al potere assoluto esercitato dall'Occidente e ignorando o distorcendo le risoluzioni e l'orientamento del Consiglio di sicurezza si è rovesciata nel suo contrario, in una distopia. | << | < | > | >> |Pagina 354Ancora ai giorni nostri, l'universalismo è tutt'altro che affermato e consolidato. A imprimere nuovo slancio alle guerre neocoloniali è un «eccezionalismo» che, nonostante l'agitazione della bandiera dei "valori universali", è per definizione il contrario dell'universalismo; è la rivendicazione di un trattamento privilegiato per l'Occidente e soprattutto per il suo paese guida, ai quali dovrebbe essere riservato il diritto esclusivo di scatenare guerre anche senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU. In conseguenza di questa ideologia e di questa pratica, che consentono a un piccolo pugno di Stati di attribuirsi una sovranità così dilatata da poter dichiarare nulla la sovranità tendenzialmente del resto del mondo e in ogni caso degli Stati di volta in volta presi di mira, si viene a istituire un rapporto di netta diseguaglianza tra le nazioni, e di nuovo siamo agli antipodi dell'universalismo. L'«eccezionalismo» antiuniversalistico pretende di darsi persino un fondamento teologico allorché viene chiamato a trasfigurare in quanto «eletta da Dio» la «nazione indispensabile» e unica. Una seria lotta contro la guerra impone di contrastare con fermezza il tentativo di annullare i passi in avanti compiuti in secoli di storia per affermare il principio dell'eguaglianza tra i diversi popoli.| << | < | |