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| << | < | > | >> |Indice1 Ringraziamenti 3 Orgoglio e gloria del Web 2.0 8 I crociati del free 14 Jihad su Internet in Olanda 19 «Abbiamo perso la guerra» 21 Danah Boyd e le dialettiche del controllo 28 Una fugace Discordia 30 Questa non è un'economia 2.0 35 Conclusione: oltre la cultura delle lamentele 39 Bloggare: l'impulso nichilista 43 Bloggare con qualità e raffinatezza 45 I blog non dicono nulla, sono come un martedì qualsiasi 49 Blog senza frontiere 55 Critica della ragione di Internet 64 Aperta resistenza armata 69 Il nichilismo? Sono troppo cinico per credere al nichilismo... 78 Occhi di serpente e carri merci 84 Blogito ergo sum 89 La terra di Kizmiaz 92 Blogged off 95 New media art: alla ricerca dell'indecifrabile cool 98 Gli inizi 108 Sciogliere un consiglio di new media art 111 Il mito della pagina bianca 113 Un intermezzo di arte motivazionale 114 La stanca media art 117 Il desiderio di essere scienza 124 Dibattiti online su arte e scienza 128 Dentro ai cambiamenti istituzionali 131 L'arte elettronica e le Dot-com 136 I new media come guerra tra generazioni 138 Complotti dell'arte contemporanea 143 Evoluzione 145 Spazi sociali in rete 149 Intervento critico: Warren Neidích 151 Al di là dell'indecifrabile cool 157 Glossario 169 Note |
| << | < | > | >> |Pagina 3Orgoglio e gloria del Web 2.0Bloggare è una forma di vanità: si possono adoperare termini eleganti, parlare di "cambio di paradigma" o "tecnologia dirompente", ma la verità è che i blog sono sbrodolature adolescenziali senza senso. Adottare lo stile di vita del blogger è l'equivalente letterario di attaccare nastri colorati al manubrio della bicicletta. Nel mondo dei blog "0 comments" è un dato inequivocabile: significa che una certa cosa non interessa assolutamente a nessuno. La terribile verità dei blog è che le persone che scrivono sono molte di più di quelle che leggono.
Stodge.org, The Personal Memoirs of Randi Mooney,
postato il 5 maggio 2005, (14) commenti
Nel 2005 la rete si era ripresa dal crollo delle Dot-com e, in linea con l'economia globale, si stava reincarnando nel Web 2.0. Mentre gli abitanti del cyberspazio oltrepassavano il miliardo, blog, wiki e social network come Friendster, Orkut e Flickr venivano presentati come la nuova frontiera del lavoro volontario. "Comunità virtuali" era diventata un'espressione inflazionata, «associata a idee screditate sul cyberspazio come sistema indipendente e alle idee fallimentari delle Dot-com sulla costruzione di comunità all'ombra di brand di massa, come i forum sul sito della Coca-Cola»; si parlava piuttosto di sciami, mobs e folle: i media erano diventati sociali. Dalla produzione collaborativa di contenuti per Wikipedia al social bookmarking di Digg, c'era senza dubbio un nuovo slancio. Se i blog erano "molto 2004", la Bbc definì il 2005 "anno del cittadino digitale". Lo tsunami del giorno di Santo Stefano del 2004 mostrò in modo molto crudo il potenziale di questi strumenti, mentre pochi mesi dopo le bombe del 7 luglio a Londra e gli uragani negli Stati Uniti obbligarono a riconoscere il fatto che nella produzione di notizie i cittadini avevano un ruolo molto più grande di quanto non fosse mai accaduto prima. La Bbc ricevette per e-mail 6500 immagini e video che mostravano gli incendi al deposito di petrolio di Buncefield, qualche migliaio in più di quelle ricevute dopo le bombe di Londra. Il report della Bbc concludeva che i media cominciavano a sembrare più partecipativi e inclusivi. Il passo successivo fu la scelta di "You" come Persona dell'anno di "Time", che riflette l'aumento fenomenale del numero di utenti dei siti di social networking come MySpace (leggi: News Corporation di Rupert Murdoch) e YouTube (leggi: Google). Il 2007 sarà l'anno della "critica della rete"? Sempre più persone stanno cominciando a mettere in discussione il modello economico del Web 2.0. Perché gli utenti dovrebbero continuare a pubblicare tutti quei dati privati, dai quali una manciata di aziende ricava miliardi di dollari di profitti? Perché dovrebbero cedere gratuitamente i loro contenuti mentre un pugno di imprenditori del Web 2.0 sta facendo i milioni? Che prezzo siamo disposti a pagare per la gratuità? Perché non usiamo la nostra "immaginazione collettiva" per escogitare modelli sostenibili per una cyberinfrastruttura pubblica? È ora di rompere il consenso liberista. Da sociale a socialista, il passo è breve. È tempo di tornare a essere utopisti e cominciare a edificare una sfera pubblica al di fuori degli interessi a breve termine delle corporation e della volontà di regolamentazione dei governi. È ora di investire nell'educazione, ricostruire la fiducia e svincolarsi dalla retorica securitaria post-undici settembre. Invece delle classiche due fasi della cultura di Internet, preferisco distinguerne tre. La prima è il periodo scientifico, pre-commerciale e solo testuale che ha preceduto il World Wide Web. La seconda, il periodo euforico di speculazioni nel quale Internet si è aperta al pubblico generico, culminato nella mania delle Dot-com della fine degli anni novanta. La terza, il periodo successivo al crollo delle Dot-com e all'undici settembre, che con il Web 2.0 sta volgendo al termine. I blog, o weblog, sono un fenomeno intermedio interessante, che ha avuto inizio attorno agli anni 1996-1997, durante la seconda fase di euforia, ma sono rimasti fuori dagli schermi radar perché non avevano al loro interno una componente di commercio elettronico. Il cambiamento più rilevante che si è verificato negli anni passati è stata la "massificazione" e successiva internazionalizzazione di Internet, che nel 2005 ha oltrepassato il significativo limite del miliardo di utenti. Per la cultura dominante anglo-americana la "globalizzazione" di Internet è stata più evidente a causa della sua ignoranza, voluta e organizzata, e della sua scarsa conoscenza delle lingue straniere. Non tutti colgono il significato del fatto che i contenuti in inglese siano scesi ben al di sotto del limite del 30 per cento. Inoltre, la crescita ha portato a un'ulteriore "nazionalizzazione" del cyberspazio, soprattutto attraverso l'uso delle lingue nazionali, in contrasto con la presunta assenza di frontiere della rete – che forse non è mai esistita: le aziende occidentali di information technology sono più che felici di aiutare i regimi autoritari con i firewall nazionali. Come si suol dire, il mondo è grande. Oggi la maggior parte del traffico Internet è in spagnolo, mandarino e giapponese. Questa fotografia si complica ancora di più se si prende in considerazione il potenziale della convergenza di due miliardi di utenti di telefoni cellulari, della blogomania in Iran, del fatto che la Corea del Sud possiela una delle più dense infrastrutture broadband e della crescita della Cina. Chi mai direbbe che Polonia, Francia e Italia sono fra le nazioni europee con più blog? | << | < | > | >> |Pagina 10I vizi dell'architettura di Internet devono essere resi noti (e non restare indiscussi), di modo che le sue virtù possano avere la meglio. L'ideologia del free come componente chiave della rete, infatti, fa parte del viscido linguaggio del business. Nel suo saggio The Destruction of the Public Sphere Ross McKibben afferma che l'arma più potente del managerismo di mercato è stata il suo vocabolario: «sappiamo bene come agisce questo linguaggio. Dobbiamo stare sul vertice della piramide, sperare di essere in un centro di eccellenza, disprezzare le industrie dominate dai produttori, desiderare di avere molti fornitori diversi, umiliarci di fronte ai nostri diretti superiori ancor più che davanti alla direzione, consegnare i risultati e dare possibilità di scelta. Quelli che prima erano studenti, pazienti e passeggeri ora sono clienti». Secondo McKibben si tratta di un linguaggio che è stato concepito nelle business school, che in seguito è penetrato nello stato e ora infesta tutte le istituzioni. Esso «non ha un vero predecessore storico ed è singolarmente seduttivo. Pretende di essere neutrale: per questo tutte le procedure devono essere "trasparenti" e "robuste", e tutti devono essere "affidabili". È duro ma funziona, perché il settore privato sul quale si basa è duro ma funziona. È efficiente; assorbe i rifiuti; fornisce tutte le risposte. Ha guidato la cultura aziendale della Thatcher. È più potente del tipo di linguaggio preso in giro da Flaubert nel Dizionario dei luoghi comuni perché, per quanto possa risultare ridicolo, determina il modo in cui le nostre élite politiche (ed economiche) pensano il mondo».«Cederai tutto gratuitamente (accesso libero, no copyright); ti farai pagare solo per i servizi supplementari, che ti renderanno ricco.» Ecco il primo dei "Dieci comandamenti liberali comunisti" pubblicati da Olivier Malnuit sulla rivista francese "Technikart". La persona che più di chiunque altro incarna questi valori è il venture capitalist, hacker e attivista giapponese Joi Ito. Slavoj Zizek ha citato i comandamenti di Malnuit e ha classificato Bill Gates e George Soros come comunisti liberali: «Il nome di questa nuova realtà nella neolingua comunista liberale è smart. Smart significa dinamico e nomade contro burocratico e centralizzato, dialogo e collaborazione contro autorità centrale, flessibilità contro routine, cultura e conoscenza contro vecchia produzione industriale, interazione spontanea contro gerarchia stabile. [...] Il loro dogma è una versione nuova, postmoderna, della mano invisibile del mercato del vecchio Adam Smith: il mercato e la responsabilità sociale non sono antitetici ma possono essere riuniti con reciproco vantaggio». Zizek continua affermando che i comunisti liberali sono pragmatici, infatti odiano l'approccio astratto. «Oggi non esiste una classe operaia sfruttata, ci sono solo problemi concreti da risolvere: la fame in Africa, la condizione delle donne musulmane, la violenza del fondamentalismo religioso.» A questo punto, la conclusione di Zizek non suona sorprendente: «non dovremmo farci illusioni: i comunisti liberali sono il nemico di ogni vera lotta progressista». I comunisti liberali distribuiscono con una mano parte di quello che hanno arraffato con l'altra. Qui siamo al cuore dell'ideologia di Internet, che ci impedisce di vedere quanto paghiamo veramente, troppo felici di entrare nell'economia del dono rappresentata dal free. Zizek menziona la necessità, per problemi come razzismo, sessismo e antisemitismo, di costruire alleanze con i comunisti liberali. E Internet? Non è il momento di abbandonare le alleanze con i liberisti, proporre l'esodo e opporsi a loro e ai loro doppi fini? Felix Stalder e Konrad Becker, di Vienna, riassumono lo scontro per la libertà dei media in modo netto: «l'obiettivo è ideare nuovi modi per permettere all'informazione di scorrere liberamente da un luogo all'altro, da persona a persona. Piuttosto che accrescere la frammentazione, informazioni e culture devono essere risorse prodotte e usate in modo collaborativo, non controllate da singoli proprietari. La gente deve essere libera di appropriarsi dell'informazione, a seconda dei suoi desideri e bisogni storici e personali, invece di essere obbligata a consumare i prodotti standardizzati di McMondo». Credo che si possano continuare a diffondere questi appelli per la libertà soltanto se si oppongono al "free". Non possiamo continuare a supportare acriticamente Creative Commons, l'open source e le piattaforme di sapere aperto a tutti come Wikipedia se le loro premesse ideologiche non vengono messe in discussione. | << | < | > | >> |Pagina 35Conclusione: oltre la cultura delle lamenteleNonostante la moda del "nuovo new", la posizione dei new media all'interno della società non è più vicina alla soluzione di quanto lo fosse durante la moda "vecchio new" della prima bolla della rete. L'adattamento di massa ha portato all'«ansia per lo status» una disciplina emergente che è polimorficamente perversa per natura. Posizionarsi al suo interno è sempre meno comodo e nella maggior parte dei casi il talento non porta a niente. Si è visto che i cambiamenti dovuti all'integrazione delle reti tecnologiche nella vita di tutti i giorni non hanno prodotto un cambiamento istituzionale: nonostante i fiumi di parole spese, Internet non ha prodotto la rivoluzione che aveva promesso. Le società si adattano alle tecnologie dell'informazione ma non cambiano in modo profondo, anzi si dimostrano straordinariamente flessibili e quindi capaci di restare quelle che sono. Ovviamente ciò significa che a doversi adattare sarà l'ideologia, non il mondo. Sinora però non è successo. Com'è possibile che le tecno-celebrità liberiste continuino a vendere sogni di libertà ed eguaglianza senza essere sottoposte a esame? Non ci sono grossi segnali che indichino che verranno messe a tacere o che dovranno perlomeno affrontare una seria opposizione. Sembra che tra smanettoni e imprenditori ci sia una domanda infinita di salvezza. Noi possiamo continuare a ripetere che la rete non è un mondo a parte, ma allora come educare i giovani a resistere ai richiami delle sirene californiane? Sarà sufficiente produrre memi alternativi, più attraenti delle piattaforme del Web 2.0 di oggi? Le richieste di riforma che provengono dall'interno sono inutili, dato che solo qualcosa di completamente diverso può fermare il vortice? Dovremmo credere nel potere dell'argomentazione e insistere con la strategia della critica dell'ideologia, sapendo che questo sforzo intellettuale fallirà ancora e ancora? Credo che sia necessario lavorare sulle questioni concrete, studiare gli schemi che stanno dietro al cambiamento perpetuo. Oltre alla loro archeologia, ora i new media hanno una storia – piena di rotture, anomalie, tentativi falliti, riedizioni passate sotto silenzio, ritorni e rari esempi di novità. A mio parere il compito della ricerca sulla "cultura critica di Internet" non è solo di scrivere questa storia ma anche di modellare i saperi futuri in stretta collaborazione con una rete di pensatori amici ed eguali. Per ostacolare il cinismo e la penetrazione delle corporation, e solo per il gusto di farlo, vorrei proporre di superare la moda del Web 2.0, e quindi la sua critica, e chiedere molti altri esperimenti come Discordia – chiamatela Indymedia 2.0, se preferite: spazi terzi tra la normale e-mail e l'ambiente commerciale del Web 2.0, in cui la gente collabora per uno scopo comune. Per arrivarci dobbiamo sviluppare un'alfabetizzazione mediatica che vada al di là della questione dell'accesso. È una cosa che è già stata detta molte volte, ma voglio sottolineare che le caratteristiche del Web 2.0 hanno davvero poco a che fare con apprendimento ed educazione. Dobbiamo staccarci dai computer e dalle loro reti e comprendere che l'educazione necessiterà di investimenti seri, in dollari ed euro, dato che essa, a ogni livello, non può essere sostituita dall'accesso al sapere informatico. Il progetto One Laptop per Child di Nicholas Negroponte sta per commettere di nuovo questo errore di base. Hacker, attivisti e artisti devono essere collettivamente più distanti dalla sfera digitale, per sottolineare che le reti informatiche possono avere solo un ruolo modesto riguardo all'aumento della povertà nel mondo e a cambiamenti climatici, ineguaglianza di genere, razzismo ecc. Senza ricadere in una posizione luddista o in quella che viene considerata la sua controparte, il tecno-determinismo, dobbiamo arrivare a una nuova comprensione di ciò che le comunicazioni mediate da computer possono o non possono fare.
Per aprire nuovi spazi sociali in cui agire bisogna lasciarsi alle spalle la
religione del free: i "media sociali" hanno l'esigenza
vitale di sviluppare la propria economia. Regalare i propri
contenuti dovrebbe essere un atto generoso e volontario, non
l'unica opzione disponibile. Invece di celebrare il dilettante
dovremmo sviluppare una cultura di Internet che aiuti i dilettanti (che spesso
sono giovani) a diventare professionisti, cosa
che non accade se predichiamo loro che l'unica scelta che hanno è sbarcare il
lunario durante il giorno con un McJob in modo da poter celebrare la loro
"libertà" durante le lunghe ore notturne passate sulla rete. È necessaria una
redistribuzione di denaro, risorse e potere: sinora il Web 2.0 ha portato
benefici soltanto ai ricchi, che sono diventati ancora più ricchi. È ora
che le "folle" si chiamino fuori da questa logica.
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