Copertina
Autore Emiliana Lucchesi
Titolo Cucina di Lucchesia e Versilia
EdizioneMuzzio, Roma, 2004 [1989], Cucine regionali 18 , pag. 238, cop.fle., dim. 140x210x15 mm , Isbn 978-88-7413-101-3
LettoreFlo Bertelli, 2004
Classe alimentazione , regioni: Toscana
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Indice

Prefazione 7
Presentazione 9
Ringraziamenti 10
Introduzione 11

Gli antipasti 15
I primi 27
Sughi & sughi 61
I pesci 67
Le carni 91
Verdure: contorni e dintorni 117
I dolci 141
Dodici ricette lucchesi del XVIII secolo 163
Lucchesia è anche cacciagione:
    ecco le ricette di Giacomo Puccini 171
Conserve e marmellate 185
Varie e variabili 193
L' "olio bono di Lucca" fra storia e
    leggenda 205
Montecarlo & Colline Lucchesi, vini di
    Lucchesia 211
Il castagno, le castagne 217


Glossario 227
Bibliografia essenziale 229
Indice delle ricette 231
 

 

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Pagina 11

Introduzione


Cucina frugale? Sì. Povera? Anche. In Lucchesia l'economia un tempo era prevalentemente agricola, il reddito decisamente basso e, dunque, di base, cucina senz'altro povera. Come nel resto dell'Italia, d'altra parte. Ma bisogna assolutamente distinguere fra cucina e cucina. Esiste, ed è sempre esistita, una cucina contadina ed esiste, come è sempre esistita, una cucina borghese, in Lucchesia come altrove.

La cucina contadina era (ed è) una cucina semplice e piuttosto rozza, di gusto quasi primitivo che prevedeva il paiolo, la carbonella, le ceneri e la brace con metodi di cottura elementari; il pane era considerato un elemento essenziale (dal pane si ricavavano anche minestre: pancotto, panzanella, zuppe ecc.).

Molto spesso era nero perché fatto con gli scarti della lavorazione delle farine bianche, oppure impastato con farine di cereali inferiori come il mais, l'orzo, la segale ecc.

Il pane bianco, sulla tavola contadina, era considerato quasi un lusso ed era riservato alle festività solenni o ai banchetti di nozze mentre invece era sempre presente sulle tavole borghesi, sia di città che di campagna. (Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, periodo d'introduzione su larga scala del mais, fino al 1950 l'alternativa di base al pane e alle minestre era costituita dalla polenta.)

L'alimentazione quotidiana contadina prevedeva come soluzione il piatto unico, in genere minestre o zuppe che la sera venivano poi riscaldate; il "secondo" entrava in menu solo in occasione di ricorrenze particolari, mentre esisteva regolarmente sulle tavole borghesi e delle classi più agiate che si permettevano anche una cucina più variata e legata ai prodotti stagionali.

La cucina borghese di città o di campagna, soprattutto nel XVIII e nel XIX secolo, era però una cucina spersonalizzata, molto influenzata da quella francese. Questa cucina era (ed è) in gran parte accessibile solo ai cuochi professionisti, dal momento che prevede un know how specifico, l'uso dei fondi di cottura e altre elaborazioni particolari, che necessitano di attrezzature inaccessibili ai non professionisti e alle normali casalinghe.

A dare una parvenza di unità alla cucina italiana ci pensò Pellegrino Artusi con La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, pubblicato a Firenze nel 1891, che rimane ancora oggi un testo fondamentale.

All'Artusi, banchiere di estrazione borghese e teorico della cucina, va il merito di aver avvicinato due cucine così diverse: da una parte la cucina borghese, dall'altra quella che si esprimeva in dialetto.

Nell'Artusi - sostiene Piero Camporesi in Alimentazione folclore società - confluiscono due tradizioni (quella del "cuoco reale" e quella del "cuoco cittadino" o borghese, o se si preferisce, la cucina di principi e quella di popolo), non sempre distinguibili con facilità, la cui linea di demarcazione è incerta e sperduta in origini remote, complicata dalla molteplicità di tradizioni locali e di centri culturali diversi, oltre che da diverse economie e da diversi paesaggi agricoli e produttivi.

Anche nella cucina della Lucchesia, dunque, esiste, per tradizione, una cucina contadina o domestica e una cucina borghese (ed esiste, ma soprattutto esisteva, con differenze sostanziali, la cucina feriale e la cucina domenicale); ma i cambiamenti economico-sociali avvenuti a partire dal 1950 ne hanno sfumato i contorni. (Fra questi due diversi tipi di cucina si è poi inserita prepotentemente, negli ultimi decenni, la cucina commerciale o del ristorante, che è un'altra cosa ancora.)

Il concetto di cucina ricca e cucina povera è annoso: anzi, direi storico. Francesco Giovannini mette addirittura in dubbio l'esistenza di una "cucina lucchese" o, più esattamente, di una cucina lucchese povera; secondo lui si dovrebbe parlare piuttosto di "cucina dei poveri" tout-court, i quali "sempre e dovunque hanno mangiato quello che potevano procurarsi di mangiabile". E aggiunge che:

...il problema perpetuo e primario dell'uomo si riduce essenzialmente alla ricerca del modo di passare dalla cucina povera a quella ricca. Ma quelli che [a Lucca] un tempo facevano costume e cultura, amavano la cucina ricca e succulenta. Non mangiavano farro né coniglio, né buccellato e ancor meno spasimavano per il picchiante, per l'infarinata, per i fagioli e per i ceci.

Di fatto, alcuni di questi piatti vengono oggi considerati e proposti più che altro come curiosità snobistiche; ed è stata indubbiamente la recente riscoperta del "popolare" a valorizzare la cosiddetta "cucina povera", quella del tempo ormai perduto che nell'immaginario collettivo diventa inevitabilmente la cucina rassicurante del "buon tempo antico". Parlando di cucina lucchese (come di qualunque altra cucina di qualunque altra zona) non si può però non tener conto delle migrazioni interne e dei confini geografici che, normalmente, non coincidono con quelli alimentari. Ecco allora, nella cucina di Lucchesia, le torte di verdure d'ispirazione ligure, oppure, nella cucina di pesce, il caso eclatante del cacciucco, targato in origine Livorno ma adottato a Viareggio e in tutto il litorale versiliese con varianti veramente minime (giusto per salvare la faccia). O, ancora, certi dolci come il "benzone", vecchia gloria della cucina modenese, ma ormai desueto da una parte e dall'altra dell'Appennino (quasi certamente il benzone è entrato in Garfagnana durante il dominio del ducato di Modena) e, infine, la "mantovana" della quale, però, nonostante il nome, non si trova traccia nei ricettari mantovani.

Quanto alle ricette raccolte in questo libro, che non ha la pretesa di esaurire l'argomento, devo dire che la maggior parte di esse mi sono familiari in quanto questa è la cucina del mio territorio e di casa mia; quasi tutte sono state da me direttamente verificate, esclusi i dolci. Concludo ricordando che per far cucina è necessario un elemento importantissimo eppure mai citato fra gli ingredienti da nessun ricettario: la sensibilità.

E, infine, l'artusiano suggerimento di diffidare dei libri di cucina perché "sono per la maggior parte fallaci e incomprensibili, specialmente quelli italiani".

Escludeva naturalmente il suo. E io, immodestamente, il mio.

Emiliana Lucchesi

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Pagina 18

Panzanella

    per 4 persone
    * 500 g di pane toscano raffermo
    * 400 g di pomodori maturi
    * 1 cipolla
    * Aceto di vino
    * 200 g di radicchio verde di campo
    * Foglioline di basilico
    * Olio extravergine d'oliva a piacere
    * Sale, pepe

Tagliare a fette il pane raffermo e inzupparlo in acqua fredda per una decina di minuti; quando sarà ben morbido prenderlo un po' per volta con una salvietta di tela, premerlo e strizzarlo in modo che la mollica, pur risultando abbastanza asciutta, rimanga intera. Porre il pane strizzato in una ciotola e aggiungere il pomodoro tagliato a tocchetti, la cipolla a fettine, il radicchio tagliato finemente e le foglioline di basilico. Condire con l'olio extravergine d'oliva e l'aceto, aggiustando di sale e pepe.

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Pagina 28

Maccheroncini al pomodoro, pecorino e pepolino

    C'era una volta Cecco Rivolta
    che rivoltava i maccheroni
    se la fece nei calzoni
    la sua mamma lo picchiò
    povero Cecco s'ammalò
    s'ammalò di malattia
    povero Cecco lo portarono via
    lo portarono all'ospedale
    povero Cecco ci stava male
    lo portarono al camposanto
    povero Cecco ci stiede tanto
    lo portarono in Paradiso
    povero Cecco mangiava sempre riso.


    per 4 persone
    * 500 g di pomodori maturi
    * 2 spicchi d'aglio
    * 1 cipolla media
    * Formaggio pecorino stagionato
    * Basilico
    * Olio extravergine d'oliva
    * 300 g di maccheroncini freschi
    * Pepolino
    * Sale, pepe

Preparare la salsa facendo rosolare in olio l'aglio e la cipolla tritati grossolanamente; aggiungere i pomodori, il basilico, aggiustare di sale e di pepe, lasciar cuocere per una mezz'ora e passare tutto al passatutto. Grattugiare il pecorino e tritare il pepolino; mischiarli insieme e tenere da parte. Cuocere i maccheroncini in acqua bollente salata per pochi minuti, scolarli e saltarli in padella col pomodoro e il pecorino. Servire ben caldo.

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Pagina 31

Tordelli

    Crapa pelata faceva i tordelli
    e non ne dava ai suoi fratelli
    i suoi fratelli fan la frittata
    e non la danno a crapa pelata.


I tordelli stanno alla Lucchesia come la pizza sta a Napoli. Si chiamano rigorosamente "tordelli" e si condiscono con un sugo di carne ricco e abbondante e parmigiano grattugiato. Le varianti, da una zona all'altra, sono veramente minime.

    per il ripieno
    * 300 g di carne di manzo tritata
    * 100 g di carne di maiale tritata
    * 100 g di mortadella nostrale (una specie
            di grossa salsiccia locale, molto
            saporita, con impasto a grana media)
    * 300 g di bietole e 1 manciata di borragine
            lessate e strizzate
    * 1 manciatina di parmigiano e di pecorino grattugiati
    * 2 uova intere
    * La mollica di un panino ammollata e strizzata
    * 2 rametti di pepolino tritato
    * Noce moscata grattugiata
    * Sale, pepe

    per la pasta
    * 500 g di farina bianca
    * 1 cucchiaio d'olio
    * 2 uova intere
    * Poco latte

preparazione del ripieno: in una casseruola con poco olio far rosolare appena le carni, avendo cura di salarle subito affinché non induriscano. Lasciarle raffreddare e metterle in una ciotola; unire la mortadella nostrale sbriciolata, le bietole e la borragine lessate in poca acqua, strizzate e tritate, la mollica di pane ammollata e ben strizzata, le uova, il pepolino, la noce moscata, il sale e il pepe, e i formaggi. Amalgamare con cura.

preparazione dei tordelli: sistemare la farina sulla spianatoia e impastarla bene con le uova, l'olio e (poco) latte. Prendere un pezzo di pasta e col mattarello stenderla in sfoglia piuttosto sottile e ricavarne delle strisce alte 12-14 centimetri; distribuire il ripieno a piccoli mucchietti e a distanza regolare al centro della striscia di pasta; ripiegare la pasta su se stessa e con l'aiuto di un bicchiere non troppo grande ritagliare i "tordelli". Premere i bordi con i denti di una forchetta per evitare che durante la cottura si aprano. Via via che i tordelli sono fatti, allinearli su una tovaglia leggermente infarinata, ben staccati l'uno dall'altro. Continuare così fino a esaurimento della pasta e del ripieno. Far bollire una pentola d'acqua salata, buttarci i tordelli pochi per volta e quando vengono a galla abbassare il fuoco ed estrarli con una mestola bucata, facendoli sgocciolare molto bene. Sistemarli in zuppiera, e a strati condirli con sugo di carne e parmigiano grattugiato.

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Pagina 83

Cée alla viareggina

    per 4 persone
    * 500 g di cée
    * Qualche spicchio d'aglio
    * Un po' di scorza di arancia e limone
    * 1/2 bicchiere di vino bianco secco
    * Olio extravergine d'oliva
    * Foglie di salvia
    * Peperoncino
    * Sale

Le "cée" sono anguille neonate, ancora trasparenti, pescate alla foce dei fiumi. Le più pregiate - quelle più piccole e chiare - sono quelle che vengono pescate in prossimità del mare perché poi, man mano che risalgono i corsi d'acqua, tendono a ingrossarsi e a scurirsi. A Viareggio venivano (e vengono) pescate nell'avamporto e nel primo tratto del canale Burlamacca con la cerchiaia, una rete apposita sistemata in cima a un lungo bastone, alla luce tremula di "tradotte" alimentate a nafta. Anche se oggi, vista la grande richiesta che c'è sul mercato, spesso le importiamo dalla Francia e dalla Spagna, ovviamente quelle nostrane hanno altra delicatezza e altri sapori. Bisogna riconoscere, infine, che le cée sono un piatto tradizionale della cucina pisana (dove però, orrore, vengono servite con parmigiano grattugiato), anche se ormai sono state adottate e codificate dalla cucina viareggina, che le esibisce come bandiera. Il periodo di pesca delle cée è dicembre-marzo e al momento di cucinarle devono essere freschissime. Anzi, letteralmente vive. Mettere le cée in un colino e lavarle bene sotto l'acqua del rubinetto; una volta che avranno perduto la loro "bavetta" asciugarle molto bene in un canovaccio, facendo attenzione che non schizzino via. Porre l'olio in una padella di ferro, unire gli spicchi d'aglio schiacciati, il peperoncino, la scorza di limone e di arancia e le foglie di salvia. Quando l'aglio avrà preso un bel colore dorato, buttare le cée in padella e incoperchiare immediatamente. Dopo alcuni istanti aggiungere il vino, farlo sfumare e aggiustare di sale. Lasciar cuocere per alcuni minuti, fino a quando le cée saranno tornate sull'olio.

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Pagina 87

Le chiocciole di Nonna Tina

Io sono Nonna Tina. Sono nata al Fucino nel comune di Certaldo in provincia di Firenze. È una bella terra contornata di boschi immensi dove si trovavano funghi porcini, ovoli e tartufi. E noi si portava a casa tutto quel ben di Dio! Avevamo un cane da tartufi che si chiamava Puffo: era nero, bello e buono. Quanti ricordi, quanti rimpianti!... I boschi erano fitti, misteriosi e ombrosi. C'erano querce, acacie, lecci e ciuffi immensi di ginestre con la loro esplosione di fiori gialli. Le ginestre ingentilivano e illuminavano il bosco ma facevano anche un altro servizio: davano da mangiare alle chiocciole. Perché quand'ero piccola andavamo per chiocciole e le mangiavamo con gioia: era un piatto prelibato e non costava nulla! Io andavo a raccoglierle con mia nonna la mattina presto. Si usciva verso le 6 con gli stivali o con le scarpe chiodate, altrimenti si scivolava, perché l'erba era bagnata se era piovuto, sennò era bagnata lo stesso dalla guazza. Raccoglievamo chiocciole fino a quando il sole non si alzava e cominciava a scaldare il terreno, a quel punto le chiocciole cominciavano a nascondersi e a cercare riparo. E noi tornavamo a casa col nostro prezioso raccolto. Le chiocciole erano le bianche e le striate, poi c'era anche qualche martinaccio, ma pochi. La nonna mi spiegava che le chiocciole erano così, belle pasciute, perché mangiavano i fiori e le foglie della ginestra, che in quella stagione, maggio-giugno, erano uno splendore! Una volta a casa principiavano i preparativi: le chiocciole venivano sistemate sotto un catino o sotto una conca e gli davamo da mangiare della crusca, eppoi ancora crusca, eppoi... e noi eravamo contente e si contavano i giorni... fino a quando finivano nel tegame.

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Pagina 118

Le frittate

    Vedo la luna, vedo le stelle
    vedo Caino che fa le frittelle
    vedo la tavola apparecchiata
    vedo Caino che fa la frittata.


Fare una frittata perfetta non è difficile, basta seguire qualche preziosa regoletta. Prima di tutto la padella deve essere di ferro; quella dei fritti, per intenderci. Poi qualunque ingrediente si scelga per fare la frittata (zucchini, cipolle, patate ecc.) se cotto al momento di fare la frittata, deve essere lasciato intiepidire (altrimenti "cuocerebbe" le uova) e incorporato alle uova fuori dal fuoco. Dopodiché si rimette la padella con pochissimo olio sul fuoco, e quando è calda vi si versa il composto (il fuoco dovrà essere molto dolce per consentire una cottura uniforme); durante la cottura scuotere spesso la padella affinché la frittata non si attacchi. Rigirarla con l'aiuto di un vassoio piano e farla cuocere anche dall'altra parte. Infine passarla su un foglio di carta assorbente per asciugarla dall'olio in eccedenza, quindi sistemarla su un piatto di portata e servirla calda, tiepida o fredda. La frittata deve risultare ben cotta e dorata, all'esterno, ma leggermente baveuse (cioè morbida) all'interno.

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Pagina 141

I dolci


Il dolce più conosciuto della lucchesia è senz'altro il buccellato. Le sue origini sono antichissime. Il buccelatum dei Romani era una specie di pane militare; l'etimo è buccina o buccella, nel senso di "pane a forma di corona o bocca" (bucca). E buccellatus nel latino medievale era una specie di pane dolce che i vassalli portavano in dono al feudatario. Ma questo dolce, che è un po' il simbolo di Lucca, viene menzionato per la prima volta in un documento del 1485 e Scipione Ammirato, storico fiorentino (1531-1601), nei suoi scritti (Delle famiglie nobili napoletane) lo descrive così: "...nella Patria mia e ne' luoghi vicini a lei chiamasi buccellato quella sorta di pane... in modo d'una ruota attorno et aperto nel mezzo che somiglia a un cerchio...". Nel 1578, nel tentativo di rimpinguare le casse dell'erario prosciugate dai lavori per arginare il Serchio, fu addirittura istituita una "tassa sul buccellato"; tale tassa rimase in vigore fino al 1606. (Ancora oggi, in Toscana, di una cosa che si è strapagata si dice che "è costata più del fiume ai lucchesi".) Nelle campagne lucchesi è ancora viva la tradizione di regalare ai propri figliocci, nel giorno della Cresima, un buccellato in segno augurale: di norma ha forma di ciambella, se aromatizzato con l'anice, oppure di lungo pane, se arricchito con uvetta. Poi c'è il "giulebbe di ciliegie". Il giulebbe è praticamente una zuppa di ciliegie marasche (amarene) che crescono numerose a Castelnuovo Garfagnana e dintorni. Questa zuppa veniva anche chiamata "zuppa dell'Ariosto", in onore di Ludovico Ariosto che, su incarico del cardinale Ippolito d'Este (fratello del duca Alfonso), resse il governatorato della Garfagnana dal 1522 al 1525. Infine c'è il benzone, un dolce semplice e casalingo originario del Modenese che si usa fare in alcuni paesi dell'alta Versilia e della Garfagnana, ma è praticamente sconosciuto a Lucca. La spiegazione c'è ed è semplicissima: nelle sue travagliate questioni di confine, la Garfagnana fu soggetta, tra gli altri, al dominio del Ducato di Modena.

Lo stesso discorso vale anche per la "mantovana"; di questo dolce, però, nonostante il nome, non si trova traccia nei ricettari mantovani. Da non dimenticare il "castagnaccio" e tutte le specialità a base di farina di castagne, grande risorsa della zona (i necci, le frittelle, le mondine, l'umile vinata ecc.). Per il resto i dolci sono legati a tradizioni popolari, come i befanini, i cenci, le frittelle di riso (o di S. Giuseppe), oppure religiose, come la mandolata, la pasimata garfagnina e le torte di Pasqua. Le "torte di Pasqua" per antonomasia sono la torta di riso e cioccolato e quella di semolino, che si fanno a Viareggio e dintorni nei giorni avanti Pasqua.

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