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| << | < | > | >> |Indice9 ALESSANDRIA, ANNO 642 MILLENNIO 31 L'Universo in rotoli 40 Dove Amrou si cimenta con la filosofia 43 La Bibbia dei Settanta 51 Dove Amrou si scopre traduttore 54 L'arroganza di Euclide 62 Dove Amrou tiene la sua lezione 65 Le stelle e la sabbia 83 Dove Amrou si cimenta con l'ironia 87 Gli atleti del sapere 98 Dove Amrou si riconosce poeta 101 La "guerra delle biblioteche" 112 Dove Amrou si fa romano 116 La chioma di Berenice 131 Il soldato e la dea 141 Dove Amrou chiede aiuto 145 Il giudeo e l'imperatore 158 Dove Amrou si interroga sul destino 161 L'astrologo e lo stoico 180 Dove Amrou cambia campo 185 La donna e il vescovo 196 Dove Amrou diventa scriba SAGGEZZA BARBARA 201 Il messaggio 205 Omar 210 Sillogismi 216 Le terme di Alessandria EPILOGO 223 La canna di Niccolò 229 Postfazione APPENDICE 235 Personaggi principali 236 Scienziati ed eruditi 244 Tavola sinottica dei re e dei sapienti 249 Note scientifiche 255 Ringraziamenti |
| << | < | > | >> |Pagina 9Sotto una sottile falce di luna si stagliava il profilo di due torri gemelle, che inquadravano la porta chiusa della città. L'emiro Amrou Ben al-As osservava con aria sognante le pesanti porte chiodate del quartiere dei Palazzi, appena illuminato dal fuoco dei bivacchi e dalla luce intermittente del Faro. Laggiù a Medina il califfo Omar, il capo dei fedeli, gli aveva ordinato di far sparire ogni traccia di paganesimo dall'orgogliosa Alessandria. Lui, dunque, avrebbe distrutto quelle torri. Mille anni di civiltà dovevano morire col ferro e col fuoco. Ad Amrou questa cosa non piaceva. Pur essendo un guerriero, preferiva convincere con la parola che vincere con la forza. E non gli piaceva immaginare che il suo nome sarebbe passato alla posterità come quello di un distruttore. Allora alzò lo sguardo verso il cielo scuro, come per decifrare il messaggio di quei chiodi d'oro che scintillavano là in alto. Era un cielo meno puro di quello del gran deserto, perché il mare vicino lo rendeva meno limpido. Domani, Amrou sarebbe entrato in Alessandria. Non, come una volta, da mercante, con i suoi cammelli carichi di seta e di spezie, ma da guerriero e da conquistatore dell'Egitto, con i suoi beduini. Nella conquista dei villaggi era stato magnanimo. Non un tempio pagano saccheggiato, non una casa di cristiani o di giudei depredata, non una donna violentata. I suoi beduini si erano comportati da liberatori, come lui aveva ordinato. Ma domani sarebbe stata tutt'altra cosa. Il quartiere dei Palazzi era ricco, e i suoi soldati non avrebbero accettato che si proibisse di approfittarne. E poi, queste statue di divinità pagane, che i greci conservavano, pretendendo che fossero opere d'arte, e le immagini idolatre del volto di Dio e dei suoi profeti, anche quelle bisognava abbatterle. E infine questi libri antichi, pieni di superstizioni e menzogne, sarebbe stato necessario bruciarli. Amrou, che per natura era curioso delle cose straniere, non avrebbe certo distrutto allegramente tutto questo. Soprattutto la poesia, pagana o no, gli sembrava degna di rispetto, perché possedeva sempre qualcosa di sacro. Quel guerriero, quando era solo un mercante, aveva molto viaggiato. Le sue carovane lo avevano portato fino ad Antiochia a nord, fino ad Ispahan a oriente e, naturalmente, fin qui, ad Alessandria, a occidente. Ancora poco sicuro della sua fede nella parola del Profeta, in queste città straniere, una volta smerciato il suo carico, incontrava maghi, preti e rabbini, e poneva loro mille e una domanda sui loro riti e la loro leggende, e sull'idea che si facevano della Terra e dell'Universo. Così aveva imparato a conoscere l'altro, a comprendere lo straniero. Curioso di tutto, anche dei cibi altrui, aveva acquisito un notevole bagaglio di informazioni, che lo rendevano, a Medina come a La Mecca, un uomo di cultura ascoltato dai vecchi e dai poeti. Ma ora non era più il tempo dello scambio e delle discussioni. La guerra santa non era adatta a queste cose. Amrou, come l'onda sulla sabbia, ritornava, con le sue orde di guerrieri del deserto, per sommergere Alessandria. | << | < | > | >> |Pagina 13Giovanni Filopono pensava, con un sorriso amaro, che il cavaliere dell'Apocalisse era troppo impaziente: se avesse aspettato ancora ventitré anni, Alessandria avrebbe festeggiato il suo millennio tra fiamme e sangue, proclamando il regno dell'Anticristo. E d'altra parte, non era forse già arrivata la fine dei tempi? Una morte lenta e insidiosa, sotto i peristili del Museo, con le lastre di marmo spaccate dalle sassifraghe, con le colonne imbrattate dai graffiti osceni, mentre nelle sale della Biblioteca, con le finestre tutte rotte e con l'interno degli armadi rosicchiati dagli insetti, il calore e l'umidità gonfiavano, ingiallivano, screpolavano rotoli di papiro e pergamene avvolte, che neppure una derisoria copertura di polvere proteggeva più.
E lui, Giovanni Filopono, non era anche lui coperto
dalla polvere degli anni? Tutta una vita, quasi un secolo, spesa per cercare di
salvare mille anni di lavoro e di
sapienza umana, alla ricerca della verità sull'Universo,
domani si sarebbe ridotta a niente. Questi mille anni si
ammucchiavano in un disordine che non smetteva di
crescere. Non c'erano più copisti a riprodurre i manoscritti depositati qui dai
quattro punti cardinali, né traduttori eruditi per tradurre in greco le
leggende, i miti e le scienze degli imperi del Levante. E non c'erano più
sapienti per consultare, riscoprire, commentare le opere
degli antichi. Non restava che lui, Giovanni Filopono,
filosofo cristiano, grammatico illustre e soprattutto ultimo bibliotecario, che
la morte stava per portar via. Lui,
ma anche Al-Razi, medico sapiente e suo devoto assistente, che vegliava sulla
Biblioteca come sul più fragile
dei suoi pazienti. Ahimè, quest'uomo, ancora giovane,
era ebreo e ostentava uno scetticismo ironico di fronte
alle polemiche che laceravano la Chiesa cristiana. Un
ebreo bibliotecario del Museo di Alessandria: come immaginarlo? E come
immaginare che si potesse mettere
a capo della più grande biblioteca del mondo la bella
Ipazia, la nipotina del vecchio grammatico, alla quale la
lettura di Euclide e di Tolomeo faceva troppo trascurare
la lettura di Paolo e di Agostino? E poi, era solo una donna.
Da molto tempo, ormai, dal mare non arrivavano più battelli carichi di lana, di vino, di olio, di spezie, di metalli preziosi e di libri. Roma era nelle mani dei barbari, Atene era un lontano sobborgo di Costantinopoli, Pergamo un nido d'api senza uova e Gerusalemme un villaggio miserabile che i cammellieri disputavano ai cani. Talvolta ancora entrava in porto un mercante famelico per vendere a Filopono qualche volume scorticato, che il vecchio sfogliava stancamente per ritrovarvi, con i suoi occhi affaticati, sempre lo stesso commento rabberciato, la stessa esegesi zeppa di citazioni smozzicate di Origene, Basilio, o Agostino. Alcuni anni prima, Filopono aveva avuto occasione di parlare con uno dei mercanti arabi che avevano tentato di vendergli il loro libro sacro, opera di uno di quegli innumerevoli falsi profeti che proliferavano tra Gerusalemme e l'Arabia Felix, mezzi matti e ciarlatani, perché, per essere convincenti, questi energumeni dovevano essi stessi credere alle loro favole. Filopono non decifrava quella scrittura ideografica dai caratteri bellissimi, anche se incisi su scapole di dromedario o su pelle di capra, rustica cugina della pergamena. Lui chiese a quel mercante di leggergliela. Era una rozza visione dell'Antico e del Nuovo Testamento, dove un profeta nomade, tale Maometto, raccontava Mosè, Maria e Gesù ai pagani come si fa con i bambini. Tutto ciò era vergognosamente blasfemo. Maometto arrivava a dire che i cristiani erano politeisti e che il Salvatore era un profeta come gli altri. Ma questo discorso così semplice poteva sedurre i contadini e i pastori. E ne era prova, oggi, questa armata di beduini, contro la quale il piccolo popolo egiziano, ancora pagano, non aveva potuto fare resistenza, né a Eliopoli, né qui, nei sobborghi di Alessandria. E ora, l'invasore aspettava l'alba per abbattere le porte della cittadella greca, ultimo baluardo della civiltà, e distruggere quel che restava da distruggere, bruciare quel che restava da bruciare. Filopono avrebbe potuto comprare quel libro e tentare di apprendere la lingua araba, ma ad Alessandria doveva essere prudente. I dottori di teologia di Bisanzio, suoi nemici, avrebbero avuto buon gioco nell'accusarlo di simpatia per la setta di questi barbari. E così aveva lasciato ripartire il mercante, pur soffrendo di non poter continuare l'opera dei suoi illustri predecessori, che avevano l'ambizione di raccogliere tutti i libri del mondo. Il mercante gli aveva assicurato che le parole di Maometto, pronunciate in pubblico, erano solo parzialmente contenute in questo libro. Il sedicente profeta, analfabeta, non ne aveva fatto nessuna redazione scritta, ma i suoi compagni conoscevano a memoria i seimiladuecentotrentasei versetti, che credevano direttamente ispirati da Dio. Al-Razi, l'assistente del vecchio grammatico, aveva avuto meno scrupoli. Aveva accettato di portarsi a casa questo Corano per studiarlo, ma soprattutto per arricchire una sua collezione di oggetti curiosi e divertenti che amava mostrare agli amici: sassi o pezzi di legno trasportati dal mare, di forma bizzarra, parti o copie di piccole statue dell'antico Egitto dei faraoni, figure ingenue scarabocchiate sulla madreperla da pescatori o da mendicanti. In ogni modo, da buon medico, Al-Razi si interessava solo dei misteri del corpo: lui, ebreo, rifiutava di entrare nei dibattiti teologici che intanto scuotevano la Terra intera. Ora Filopono rimpiangeva di non aver comprato quegli scritti. Forse avrebbe potuto rilanciarli come un'arma contro i barbari. I barbari che domani avrebbero conquistato la città. Quale destino avrebbero riservato a quei milioni di schegge di pensiero umano ammucchiati lì? Era già un miracolo che Filopono avesse potuto salvarli durante gli ultimi oscuri decenni. Né i Persiani, né i vescovi di Bisanzio avevano osato distruggere la Biblioteca, o depredarla. Ma questa volta era proprio in pericolo di morte. E allora Giovanni Filopono aspettava l'epilogo, nelle lunghe sale silenziose del Museo in abbandono. | << | < | > | >> |Pagina 17«Ecco l'opera di Dhu al Qarnayn, quello con due corna!». Amrou disse queste strane parole in un greco quasi perfetto, in cui affiorava solo un leggero accento gutturale. Filopono alzò la testa e lo guardò con un'aria stupita. Quando all'alba aveva sentito il rumore dei passi e il tintinnio delle armi dei soldati che penetravano nel Museo, il vecchio filosofo aveva deciso di morire a imitazione di Archimede. Aveva aperto sul suo tavolo di marmo un'antica copia dell' Ippia Maggiore, e a margine della formula di Socrate: "Io dico che a mio parere il bello è l'utile" aveva annotato l'inizio di un commento. "Senza dubbio, ma...", lasciando volontariamente in sospeso la frase. In un istante la spada lo avrebbe trafitto, e per secoli la posterità avrebbe ripetuto che ancora una volta il pensiero era morto, incompiuto, nel sangue. Derisione e impostura, ma avvertimento sublime per le generazioni future. «Quello con due corna? Io non so di che parli, generale. E forse uno dei vostri idoli sanguinari, Baal o Moloch, in onore dei quali voi sgozzate donne e bambini nei vostri paesi selvaggi?». Filopono sperava che il conquistatore arabo, reso furioso da questa risposta insolente, l'avrebbe subito fatta finita. Ma, contrariamente alle sue aspettative, Amrou scoppiò in un gran riso sincero: «Se tu avessi accettato quel libro che una volta ti avevo proposto, ora sapresti, nobile vecchio, che io parlo di colui che voi chiamate "Alessandro", e che il Profeta chiamava Dhu al Qarnayn, oppure Iskandar». Dunque, era lui! Il vivace mercante che aveva cercato di vendergli quelle scapole incise era tornato, ora, sotto l'arrogante corazza del guerriero! E non offriva più a Filopono dei rozzi versetti, ma una spada. Il vecchio filosofo, superando il primo attimo di sconcerto, si disse che dopotutto quel generale poteva essere meno temibile di quanto non sembrasse. Non poté impedirsi di sorridere. Dunque, le fiabe nate intorno ad Alessandro il Grande erano arrivate fino ai confini del mondo. Alessandro stesso, che sperava di essere divinizzato da vivo, aveva preteso di esser messo sul trono del dio egiziano Amon, con la testa di montone, nell'oasi di Siva. E poi aveva ordinato che tutte le sue immagini fabbricate ad Alessandria portassero sulla fronte le corna dell'idolo. Ma Amrou aveva colto il sorriso scettico del vecchio. Con un gesto autoritario allontanò la scorta, prese una sedia e sedette familiarmente all'altro lato del tavolo. «Quell'ignorante beduino che io sono, saggio Filopono, ha ben compreso che si trattava di una parabola dettata dall'Onnipotente al suo Profeta per indicare che, allo stesso modo in cui Alessandro aveva costruito quelle muraglie di bronzo, Allah aveva predisposto l'inferno come dimora per i miscredenti». Filopono si sentì a disagio. Lui, che per tutta la notte si era preparato a una morte gloriosa, sotto i colpi di un bruto, si ritrovava a chiacchierare con un uomo di una quarantina d'anni, affabile e affascinante, con occhi di un nero profondo e vivo, dai gesti dolci e sensuali, elegante nella sua lunga tunica bianca con i bordi d'oro. Gli tornò la speranza. Non tutto era perduto. Il saggio Cassiodoro, ai suoi tempi, non aveva forse salvato Roma, diventando il consigliere del goto Teodorico? Amrou non aveva niente del bruto. E inoltre aveva appena rivelato una delle sue debolezze: come ogni militare, sognava di emulare la gloria di Alessandro. Non bisognava impaurirlo. Filopono decise di cambiare atteggiamento, sostituendo al tono sarcastico che aveva assunto fino ad allora quello protettivo e rassegnato del vecchio sapiente: «Hai ragione, generale. Questa città è nata dalla volontà di Alessandro. E d'altra parte è qui che riposa il più grande soldato dell'universo, perché il suo corpo fu riportato da Babilonia in una bara d'oro. Ahimè, il suo mausoleo fu depredato da non si sa quali usurpatori!». Era una flagrante menzogna storica, ma l'Arabo avrebbe compreso l'allusione e svelato le sue intenzioni. «Ignoravo questo fatto replicò Amrou, con un tono vagamente canzonatorio. Quando ero un mercante che veniva dal deserto e interrogavo i miei clienti a proposito della tomba di Alessandro, loro mi raccontavano che un antico re della tua grande città aveva commesso il sacrilegio di impadronirsi dei tesori nascosti nel mausoleo, per poter pagare le sue truppe e combattere contro suo fratello che gli contestava il trono. E certamente una di quelle favole trasportate dai girovaghi di fiera in fiera, e che un credulo beduino, come sono io, ha ingenuamente ingoiato». Filopono si morse le labbra. Ancora una volta aveva sottovalutato le conoscenze del suo interlocutore. Amrou fece finta di non vedere il suo turbamento, e proseguì: «Le tombe di noi discepoli del Profeta non rischiano di essere profanate. Noi corichiamo i nostri morti direttamente a terra, perché arrivino nudi nei giardini di Allah, dove saranno provveduti di tutto. E saranno ancora nudi il giorno della Resurrezione e del Giudizio». «Noi non saremo nudi il giorno del Giudizio, ma coperti dei nostri peccati e dei nostri delitti. E quelli che rubano, depredano, uccidono, distruggono l'opera del Creatore (il quale ha dato all'uomo, al contrario dell'animale, il potere di comprendere il mondo per adorarlo meglio), bruceranno nell'inferno per l'eternità. Lo sai questo, generale Amrou?». «Lo so, e so anche perché il Creatore annientò Sodoma e Gomorra». «Tu non sei l'angelo della morte replicò dolcemente Filopono. E Alessandria non è la nuova Babilonia». Si squadrarono per un istante in silenzio. Un vento freddo venuto dal mare soffiava sotto il peristilio e faceva tremare il libro di Platone sullo scrittoio. Amrou emise un gran respiro, e infine disse: «Θ vero che io sono solo un mercante che si è fatto soldato di Dio. Θ vero anche che tu sei un uomo virtuoso e sapiente, Filopono; ma è vero, infine, che i grandi sacerdoti della tua religione sono ricchi, malgrado la povertà esemplare di quel profeta che voi credete Dio: Gesù. Te l'ho già detto: io sono un soldato. Obbedisco agli ordini del mio califfo e capo dei fedeli, Omar Abu Hafsa Ben al-Khattab. Se lui decide che la città deve essere punita, io la punirò. Se farà un atto di clemenza, obbedirò con gioia». Filopono aveva immaginato Amrou e la sua armata a somiglianza di quelle orde dilaganti dalle pianure del Nord sulla cristianità, con a capo dei guerrieri che, tutti, orgogliosamente si attribuivano il titolo di re, ma avevano un solo dio e un solo ideale: l'oro e la ricchezza che credevano di trovare dietro le mura di Roma o di Costantinopoli. Aveva, invece, innanzi a sé un vero generale, che obbediva agli ordini di un certo Omar, re o papa d'Arabia, e che conosceva l'Antico e il Nuovo Testamento (anche se questi eretici avevano pensato bene di aggiungere un terzo testo sacro, il Corano, che non avrebbe resistito neppure alla più semplice disputa teologica). Ma se non altro, si sentiva rassicurato: questi ritenevano di essere il "popolo del Libro", e perciò, forse, avrebbero rispettato gli altri libri, quelli contenuti nella Biblioteca. Inoltre, dal tono che aveva usato Amrou per parlare del suo "califfo", come lui lo chiamava, il vecchio filosofo aveva intuito che il generale non aveva per il proprio capo tutta la venerazione dovuta: c'era anche lì qualcosa da approfondire. «Io non so per quale crimine disse infine il tuo maestro vuole punire questa città, che fu la più grande del mondo e che chiamano la nuova Atene. Θ forse un crimine resistere a un'invasione? E chi ha resistito a quest'ultimo assalto? La flotta e i soldati di Bisanzio. Ma sono fuggiti. La città è tua e di fronte a te, come nemico sconfitto, hai solo un vecchio, che ha un'unica speranza: quella di consacrare i suoi ultimi giorni alla salvezza di tutto il sapere che lo circonda, e che è la sola armata capace di resisterti». Il sangue salì alla testa di Amrou: minimizzando così la sua vittoria, Filopono lo offendeva come stratega: «Che forza hanno dunque questi libri, rispose che potere hanno contro i soldati di Dio, contro la parola dei profeti, contro l'ultimo tra loro, l'ultimo e il più grande? Raccontano cose diverse da quelle che hanno detto Mosè, Gesù e Maometto, e che sono state dettate dall'Altissimo? Perché tutto è già detto, vecchio, dalla Bibbia e dal Corano. Chi scrivesse cose diverse si opporrebbe alla verità pronunciata dalla voce stessa di Dio. E sarebbe la voce del demonio». Amrou aveva detto queste cose con una tranquilla sicurezza: mai la minima ombra di dubbio aveva sfiorato la sua larga fronte, scavata dalla sabbia e dal sole. E Filopono sognava che, a suo modo, il guerriero del deserto riproponesse le stesse idee dei dottori della Chiesa, che lui aveva per tanto tempo affrontato. Ma questa volta non si sarebbe trattato di una sottile navigazione nelle acque capricciose della dialettica. Il vecchio filosofo aveva di fronte a sé una roccia di certezza, una fede semplice e senza fregi. Forse limitata. Per fendere questa roccia sarebbe servita più forza di quella contenuta nei raffinati colpi di erudizione con i quali Filopono sapeva di solito pungere così bene l'avversario. Se Amrou fosse stato il più stupido dei suoi allievi, lui avrebbe almeno potuto versare in quel vuoto un po' di sapere. Ma Amrou non era vuoto, e non era un suo allievo. «Il demonio siamo noi tutti, generale, e può darsi che si sia insinuato anche in queste scaffalature. Ma Dio ci ha dato in cambio l'amore del bello, l'amore dell'utile. E che c'è di più bello e di più utile dell'Universo, che Lui ha creato per noi? Θ proprio questa bellezza, questa utilità, che gli scritti che ci circondano cercano di magnificare fin dalla notte dei tempi». «Che dicono di più del Corano?». «Io non lo so, perché non ho letto il tuo Corano. E, credimi, oggi lo rimpiango». «Ma se non servono a niente, perché ammucchiarli così tra la polvere?». «Prima di condannarli, Amrou, prima di bruciarli, cerca almeno di sapere che cosa contengono». «Allora parla: prova a convincermi». «Io sono vecchio, figlio mio, e conosco troppe cose. Non saprei da dove cominciare. Mi autorizzi a chiedere un aiuto? Dove la vecchiaia, troppo piena di sapere, non saprebbe che cosa dirti, la giovinezza potrebbe parlarti». «E chi sono questi giovani?». «Un giudeo e una donna». | << | < | > | >> |Pagina 23A passo veloce, Ipazia e Al-Razi traversavano i due peristili e il Peripateo, prima di entrare nella Biblioteca. All'apparire della giovane donna, Amrou si alzò, ma Ipazia non gli lasciò il tempo di parlare. Gli tese un ramo d'ulivo carico di frutti e, accompagnando il suo gesto con un grazioso inchino, gli disse: «Amrou, se vuoi diventare il padrone delle nostre terre, impara prima di tutto a carezzare il tronco rugoso dell'ulivo benefico, pregandolo di offrirti i suoi frutti, pieni di un olio dorato. Impara anche a baciare il grappolo d'uva come fosse una donna, perché possa inondarti un giorno della voluttà del suo vino. E impara, poi, a parlare ai campi di grano come ai tuoi soldati. Le loro spighe ti daranno il pane come la più bella delle tue conquiste. Dal grano, dalla vite e dall'ulivo nasce la pace, e nasce il Libro». Affascinato, Amrou giunse le mani e si inchinò: «Come possono nascondersi tanta grazia e tanta poesia in tanta ombra e tanta polvere? Una ragazza come te è fatta per avere un buon marito e dei bei bambini. Così perduta fra i libri, finirai per disseccarti come un vecchio papiro!». Ipazia ebbe un gesto vezzoso di irritazione: «Generale, se questa è una domanda di matrimonio, mi sembra molto brutale. Mio zio mi aveva parlato di te come di un uomo cortese e prudente». «Perdonami. Io sono solo un soldato del deserto e non ho mai incontrato, nella mia arida vita, una donna che unisse tanta bellezza a tanta saggezza». «Diffida delle donne greche, Amrou celiò Filopono. Scottano come il ghiaccio, ma non si sciolgono». «Dunque, siete tutti greci in questo palazzo? Io credevo di essere in terra d'Egitto». «Sono mille anni intervenne Al-Razi che Alessandro, un macedone, fondò questa città. E si può dire che ogni alessandrino discende, insieme, da Alessandro e dai Faraoni». «E tu da chi discendi, giudeo?». «Da Abramo, generale, proprio come te. I figli di Israele sono fratelli di quelli di Ismaele. Tu e io siamo figli del Libro». Amrou indicò con un gesto sprezzante del braccio le scaffalature che li circondavano: «E quei libri che cosa aggiungono alle parole che l'Onnipotente dettò ai suoi profeti?». Filopono gettò uno sguardo disperato a sua nipote e al medico. Per aprire la mente di quest'uomo, per salvare la Biblioteca, c'era bisogno di tutta la foga e l'entusiasmo della loro giovinezza. Lui non poteva più farlo. Ma che diceva Al-Razi? «Tutti i libri sono di ispirazione divina, perché tutti lodano la bellezza della Creazione». Sfortunati! Quello ripeteva la stessa cosa che aveva detto Filopono qualche ora prima e che aveva provocato una pericolosa discussione, nella quale Amrou, puntellato dal suo Corano, in nome del suo Dio, negava ogni valore agli scritti degli Antichi. Per fortuna, Ipazia capì che la conversazione stava affondando in una zona che le era del tutto estranea. Lei conosceva la reputazione di questi uomini del deserto, inclini al sogno, alla poesia, alla fantasia. Era là che bisognava trascinare Amrou. L'adulazione certo non sarebbe stata inutile. Né la seduzione, che era un po' la stessa cosa. «Si dice che tu sia il più coraggioso, ma anche il più clemente dei guerrieri. La tua fama ha varcato i deserti e i mari. Ti temono e ti rispettano fino a Bisanzio. Lo stesso Alessandro sarebbe stato lieto di averti vicino. Mi sembra legittimo che tu divenga il padrone della città fondata da lui». Amrou fece una piccola smorfia, a significare che non credeva a quei complimenti. Ipazia proseguì: «Una delle mie serve, che frequenta, a mio parere, un po' troppo da vicino, e a scapito del suo lavoro uno dei tuoi luogotenenti, mi ha riferito che, mentre il tuo coraggio appartiene solo a te, tu hai ereditato la saggezza da un tuo antenato che era capo della tua tribù, un grande erudito, che visse i suoi ultimi anni da solitario, interessato soltanto alla contemplazione degli astri e alla meditazione. Θ vero che hai passato la tua infanzia accanto a lui?». «Il mio luogotenente non ha mentito alla tua schiava, bella fanciulla. Ahimè, il mio venerato nonno morì senza aver conosciuto la parola del Profeta». «Neppure Aristotele l'ha conosciuta. E tuttavia, per la sua sapienza, certo merita, come tuo nonno, il paradiso». «Se questo è scritto... Ma non farmi rimbombare le orecchie, come fa tuo zio, con questo Aristotele. Al punto di credere che questo luogo contenga solo le opere di quel seccatore». Filopono borbottava il suo scontento nella sua lunga barba, sua nipote e Al-Razi si guardarono e scoppiarono a ridere. A questo spettacolo, Amrou si distese: «Su, bella giovinezza, un po' più di rispetto per i vecchi... E per le loro manie. Quanto a me, io mi tengo in bilico fra le vostre due età». Ipazia colse in quest'ultima frase come un sospetto di gelosia nei confronti del giovane medico. E d'altra parte Al-Razi, non senza fatuità, stava molto vicino alla ragazza, come se tra loro vi fosse qualcosa di più dell'amicizia. Lei si scostò leggermente: «Io non so se tuo nonno sarebbe stato fiero delle tue conquiste militari disse ma sono sicura che, se ti avesse visto in possesso di questi settecentomila volumi, ti avrebbe chiesto di pensarci due volte prima di distruggerli». Una nube passò innanzi agli occhi del generale. Come far comprendere che la decisione non dipendeva da lui, ma dal califfo Omar? Poté solo ripetere l'argomento al quale si aggrappava e che gli sembrava sempre più specioso: «Che c'è in questi libri che il Profeta non ci abbia insegnato?». Ipazia fece una faccia da bambina irritata. Ma questo la rese solo più affascinante. «Lasciamo stare questo argomento, te ne prego. Dimmi piuttosto se tuo nonno non sarebbe stato contento di rispondere a queste cinque domande: dov'è il centro dell'Universo? Quanti movimenti possono compiere i pianeti? Che forma e che dimensione ha la Terra sulla quale tu, io e tutti noi viviamo? Da dove riceve la sua luce la Luna? Quante stelle ci sono in cielo?». «Com'è strano, Ipazia! Quando mio nonno e io, distesi supini nella notte del deserto, contemplavamo la volta celeste, lui si chiedeva ad alta voce le stesse cose. E mi trascinava nella sua vertigine. Le risposte sono tra queste mura?». «Forse sì, forse no. Tutto ciò che so è che tu puoi guarire dalla tua vertigine; ma prima non ti piacerebbe almeno sapere come e per quale prodigio, per mille anni, degli uomini hanno ammucchiato qui tutti questi libri? Quando saprai "come", forse potrai rispondere alla domanda "perché"». «Ecco chi è saggio, bella fanciulla, anche se io credo di indovinare che si tratta di una nuova Torre di Babele, di cui vorresti raccontarmi la storia». «Tu sei proprio come tutti gli altri uomini, Amrou, se giudichi e condanni prima di sapere. Per questo voi uomini fate la guerra. Invece è una storia di pace, non di guerra, quella che voglio raccontarti; una storia di sapere e non di potere». «Una storia di donne, insomma». «Perché no? La Biblioteca è certamente una donna di cui nessuno può esaurire i segreti». Aveva detto questo quasi bisbigliando, con una voce calda e leggermente velata. Amrou ne fu profondamente commosso e per mascherare il suo turbamento disse in tono troppo marziale: «Racconta, dunque, cominciando dall'inizio. Se mi convinci, io a mia volta tenterò di persuadere il califfo Omar a salvare tutto questo». "Convincermi o stregarmi, maga troppo bella", pensava tra sé il guerriero, che si credeva già sotto il peso di un fascino malefico. Ma continuò a parlare: «Raccontami prima di tutto chi sono quei folli che hanno voluto, tanto stupidamente e altrettanto orgogliosamente, ricostruire in mille anni, su pelli di vacca o su foglie, quello che Dio aveva impiegato sette giorni a creare». «Se vuoi che ti si narri l'invenzione della Biblioteca replicò Ipazia dovrai ascoltare mio zio. Lui conosce la sua storia meglio di ogni altro al mondo. Si potrebbe credere che ne abbia conosciuto i fondatori», aggiunse ridendo. Amrou non poté nascondere la sua stizza. La voce di Ipazia era come una musica incantatrice. Ma si rassegnò ad ascoltare quella, un po' tremula, del vecchio. Dopo tutto, non somigliava a quella di suo nonno, il solitario che un giorno aveva tentato di penetrare con lui i misteri delle stelle? | << | < | > | >> |Pagina 54[...] Tutti sentivano che il Museo non avrebbe realizzato i suoi fini universali se si fosse accontentato di poesia, di religione, di filosofia, di lingue e letteratura. E del resto avevano scritto sul frontone della Biblioteca la stessa frase del Liceo di Platone: "Nessuno entrerà qui se non è un geometra". Quel giorno, come primo geometra, Zenodoto aveva innanzi a sé un giovane alto, che gli chiedeva semplicemente di lavorare lì con lo stesso salario, lo stesso alloggio e gli stessi vantaggi di quei dotti pensatori dalla barba bianca che andavano avanti e indietro per ore nel Peripateo. Certamente il bibliotecario spiegò a Euclide che si doveva riunire un comitato di saggi, per leggere i suoi Elementi e discuterne, e per sottoporlo poi a un esame. Non senza disinvoltura, Euclide rispose che avrebbe approfittato di questo tempo per andare a studiare la struttura delle Piramidi. I lettori del testo, che lui aveva lasciato prima di partire lungo il Nilo, furono stupefatti dal rigore e dalla severità del lavoro del giovane. Si aspettavano delle elucubrazioni mistiche, profetiche ed esoteriche sulle forme e sui numeri, alla maniera dei pitagorici, che a quel tempo imperversavano; lì, al contrario, tutto era sistematicamente dimostrato, e sviluppato fino a divenire limpido, bello, armonioso come una musica divina. Convocarono dunque un Euclide che il sole di Gizah aveva abbronzato. «Poiché hai appena osservato quelle meraviglie del mondo, quelle geometrie perfette che sono le Piramidi, chiese Tolomeo puoi confermare il parere di quelli che dicono che Pitagora ne fu l'architetto?». «Lo ignoro completamente, mio re, e a dire la verità questo problema non mi preoccupa affatto. Lì sul posto io ho potuto constatare soltanto una cosa: gli antichi si erano rivolti a geometri espertissimi, per poter innalzare quei monumenti. Potessi tu fare lo stesso, per raggiungere la loro gloria!». A questa risposta arrogante, si sentì qualche mormorio di riprovazione nell'assemblea. «Tu sai bene, giovane, disse Demetrio che Pitagora ha scritto che il triangolo è l'origine di ogni generazione e della forma di tutte le cose generate. Ora, che cosa sono le piramidi se non un insieme di triangoli?». «L'ho sentito dire, ma ignoravo alla mia età ignoro ancora molte cose che esistessero delle tracce scritte del suo pensiero. Ciò che so, in cambio, è che i triangoli pitagorici non hanno niente a che fare con quelli che compongono le quattro facce della piramide. La figura sacra degli egiziani era un triangolo rettangolo, che essi consideravano perfetto e perciò sacro. Perfetto perché unico. I loro agrimensori avevano scoperto un metodo abilissimo per ottenere l'angolo retto: su una lunga corda facevano dei nodi a distanza regolare, poi con i tratti Tre, Quattro e Cinque della corda formavano il solo triangolo rettangolo i cui lati siano una serie aritmetica. I sacerdoti si impadronirono del metodo, affermando che la linea verticale (il Tre) era il principio generatore Osiride, la linea di base (il Quattro), era il principio creativo Iside e l'ipotenusa, cioè il Cinque, la nascita, Horus. Θ possibile che Pitagora, visitando l'Egitto, abbia scoperto grazie a questa figura considerata sacra, il suo famoso teorema. Io non lo enuncerò, perché voi lo conoscete quanto me». Il discorso di Euclide aveva lasciato muti i suoi giudici, e alcuni di loro non lo avevano afferrato del tutto. Demetrio chiese: «Tu dunque affermi di non aver ritrovato in nessun punto delle piramidi questo triangolo sacro?».
«Io non affermo niente, perché niente ho cercato. Io
sono un mediocre architetto, ma mi sembra che quei
monumenti non avrebbero resistito a lungo alla sabbia
del deserto, se fossero stati costruiti secondo quella figura. Un teologo o un
filosofo potrebbero consacrare a questo problema il loro tempo libero.
Troverebbero certamente questo famoso triangolo, ma al prezzo di
qualche contorsione...». E il geometra punteggiò la sua
dichiarazione con un sorriso malizioso che infastidì più
d'uno. Poi continuò: «Quanto a me, non mi interesso della simbologia dei numeri
e delle figure. Che il Quattro sia il principio femminile, o il cerchio la
faccia di Apollo, mi sembrano ipotesi vane, perché non sono
dimostrabili. Il valore e l'utilità dei matematici stanno
altrove. Che i sacerdoti e i filosofi si divertano con queste cose è affar
loro... Quanto a me, io voglio ricavarne la maggiore utilità possibile per gli
architetti, gli agrimensori, i meccanici, gli astronomi».
Alcuni membri della giuria, notoriamente pitagorici, cominciarono a rimproverarlo. Euclide capì di essere andato troppo oltre, e che in questo modo non sarebbe entrato nel Museo. Allora divenne più umile: «Perdonate la foga della mia giovinezza. Questa bozza degli Elementi, che voi avete letto, deve tutto ai filosofi, e al più grande tra loro, Aristotele. Senza il suo metodo del sillogismo, io non sarei niente, non saprei niente, non avrei scoperto niente». «Attenzione, giovane, lo prevenne Demetrio ti stai avventurando su un terreno dove io ho qualche conoscenza. Dovrai essere convincente. Prendiamo il più celebre e il più semplice di questi sillogismi: "Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, quindi Socrate è mortale." Che cosa ha a che fare con questo la tua geometria?». «Ha a che fare col suo termine maggiore, "Tutti gli uomini sono mortali", affermazione indimostrabile se non facendo un repertorio di tutte le genealogie, a partire dalla nascita del primo essere umano, cosa impossibile. Ma anche il più stupido degli stupidi può constatarne l'evidenza e la realtà. Io vi propongo a mia volta un termine maggiore, un postulato: "Per un punto situato fuori di una retta, si può tracciare una sola parallela a questa retta". Siete d'accordo?». Euclide ripeté la domanda, e i membri della giuria si tuffarono in un'intensa riflessione. Alcuni si chiusero il viso tra le mani, altri si battevano il mento con l'indice, altri tracciavano con un dito sul tavolo invisibili figure. Il re alzò gli occhi al cielo, e le sue labbra si mossero senza fare alcun suono. Alla fine disse: «Tu hai ragione. Θ evidente. E tuttavia questa per me è una scoperta, una rivelazione». «Non è una rivelazione, mio re, perché tu hai già letto questa frase all'inizio dei miei Elementi. E non ci hai fatto caso, tanto ti sembrava evidente. Un po' come se avessi letto "Tutti gli uomini sono mortali" in un libro di filosofia. Questa frase sarebbe passata sotto il tuo sguardo senza richiamarlo, una frase senza importanza. Ciò che è importante è che Socrate fu un uomo, e semplicemente un uomo. Questo è l'essenziale». Euclide si infiammò. Partendo da un punto e svolgendolo in ogni dimensione, fece sorgere tutto un universo di forme perfette, divenne costruttore di monumenti magnifici, agrimensore delle stelle. Dai numeri che lui cantava saliva la più armoniosa delle musiche. Nessun dio interferiva nel suo canto. Il suo inno geometrico era dedicato agli uomini e non all'Olimpo. Tolomeo, affascinato, restò a lungo in silenzio, dopo che Euclide ebbe finito il suo discorso. Infine disse soltanto: «Sii il benvenuto nel Museo!». | << | < | > | >> |Pagina 131Alessandria ispirò a lungo ai romani la stessa passione impaurita e aggressiva che prova un umile pastore per una bella principessa, o il soldato più rozzo per la donna più raffinata. Giulio Cesare non era affatto un umile pastore. Si vantava, anzi, di discendere da una delle più antiche famiglie romane. E non era certo il più rozzo dei guerrieri: il racconto delle sue conquiste era scritto in un latino purissimo, che lasciava trasparire un'impronta stilistica ateniese; da giovane, infatti, Cesare aveva completato i suoi studi ad Atene. Quanto a dirti, Amrou, se era un vero soldato, non sono abbastanza esperto di arte militare per poterlo affermare innanzi a un generale brillante come te. Ma so che i nemici sconfitti lodavano la sua clemenza. Cesare venne ad Alessandria per fare da arbitro in un nuovo conflitto dinastico tra due fratelli, che naturalmente si chiamavano entrambi Tolomeo. Il primo, come al solito, aveva sposato una sorella che, come avrai già capito, si chiamava Cleopatra (la settima con questo nome). Erano due ragazzini: Tolomeo XIII, ridicolmente designato col nome di Dioniso, dio del vino e del piacere, aveva solo dieci anni. I veri padroni dell'Egitto erano i tutori del giovane re: un generale, Achilla, che aspirava al trono, e un eunuco di nome Potino. Questo almeno non rischiava di fondare una nuova dinastia. Per lui il solo modo di passare alla posterità era di diventare immortale come un libro. Perciò comprò a peso d'oro la carica prestigiosa di bibliotecario. Intrighi, corruzione, ammutinamenti, rivolte erano il destino quotidiano del regno. Scacciata dalle manovre di Potino e di Achilla, Cleopatra dovette perfino rifugiarsi per un certo periodo in Siria. Intanto la Repubblica romana continuava ad accumulare conquiste. Non aveva più bisogno di proporsi come mediatrice di conflitti locali per impadronirsi delle nazioni che le chiedevano aiuto. Molto semplicemente le annetteva, lasciandovi regnare ma non governare un re di paglia o un governo fantoccio. Qua e là scoppiavano rivolte contro quelle occupazioni, ma venivano brutalmente represse. Allora bottini, riscatti, schiavi convergevano verso Roma come in un grande imbuto. Ben presto, fuori della sua tutela rimasero solo Alessandria e l'Egitto. Era forse per un oscuro rispetto verso il passato del paese del Faro, delle Piramidi e della Biblioteca che le legioni romane non si avventurarono nella nostra nazione? O non piuttosto perché gli strateghi del Senato pensavano che il frutto non fosse ancora maturo, o che sarebbe caduto da sé? Ma il Senato, ormai, non era che l'ombra di se stesso. La virtù repubblicana della spada e dell'aratro era del tutto dimenticata. Questa casta patrizia tutta ripiegata sui propri privilegi vedeva con inquietudine aumentare, nei confronti del popolo e dell'esercito, il prestigio dei suoi tre condottieri più importanti. Così, per allontanare questi tre famosi personaggi Crasso, Cesare e Pompeo affidarono a ciascuno di essi la terza parte dei paesi conquistati. Ma i nostri tre generali si accordarono tra loro e si opposero al Senato. Sognando di diventare i padroni di Roma, si dividevano la cariche e il potere. Rispetto a loro, senza il sostegno del popolo e la forza delle legioni, il Senato non contava più niente. Crasso fu ucciso in uno scontro con i Parti, che si erano ribellati. Questo generale era di un'avidità senza limiti e spogliava le province che gli venivano affidate. Alla fine, morì di ciò in cui aveva peccato: i Parti gli colarono in gola dell'oro liquefatto! Ormai era inevitabile lo scontro fra i due sopravvissuti, Cesare e Pompeo. Questo aveva l'impeto e l'orgoglio, quello la pazienza e l'abilità. Cesare possedeva la Gallia selvaggia, che aveva conquistato da solo; Pompeo aveva il resto di ciò che era stato spartito, e cioè la Grecia, l'Asia e l'Africa, esclusa naturalmente Alessandria. Tra loro, c'era Roma. Cesare osò entrarvi per primo, alla testa delle sue truppe. Il Senato gli si piegò. Pompeo fuggì in Grecia. Sconfitto dai greci in rivolta, dovette fuggire di nuovo. Non gli restava che Alessandria e lui vi si rifugiò, sperando che Cesare non lo seguisse. Errore fatale! Facendo questo, lui abbandonava l'impero e tradiva Roma. Pompeo perdette così i suoi ultimi seguaci. La flotta di Cesare si diresse verso la città dei Tolomei. Allora, presi dal panico, il giovane re e i suoi tutori assassinarono Pompeo. Due giorni dopo l'omicidio, Cesare sbarcò ad Alessandria. Gli fu offerta la testa del suo rivale. Lui pianse e la fece seppellire ai piedi delle mura. Poi, contro ogni attesa, si fermò qui, mentre a Roma gli veniva offerto il Campidoglio. Disse che voleva risolvere la lite tra la fazione del re Tolomeo e quella del fratello minore. Nessuno gli credette. Era chiaro che voleva riportare con sé a Roma il solo pezzo mancante dell'impero, che era anche il più bello e il più ricco: l'Egitto. Se ci fosse riuscito, nessun senatore avrebbe più potuto contestarlo. Cesare temeva che nel quartiere dei Palazzi, una vera cittadella dove aveva stabilito la sua residenza, cercassero di assassinarlo, come avevano fatto con Pompeo. E non a torto. Alla testa del complotto c'era Achilla, potentissimo padrone dell'esercito egiziano e soprattutto del destino del giovane re. Durante un banchetto il barbiere di Cesare, aggirandosi inquieto tra i corridoi, captò un ordine dato da Potino a un servitore. Una coppa di veleno doveva essere offerta al generale romano. Il barbiere corse ad avvisare il suo padrone, che fece subito circondare tutta quell'ala del palazzo. Potino fu ucciso, ma Achilla e Tolomeo riuscirono a fuggire e sollevarono una rivolta generale contro le truppe di Cesare. Malgrado l'importanza della sua armata, alla quale si erano aggiunti anche molti soldati di Pompeo, Achilla preferì attaccare per mare. La sua flotta penetrò nella rada e gettò l'ancora sotto le mura. Immediatamente, Cesare fece lanciare sulle navi nemiche delle fiaccole rivestite di pece infiammata, e dopo poco la rada e il porto si trasformarono in un braciere ardente... I quattro elementi sono anche i quattro nemici del libro. L'aria che li corrode, se non si provvede a rinchiuderli al riparo degli armadi; l'acqua che li cancella, se non li si lascia spesso respirare al sole; la polvere che li ricopre, se li si dimentica troppo a lungo. Ma il fuoco è il peggior nemico dei libri, perché non consente alcuna protezione. E il fuoco è provocato dall'uomo, con la guerra, o per odio contro il sapere, per paura della verità, più spesso per semplice negligenza. Θ incalcolabile il numero delle biblioteche distrutte dalle fiamme senza che si sapesse perché e come si fosse innescato il fuoco. Ma sempre veniva denunciato un incendiario. Non importa se fosse colpevole o meno del disastro; anche se innocente, non poteva in alcun modo allontanare da sé il sospetto, tanto era grande l'obbrobrio universale: bruciare i libri significa bruciare i propri antenati, bruciare il padre e la madre, bruciare la propria anima e, con lei, bruciare l'intera umanità. Cesare aveva molti nemici, tanto a Roma quanto nel resto dell'impero. La sua ambizione di gestire da solo il potere, come un dittatore o come un re, era troppo evidente. Il suo esercito gli era devoto anima e corpo; il popolo della città di Roma lo amava. Così dall'altra sponda del Mediterraneo i senatori romani lo accusarono di aver devastato Alessandria e incendiato la Biblioteca, perché l'incendio che lui aveva provocato si era esteso nel porto, tra i depositi che oltre al grano contenevano anche quarantamila copie di libri, destinate ad esser vendute in ogni angolo del mondo e in particolare a Roma. Solo queste copie furono distrutte, ma bastarono per gettare su Cesare una fama di incendiario di libri che lo perseguita ancora, tanto tempo dopo la sua morte. Cesare aveva vinto. Achilla si era suicidato. Il re Tolomeo era annegato nel Nilo, perché a tredici anni non aveva ancora imparato a nuotare. Ma, sconfitta dalla guerra, Alessandria trionfò in amore. Un giorno, poco dopo quella sconfitta, nel palazzo reale di Alessandria uno schiavo andò da Cesare per portargli in dono un tappeto. Lo svolse, e ne uscì una giovane di straordinaria bellezza. Era Cleopatra, sorella e sposa del re annegato, che era tornata dall'esilio in Siria. "Cesare, ti prego di risparmiare la Biblioteca". Furono queste le prime parole che disse, ancora prima di chiedere di essere rimessa sul trono. Cesare, pur essendo in età matura pressappoco la tua, Amrou ne fu turbato. Cleopatra aveva trent'anni meno di lui. Ma, al di là del suo desiderio di uomo, si risvegliava la sua ambizione di conquistatore. Non ci sarebbe voluto niente per sposarla e divenire re dell'Egitto, per poi, alla testa del suo esercito, tornare a Roma in trionfo, senza difficoltà e senza più avversari. | << | < | > | >> |Pagina 185Erano passati quattro secoli da quando Filone era andato a Roma per difendere la sua causa. Il Tempio di Gerusalemme era stato distrutto, il popolo dei giudei era stato disperso, i barbari del Nord avevano invaso l'Occidente, e Bisanzio divenuta ormai Costantinopoli aveva la meglio su Roma. L'imperatore Costantino si era proclamato cristiano e, dietro di lui, lo avevano fatto tutti i potenti, dalle famiglie e dai clan dei padroni fino all'ultimo schiavo. Θ sempre più facile discendere che risalire. Si era lontani, tuttavia, dalla semplicità delle parole di Cristo, ammesso che siano mai state semplici! Ad Alessandria, ad Atene, a Pergamo nacquero scuole filosofiche, o meglio teologiche. Decisamente, la storia non fa che ripetersi, come se in certi luoghi circolasse sempre l'intelligenza, sia quando il cielo è azzurro, sia quando è coperto da nuvole nere. I dibattiti riguardavano tutta la religione. Ormai chiunque proponeva un'idea nuova o non conforme al canone rischiava l'esilio, o addirittura la morte. Dimenticando il loro passato di martiri, i cristiani facevano subire ad altri, che non erano stati i loro carnefici, ciò che essi avevano sofferto; i martiri, ormai, erano i giudei e i loro spiriti liberi, gli scienziati e i filosofi. Succede così con tutte le religioni e io temo che i figli di Israele, se saranno a lungo perseguitati, faranno le stesse cose quando avranno recuperato la loro potenza. A loro volta perseguiteranno gli antichi carnefici, e il loro desiderio di rivincita si estenderà fino a colpire popoli pacifici, che chiedono solo di vivere sulle loro terre e di goderne i frutti. Ma torniamo alla storia, perché vedo che Al-Razi sta per indispettirsi. Durante l'espansione cristiana, Alessandria rimaneva un'oasi di tolleranza, almeno nel quartiere dei Palazzi. Non si distruggono facilmente interi secoli di fermenti, di scambi, di cultura cosmopolita. E poi il mare proteggeva l'Egitto dalle invasioni barbariche, che avevano sommerso l'Occidente e come grandi onde, battevano fino alla soglia di Costantinopoli. Al Museo, ormai, dominava la filosofia. Certo, le scienze avevano conosciuto un rinnovato splendore quando il cristianesimo ancora non incombeva sulla città. Tolomeo e Galeno avevano saputo soddisfare i potenti, i filosofi e i sacerdoti di tutte le confessioni. Poiché il primo non si interessava affatto di religione e il secondo credeva in una molto vaga divinità universale, la Chiesa cristiana adottò le tesi di questi due scienziati ormai morti, come aveva fatto con Filone in rapporto alla filosofia; in realtà, non si preoccupava di studiare la natura, non si interrogava sul modo in cui funziona, per tentare di combattere le sofferenze umane penetrandone i misteri. A che scopo? La fine dei tempi era vicina, diceva la Chiesa. Galeno e Tolomeo le bastavano. E proclamava che quei due avevano descritto in modo definitivo il mondo e la natura umana, come gli Evangelisti avevano fatto con Dio. Perciò non si faceva più ricerca, non si inventava più, ci si limitava a compilare. Questo è il segno della fine di un mondo. Si faceva la sintesi della scoperte del passato accettate universalmente, talvolta migliorandole un poco, spesso edulcorandole, senza mai contestarle, metterle in dubbio o superarle. Così fecero Erone, Diofanto e Pappo per la meccanica, la matematica e l'astronomia. Così fece Teone, nominato dall'imperatore Teodosio direttore del Museo (non si usava più la qualifica di "gran sacerdote"). Sotto la sua direzione, la grande scuola alessandrina di Euclide, di Aristarco, di Apollonio ritrovò un poco del suo splendore; ma se lui rimane nel nostro ricordo, è perché fu il padre della donna più sapiente della storia: Ipazia di Alessandria. Parlo della mia omonima, che nacque duecentocinquanta anni fa. Lei vide la luce tra auspici armoniosi, perché suo padre, fervente adepto dei sistemi che uniscono la musica all'astronomia, le dette il nome del suono più profondo che secondo lui la Terra emette al centro dell'Universo, nel coro melodioso della musica delle sfere. Un giorno, quando Ipazia aveva solo quattordici anni, le cose cambiarono ad Alessandria. Fu nominato un nuovo vescovo, Teofilo. Fino ad allora tutte le fedi avevano convissuto senza eccessivi scontri, ma questo ecclesiastico brutale decise di estirpare il paganesimo con la forza. Per suo ordine tutti i templi furono incendiati, a cominciare dal Serapeo, costruito seicento anni prima da Tolomeo Soter. I fanatici si accaniscono sempre contro gli edifici più belli e le più belle statue, perché queste memorie di pietra testimoniano una grandezza passata che essi sognano di cancellare. Gli Alessandrini, col loro spirito caustico, definirono il nuovo vescovo "il Faraone", tanto si considerava padrone assoluto della città. Teofilo si sarebbe scagliato anche contro la Biblioteca, ma Bisanzio mise un freno al suo ardore. Il nuovo vescovo si contentò di distruggere le statue, di scacciare i sapienti la cui fede non fosse sicura, di gettare in prigione Teone per sostituirlo con il prete che era suo assistente. Era la prima volta che un uomo di chiesa otteneva questa carica ed ebbe l'ordine di distruggere tutti i libri non conformi al dogma. Dio sa se ce n'erano! Ma forse lui non lo sapeva! | << | < | > | >> |Pagina 235AMROU BEN AL-AS o AMR BEN AL-AS (morto nel 663 d.C.), compagno di Maometto e conquistatore dell'Egitto. Nel 640 sconfisse le truppe bizantine a Eliopoli e nel 642 conquistò Alessandria. GIOVANNI FILOPONO (VI o VII secolo d.C.), grammatico e filosofo cristiano. Come esegeta della Bibbia professa il "concordismo", affermando che la scienza non contraddice l'insegnamento dei testi sacri, a condizione che questi siano correttamente interpretati. AL-RAZI o RHAZES (fine VIII secolo d.C.), medico di origine persiana, clinico famoso, fu il primo a descrivere il vaiolo. IPAZIA (pronipote di Filopono), personaggio immaginario. OMAR ABU HAFSA BEN AL-KHATTAB (581 644 d.C.), nato a La Mecca, all'inizio si oppose a Maometto, poi divenne un fervente convertito. Alla morte del Profeta favorì, nel 632, l'elezione di Abu Bakr al califfato. Ciò gli fu rimproverato dagli sciiti, per i quali il califfato spettava al genero di Maometto, Alì. Abu Bakr lo designò, in seguito, come suo successore. Durante i suoi dieci anni di califfato, tra il 634 e il 644, l'Islam riportò vittoria definitiva sugli Stati vicini. Ornar fu ucciso da uno schiavo liberato. | << | < | > | >> |Pagina 236APOLLONIO DI PERLA (262-200 a.C. circa), matematico e astronomo legato alla scuola di Euclide, autore di un testo fondamentale sulle sezioni coniche. APOLLONIO RODIO (295-230 a.C. circa), poeta e grammatico alessandrino, allievo di Callimaco, autore del poema epico Gli Argonauti. ARATO DI SOLI (315-240 a.C. circa), poeta greco nato in Cilicia, morto in Macedonia. Visse a lungo ad Atene, dove seguì studi di matematica, astronomia, filosofia e letteratura. Il suo celebre poema sulle costellazioni Fenomeni, ricavato da un trattato di Eudosso, influenzò per molti secoli la letteratura astronomica. ARCHIMEDE (287-212 a.C.), nato e morto a Siracusa, figlio dell'astronomo Fidia, Archimede fu uno dei primi sapienti dell'antichità ad applicare le teorie del movimento, elaborate dai geometri e dagli astronomi, alla costruzione di apparecchi meccanici. Tra le sue scoperte figurano la leva e la vite di Archimede, che permette di far salire l'acqua con una manovella. Attirato dal prestigio di Alessandria, fece almeno un viaggio in Egitto, e restò in corrispondenza con sapienti come Conone di Samo, Dositeo ed Eratostene, a cui dedicò il suo testamento. Archimede mise il proprio genio al servizio della città di Siracusa, costruendo formidabili macchine da guerra. Fu ucciso da un soldato durante l'assedio della città da parte dei romani. [...] | << | < | > | >> |Pagina 244_______________________________________________________________________________ STORIA POLITICA STORIA CULTURALE _______________________________________________________________________________ 331 a.C.: fondazione di Alessandria da parte di Alessandro il Grande. 323 a.C.: morte di Alessandro a Babilonia. L'impero viene diviso tra i suoi generali. Tolomeo sceglie l'Egitto, si stabilisce - 322 a.C.: morte di Aristotele. ad Alessandria e organizza i funerali di Alessandro. 317-307 a.C.: Demetrio di Falero governa Atene. Il suo governo si conclude con l'esilio. _______________________________________________________________________________ 305-283 a.C.: regno di Tolomeo I - Fondazione del Museo e della Soter. L'antico generale di Biblioteca. Alessandro fonda la dinastia dei - Alessandria diviene il centro della Lagidi e chiama Demetrio di Falero civiltà ellenistica. per aiutarlo a governare. - Zenodoto di Efeso primo 283 a.C.: fondazione dello Stato di bibliotecario. Pergamo. - Euclide, matematico - Erofilo, medico _______________________________________________________________________________ - Costruzione del Faro. 283-246 a.C.: regno di Tolomeo II - Bibbia dei Settanta (traduzione in Filadelfo. Il re sposa sua sorella greco del Vecchio Testamento). Arsinoe II e allontana Demetrio - Aristillo, astronomo (275 circa) dal potere. - Timocaride, astronomo (275 circa) 263-241 a.C.: Eumene I sovrano - Aristarco di Samo, astronomo (tra di Pergamo il 280 e il 264) - Callimaco, poeta e grammatico - Apollonio Rodio, secondo bibliotecario _______________________________________________________________________________ [...] | << | < | |