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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Ignazio Majore 9 Introduzione: Cannibalismo ed evoluzione. Un'ipotesi sull'origine della coscienza 11 PRIMA PARTE: LE ORIGINI 37 Capitolo primo: L'auto-selezione e la risposta sessuale 39 Capitolo secondo: Il punto di vista degli antropologi 65 Capitolo terzo: La risposta linguistica 88 Capitolo quarto: La nascita della coscienza 109 Capitolo quinto: L'Antico Testamento e il mistero del peccato originale 130 Capitolo sesto: Magia e religione. Le religioni monoteistiche 146 SECONDA PARTE: LA SOFFERENZA 171 Capitolo settimo: Le psicopatie, le perversioni sessuali e la tipologia maschile 173 Capitolo ottavo: I disturbi dell'alimentazione e la tipologia femminile 198 Capitolo nono: L'autismo e il controllo della relazione 223 Capitolo decimo: La schizofrenia e l'omologazione 240 Capitolo undicesimo: La psicosi maniaco-depressiva e la differenziazione 261 Capitolo dodicesimo: Le modalità ossessivo-fobica e caratteriale, e la dipendenza 278 Capitolo tredicesimo: Un caso "clinico-antropologico" 299 TERZA PARTE: LA MENTE 319 Capitolo quattordicesimo: Il sogno 321 Capitolo quindicesimo: Un punto di vista informativo sull'organizzazione della mente 340 Conclusioni 365 Appendice prima: Il mito greco 375 Appendice seconda: La fiaba 401 Bibliografia 431 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Introduzione
Cannibalismo ed evoluzione. Un'ipotesi sull'origine della coscienza
Questo lavoro nasce da una certa sfiducia circa la possibilità che la Psichiatria di tipo "medico", basata su discipline come genetica, biochimica, farmacologia e statistica, possa mai venire a capo, da sola, del mistero delle malattie mentali. Tuttavia, una maggiore coscienza critica sui limiti di queste discipline sembra avere pervaso negli ultimi anni una parte della Psichiatria, dopo la sbornia riduzionista che ha imperversato a partire dagli anni Ottanta del secolo ventesimo; perciò speriamo che questo saggio possa suscitare almeno un po' di curiosità. Un approccio diverso, di tipo evoluzionistico, alle malattie mentali, è stato più volte immaginato possibile, e sempre prontamente abbandonato. Kraepelin, fondatore della Psichiatria nosografica, e lo stesso Freud, sono forse gli esempi più illustri di ciò; ma gli stessi Nesse e Williams, fondatori della medicina darwiniana, si sono in più occasioni dimostrati assai scettici in proposito. La principale ragione potrebbe risiedere nel fatto che la Psichiatria, la disciplina medica meno "falsificabile" nel senso popperiano del termine, ha sempre sofferto di un forte complesso di inferiorità nei confronti delle altre, ed in generale, verso le discipline "scientifiche". Infatti, anche studiosi del calibro di Arieti, Crow, Jaynes, non appena si sono cimentati con un'ipotesi evoluzionistica di spiegazione delle "malattie mentali", sono stati letteralmente "fatti a pezzi" dalla Psichiatria accademica, e dall'insieme del mondo scientifico, quasi fino a perdere la loro credibilità. Ciò è avvenuto malgrado lo stesso Kraepelin, in una fase iniziale, fosse stato un evoluzionista, ed a dispetto della crisi sempre più evidente della Psichiatria, intesa come sistema nosografico medico. Evidentemente, l'idea che gli inquietanti contenuti del pensiero delirante-allucinatorio siano il frutto di una "malattia", è una di quelle che resistono strenuamente ad ogni evidenza; essa sembra infatti molto adatta a rendere la coscienza collettiva più tranquilla, esattamente come il famigerato assioma di Griesinger, che coincise con la nascita della Psicopatologia: "Le malattie mentali sono malattie del cervello". Del resto, gli stessi asili per "malati di mente", i "Manicomi", nacquero proprio per occultare la follia e per tacitare la coscienza collettiva; e ciò avvenne molto prima che Pinel ed Esquirol li mutassero in istituzioni "mediche". Tuttavia esiste un altro elemento, oltre la crisi della Psichiatria, che va a favore dell'approccio evoluzionistico alle malattie mentali: l'evoluzionismo può essere falsificato solo dall'osservazione delle variazioni fra specie affini; quella umana, però, più che ogni altra specie, è una specie "solitaria", senza parenti stretti. Perciò, l'unico campo di osservazione a disposizione di un evoluzionista che voglia dedicarsi all'uomo è proprio la mente, con le sue enormi variazioni individuali e collettive: in particolare, le sue variazioni di ordine psicopatologico, le quali, data la loro presenza costante in tutti i tempi e le culture di cui si abbia memoria, sono suggestive di una qualche misteriosa "utilità"; e sembrano quindi un retaggio, enigmatico ma in qualche modo significativo, dell'evoluzione della specie. L'autore dunque, in questo libro, proporrà una serie di ipotesi sull'origine dell'uomo, della mente, del linguaggio e della coscienza, che di sicuro sembreranno a molti arbitrarie, troppo ardite ed ambiziose, indimostrabili, e quant'altro. Si tenga conto, però, che quanto segue è stato concepito in una forma ipotetica, dubitativa, quasi "narrativa": senza pretendere cioè che gli eventi della storia della specie qui ipotizzati siano "veri"; ci si accontenta che essi siano verosimili, perché suffragati da indizi che in futuro potranno essere "falsificati", da parte dell'antropologia come della psicopatologia, della paleontologia come delle neuro-scienze. Ma soprattutto, la strada impervia che l'autore ha seguito è forse l'unica strada possibile, per i motivi sopraccennati, se si vuole tentare di capire dal punto di vista scientifico l'evoluzione della natura umana e l'origine delle forme psicopatologiche. Un simile obiettivo, infatti, comporta da un lato la necessità di fare prevalere il metodo ipotetico-deduttivo su quello induttivo-sperimentale (e quindi anche un uso, che può apparire sfrenato, dell'intuizione e della sensibilità soggettiva); dall'altro lato, la necessità di "osare", quindi di esaminare "radicalmente", dal punto di vista biologico, anche i più complessi ed intricati problemi che la natura umana pone. Il primo di questi problemi è il ruolo che il "male" sembra avere assunto come elemento centrale dell'intreccio, tipico dell'uomo, fra natura e cultura; il secondo, è il fatto stesso che un tale intreccio sia stato possibile; il terzo problema, infine, è quello di capire se per caso questo indubbio legame fra il "male" e la natura umana, tema finora considerato dominio esclusivo della religione, della morale e della politica, non sia un fatto indagabile anche scientificamente. In questa Introduzione viene dunque enunciato il problema teorico di partenza che ci siamo posti, e sono elencate le nostre ipotesi di base, che verranno poi illustrate, in forma molto sintetica, nel corso di quindici capitoli. Le riflessioni sulla fiaba e sul mito, le quali non sono essenziali allo svolgersi del nostro ragionamento, ma che lo avvalorano in maniera suggestiva, hanno trovato posto in due Appendici. Il problema da cui siamo partiti è il seguente: la Psichiatria clinica e la Psicopatologia hanno finora cercato di individuare soprattutto nella qualità formale del pensiero e del comportamento, la chiave di volta per capire ed inquadrare i disturbi mentali. Solo la Psicoanalisi si è sforzata di volgere la propria attenzione anche ai contenuti di questo pensiero ed alle possibili finalità di questo comportamento "patologico", attribuendoli all'azione di "forze" psichiche ancestrali; ha ritenuto, cioè, che sforzandosi di illuminare la loro origine dal punto di vista antropologico, avrebbe potuto capire meglio la loro stessa dinamica. Questo sforzo però, pur avendo fornito alla Psicoanalisi le sue basi teoriche e la sua stessa connotazione di Psicologia "dinamica", si è interrotto ben presto: il pensiero psicoanalitico ha abbandonato precocemente l'ottica antropologica e filogenetica, ed è tornato a concentrarsi sugli aspetti "patologici" ed ontogenetici della sofferenza umana, riallineandosi così quasi immediatamente alla Psichiatria di indirizzo medico. La Psicoanalisi ha perciò finito per trascurare, dopo l'entusiasmo iniziale, proprio il suo punto di partenza, la sua specificità, ed ha finito per enfatizzare quello che la accomunava alla medicina: lo studio dell'anamnesi individuale, e delle relazioni fra quest'ultima e la presunta "malattia" che colpirebbe l'individuo. Freud, in definitiva, esordì ponendo il problema delle malattie mentali, e quello dell'origine della mente umana, su un piano di ricerca assolutamente nuovo e rivoluzionario; poi, misteriosamente, rinunciò a questa impostazione, e tornò ad una visione molto più tradizionale delle cose, che la caratterizza tuttora. Se dunque vogliamo tornare ad occuparci dei contenuti, davvero strani ed inquietanti, del pensiero dei malati di mente, e non solo della loro supposta genesi individuale o della espressione formale (che talora è molto alterata, ma altre volte quasi indenne), occorre partire dal fatto che questi contenuti sono caratterizzati da una cospicua componente persecutoria; e occorre poi chiedersi il perché di ciò. La componente persecutoria permea di sé non solo i disturbi di tipo schizofrenico e paranoideo, ma anche la maggior parte dei disturbi di personalità, le psicopatie criminali, i disturbi "affettivi" maniacali e depressivi di tipo psicotico, i disturbi nevrotici e di "dipendenza", la anoressia mentale, ecc. Essa, inoltre, emerge con grande evidenza perfino nei disturbi di chiara matrice organica (demenze, epilessie, insufficienze mentali, autismo infantile). Ancora, infiltra profondamente di sé istinti apparentemente lontani da quello predatorio, quale l'istinto sessuale, come bene si osserva nelle perversioni: in particolare, ciò avviene nelle due forme a nostro avviso più paradigmatiche del carattere predatorio della perversione, la pedofilia ed il sadomasochismo. Insomma, l'ideazione predatorio-persecutoria è un modello comportamentale di base che investe il comportamento esteriore della nostra specie ed anche la sua interiorità, e si manifesta sia nelle situazioni di stress che nelle fantasie spontanee. La domanda fondamentale che dovremmo porci, dunque, è la seguente: come si spiega l'onnipresenza della componente persecutoria nei disturbi psichici e nel comportamento generale dell'uomo? Dal primo punto di vista, la ricerca psicopatologica ha finora indagato il decorso delle manifestazioni cliniche di tipo psichiatrico, il loro esito ed aggregazione in quadri coerenti (ad es. con Kraepelin), la qualità delle loro associazioni psichiche e la sua importanza "nucleare" per le malattie più gravi (con Bleuler), il valore diagnostico differenziale dei loro sintomi (con Schneider), la loro comprensibilità empatica all'osservatore (con Jaspers), la loro genesi ed i loro precursori (con Huber); però ha sempre trascurato di porsi la domanda fondamentale sull'origine ed il significato del contenuto persecutorio di tali disturbi. Di Freud, abbiamo già detto. Dal secondo punto di vista, quello dell'origine della mente umana e della coscienza, così come essa traspare dalla storia della cultura, occorre chiedersi perché mai il mito, la fiaba, la letteratura, le religioni, la magia, siano così pervase da elementi di tipo predatorio e persecutorio. Oppure (specie nel caso della magia e delle religioni), da "formazioni reattive" verso la persecuzione predatoria, che hanno il compito evidente di controllarla e di padroneggiarla.
Questa domanda, in realtà, gli uomini se la pongono da sempre, nella
forma dell'eterno interrogativo religioso sull'origine del "Male"; ma quasi
mai si sono chiesti perché fra la malattia di mente e la cultura umana esista un
cospicuo elemento comune di carattere persecutorio, e perché esso possieda
una così decisiva rilevanza sia per il "normale" che per il "patologico".
A. La prima ipotesi del libro cerca di rispondere al problema dell'importanza degli aspetti persecutori nell'uomo, e lo fa partendo dall'idea che l'origine di tale problema risieda nel cannibalismo: in particolare, nel cannibalismo rivolto alla prole. Il nostro lavoro parte dall'ipotesi che tale cannibalismo, una volta innescato, abbia costituito una sorta di fattore selettivo, ossia che abbia esercitato sulla specie umana una pressione proveniente dalla specie stessa; questa pressione, proprio per la sua natura "interna", è stata costante nel tempo ed ha spinto la specie ad una spettacolare evoluzione, in apparenza "finalizzata" al conseguimento dell'intelligenza. Questa ipotesi centrale viene accompagnata da un insieme di ipotesi accessorie: 1) È verosimile che nel processo di evoluzione che ha portato alla nascita della nostra specie, abbiano ad un certo punto operato, con inconsueta intensità, fattori selettivi ambientali, molto violenti e "catastrofici" (ad es. una improvvisa penuria di cibo), che indussero i nostri progenitori ad una risposta di tipo cannibalico; ma questa risposta trasformò l'occasionale catastrofe esterna che aveva innescato il processo, in una permanente catastrofe "interna". 2) Il cannibalismo degli ominidi può inoltre avere avuto, come precursore, un'attitudine predatoria occasionale rivolta a specie affini, quale quella che si osserva ad es. negli scimpanzé verso le "scimmie rosse". Oppure il precursore del cannibalismo può essere stato di tipo opportunistico: infatti molti primati manifestano, in condizioni di penuria, comportamenti di sciacallaggio. 3) Tale cannibalismo comunque, predatorio o opportunistico che fosse, essendo nato nel contesto di condizioni ambientali fattesi improvvisamente proibitive e scarse sia di flora che di fauna, può essersi rivolto ad un certo punto verso la preda più facile: la prole, verso la quale, con ogni probabilità, già da tempo si indirizzavano i comportamenti aggressivi del maschio (come si osserva ancora oggi, sporadicamente, nei primati più vicini all'uomo, come lo scimpanzé). 4) Il cannibalismo verso la prole fu inoltre preceduto da alcune caratteristiche di base, le quali avevano reso la nostra specie molto plastica, ossia capace di inventarsi le più disparate strategie di sopravvivenza, ed anche di usare strumentalmente l'ambiente: il bipedismo, una grande abilità manuale, un alto grado di intelligenza sociale, una competizione riproduttiva basata sulla fertilità sessuale più che sulla forza fisica, una forte duttilità comportamentale, un'abitudine alla dieta onnivora, un'attitudine predatoria già sviluppata e volta prevalentemente verso specie affini. Perciò il cannibalismo, inizialmente, non fece altro che aggiungere, a tali caratteri "vantaggiosi", il vantaggio decisivo di una dieta carnea sicura e continuativa, perché proveniente da una predazione relativamente "facile" e poco pericolosa: quella esercitata ai danni dei piccoli, ossia dei membri più indifesi della specie. Il cannibalismo divenne così, nei nostri progenitori, un tratto così utile da non essere più abbandonato. Esso subì però, nel tempo, numerose trasformazioni, come vedremo fra poco, le quali lo resero meno cruento e più compatibile con la sopravvivenza della specie. 5) Il cannibalismo, inoltre, fu agito non solo verso la prole, ma anche verso la femmina che la difendeva e verso i membri più deboli del gruppo, dando al maschio adulto, nell'immediato, un forte potere di selezione della specie. 6) L'attacco alla prole, in particolare, gli assicurava, oltre che una dieta carnea, un sicuro vantaggio genetico sui rivali: infatti un maschio che si fosse comportato in maniera promiscua ed erratica come sembra si comportassero i maschi nostri progenitori, e che fosse vissuto in gruppi a "scissione-fusione" continua, come fanno tutt'oggi i nostri "cugini" più prossimi, scimpanzé e bonobo (piuttosto che in clan gerarchizzati e strutturati attorno ad un maschio dominante e stanziale, e ad un "harem" di femmine che lo attornia, come quelli dei gorilla), non avrebbe avuto altri maschi del gruppo con cui doversi confrontare, in "tornei" per la competizione riproduttiva. La sua strategia riproduttiva, perciò, sarebbe potuta consistere, semplicemente, nello "sgombrare" il campo dalla prole di femmine così promiscue ed infedeli, al fine di avere maggiori probabilità di fare posto al proprio patrimonio genetico. Ciò poteva peraltro avvenire senza che il maschio corresse rischi eccessivi di eliminare, col cannibalismo verso i piccoli, i propri stessi figli: infatti la sua erraticità lo portava a spostarsi continuamente rispetto alle femmine del branco, e rispetto ai branchi stessi, "seminando" così ovunque la propria progenie.
7) In queste condizioni, che avrebbero messo a rischio la sopravvivenza di
qualunque specie, risultò decisiva, per la salvezza dei nostri progenitori,
l'abilità della femmina nell'inventarsi strategie idonee a salvare la
propria prole
(e talora se stessa) dal maschio cannibalico. Queste strategie si imperniarono,
secondo noi, da un lato sull'abilità della femmina nel condizionare in vario
modo il comportamento cannibalico dei maschi, e nel selezionare i meno
cannibalici fra loro per accoppiarsi; dall'altro, sulla sua abilità nel
selezionare la prole più intelligente, socievole e sessualizzata, cioè la più
adatta a sopravvivere in un contesto sociale predatorio.
B. La seconda ipotesi è che il comportamento cannibalico maschile, per rimanere vantaggioso a lungo e non condurre nuovamente la specie all'estinzione, abbia richiesto dei correttivi biologici, la cui invenzione spettò al sesso femminile. Tali correttivi furono inizialmente di ordine sessuale, e consistettero in una forte implementazione della vita sessuale della femmina: questa si ipersessualizzò, e ciò consentì alla specie di arginare il cannibalismo maschile verso la prole; infatti, dette alle femmine la possibilità di effettuare un inedito, e particolarissimo, scambio "sesso contro carne" col maschio cannibalico: quello del proprio sesso, contro la carne e la vita dei propri piccoli. Vediamo dunque uno per uno questi correttivi sessuali. Il ciclo sessuale della femmina, imperniato, in molti mammiferi ed in tutti i primati, sull'estro, e sulla conseguente ciclicità dell'accoppiamento e del richiamo sessuale femminile al maschio, venne superato: la vita sessuale della specie divenne perenne. La scomparsa dell'estro femminile rappresentò un evento unico, comparso solo nella nostra specie, e fu la chiave della risposta sessuale fornita al cannibalismo maschile verso la prole: infatti la sessualità perenne, rendendo la femmina sempre disponibile al coito, attraverso l'aumento dell'offerta sessuale "distrasse" il maschio dal suo comportamento cannibalico verso la prole; inoltre, almeno in un primo momento, ridusse di molto il vantaggio genetico che egli aveva nello sbarazzarsi della prole che attorniava la femmina; la sessualità perenne, infatti, diminuendo l'erraticità dello stesso maschio, aumentava per lui i rischi di eliminare i propri stessi figli, in caso di comportamento cannibalico verso la prole che attorniava la femmina. In altre parole, la competizione riproduttiva si spostò dalla strategia dell'eliminazione del patrimonio genetico dei rivali (rappresentata dalla precedente attitudine cannibalica maschile verso la prole), a quella dell'aumento della fertilità sessuale maschile, dell'aumento degli accessi maschili alla femmina, e del rimanere il più a lungo possibile accanto a lei. In un secondo momento, però, avvenne l'inverso: in una specie che di base era già molto promiscua, e nella quale non era mai esistito un unico maschio dominante (col suo harem di femmine e tornei per l'accoppiamento in occasione dell'estro), lo sparire della visibilità dei periodi fecondi della femmina, ed il parallelo crearsi della possibilità per ogni giovane maschio, in ogni momento, di un accesso pacifico alle femmine, cambiò nuovamente i termini della competizione riproduttiva: infatti aumentarono enormemente le probabilità di incesto madre-figlio, poiché la promiscuità femminile, con la scomparsa dell'estro, era aumentata, e si rivolgeva ormai anche ai maschi molto giovani (anche perché la diminuzione degli atti cannibalici verso la prole consentiva alla prole stessa di trattenersi presso la madre fino al compimento del proprio sviluppo sessuale). La ricettività sessuale perenne della femmina insomma, dopo avere prodotto la diminuzione dei comportamenti cannibalici maschili (senza farli scomparire del tutto, stante la permanente penuria di cibo), li fece di nuovo aumentare, a causa del risorgere della competizione riproduttiva: infatti in un gruppo promiscuo e con una femmina divenuta più ricettiva, il maschio giovane insidiava molto più di prima la femmina, e non era necessariamente "il figlio" biologico del maschio adulto; a quest'ultimo, dunque, convenne di nuovo eliminare la prole che attorniava la femmina (e che fra l'altro era di intralcio al coito), prima che potesse svilupparsi sessualmente. Si verificò allora, per contrastare il risorgere del cannibalismo maschile contro la prole, un'altra importante innovazione biologica nella sessualità femminile: la menopausa, o interruzione del ciclo mestruale nella femmina matura (altro fenomeno, questo, unico della specie umana, e sconosciuto agli altri primati). Questo fenomeno, nella sua enigmaticità, potrebbe spiegarsi con il fatto che, come si è detto, il cannibalismo maschile verso la prole, pur inizialmente attenuato dalla ipersessualizzazione della femmina, era risorto, a causa dell'ingombrante presenza della prole attorno ad una femmina perennemente ricettiva sul piano sessuale; insomma, il cannibalismo maschile divenne nuovamente minaccioso per la sopravvivenza della specie. La specie allora, con la menopausa, creò una categoria di femmine che, non avendo più esigenze riproduttive, e quindi non essendo più oggetto dell'interesse sessuale maschile, poteva dedicarsi all'accudimento della prole, ed alla sua protezione dal cannibalismo: in particolare, le femmine anziane poterono dedicarsi all'accudimento della prole delle proprie figlie, la sopravvivenza della quale assicurava anche a queste femmine in menopausa, la perpetuazione del proprio patrimonio genetico. Questa ipotesi, in termini diversi e meno radicali, è stata formulata da alcuni antropologi, sotto il nome di "teoria della nonna", proprio per spiegare la singolarità della menopausa della femmina umana. La menopausa sarebbe stata, insomma, un'altra risposta della specie al cannibalismo maschile: una sorta di "zona franca" per la prole minacciata, fatta da un "clan di madri", o di nonne. Una terza innovazione biologica, anch'essa di tipo sessuale, questa volta riguardante la prole, fu rappresentata dalla cosiddetta "neotenia". Essa, costituisce una terza specificità biologica della nostra specie (anche se è presente, in forma meno accentuata, in altre specie). In senso stretto, la neotenia rappresenta una pre-maturazione sessuale della prole, che precede la conclusione dello sviluppo psicofisico. La nostra ipotesi prende spunto dall'idea freudiana dello "sviluppo a due tempi" della sessualità umana (sviluppo che si rifletterebbe, per Freud, nel complesso di Edipo, e che si colloca secondo lui nella prima infanzia, attorno ai tre-quattro anni). È dunque possibile supporre che la pre-maturazione sessuale neotenica sia servita alla prole ad arginare sessualmente la predazione cannibalica paterna (una predazione che né la sessualità femminile perenne, né la menopausa femminile, erano ancora riuscite ad eliminare del tutto). Con la neotenia, dunque, la prole si rese disponibile a fornire "in proprio" una prestazione sessuale al maschio cannibalico, in cambio della sopravvivenza; ossia, a realizzare essa stessa uno scambio "sesso contro carne". Attraverso la neotenia, la predazione cannibalica maschile verso la prole si trasformò allora in predazione sessuale. Nacquero a questo punto, come evoluzione "secondaria" del cannibalismo (cannibalismo che potremmo a questo punto definire, in termini psicopatologici, "psicopatia primaria"), la pedofilia e le perversioni sessuali sado-masochistiche; ed in queste ultime la difesa sessuale dal cannibalismo acquisì il suo corrispettivo di piacere sessuale, sia nella preda (masochismo) che nel predatore (sadismo). Nacque inoltre, come derivato della neotenia, l' omosessualità: quella maschile rappresentò la difesa sessuale di un maschio più giovane dall'aggressione di un maschio adulto e cannibalico. L'omosessualità femminile, invece, rappresentò probabilmente la fuga femminile dal maschio cannibalico, e l'appropriazione, da parte della femmina, di alcune delle caratteristiche predatorie e aggressive del maschio. L'omosessualità femminile ebbe anche lo scopo di pacificare le diverse generazioni di femmine, fino ad allora nemiche, a causa delle pratiche incestuose della femmina adulta.
Infine nacque la misteriosa
anoressia mentale,
la quale rappresenta il risultato della multiforme pressione predatoria del
maschio sulla femmina giovane; essa costrinse in primo luogo la femmina a
sottrarsi, attraverso il dimagramento, al pericolo di essere direttamente
cannibalizzata. Il cannibalismo verso la prole e la predazione sessuale
indussero poi la femmina alla sospensione delle mestruazioni ed al rifiuto della
gravidanza; la magrezza le servì, fra l'altro, a nascondere al predatore la
propria potenzialità riproduttiva, ed a rimandarla a momenti più tranquilli.
Infine, l'avversione per il cibo, che talora caratterizza la donna, deriva forse
dal suo sottrarsi alla memoria dell'antico compromesso cannibalico col maschio,
che le imponeva di divorare insieme con lui parte della prole: rifiutando il
cibo, essa rifiuta anche, forse, un cibo "cannibalico".
C. La terza ipotesi è che la femmina, quando questi strumenti di difesa anticannibalica (sessualità perenne, menopausa, neotenia, anoressia), non bastarono più ad arginare il cannibalismo maschile, abbia direttamente preso in mano il meccanismo di selezione della specie: ciò da un lato scegliendo quali fossero i figli da salvare e quali da sacrificare alla predazione del maschio, dall'altro lato scegliendosi, come partner, i maschi meno predatori e più condizionabili sul piano sessuale e cooperativo. La femmina scelse insomma di salvare la prole più dotata in senso anticannibalico, sia intellettualmente che in termini di capacità cooperativa, di duttilità e di ricettività comunicativa e sessuale; ma per far ciò, dovette realizzare un compromesso predatorio col maschio; e lo fece, compensandolo con la predazione verso la prole più inadatta alla sopravvivenza, ed associandosi a lui in tale predazione. Ma per far ciò essa dovette scegliere, come partner, i maschi più inclini al compromesso, ossia a loro volta più cooperativi e più soggetti alla propria influenza; ma il profilo di questa tipologia maschile corrispondeva in tutto e per tutto a quello dei propri stessi figli, divenuti nel frattempo neotenici e sessualmente ricettivi! L' incesto divenne perciò il principale strumento di selezione materna della specie; ed i suoi svantaggi genetici furono ampiamente compensati dai vantaggi selettivi. Con questi due meccanismi riuniti in uno solo (selezione cannibalico-incestuosa dei figli, e selezione oculata dei partner sessuali, in gran parte i propri stessi figli), la femmina divenne il principale agente della selezione della specie; essa, selezionando la prole ed i partner, filtrò la predazione cannibalica maschile sulla specie, salvandola dall'estinzione. Ciò implicò però un suo esercizio diretto della predazione, che si riflette oggi nella frequenza dell'infanticidio da parte delle madri (a fronte della frequenza della pedofilia, o predazione sessualizzata, nei maschi). La femmina, inoltre, ad un certo punto cominciò ad usare la prole maschile (la cui alleanza si era procacciata attraverso profferte sessuali e di protezione) contro il padre cannibalico, al fine di alleggerirne ulteriormente la pressione predatoria. Le conseguenze dell'appropriazione, da parte della femmina, del meccanismo selettivo della specie, furono due: Il comportamento ipersessuale ed incestuoso della femmina rese necessaria una risposta anche culturale, e non solo biologica, alla furiosa reazione del maschio: e questa risposta fu il tabù dell'incesto; con quest'ultimo evento, la specie disinnescò gran parte della rivalità sessuale padre-figlio. Questa rivalità infatti, a dispetto della forte promiscuità sessuale che aveva da sempre caratterizzato le società di ominidi, era riemersa col dilagare dell'incesto, e di nuovo minacciava la sopravvivenza della specie. La femmina, come si è detto, da un lato prese a selezionare ed a salvare dal cannibalismo paterno quella parte della prole che si era rivelata più dotata in senso anticannibalico ed antipredatorio: si trattava dei figli maggiormente sessualizzati, oppure di quelli più cooperativi e comunicativi sul piano linguistico, ed intellettualmente più dotati per sfuggire alla predazione del maschio adulto. Dall'altro lato, la femmina prese a selezionare come propri partner i maschi meno erratici, perché erano anche i meno predatori. Ma quali partner più stanziali, antipredatori e collaborativi poteva essa scegliere, di quelli selezionati da lei stessa ed allevati a lungo presso di sé, i propri stessi figli? La selezione materna della prole aveva condotto, insomma, non solo ad un'implementazione dell'incesto madre-figlio, ma ad un suo uso sistematico ed "intelligente" (visto che i suoi vantaggi per la selezione della prole, ne controbilanciavano abbondantemente gli svantaggi genetici). L'incesto aveva però uno svantaggio che alla lunga non fu possibile bilanciare, ed al quale abbiamo già accennato: la lotta feroce fra le generazioni, maschili e femminili, che esso induceva, e che minacciò nuovamente la specie di estinzione. L'incesto, infatti, non era stato affatto superato dalla menopausa, né dalla diffusione di femmine "caste" e dedite all'allevamento della prole; esso permaneva, e comportava uno stato di guerra permanente fra le generazioni, dovuta alla rivalità sessuale. Si rese dunque necessaria l'istituzione di un apposito tabù che lo evitasse.
Infine, malgrado tutte queste innovazioni (sessualità permanente, menopausa,
neotenia, omosessualità, perversioni, anoressia, incesto e tabù dell'incesto),
la selezione materna dovette anche cominciare a produrre una prole sempre
più intelligente, cooperativa e dotata sul piano linguistico e simbolico:
in altre parole, più capace di resistere alla pressione predatoria maschile,
contro la quale le armi della sessualità, da sole, non bastavano più (essendosi
la predazione cannibalica trasformata in una feroce predazione sessuale, ossia
in un strumento implacabile di asservimento della prole e della stessa femmina).
D. Queste considerazioni ci conducono alla quarta ipotesi: il linguaggio simbolico e la coscienza (un'altra unicità umana, dal punto di vista biologico), furono il risultato ultimo della selezione materna della prole, indotto dal cannibalismo maschile. Linguaggio simbolico e coscienza, ad un certo punto, sostituirono la sessualità nella lotta contro la predazione, poiché questa aveva ormai infiltrato di sé la sessualità, fino a renderla inservibile ai propri fini (visto l'alto grado di violenza predatoria e di asservimento che erano connaturati alle perversioni sessuali ed alla pedofilia). La nuova arma antipredatoria a disposizione della prole, il linguaggio verbale, si sviluppò secondo noi a partire dagli elementari messaggi materni di cura verso di essa: questi messaggi materni alla prole però divennero, dopo la pre-maturazione neotenica di questa, non molto diversi da quelli di richiamo sessuale emessi dalla femmina verso il maschio; ma questi ultimi a loro volta contenevano, oltre che messaggi di semplice richiamo sessuale, anche messaggi di pericolo e di patteggiamento sessuale antipredatorio; ancora una volta, sesso contro carne. Il linguaggio madre-figlio, insomma, fu di accudimento, sessuale, ed ancora antipredatorio; esso, una volta fatto proprio dalla prole, trasmise al predatore tutta l'ambiguità tra questi istinti, la quale rifletteva l'ambiguità delle relazioni sociali di un contesto predatorio e cannibalico. Un tale linguaggio produsse sul predatore effetti ipnotici e di blocco: esso era infatti basato su messaggi binari, bloccanti ed influenzanti, del tipo "Sta attento-non muoverti, sei in pericolo-compiaci il predatore". Il pianto disperato dei bambini di oggi al primo segnale di pericolo, naturalmente, sembra smentire clamorosamente la nostra ipotesi; tuttavia alcuni comportamenti autistici dei bambini sono appunto di blocco, di immobilizzazione, di filtro all'invasione dell'altro; sembrano perciò potere essere interpretati come residui di questa fase persecutoria dello sviluppo psichico infantile. L'aspetto di tipo suggestivo-influenzante, invece, pur essendo abbastanza assente nei bambini autistici, è molto presente nell'autismo schizofrenico, con i suoi aspetti di pensiero magico. Il primo linguaggio conteneva dunque messaggi di pericolo ed insieme di seduzione sessuale: era cantilenante e suggestivo, ipnotico ed ambiguo, a metà fra una richiesta di protezione contro il predatore, ed una di pacificazione sessuale: fu insomma uno strumento di difesa e di influenzamento, che la prole mutuò dalle madri. | << | < | > | >> |Pagina 27L'uomo forse poté addomesticare gli animali solo quando ebbe imparato ad "addomesticare" il padre predatorio e cannibalico. Solo allora poté raffigurare l'immagine terrifica del padre, sotto la forma totemica dell'animale "domato".L'addomesticamento degli animali, e forse la stessa caccia, furono individuati come fatti cruciali dell'evoluzione umana, e come tale rappresentati per migliaia di anni nelle pitture rupestri, proprio perché sulle figure di animali, come a suo tempo col padre predatore, era possibile agire per via "magica", tramite l'imitazione della figura, del gesto e del verso emesso, come fanno ancora oggi, ad es., i cacciatori, e gli "uccellatori" di vario genere. Domare gli animali o cacciarli, insomma influenzarli, fu una conquista che conseguì a quella, ben maggiore, dell'avere domato ed influenzato il padre predatore; e fu per questo che essa meritò di essere immortalata. Ma perché mai il pensiero magico, alla fine, declinò così sensibilmente, e scomparve poi quasi del tutto dal pensiero e dall'animo umano? La risposta sta nella progressiva interiorizzazione e metaforicizzazione della spinta predatoria, avvenuta attraverso il linguaggio simbolico; questa spinta, infatti, una volta divenuta padroneggiabile interiormente, tramite il linguaggio e la coscienza, non ebbe più necessità di essere padroneggiata anche esternamente, nella relazione fra gli uomini, mediante le categorie dell'influenzamento magico. La magia, insomma, divenne inutile e scomparve, non appena la mente umana fu in grado di padroneggiare interiormente, ed individualmente, le proprie spinte predatone; fu questa l'innovazione che rese inutile il loro padroneggiamento esterno. L'unica forma di pensiero antipredatorio esteriore, collettivo, che sopravvisse al pensiero magico (e che sopravvive ancora oggi) fu il pensiero religioso. La religione rappresentò la necessità di continuare a padroneggiare in ambito collettivo, nell'ambito della relazione fra gli uomini, quel residuo di predazione che l'acculturazione dell'umanità, nonostante l'interiorizzarsi della dialettica predazione-socialità e la formazione della coscienza, non era ancora riuscita a controllare. Con l'avvento della religione, però, il padroneggiamento collettivo della predazione, anziché espletarsi apertamente, in riti dal significato evidente a tutti, come era avvenuto nel pensiero magico, fu "relegato" in riti di tipo iniziatico; il significato di essi, infatti, doveva rimanere segreto, o essere conosciuto solo da pochi: in particolare, da una casta separata dal resto della popolazione, i sacerdoti. L'etimologia della parola "religione", del resto, suggerisce proprio questo: essa significa, oltre che unificazione, legame, anche "relegare" in un ambito separato qualcosa che non può essere pienamente conosciuto, e con cui non è bene entrare in contatto diretto; da questo punto di vista, il significato della parola "religione" appare analogo a quella di "sacro", che significa anche "esecrabile", da non toccare.
Ciò fa suppone che parte della spinta predatoria potrebbe riemergere ancora
oggi nella coscienza, ove non fosse contrastata dalla religione, e compromettere
la funzione più nobile della coscienza stessa (il pensiero simbolico),
asservendola nuovamente alla sua funzione primitiva: quella dell'influenzamento
degli altri per via magica.
E. Veniamo così alla quinta ipotesi: essa riguarda proprio la vicissitudine che portò alla liberazione dell'uomo dalla schiavitù degli istinti, ed alla nascita della coscienza. Si tratta, come si vedrà, di una ipotesi molto speculativa. La coscienza umana potrebbe essersi sviluppata sulla base della preesistenza del linguaggio simbolico: potrebbe cioè avere utilizzato le possibilità che esso offriva di compiere, interiormente, un'identificazione con l'altro e con la sua intenzionalità, ed una parallela auto-identificazione. Ciò allo scopo di vigilare in continuazione sia l'ambiente esterno che quello interno, e di potersi muovere in una società cannibalica. La coscienza, dunque, sarebbe nata al fine di prevedere e di neutralizzare, nel modo più continuativo ed efficace possibile, il comportamento predatorio di membri della stessa specie, che si aggiravano continuamente nel gruppo, che entravano in intimità con ogni individuo, che tendevano ad asservirlo o a predarlo in tutti i modi possibili, e che parlavano la stessa lingua. Questi predatori, dunque, potevano essere influenzati tramite il linguaggio, ed influenzare a loro volta la preda nello stesso modo; perciò il linguaggio stesso andava controllato, al pari delle azioni motorie, ossia monitorato, esaminato nelle sue sequenze narrative, richiamato alla memoria della preda, ed utilizzato, nelle sue caratteristiche simboliche, che permettevano un'identificazione sempre più fine con l'altro, allo scopo di bloccarlo. In definitiva, tutta la vita psichica ed interiore del soggetto, in un contesto cannibalico, andava costantemente auto-controllata, perché era proprio in essa che si celavano, sia gli istinti predatori da arginare, che quelli sociali che servivano al loro arginamento; ed inoltre, proprio nella vita psichica risiedeva la memoria narrativa delle esperienze precedenti (creata dalle allucinazioni, e dal pensiero "autistico"). Allo stesso modo andavano monitorati ed autocontrollati gli istinti, e trasformati continuamente in risposte di tipo rappresentativo, che fossero atte ad influenzare il comportamento del predatore. Ma la coscienza poteva fare tutto ciò, solo se si dissociava dal soggetto, se era capace di osservarlo dall'esterno, come un oggetto, e si poneva dal punto di vista del predatore, sia per accontentarlo che per manipolarlo. La chiave dell'autocoscienza (la forma più completa della coscienza umana), starebbe perciò nell'identificazione linguistico-simbolica con un predatore, nel porsi dalla sua parte, auto-osservandosi e modificando i comportamenti del sé osservato. Questa identificazione col predatore avvenne all'interno del sé, tramite forme di trasformazione simbolica degli istinti: infatti, per influenzare l'altro, la preda doveva sfruttare la propria istintualità sociale, con la quale mobilitava gli istinti sociali del predatore; ma per far ciò, doveva aver prima bloccato in se stesso quelli predatori. E per far ciò, la preda aveva un continuo bisogno di "guardarsi dentro", al fine di riconoscere i propri stessi istinti, di vagliare la propria risposta sociale o aggressiva, di controllarla e di evitare che divenisse controproducente (ad es. spingendola ad una reazione aggressiva, o ad una fuga, improvvide); insomma, essa aveva un continuo bisogno di auto-controllare le proprie reazioni istintuali, e di trasformarle in rappresentazioni omologabili alle percezioni del predatore; ma per compiere tale operazione, doveva anzitutto discriminare l'ambiguità delle percezioni stesse, e poi identificarle e farle proprie; perciò, oltre che guardarsi "dentro", doveva anche, continuamente, "guardarsi da fuori", con l'occhio del predatore. Questa continua necessità di vigilare, con un "colpo d'occhio unico", sia l'ambiente esterno che la propria interiorità, al fine di controllare se stessi e di immedesimarsi nella reazione del predatore, potrebbe spiegare sia la continuità nel tempo e nello spazio, sia il carattere auto-osservante e "morale" della coscienza umana (ossia, il suo porsi, in un certo senso, dal punto di vista di un ipotetico osservatore esterno). Ma guardare contemporaneamente dentro e fuori di sé, cos'altro è, sen non disattivare i propri istinti predatori, facendo leva sugli istinti sociali? | << | < | > | >> |Pagina 32La coscienza acquisì allora la connotazione di coscienza "morale" (che significa auto-inibente sulla base delle esigenze sociali ed ambientali), e si mutò in autocoscienza.La coscienza aveva però, come sappiamo, anche un altro compito (che poi era quello prioritario, e che stava alla base della sua stessa origine): oltre che trasformare le reazioni motorie immediate, di ordine predatorio, in rappresentazioni integrate, rappresentativo-motorie, ad uso interno, essa doveva rendere queste rappresentazioni utilizzabili all'esterno, per i più "primitivi" fini suggestivi e mimetici. Ma per fare ciò la coscienza, oltre che guardare continuamente verso l'interno, verso gli stessi livelli istintuali del soggetto, doveva anche ricordarsi perennemente di tenere presente l'ambiente esterno, ed i pericoli che da esso provenivano. Doveva, in altre parole, tenere costantemente d'occhio, ed in equilibrio, tutti i livelli istintuali in gioco, quelli predatori e quelli sociali, i propri e quelli appartenenti al predatore; e per di più, doveva farlo mantenendosi sul piano rappresentativo. Essa poi doveva evitare di cedere allo scarico motorio: sia allo scarico dell'istinto sociale (che poteva essere troppo "aperto" all'altro, e viceversa troppo poco attento all'esperienza che proveniva dalla memoria, e alle esigenze di sopravvivenza che provenivano dal sé), sia a quello dell'istinto predatorio (che poteva essere al contrario troppo "chiuso", sicuro di sé, e poco attento al punto di vista dell'altro). Per questo motivo la coscienza fu fin dall'inizio interattiva, contenitiva ed auto-compensativa, come del resto anche l'etimologia di coscienza, "cum-scientia", suggerisce; infatti, con essa, ad interagire fra di loro erano non solo i livelli istintuali del soggetto, ma anche i livelli istintuali del soggetto con quelli del suo interlocutore. Per lo stesso motivo, la coscienza costituì una rappresentazione unitaria e sintetica di tutti i livelli istintuali, interni ed esterni, messi in gioco dalle stimolazioni predatorie: fu questo che le consentì di essere una struttura motoria disattivata, e trasformata in rappresentazione: cioè dissociata dai livelli motori, ma con essi comunicante.
Era un'istanza, insomma, allo stesso tempo rappresentativa e decisionale;
partiva da una "visione d'insieme" del bilancio predazione-socialità per
giungere, dopo una adeguata rappresentazione ed elaborazione simbolica di tale
bilancio, a porre fine alla dissociazione mente-motricità, per giungere alla
fine ad una decisione motoria.
F. Veniamo ora alla sesta ed ultima ipotesi, che riguarda le malattie mentali. Secondo questa ipotesi, i principali disturbi psicopatologici derivano dalla matrice cannibalica dell'evoluzione umana; ed in particolare, da un duplice scacco, esperito dall'individuo, nell'operare il suo bilancio interiore fra predazione e socialità: 1) Lo scacco dell'individuo che non riesce ad appropriarsi e ad assimilare, o a padroneggiare, senza una eccessiva alterazione del proprio equilibrio interiore e delle proprie strutture istintuali predatorie, i comandi antipredatori, il più delle volte di natura sociale, che gli giungono dal collettivo. Questo primo scacco dà luogo a profonde destrutturazioni, le quali si svolgono in prevalenza all'interno dell'individuo, e lo portano a reprimere la propria istintualità, per salvarsi dall'eliminazione che il collettivo, in caso contrario, gli promette. 2) Lo scacco dell'individuo che non riesce a restituire al collettivo (in una forma da quest'ultimo assimilabile ed utilizzabile) i risultati delle trasformazioni interiori che i comandi ed i messaggi sociali hanno prodotto in lui, e prevalentemente nelle sue strutture istintuali predatorie. Questo secondo scacco dà luogo ad un tentativo, non riuscito, dell'individuo, di ottenere una rivalsa predatoria sul collettivo; ossia ad un disturbo esterno delle relazioni dell'individuo con il collettivo. Il primo scacco produce destrutturazioni della personalità e della biologia individuale, nonché del rapporto dell'individuo con se stesso, provocate dalla pressione della socialità e del collettivo, e che potremmo definire come "patologie in entrata"; in esse l'individuo subisce il collettivo, che "entra dentro di lui" con la propria socialità, ed esercita una pressione che altera i suoi livelli istintuali predatori, li invade e li de-struttura. Tutto ciò produce stati autistici, allucinazioni, psicosi inibite o "negative", forme ebefreno-catatoniche, depressioni, anoressia mentale, forme ossessivo-fobiche, disturbi psicosomatici o ipocondriaci, stati di panico.
Il secondo scacco produce invece quelle forme psicopatologiche che denotano
un disturbo nella capacità individuale di proporre al collettivo la propria
spinta predatoria in termini da esso accettabili, e che potremmo definire come
"patologie in uscita";
infatti in tali patologie è l'individuo, con i suoi livelli istintuali
predatori, che fuoriesce da se stesso, tentando di influenzare il collettivo, di
assumerne più o meno impropriamente la leadership e di alterarne
la struttura istintuale, che è prevalentemente sociale; tuttavia (salvo rari
casi di leadership riuscita, passati al mito come "eroi", "profeti", o
addirittura "dei"), egli esce sconfitto e destrutturato da questo confronto,
in genere assolutamente impari. Questa sfida dell'individuo al collettivo
produce deliri di tipo eccitatorio e "positivo", espansivo, oppure incoerente
e bizzarro (ad es. deliri megalomanici, paranoidi-persecutori, mistici,
profetici, erotomanici, querulomanici, ecc.); inoltre, psicopatie criminali,
comportamenti sessuali patologici e predatori (pedofilia, sadomasochismo), stati
maniacali, disturbi di personalità narcisistica o antisociale o "borderline",
tossicodipendenze.
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