Copertina
Autore Volfango Lusetti
Titolo Funzione del padre e psicosi
EdizioneArmando, Roma, 2008, Tracciati , pag. 96, cop.fle., dim. 16x24x0,8 cm , Isbn 978-88-6081-322-0
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe psichiatria , psicanalisi
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Indice


Prefazione di IGNAZIO MAJORE                         9

Introduzione                                        13

Parte prima: FUNZIONE DEL PADRE E PSICOSI           27

Parte seconda: PRESENTAZIONE DI UN CASO CLINICO     53
    Intervista con un padre                         54
    Intervista con un figlio                        69

Parte terza: CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE              85

Bibliografia                                        96


 

 

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Pagina 13

Introduzione


I figli di Crono

Secondo un mito greco delle origini Urano, il primo degli dei, generò, insieme con la Madre Terra Gea, i Ciclopi, che però gli si ribellarono; allora li esiliò nel Tartaro, ma Gea, per liberarli, aizzò contro di lui certi altri suoi figli, detti Titani, il cui capo era Crono; questi riuscì ad evirare il padre con un falcetto, liberando così i Ciclopi suoi fratelli dall'esilio del Tartaro; Urano, però, mentre moriva dissanguato, predisse a Crono, come in una sorta di maledizione, che uno dei suoi figli lo avrebbe a sua volta detronizzato, e che quindi egli avrebbe seguito la propria stessa sorte; Crono allora, spaventato dell'essere stato indotto a "leggere" nel suo futuro il ripetersi, a parti invertite, della sua esperienza, via via che la sua sposa Rea prese a dargli dei figli (nell'ordine Estia, Demetra, Era, Ade, Poseidone), li divorò ad uno ad uno; Rea però ad un certo punto, furiosa, gli diede da mangiare a sua insaputa, al posto dell'ultimo nato (Zeus), una pietra mascherata da un panno, e salvò così il figlio. In seguito Zeus, ormai cresciuto e travestito da coppiere, con la scusa di dare sollievo al padre, cui la pietra era fino ad allora rimasta sullo stomaco, gli diede da bere un emetico: Crono allora dapprima vomitò la pietra, poi, dopo di essa, tutti i figli che aveva fino ad allora divorato: questi uscirono dal ventre di Crono assolutamente intatti e si unirono a Zeus, esiliando Crono nel Tartaro. Da allora Zeus proibì i sacrifici umani.


Il significato di questo mito è piuttosto chiaro: l'interdizione dell'antagonismo predatorio fra padri e figli nasce nel preciso momento in cui la nostra specie "rigetta" il cannibalismo; ma essa lo fa solo dopo averlo interiorizzato, ed in qualche modo mentalizzato in qualità di memoria ed esperienza indelebile.

Nella sostanza, questa interdizione nasce dal fallimento del cannibalismo paterno ai danni della prole (un fallimento fomentato dalla madre); essa però è strettamente collegata con il fatto che al cannibalismo materiale del padre sui figli subentra, ad un certo punto, un'attitudine predatoria di tipo più metaforico e cosciente, in base alla quale diviene il tempo (ossia Crono), non più il padre, il cannibale che divora sistematicamente i propri figli. Questa metafora, insomma, denota l'acquisizione, da parte della nostra specie, della chiara percezione e memoria del destino implacabile di morte che è comune a padri e figli, e la cui ineluttabilità rende finalmente possibile un patto di non belligeranza, se non di alleanza, fra le generazioni.

Perciò, da questo momento in poi, il destino dei figli di Crono sarà quello di divenire capaci di attenuare i loro conflitti agendoli anche su base simbolico-metaforica, anziché solamente materiale; e ciò avverrà raffigurandoli all'interno del tempo interiore, ossia nella dimensione narrativa della coscienza, ed in definitiva, attraverso una chiara percezione dell'inesorabile scorrere, e ripetersi, della storia e delle generazioni. Chi invece non avrà acquisito questa consapevolezza e capacità metaforica, da un lato continuerà, anche letteralmente, a comportarsi come un cannibale, dall'altro dovrà subire senza difese né capacità di previsione alcuna il cannibalismo altrui, ed insieme andare incontro a gravi disturbi nella sfera del pensiero simbolico e della coscienza.


Lo scopo di questo saggio è dunque quello di illustrare il rapporto che lega il fenomeno della psicosi, vista nel suo insorgere clinico ed in una fase più o meno plastica e reversibile, e la funzione simbolica del padre: una funzione che, anche in base a quanto sopra, ci sembra determini l'origine, la struttura ed il decorso della psicosi stessa, in quanto fenomeno caratterizzato da una cospicua carenza della dimensione simbolica; ma una tale prospettiva non è altro, come ben sanno i cultori del pensiero psicoanalitico, che una prospettiva di tipo lacaniano: perciò questo saggio si incentra su alcuni aspetti del pensiero di Lacan, lo psicoanalista che secondo noi ha affrontato questi temi nel modo più profondo e rigoroso, e prova ad illustrare quelle che secondo noi sono le sue grandi possibilità di applicazione alla clinica psichiatrica.


Lacan, secondo noi, è un autore molto più attuale di quanto non appaia a prima vista: egli infatti, sia pure con lo stile difficile, criptico, allusivo e quasi barocco che contraddistingue la sua prosa (e che un po' si riflette, inevitabilmente, anche in questo saggio), ha esplorato come nessun altro il rapporto che lega la figura paterna (ed i codici simbolici che essa contribuisce a creare), ad ogni genere di sofferenza che investa la figura filiale: quella sofferenza che è alla base, secondo il nostro punto di vista, sia della dimensione nevrotica che di quella psicotica, almeno quando non esista, per il figlio, un "filtro" protettivo materno sufficientemente efficace, o una dotazione personale, "congenita", più che adeguata.

Abbiamo motivo per ritenere, a tale proposito, che la figura paterna, a lungo sottovalutata dalla Psicoanalisi successiva a Freud, e da essa posposta, quasi sempre, alla figura materna (molto più "tranquillizzante" e deresponsabilizzante sotto ogni punto di vista), sia la causa, oltre che dell'istituirsi delle più efficaci difese contro la psicosi, anche, in moltissimi casi, dello scatenamento della stessa; ciò avviene, con ogni evidenza (e come apparirà chiaro anche dal caso clinico riportato nella seconda parte), attraverso la messa in moto di un meccanismo di vera e propria "prelazione" paterna ai danni del figlio, la quale travolge assai spesso ogni possibile mediazione materna, e pone a dura prova le risorse dello stesso figlio, mettendone a nudo, inesorabilmente, ogni eventuale insufficienza strutturale.

Lacan, a questo proposito, nel corso dello svolgersi del suo pensiero (in particolare negli Écrits), ci dice essenzialmente due cose, entrambe assai importanti, che non erano state del tutto chiarite da Freud:


1) la prima cosa rimarchevole che ci dice Lacan, è che l'inconscio è strutturato come un linguaggio; questa affermazione, che suona in prima istanza come misteriosa e bisognosa di spiegazione, va intesa secondo noi, semplicemente, nel senso che l'inconscio è il luogo del desiderio, più che dell'istinto o della pulsione, e che il desiderio che risiede nell'inconscio è, nella sua essenza, un fatto linguistico, più che "energetico"; esso, infatti, è totalmente diverso dal bisogno insito negli istinti animali: "desiderio", etimologicamente, proviene da "de-sidera", ossia "dalle stelle", ed indica perciò astrazione, comunicazione linguistica, leggerezza e reversibilità con il proprio oggetto; in altre parole, il desiderio è, almeno in prima istanza, "desiderio dell'altro" (intendendo questo "altro" in senso reversibile, ossia come soggetto e come oggetto del desiderio stesso); proprio per questo, però, il "desiderio" è anche alienazione nell'altro, e quindi, tramite il desiderio ed il suo statuto strutturalmente alienato, lo stesso inconscio è alienato, o meglio è il luogo dell'alienazione. "Bisogno", invece, proviene da "bios", termine che indica la "vita" nel suo senso più elementare, la quale si rivolge in maniera più o meno materiale e rigida, prefissata ed istintuale, ad un oggetto da "consumare", seguendo una sorta di arco riflesso più o meno condizionato dall'apprendimento. Il desiderio, peraltro, è diverso anche dalla "pulsione" freudiana, la quale assomiglia anch'essa, un po' come l'istinto, ad una forza meccanica, quasi "idraulica", anche se è molto più indifferenziata e "mobile" dell'istinto stesso. Il desiderio, invece, nella sua estrema plasticità, è essenzialmente simbolico, quindi più simile ad una figura linguistica che ad una "forza" (sia essa intesa sia in senso istintuale che libidico); più precisamente, il desiderio assomiglia alla figura retorica che contrassegna il rapporto, continuamente cangiante, fra elementi contigui, denominato metonimia o sineddoche, il quale designa il legame di una parte con il tutto.

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Pagina 23

Nella prima parte di questo lavoro, dunque, vengono esaminate in special modo due questioni preliminari, che riguardano i due aspetti della vicissitudine del Desiderio rispetto al Soggetto nella prospettiva di Lacan: quello della "rimozione originaria" (vista come ciò che, mediante la metafora paterna, permette al desiderio di costituirsi come tale per il soggetto, legandolo così alla significazione), e quello della preclusione, o "forclusione", del significante paterno (vista come risultato dello scacco della metafora paterna, che impedisce al soggetto di riconoscersi nel proprio desiderio mediante la significazione metaforica del fallo, e pone così le basi da un lato per un uso non metaforico ma letterale delle metafore da parte del soggetto, e dall'altro per una sua captazione nel desiderio altrui e nell'altrui immaginario; di tale processo di captazione l'agente materiale viene identificato nella Madre, ma il primo "agente ideale" viene individuato nel Padre).


Nella seconda parte vengono presentate le interviste ad un giovane psicotico all'esordio ed a suo padre: in essa abbiamo ritenuto suggestivo accostare la teoria di Lacan e la prassi di Ignazio Majore: un altro psicoanalista "dissidente" di derivazione freudiana, per qualche tempo indicato come "il Lacan italiano", il quale dice cose, per molti versi, del tutto analoghe, sul piano teorico, a quelle di Lacan, specie nell'esplorazione del rapporto predatorio che intercorre sovente fra padre e figlio (anche se lo fa con un linguaggio molto più chiaro e meno schermato di quello del suo coevo e più famoso autore francese).

In questa seconda parte, comunque, ci si propone di illustrare il fenomeno della preclusione, o "forclusione", postulato da Lacan, in una situazione in cui padre e figlio sono legati da un sodalizio improntato alla difesa ed all'esclusione nei confronti delle captazioni immaginarie della madre; un tale atteggiamento, che viene qui inquadrato nello schema dell'Edipo invertito, sembra mostrare una sorta di alleanza immaginaria, di tipo omosessuale, che serve da compenso per la preservazione delle residue capacità metaforiche di entrambi i membri della coppia, ed insieme, impedisce loro di entrare in una situazione conflittuale troppo pericolosa e cruenta: questa singolare alleanza (che si realizza attraverso un processo in cui l'uno figura in qualche modo come vettore materiale e "legislatore" delle possibilità di significazione dell'altro), ha la precisa funzione di impedire a padre e figlio di scontrarsi, ovvero di fare emergere la rivalità mortale che, nel loro profondo, essi covano l'uno verso l'altro.

Ciò viene qui proposto come spiegazione del carattere benigno della psicosi nell'ambito di questo schema, e più in generale, della funzione difensiva ed antipersecutoria della struttura perversa.


Nell'ultima parte del lavoro, infine, viene posto il problema delle implicazioni terapeutiche di quanto sopra, e si avanzano due ipotesi: la prima ipotesi riguarda l'aspetto "istituito" e perciò "topico" della funzione del padre, per ciò in cui essa rimanda ad un "luogo" che trascende la funzione storica del padre reale, e che pertanto la relativizza. In questo senso si ipotizza che il padre sia presente all'immaginario del Soggetto come "legislatore", e quindi come perturbante del suo desiderio, nonché come autore di una vera e propria invasione predatoria, almeno in parte per motivi indipendenti dalle caratteristiche reali del padre stesso: più precisamente, si ritiene che egli sia presente nell'immaginario del figlio come "legislatore" nella misura in cui lo stesso figlio, per ragioni inerenti la sua struttura personale, ed in qualche modo "congenite", non ha di fatto potuto reggere su di sé la funzione simbolica collettiva che gli preesiste (e che il padre, più o meno inadeguatamente, ha tentato di trasmettergli); quindi, anche e principalmente per questa sua insufficienza strutturale, un tale figlio non ha saputo resistere né alla pressione predatoria paterna, né alla captazione, altrettanto predatoria della madre (pressione e captazione che sono sempre peraltro, entro certi limiti, fisiologiche e necessarie a stimolare lo sviluppo di qualunque figlio).

La seconda ipotesi, che consegue alla prima, è quella che una terapia della psicosi che, ignorando i limiti strutturali individuali della stessa, non voglia essere puramente "immaginaria" (ossia tale da fare apparire a sua volta il terapeuta, al soggetto, come un improprio "legislatore" e quindi un perturbante, ovvero un autore più o meno predatorio di invasioni), dovrà far perno, più che sul rapporto interpersonale (il quale fatalmente ripropone l'invasione), sul rapporto eminentemente sociale, impersonale, che lega il Soggetto, in quanto membro "giurato" (mediante l'interdizione dell'incesto) della società, alla funzione paterna che lo istituisce come tale su un piano collettivo. Una terapia siffatta, insomma, non potrà essere una psicoterapia tradizionale, basata sul transfert, sul rapporto interpersonale e sull'interpretazione più o meno sistematica di tale rapporto; essa, al contrario, dovrà assumere la forma di una terapia "istituzionale" e "comunitaria" (in sé per sua natura, piuttosto impersonale), che in quanto tale vada oltre, almeno in una certa misura, le caratteristiche reali del terapeuta (siano esse positive o no), e che protegga il paziente da una loro percezione in termini immaginari; questa terapia, quindi, dovrà sforzarsi di riportare il paziente a coordinate di rapporto con le figure genitoriali che siano le meno "immaginarie" possibili, e viceversa, le più simboliche; ma ciò potrà essere ottenuto solamente se tali coordinate di rapporto saranno più o meno rigidamente "strutturate", attraverso rituali collettivi prefissati e codificati da una qualche istituzione; infatti, solo all'interno di un "binario" collettivo, simbolico ed istituzionale, gli aspetti personali del rapporto potranno trovare un filtro sufficiente, un argine ed una protezione, quindi uno spazio adeguato ed un'azione terapeutica efficace.

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