Copertina
Autore Giovanni Lussu
Titolo La lettera uccide
SottotitoloStorie di grafica
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2003 [1999], Scritture 7 , pag. 192, ill., cop.fle., dim. 15x21x1,3 cm , Isbn 978-88-7226-488-1
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe grafica , illustrazione , design , scrittura-lettura , comunicazione , linguistica
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Indice


01  La lettera uccide 9
        Esercizi notazionali 39

02  Il laboratorio di poesia disegnata 49

03  Sulla tipografia 59
        Tipografia al Politecnico 79

04  Il caso della stella a dodici punte 85
        Iperboloidi, alberi e chiocciole 99

05  Le patate di Capoverde 109

06  E che dire del linguaggio delle piante? 119

07  Sistemi di segni 139

08  Grafica di pubblica utilità 159
        Lo spazio della grafica 173

09  Il sogno di Castelvetro 175

    Indice analitico 187


 

 

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Pagina 4

"La lettera uccide" è dal proverbiale passo di Paolo (Cor II 3, 6), variamente interpretato, che ha dato origine alle espressioni correnti relative allo spirito e alla lettera della legge. Nell'edizione ufficiale della Conferenza episcopale italiana (1974), si legge così: "La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulla carne dei vostri cuori. Questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio. Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita".


Una lettera (del tipo epistolare) che "letteralmente" uccide è quella sigillata che ordina al destinatario di uccidere il latore. Amleto, destinato da Claudio a presentarsi al re d'Inghilterra con una lettera simile, la sostituisce con una della quale latori sono gli sventurati Rosencranz e Guildestern (Amleto, V, II).

Per l'analoga lettera che Bellerofonte riceve dal re di Tirinto per il re di Licia (Iliade, VI, 167-70), vedi, in questa collana, Roy Harris , L'origine della scrittura, pag. 27.

Thomas Hardy ha riportato l'enunciato di Paolo in epigrafe al suo Jude the Obscure (1896), nell'inglese arcaico della Bibbia di re Giacomo, e l'aveva preso in considerazione come titolo del romanzo: "The letter killeth". Nel momento culminante di questa tragica storia, nell'ultimo drammatico incontro con Sue nella chiesa di Marygreen, Jude esclama: "This is my last time! [...] And I shall never come again. Don't then be unmerciful. Sue, Sue! we are acting by the letter; and 'the letter killeth'!" (pag. 468 dell'edizione Penguin del 1978).

Non posso non vederci un riferimento alla cultura scritta, a quell'ambiente universitario dal quale Jude è stato respinto.

Suso Cecchi D'Amico, nell'edizione Einaudi (Jude l'oscuro, "Gli Struzzi", 1990, nella quale l'epigrafe, per quanto menzionata nell'introduzione di Guido Fink, per un qualche disguido redazionale non figura), traduce letter con "parola": "Questa è l'ultima volta. [...] Non tornerò mai più. Non essere crudele. Sue! Sue! noi teniamo fede alla parola, ma 'la parola uccide'!" (pag. 419).

Più modestamente, come si potrà vedere, si intende invece qui la lettera alfabetica.

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La lettera uccide


Lo scritto che segue ne segue altri, pubblicati qua e là (in particolare; La grafica è scrittura, "Lineagrafica", n. 5, settembre 1991; Design e scrittura, "Domus", n. 796, settembre 1997; Il trionfo di Gutenberg, "Iter", n. 2, maggio-agosto 1998).

È l'ultimo, e certo non ultimativo, tentativo di messa a fuoco, dal punto di vista di un operatore, di un insieme piuttosto ampio di questioni.


Di queste questioni discutiamo da vent'anni con Daniele Turchi; e da un minor numero di anni, perché è molto più giovane, ne discutiamo con Antonio Perri.

Insieme abbiamo curato, per il Sistema biblioteche del Comune di Roma (> pag. 147) e con l'Aiap (> pag. 173), la mostra Scritture. Le forme della comunicazione, inaugurata nell'ottobre del '97, che dopo varie tappe si trova ora (aprile 1999) a Bassiano, il paese natale di Aldo Manuzio, a supportare il costituendo Museo delle Scritture. Entrambi, come si usa scrivere, condividono gli eventuali meriti, mentre i demeriti sono ovviamente miei.

In appendice (pag. 38), lavori di studenti del Politecnico di Milano e del Dudi di Roma.

01  Il progetto di comunicazione 11
02  Cos'è la scrittura? 11
03  Scritture diverse 15
04  L'alfabeto latino 19
05  L'alfabeto inglese 21
06  Espressione e informazione 23
07  Il trionfo di Gutenberg 25
08  Gli standard della comunicazione 27
09  Il continuum dei segni grafici 29
10  La grafica moderna 31
11  Scritture universali 33
12  Una nuova didattica 35



01

È illusorio presumere oggi di poter imbrigliare le questioni del progetto di comunicazione in un'unica visione interpretativa. Confluiscono saperi diversi e diverse pratiche: gli aspetti "artistici" si intrecciano a quelli "scientifici", ciascuno con proprie tradizioni, e le discipline implicate, tradizionali o meno che siano, aprono incessantemente nuovi fronti di ricerca, non sempre congruenti.


Emerge comunque sempre come cruciale l'opposizione tra immagine e scrittura, profondamente radicata nella grafica contemporanea e più in generale in tutta la cultura occidentale. Come mai questo luogo comune è così diffuso? Perché non ci si accorge quasi che anche la scrittura è immagine, che la scrittura è per definizione sempre immagine? Che anche le nostre lettere alfabetiche sono sempre e comunque viste in una forma, una specifica tra tante? E che la disposizione di queste forme è anch'essa sempre immagine, una specifica tra tante? E che tutte queste forme e disposizioni sono intrinseche al testo, componenti ineludibili del testo?


Questa opposizione risulta sistematicamente limitativa, e inibisce la comprensione dei fatti comunicativi. All'origine di essa, è questa la tesi qui presentata, c'è un pregiudizio profondamente radicato, fondato su alcune caratteristiche del sistema alfabetico e su come esso è stato interpretato negli ultimi due millenni e mezzo: si assume in sostanza che la scrittura sia qualcosa che ha a che fare più con la lingua parlata che con l'universo dei segni grafici.


Ne risulta una vera e propria cecità autoreferenziale, che porta, caso esemplare, all'aberrazione di poter scrivere di comunicazione visiva e di "linguaggi visivi" senza riferimento alcuno alla scrittura, come si vede in tanta saggistica e manualistica corrente. Ne risulta inoltre una scarsa comprensione delle applicazioni della tecnologia elettronica: l'opposizione tra immagine e scrittura porta a una nozione vaga di "multimedialità" e a un'incapacità di vedere lo sviluppo e l'estensione di queste applicazioni.


02

Per la tradizione culturale occidentale, da Aristotele fino ad oggi (supposto che questa pretesa continuità sia fondata), il modello concettuale attraverso il quale viene vista la scrittura, implicito o esplicito che sia, è sempre uno: la scrittura è nient'altro che un ingegnoso artificio tecnico per la rappresentazione della lingua parlata, la quale è il veicolo primario della comunicazione umana. Su questa base sono state costruite le teorie evoluzionistiche, quelle che attribuiscono ai nostri remoti antenati l'utilizzazione di pittogrammi, che poi sarebbero diventati ideogrammi e poi ancora scritture fonetiche sillabiche, per arrivare infine all'alfabeto, perfetta trascrizione della lingua e imperfettibile culmine della scala evolutiva.


Secondo Saussure, che pure ha introdotto la distinzione tra lingua come fatto mentale (la langue) e lingua come esecuzione verbale (la parole), "lingua e scrittura sono due distinti sistemi di segni; l'unica ragion d'essere del secondo è la rappresentazione del primo". C'è una ben definita scala gerarchica: in alto la langue, poi la parole, e in basso la scrittura.

Un modello alternativo, semplice ma rivoluzionario, è stato suggerito da Jack Goody, dopo i primi studi sui rapporti tra oralità e scrittura: parole e scrittura sono ambedue espressioni della langue, interagenti e complementari ma distinte, ciascuna con proprie caratteristiche e modalità di organizzazione.

E si è andati ancora oltre, riconoscendo che la langue di Saussure è modellata sulla lingua parlata, con il suo principio di linearità, e non può dare pienamente conto dell'espressione grafica.


Denise Schmandt-Besserat, nel frattempo, intaccava i luoghi comuni evoluzionistici: i gettoni d'argilla per usi contabili e commerciali dell'area mesopotamica, i cosiddetti tokens (> pag. 136), dai quali sarebbero derivate le prime forme "pittografiche", portano a retrodatare la scrittura di millenni e a ritenere che i primi segni utilizzati per registrare e comunicare informazioni fossero arbitrari e convenzionali piuttosto che raffigurativi.

La documentazione preistorica e antropologica, inoltre, ha messo in luce notazioni complesse, che non trovano posto negli schemi tradizionali; si cominciano a riconoscere come scritture sistemi di segni che non erano visti come tali.

Nelle scritture mesoamericane, la cui comprensione era impedita proprio dal pregiudizio alfabetico, dalla vana ricerca di caratteristiche simili, è apparso l'inestricabile intreccio tra notazione grafica e aspetti di rappresentazione del linguaggio verbale.


Roy Harris ha aggredito energicamente la corrispondenza tra lingua parlata e lingua scritta vantata dal sistema alfabetico (la "tirannia dell'alfabeto"), e quindi la presunta corrispondenza uno-a-uno tra grafema e fonema, arrivando a suggerire che il veicolo primario della comunicazione sia, e sia sempre stato, l'espressione grafica.

Il principio di linearità monodimensionale sul quale si fonda questa presunta corrispondenza (il fatto cioè che si metterebbero in fila le lettere come si mettono in fila i suoni), si rivela indebitamente trasferito alla scrittura dalla lingua parlata: l'alfabeto, a sistematico dispetto del pregiudizio, viene in realtà usato in modo ben più complesso in tutti gli usi quotidiani, manuali come tipografici, con procedure specifiche della sua natura grafica, di disposizione non lineare, che ben poco hanno a che vedere con la lingua parlata.


Le lingue dei sordi portano poi a capire meglio la natura e le interazioni delle diverse forme di comunicazione: esse infatti non si modellano sulle rispettive lingue parlate ma generano nuove grammatiche, integrando nella gestualità gli aspetti visivi e non lineari della scrittura e ponendo nuovi problemi di trascrizione.


Sono infine ancora molto diffusi (si pensi al numero dei cinesi), e più che mai vitali, sistemi diversi da quello alfabetico: il cosiddetto primato dell'alfabeto appare, molto più modestamente, il semplice riflesso eurocentrico di un primato economico e politico (e forse meramente transitorio, in una prospettiva di "lunga durata").

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03

L'alfabeto coreano (hangul), pur avendo come quello latino segni per ciascun fonema, presenta modalità di organizzazione differenti dalle nostre, e non è riconducibile al nostro principio di linearità.

Inventato tra il 1443 e il 1446, in un periodo di rinascita nazionale della Corea e quindi per l'esigenza di una scrittura autonoma, diversa da quella dell'impero cinese (che mal si adattava, inoltre, a una lingua molto diversa), l'alfabeto coreano è stato concepito "a freddo", con notevole coerenza strutturale, e non è il frutto di una lunga serie di trasformazioni e di adattamenti, come è per quello latino; gli studiosi che lo misero a punto avevano una conoscenza profonda della propria lingua e potevano valutare un'ampia casistica di sistemi alternativi (quello cinese, ma anche le varietà indiane, e l'arabo e il mongolo). La particolarità del coreano sta nel configurare visivamente le sillabe: sono queste a essere giustapposte in sequenza, e non le singole lettere. Poiché la sillaba appare essere la vera unità costitutiva del fluire della lingua parlata, quella individuabile nell'analisi spettrografica e quella che riconosciamo nel processo della lettura, il sistema coreano appare più evoluto anche solo dal punto di vista della trascrizione.

Non solo un sistema particolarmente efficiente per la trascrizione della relativa lingua, ma, più in generale, un esempio di buona integrazione tra le finalità di resa della lingua e gli aspetti di notazione grafica.


Il sistema cinese, d'altra parte, non si pone proprio il problema del "trascrivere" la lingua parlata come lo intendiamo noi (un segno per ogni suono) e offre un'alternativa radicale.

Essendo quella cinese una lingua monosillabica, nella quale anche le parole composte sono sequenze di sillabe morfologicamente e semanticamente individuate, ed essendo poche le sillabe usate (circa 1200, compresi i quattro toni secondo i quali ciascuna sillaba può essere pronunciata), ne consegue che, per rendere le decine di migliaia di parole usate nella lingua, a ogni sillaba corrispondono diversi significati.

Nella scrittura, quindi, a ogni significato corrisponde un segno diverso (il che tra l'altro ha permesso di assicurare la comunicazione al di là delle notevoli differenze di pronuncia tra le varie parti del paese).

Ne consegue anche che la scrittura cinese è molto più fonetica di quanto non si ritenga: non c'è alcun dubbio, infatti, che a ogni carattere corrisponda un'unica sillaba.

Il pregiudizio, che come sempre nasce dalla disinformazione, vede nei caratteri cinesi un'esotica bizzarria, uno stravagante relitto del remoto passato sopravvissuto nel mondo moderno: noi, accorti eredi di Aristotele, usiamo solo 26 segni, gli sprovveduti cinesi 40.000.

In realtà la scrittura cinese è molto ben strutturata: i caratteri sono ben ordinati per numero di tratti costituenti (la consultazione di un dizionario è semplicissima) e la maggior parte di essi è formata da due componenti, il determinativo semantico che indica l'area di significato, e il determinativo fonetico che indica la pronuncia.

Il bambino occidentale, quando ha imparato l'alfabeto non ha ancora imparato nulla, perché deve ancora imparare tutte le parole, e inoltre memorizzarne l'ortografia (> pag. 21), in modo analogo al bambino cinese; i rispettivi tempi di apprendimento, in termini di programmi scolastici, risultano a favore del bambino cinese, che impara più parole nello stesso numero di anni.

Il bambino cinese, inoltre, utilizza come supporto transitorio il pinyin (il sistema di translitterazione in alfabeto latino), il che gli rende l'apprendimento di una lingua occidentale molto più facile di quanto non sia l'apprendimento del cinese per noi.

Il sistema cinese è poi molto più flessibile di quanto non voglia il luogo comune, che lo vede immutabile nei millenni; l'evoluzione è continua, come è sempre stata, e oggi nuove parole polisillabiche vengono incessantemente generate per mezzo di procedure efficienti.

Certo, quella cinese è una scrittura modellata su una particolare lingua; ma si rifletta a quanto poco, come si accennerà più avanti, l'alfabeto latino sia adatto a trascrivere l'inglese.

I cinesi sono ben decisi a portare avanti la loro scrittura; poiché sono tanti e hanno tanta storia, e avranno presumibilmente un ruolo crescente nel XXI secolo, non sarebbe fuori luogo che nelle nostre scuole si imparassero almeno i rudimenti di lingua e scrittura.


La scrittura giapponese, da parte sua, appare di una complessità vertiginosa: combina infatti i caratteri cinesi (kanji) con ben due varietà di propri segni sillabici (hiragana e katakana).

Secondo il pregiudizio alfabetico, i giapponesi brancolerebbero nella preistoria; e invece certo il Giappone non è rimasto indietro.

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04

Vediamo quindi di capire meglio quanto fondata sia la presunzione di primato del nostro alfabeto.

È piuttosto evidente che elementi non fonetici, per nulla riconducibili alla lingua parlata, sono essenziali e costitutivi della nostra scrittura.

Si rifletta, tanto per cominciare, sulla presenza di due distinte varietà fondamentali, le lettere maiuscole e quelle minuscole, spesso molto diverse tra loro per quanto tutte derivate dalle medesime forme.

La differenziazione ha una storia del tutto autonoma dalla lingua parlata, e ha il suo fulcro nella messa a punto della minuscola carolina, nel IX secolo; è una storia di convenzioni grafiche che hanno a che fare solo con la disposizione dei segni sul supporto, per l'esigenza di strutturare visivamente il testo.

E analoga considerazione va fatta per i diversi stili di scrittura manuale, per le varietà tipografiche oggi in uso (corsivo, nero, maiuscoletto), e per la compresenza di diverse forme delle lettere nell'enorme numero di diversi caratteri da stampa o da schermo.

I segni di interpunzione non corrispondono certo alle pause del discorso; l'uso delle titolazioni, degli esponenti e delle rientranze non ha alcun riscontro nella lingua parlata; e i numeri, d'altra parte, sono invece decisamente ideografici e per nulla fonetici, come del resto tutte le simbologie specializzate (e tendenzialmente le sigle) che interagiscono con l'alfabeto.

I richiami gestuali alla punteggiatura (punto, virgola, parentesi), spesso eseguiti per rafforzare visivamente un discorso parlato, sono addirittura un esempio di percorso inverso, perché simulano segni puramente grafici.

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