Copertina
Autore Martin Lutero
Titolo Lettera del tradurre
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006 [1998], Letteratura universale , pag. 110, cop.fle., dim. 12x18x0,7 cm , Isbn 978-88-317-6600-5
OriginaleEin sendbrieff... [1530]
CuratoreEmilio Bonfatti
TraduttoreEmilio Bonfatti
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe religione , paesi: Germania
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Indice

  9 Del tradurre ovvero l'assillo della chiarezza
    di Emilio Bonfatti

 33 Cronologia

 39 Nota filologica

 41 LETTERA DEL DOTTOR MARTIN LUTERO SULL'ARTE
    DEL TRADURRE E SULL'INTERCESSIONE DEI SANTI

 79 Note al testo tedesco

 81 Note al testo italiano

 95 Nota linguistica

101 Bibliografia

 

 

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Pagina 9

DEL TRADURRE
OVVERO
L'ASSILLO DELLA CHIAREZZA



Nel breve scritto sull'arte del tradurre e sull'intercessione dei santi, apparso contemporaneamente a Norimberga e a Wittenberg nel 1530 e comunemente noto come Lettera del tradurre, Lutero scende in campo contro i critici e i manipolatori del suo Nuovo Testamento, il cosiddetto «Septembertestament» («Testamento di Settembre») uscito nel settembre del 1522 e già nel dicembre ristampato con non minore fortuna. Nel tempo che va da quel fatidico anno fino al 1530 era stata tradotta e data alle stampe anche buona parte del Vecchio Testamento: il Pentateuco, i libri storici e poetici, qualche libro profetico; se poi si considera che la prima traduzione integrale della Bibbia viene conclusa nel 1534, un dato balza subito agli occhi: la Lettera del tradurre esce da un'officina in piena attività, nel mezzo di una prova impegnativa quale è la seconda revisione dei Salmi terminata nel 1531. Come risposta ai nemici del «Testamento di Settembre» essa può quindi far leva sull'ulteriore esperienza maturata a contatto con la lingua sacra per eccellenza, l'ebraico, e in effetti Lutero vanta un'indubbia superiorità rispetto ai suoi critici: mentre i loro attacchi continuano a colpire la prima grande fatica del riformatore, il suo orizzonte non è più solo ristretto al confronto – peraltro già molto impegnativo – tra latino-greco e tedesco, ma si è aperto a quello ancor più gravoso tra ebraico e tedesco. Salmi e profeti rientrano nel novero delle sue conoscenze. Certo, anche quest'apertura non può prescindere dal Nuovo Testamento, che del Vecchio dischiude il significato autentico, per cui l'attacco rivolto contro il modo in cui esso è stato tradotto, sull'esempio di passi come Romani, 3, 28, colpisce necessariamente la chiave di volta di tutto l'edificio. Del problema della Scrittura nella sua globalità (Vecchio e Nuovo Testamento) si fa portavoce Wenzeslaus Link introducendo la Lettera del tradurre; Lutero invece subordina i pur efficaci richiami al Vecchio Testamento all'apologia del Nuovo, del «Testamento di Settembre», punto di rottura nella storia secolare della Bibbia tedesca.

Il bersaglio principale della sua requisitoria resta perciò un «papista», il teologo Hieronymus Emser (1477-1527), conoscenza tutt'altro che nuova se si ricorda il violento scambio pubblicistico sorto tra i due nel 1521 intorno al trattato sulla Nobiltà cristiana di nazione tedesca. La rinascita dell'antica ostilità consiste nel fatto che l'«imbrattacarte di Dresda», colui che Lutero allora aveva accusato di non «capire un ette di lettera e di spirito», era tornato alla ribalta poco prima di morire proprio per merito della Bibbia. Investito dall'autorità sassone del compito di rivedere il «Testamento di Settembre» di Lutero, egli ne aveva espunto, oltre al nome, le introduzioni e le note, ossia le parti esterne al testo che però ne orientavano la lettura, lasciando invece questo pressoché intatto; con l'esito paradossale, se non grottesco, che il Nuovo Testamento luterano, dichiarato eretico e perciò proibito, stava circolando nella sua forma originaria dal 1527 con tutti i crismi dell'ufficialità. Di qui la doppia e pressoché inscindibile reazione del traduttore: da una parte egli è triste («wie geschach mir da so wehe/», p. 48, rigo 8) perché è stato pubblicamente vietato, ma nello stesso tempo è lieto («Mir ist ynn des gnug/ vnd bin fro/», p. 48, 28-9) sapendo che, a seguito dell'atto di plagio commesso dai nemici, la sua fatica ha potuto superare ogni ostacolo.

Questo breve cenno agli immediati antefatti ci può far capire il tono di fondo della Lettera del tradurre. Chi pensasse di prendere in mano un trattatello dal tono teorico distaccato resterebbe deluso perché invece di un'esposizione ordinata e concettualmente rigorosa si trova di fronte a un procedere per scatti, non privo di arresti e di ricadute in una polemica a tutto campo contro il partito dei papisti, dei letteralisti (i cosiddetti «Buchstabilisten»), dei maestri sputasentenze («Meister Klüglin» ), insomma di tutti i «somari» presuntuosi. Né ci si può attendere che la polemica si plachi nelle ultime pagine dello scritto dedicate all'intercessione dei santi, perché la risposta a una questione a prima vista del tutto autonoma discende da una Bibbia recata in tedesco che non ammette più dubbi o ritardi. Inoltre da queste pagine riaffiora anche il mai sopito trauma del settarismo, nel suo duplice aspetto teologico e politico-rivoluzionario, rappresentato dalla figura anonima dell'«agitatore» («rotten geyst», cfr. p. 64, 36) che in tempi vicini avrebbe voluto che si facesse il male perché ne nascesse del bene: è già trascorso qualche anno dalla rivolta dei contadini soffocata nel sangue, però il trauma si mantiene così forte che Lutero scaglia il suo anatema contro settari ed eretici in genere revocando loro ogni patente di traduttore. Anche i cenni per quanto indiretti alla «chiarezza della Scrittura» parrebbero stare per riaprire il contenzioso con Erasmo sull'allegoria del testo sacro, ciò che poi non succede se non altro perché, anche se tra i due era ormai rottura definitiva su libero arbitrio ed ermeneutica biblica, il riformatore non avrebbe tratto molti vantaggi dal censurare il grande umanista della cui opera filologica si era servito per il suo «Septembertestament». Non è da sottovalutare infine il riferimento conclusivo al lamento di Elia e al sopravvivere dei pochi giusti in un'epoca di barbarie (cfr. p. 75), perché anche da quanto si legge nel libello dell'anno prima sulla sempre incombente minaccia turca, si capisce che si tratta di un segno ritenuto anticipatore del Giorno del Giudizio. In effetti il senso allora costante della fine del mondo s'aggrava per le molte preoccupazioni sorte al tempo in cui la Lettera del tradurre viene scritta nella fortezza di Coburg (Veste Coburg); al primo posto sta la trepidazione per l'esito delle lunghe trattative che il fidato Melantone, umanista e stretto collaboratore del riformatore a Wittenberg, conduce alla dieta di Augusta affinché sia riconosciuto il testo della «Confessio Augustana», ossia la serie di articoli di fede formulata dai protestanti di fronte all'autorità imperiale.

[...]

Più complessa è l'affermazione contraria di Lutero, ripresa anche nella Lettera del tradurre, secondo cui egli traduce sì ad sensum, ma ridiventa letterale per amore della verità quando il «verbum Dei» rischi di essere frainteso. Sicuramente queste parole, che pongono un freno al principio generale del tradurre ricordato all'inizio e che sembrano essere una reminiscenza dell'attenzione che San Gerolamo rivolge al sacro mistero insito nello stesso ordine dei segni della lingua sacra, rispecchiano le difficoltà e i limiti del traduttore che affronta soprattutto il Vecchio Testamento (si pensi alla versione di alcuni Salmi del tutto letterale, ossia incurante del «senso» del tedesco); d'altra parte però i casi di letteralità sono sì contemplati come aspetto del tradurre di cui non si può fare a meno, ma non si prestano a una discussione ulteriore, per cui il vero cruccio di Lutero – la causa del suo continuo vagliare, discutere e polemizzare – è e resta la chiarezza della lingua di arrivo, del suo tedesco.

Naturalmente la ricerca di chiarezza linguistica, ovvero di pertinenza stilistica e sintattica nella lingua di arrivo proclamata nella Lettera del tradurre, e poi con maggior rigore nei Summarien, non si giustifica in sé, ossia non è un'elaborazione formale autosufficiente; trova invece il suo supporto – si potrebbe dire la sua res – in un'altra chiarezza che risiede nella lingua di partenza e che però deriva dai livelli del significato. Già molto tempo prima della nostra opera Lutero intende per «claritas scripturae» la chiarezza assoluta della parola rivelata la quale ovviamente può anche non essere compresa, ma solo per difetto umano: per scarsa conoscenza linguistico-grammaticale dei testi originali (specie di quelli in ebraico) oppure per insufficienza interpretativa, se cioè non sono state preliminarmente chiarite le angolazioni dalle quali leggerli: ad esempio la «grazia» o la «legge», l'evangelo o la legge, l'«ira di Dio» o la «remissione dei peccati»; il cardine di Lutero è naturalmente la teologia paolina della giustificazione per fede e il principio «sola gratia». Comunque, in casi di oscurità persistente, sarebbe un grave errore desistere dall'interpretare la lettera, lo spessore storico-grammaticale della Bibbia, e trovare rifugio in un'interpretazione allegorica che avvolgerebbe in un alone di buia nebbia, se non di mistero, la «creaturale attitudine al parlare». La Scrittura è e deve restare interprete di se stessa, ovvero, secondo un'immagine cara al riformatore, la lingua naturale è «Signora Imperatrice» («Die natürliche Sprache ist Frau Kaiserin»). Non il «senso allegorico-spirituale» bensì quello «letterale» (grammaticale), non l'allegoria o la figura bensì «historia, verba et grammatica» possono dar «vita, conforto, consolazione, dottrina» all'ermeneuta – lettore, traduttore o predicatore che sia –, dal quale ovviamente si attendono impegno e solerzia perché nell'incessante contatto con il testo possa passare dalla lettera che uccide allo spirito che vivifica secondo 2 Corinzi, 3, 6.

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Pagina 45

Al mio grazioso Signore e amico N.,
uomo onesto e prudente.



GRAZIA E PACE IN CRISTO, onesto, prudente, caro signore e amico. Ho ricevuto il vostro scritto nel quale sollevate due questioni chiedendomi lumi. In primo luogo perché in Romani, 3 io abbia tradotto le parole di San Paolo «arbitramur hominem iustificari ex fide absque operibus» nel modo seguente: «Riteniamo che l'uomo sia giustificato senza l'opera della legge, solo mediante la fede»; e al riguardo fate presente che i papisti reagiscono con smisurata arroganza non essendoci la parola «sola» («allein») nel testo di Paolo, motivo per cui tale aggiunta da parte mia sarebbe incompatibile con le parole di Dio etc. In secondo luogo, se anche i santi defunti preghino per noi poiché leggiamo che gli angeli pregano certamente per noi, etc. Quanto alla prima domanda, qualora vi piaccia e per quel che mi riguarda, potete rispondere così ai vostri papisti.

Primo. Se io, Dottor Lutero, avessi potuto rendermi conto che tutti i papisti, senza distinzione di sorta, fossero tanto abili da saper tradurre in modo elegante e corretto un capitolo della Scrittura, avrei senz'altro dato prova di umiltà e li avrei pregati di aiutarmi e di assistermi nel tradurre in tedesco il Nuovo Testamento. Già allora però io sapevo quel che è ancora sotto i miei occhi: nessuno di loro sa di preciso come si traduca ovvero come si parli in tedesco, per cui ho dispensato loro e me da tale fatica. Comunque non si stenta a capire da dove imparino a parlare e a scrivere in tedesco: dalla mia traduzione e dal mio tedesco. Insomma, commettono un plagio nei confronti della mia lingua che prima conoscevano poco, e non solo non me ne rendono grazie, ma preferiscono strumentalizzarla contro di me. Facciano pure, tanto una cosa è certa per me: io posso lusingarmi di avere insegnato a parlare anche ai miei discepoli ingrati che per giunta sono miei nemici.

Secondo. Potete dire che ho tradotto il Nuovo Testamento in tedesco il più possibile secondo scienza e coscienza, senza perciò costringere alcuno a leggerlo. Ho lasciato piena libertà: il servigio è stato reso solo a chi non sapeva fare meglio. A nessuno è vietato farne uno migliore. Chi non vuol leggere il mio, lo lasci stare; non supplico nessuno io, né lo elogio per questo. È il mio Testamento, è la mia traduzione, miei sono e miei restano. Se ho commesso degli errori (errori assolutamente involontari, perché garantisco di non voler tradurre male di proposito neanche uno iota), non tollero che i papisti mi siano giudici: per questo hanno ancora orecchie troppo lunghe e i loro ragli sono troppo deboli per criticare il mio modo di tradurre. So io, non loro, che sono più ignoranti della bestia del mugnaio, che tipo di conoscenze, quale studio, quale perspicacia e intelligenza debba avere un traduttore bravo. Loro, infatti, non ci hanno provato.

Si dice: chi costruisce sul bordo della strada ha molti maestri. Succede così anche a me. Chi non ha ancora imparato a parlare, figurarsi poi tradurre correttamente, proprio costui è mio maestro e io debbo essere solo il suo apprendista. Ma se, mettiamo, avessi chiesto loro come tradurre in tedesco le prime due parole di Matteo, 1, «Liber Generationis», nessuno avrebbe saputo spiccicar verbo, e ora, quei bei tomi, mi criticano l'opera intera! Accadde così anche a San Gerolamo: mentre stava traducendo la Bibbia il mondo intero era suo maestro, lui solo non sapeva nulla. E a giudicare l'opera di quel buon uomo fu per l'appunto chi non sarebbe stato degno di nettargli i calzari. È proprio vero, se si vuol fare un'opera di pubblica utilità bisogna essere molto pazienti perché il mondo sarà sempre Messer Sputasentenze che sempre vorrà imbrigliare il destriero per la coda e dire da maestro la sua su tutto senza riuscire a fare alcunché. È la sua indole, e non vi può rinunciare.

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Pagina 59

Ma che sto a chiedermi? Diano pure in smanie o impazziscano: non mi opporrò alla traduzione tedesca che loro vogliono; però anch'io voglio tradurre in tedesco non come vogliono loro, ma come voglio io. Chi non ci sta, la smetta e tenga per sé la sua supponenza ché io non li voglio né vedere né sentire. Non debbono rispondere del mio tradurre e neanche renderne conto. Hai udito bene. Io voglio dire: «Tu, graziosa», «Tu, cara Maria», e loro dicano pure: «Maria, piena di grazia». Chi conosce il tedesco sa bene quale espressione fine e cordiale sia «la cara Maria», «il caro Dio», «il caro imperatore», «il caro principe», «il caro uomo», «il caro bambino». E dubito che la parola «liebe» possa essere detta in latino o in altre lingue con la stessa cordialità e pienezza, tanto da penetrare e vibrare nel cuore attraverso tutti i sensi come succede nella nostra lingua.

Ritengo che un maestro di lingua ebraica e greca come San Luca abbia voluto rendere con il greco «kecharitomene» in modo pertinente e chiaro la parola ebraica usata dall'angelo. E immagino che l'angelo Gabriele abbia parlato con Maria come parla con Daniele chiamandolo «Hamudoth», «Jsch Hamudoth», «vir desideriorum», cioè: «caro Daniele». Questo infatti è il modo di parlare di Gabriele secondo Daniele. Ora, volendo tradurre in tedesco alla lettera, che è l'arte degli asini, dovrei dire: «Daniele, uomo dei desideri», oppure: «Daniele, uomo delle voglie». Bel tedesco davvero! A un tedesco «Man», «Luste», «begyrunge» suonano sì parole tedesche, anche se non del tutto pure (migliori sarebbero certamente «lust» e «begyr»), però quando vengono congiunte in «du man der begyrungen» non c'è tedesco che sappia che cosa si stia dicendo e pensa che Daniele forse sia pieno di voglie malvage. Traduzione fine, vero? Insomma, io qui debbo lasciar perdere la lettera e debbo indagare come il tedesco esprima ciò che l'ebreo dice con «isch Hamudoth»; e allora risulterà che il tedesco dice: «Caro Daniele», «cara Maria», oppure «ragazza graziosa», «giovane vergine», «tenera donna» ed espressioni analoghe. In effetti chi intende tradurre deve avere un ampio repertorio lessicale per disporre delle parole giuste là dove altre non suonano affatto.

Ma perché parlare tanto e tanto a lungo del tradurre? Se dovessi rendere manifeste le ragioni e le intenzioni di tutte le mie parole, avrei da scriverne per un anno buono. Quale arte e quale fatica sia tradurre, io l'ho provato davvero; per questo non tollero che mi si giudichi e mi si biasimi da parte di asini, asini papisti o asini quadrupedi, che non vi si sono cimentati affatto. Chi non accetta il mio tradurre lo lasci dov'è: il diavolo ricompensi chi non l'accetta o chi lo critica contro la mia volontà e a mia insaputa. Se ci deve essere un critico, voglio essere io quello; se poi io non voglio esserlo, si lasci in pace il mio tradurre. Ognuno faccia i fatti suoi come più gli pare, e non s'impicci dei fatti altrui.

Ciò che posso testimoniare con buona coscienza è di aver dato prova di estrema fedeltà e diligenza in questa impresa, e di non aver mai nutrito false intenzioni, perché non ho né cercato né avuto denaro, né ho ottenuto guadagni. Non ho nemmeno avuto a cuore la mia gloria, come sa Dio mio signore; l'ho fatto solo per servigio ai cari cristiani e per la gloria di colui che siede in alto e che ogni ora mi fa del bene; me ne fa tanto che, avessi anche tradotto mille volte di più e con maggiore diligenza, non avrei meritato di vivere un'ora sola o di avere un occhio sano. Alla sua grazia e clemenza io devo ciò che sono e ciò che ho. Lo devo anzi al suo sangue prezioso e al suo acre sudore; perciò, a Dio piacendo, tutto serva alla sua gloria, con gioia e di cuore. Se gli imbrattacarte e gli asini papisti mi oltraggiano, che importa? Mi lodano i cristiani pii insieme a Cristo loro signore, e la mia ricompensa è già fin troppo ricca appena un solo cristiano riconosca che io sono un operaio fedele. E gli asini papisti? Quelli io non li cerco nemmeno: non sono degni di riconoscere la mia fatica, e proverei dispiacere nel fondo del cuore se mi lodassero. Il loro oltraggio è la mia massima fama e la mia gloria. Resto dottore, io, e per giunta dottore esimio. Nessuno mi toglierà questo titolo fino al giorno del Giudizio, lo so per certo.

D'altro canto però non mi sono allontanato dalla lettera con eccessiva disinvoltura, e io e i miei collaboratori siamo stati molto attenti e scrupolosi a osservarla là dove importava essere letterali. Non mi sono preso troppa libertà ad esempio in Giovanni, 6 dove Cristo dice: «A costui Dio padre ha imposto il sigillo», che sarebbe stato meglio rendere in tedesco con «Questo Dio padre ha segnato» oppure con «Questo Dio padre ama». Al contrario, ho preferito far torto alla lingua tedesca anziché discostarmi troppo dalla parola. Eh sì, tradurre non è arte di tutti, come credono i santi folli: c'è bisogno di un cuore retto, pio, fedele, diligente, rispettoso, cristiano, dotto, esperto ed esercitato. Perciò ritengo che i cristiani falsi o i settari non siano in grado di tradurre fedelmente, come traspare bene dai profeti tradotti in tedesco a Worms. Non c'è che dire: in operosità non hanno lesinato e si sono attenuti molto al mio tedesco, però gli ebrei che vi hanno collaborato non si sono dimostrati molto benevoli verso Cristo; quanto a sapere e a diligenza, invece, ne avrebbero avuto abbastanza.

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Pagina 69

Riguardo alla seconda questione, se cioè i santi defunti intercedano per noi, la mia risposta sarà breve per ora perché conto di fare uscire un sermone sui cari angeli nel quale, a Dio piacendo, tratterò più diffusamente questo punto. Anzitutto voi sapete che sotto il papa s'insegna che i santi in cielo intercedono per noi, in fondo però noi questo non lo possiamo sapere perché la Scrittura non ce lo dice; e come se non bastasse, i santi sono stati divinizzati e sono stati costretti a diventare i patroni che noi dobbiamo invocare. Alcuni non sono nemmeno esistiti, e a ciascuno è stata attribuita una forza e una potenza speciale: sul fuoco, sull'acqua, su peste, febbre e ogni sorta di pena; quindi si deve pensare che Dio sia rimasto inerte per lasciare che i santi operino e agiscano in vece sua. È un abominio che oggi i papisti avvertono bene; di nascosto rimettono le pive nel sacco e s'adornano e s'abbelliscono con l'intercessione dei santi. Ma voglio rinviare la questione ad altro momento. Vedrete che non me ne dimenticherò, son pronto a scommettere. Simili modi di adornarsi e di abbellirsi non li lascerò passare impuniti.

In secondo luogo sapete che Dio non hà speso una parola sola per comandarci d'invocare angeli e santi affinché intercedano per noi, né trovate nella Scrittura un solo esempio al riguardo; i cari angeli hanno parlato con patriarchi e profeti, ma a nessuno di loro è giunta la preghiera d'intercedere. Nemmeno il patriarca Giacobbe ha rivolto questa preghiera all'angelo con il quale ha combattuto e dal quale ha accettato solo la sua benedizione. Viceversa, nell'Apocalisse, l'angelo ha respinto la venerazione da parte di Giovanni. Ne risulta insomma che la venerazione dei santi è pura vanità umana, una trovata dell'uomo estranea" alla parola di Dio e alla Scrittura.

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Pagina 77

Miei cari asini papisti, venite pure a raccontarci che è dottrina cristiana ciò che avete imbastito con il dolo e con la menzogna e ciò che da traditori e malvagi avete imposto con la violenza alla cara cristianità, commettendo peraltro carneficine degne di assassini plurimi: ogni singola lettera di ogni legge papale è prova lampante che non una sola dottrina è discesa dal volere e dal consiglio della cristianità, che tutto è solo «districte» e «praecipiendo mandamus». Ecco cosa è stato il loro Spirito Santo. La cristianità ha dovuto subire una tirannia durante la quale le hanno sottratto il sacramento e gliel'hanno tenuto in prigione senza colpa. E ora gli asini vorrebbero gabellarci l'insostenibile tirannia della loro scelleratezza per un'azione spontanea e per un esempio della cristianità: a tal punto si vogliono truccare! Ma la questione sta diventando troppo complessa. Per ora basta così; in un secondo tempo aggiungerò altro. E vogliate accogliere benevolo il mio lungo scritto. Cristo nostro Signore sia con tutti noi. Amen.

Ex eremo, octava Septembris. 1 5 3 0

Martinus Luther

Vostro buon amico.


Al mio grazioso Signore e amico N., uomo
onesto e prudente.

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